“Risotto alla Pilota” DE.CO di Castel d`Ario (MN)

Transcript

“Risotto alla Pilota” DE.CO di Castel d`Ario (MN)
“Risotto alla Pilota” DE.C.O. di Castel d’Ario (MN)
• Introduzione: il riso nel mantovano:
La prima documentazione sulla messa a coltura del riso in Italia è nel Milanese dal 1475.
Qualche anno dopo Galeazzo Maria Sforza mandò in dono 12 sacchi di agli Este di Ferrara,
evidenziando che con opportune tecniche agrarie, da un sacco di questo nuovo cereale si potevano
trarre anche dodici sacchi di raccolto. Ben superiore, a quel tempo, quindi alle scarse rese di
frumento. Non esiste per Mantova una precisa data documentata a riguardo. Si può ipotizzare che
gli Sforza abbiano fatto conoscere la tecnica della coltura ed i vantaggi della coltura del riso oltre
che agli Este anche a Federico I Gonzaga, in quel tempo capitano generale delle loro milizie.
Carlo d’ Arco riporta: “ doversi a Federigo primo duca di Mantova l’ avere introdotto nel suo stato le
risaie mediante grandiosi lavori sopra terreni indocili agli usi di agricoltura” .
Un’ altra possibilità è rappresentata dal matrimonio tra Isabella d’ Este e Francesco II Gonzaga nel
1490. La sposa avrebbe portato in “ dote” la novità agraria del riso.
Rimane incontestabile il fatto che qualche anno dopo il matrimonio, la stessa isabella, in nome del
marito, divenne un’ esportatrice di riso prodotto nella zona di Ostiglia.
In tutta la pianura padana, i 5000 ettari del Cinquecento si decuplicarono in pochi anni.
Nel 1527 venne rivolta alla camera una richiesta di “ seminare rixi in Valarsa” in terreni adiacenti
ala corte Villagrossa. La richiesta proveniva da Francisca, figlia di messer Petro Mantovano, moglie
di Christoforo del pogio. Trattasi degli stessi terreni che apparterranno il secolo successivo alla
famiglia dal Pozzo.
La grande esplosione di tale coltura nella sinistra Mincio avvenne successivamente, attorno al 1538.
Il primo modesto regolamento per questa nuova coltura porta la data del 9 settembre 1550.
La messa a coltura del nuovo cereale non fu sempre bene accolta per motivi di ordine igienico e
sanitario. Vincenzo Gonzaga il 21 agosto 1602 nel suo Editto aveva prescritto che non si potesse
coltivare riso se non dopo cinque miglia dalla città “ vedendo che molti si sono posti a far risara e
che con la ragione c’ havevano d’ adacquar prati a tempo e a misura, si servono dell’ acqua che per
dette risaie vogliono essere continue e in grandissima abbondanza, proibiamo a chiunque di farne di
nuove sopra Castellaro et dentro cinque miglia vicine alla città senza espressa licenza” .
Nel 1883 si raggiunge la punta massima della coltivazione di riso nel mantovano: 27.000 biolche.
Nello stesso anno, in seguito ad un intervento della Camera dei Deputati, il barone Giorgio
Sidney Sonnino, esperto conoscitore dell’ agricoltura rurale italiana e delle sue problematiche, fu
incaricato di indagare e relazionare circa le condizioni di salubrità delle abitazioni e sulla qualità
dell’ alimentazione dei “ bifolchi” . Ne risultò un quadro sconcertante. Le parole dai toni tragici che
usò Sonnino per inquadrare la situazione furono per lo più volte ai lavoratori delle risaie.
• Coltivazione nel casteldariese:
Castel d’ Ario in passato si chiamava Castellaro, ( infatti questo venne cambiato il 27 febbraio 1867
in seguito all’ annessione al regno d’ Italia per evitare problemi logistici nominali con altri paesi in
tutto il nuovo regno). Castellaro era territorio paludoso e boschivo. La sua ricchezza d’ acque venne
sfruttata attraverso la creazione di canali quali Molinella, Allegrezza, la Tartagliona e fiumi come
Tione e l’ Essere.
Nel 1524 iniziò la coltivazione del riso nella zona di Castel d’ Ario. Le sue acque vennero sfruttate
per la forza motrice impressa alle pale dei mulini per la macinazione dei cereali. A testimonianza di
questo passato è ancora visibile il mulino del risificio del Sig. Attilio Roncaia, costruito negli anni
venti del ‘ 600, di fronte alla chiesa del paese, in via “ di là dell’ acqua” . Questo sfruttava la corrente
prodotta dal canale Molinella tramite uno sfasamento del livello del fondale.
Un importante contributo allo sviluppo della tecnica risicola fu dato dall’ abate del convento di
Susano: padre Mari (XVIIsec) detto “ l’ architetto delle risaie” appunto per le innovazioni tecniche
apportate presso i terreni conventuali della suddetta frazione casteldariese.
Inizialmente a Castellaro si seminò il “ Nostrale” fino agli inizi dell’ 800 quando fu surclassato da
nuove e più redditizie varietà appartenenti agli incroci col “ Bertone” quali l’ “ Americano 1600” e
la “ Leady Wright” . Solo nel 1937, con la registrazione presso la Stazione Cerealicola di Vercelli,
si arrivò alla coltivazione del “ Vialone Nano” che divenne il riso casteldariese per eccellenza.
È proprio del 1937 la foto della prima distribuzione paesana del riso, nel giorno della Bigolada
(spostata in quel periodo all’ ultimo giorno di carnevale dall’ autorità fascista, per rispetto al
calendario rituale cristiano).
A metà ‘ 800, il territorio di Castellaro si estendeva per 21,5 Kmq circa. L’ 89% del suolo era
produttivo e di questo il 4,92% era occupato a risaie stabili vallive, mentre quelle a vicenda
ricoprivano il 34,45%.
Nel 1847 a Castellaro si contava una popolazione di 2060 unità, di cui ben undici famiglie erano
impiegate nella lavorazione del riso e di queste ventuno persone lavoravano nei ruoli di “ risari”
e “ pilotti” .
In una lettera datata Castel d’ Ario 1871 inviata alla Camera di Commercio di Mantova sono
elencati i fondi comunali dove veniva prodotto il riso. Tale raccolto quell’ anno fu quantificabile in
17.100 sacchi di risone, corrispondenti a 12.666 quintali. Nel 1883 gli ettari adibiti a risaia erano
770 e nel 1902 erano700. Solo i comuni di Bigarello, Ostiglia, Roncoferraro e Roverbella nel primo
periodo superavano Castel d’ ario per estensione coltivata e all’ inizio del ‘ 900 solo Roncoferraro
con i suoi 1300 ettari di risaie.
Solo nel 1880 si poté attuare un efficace lotta contro la malaria, in seguito alla scoperta della causa
di tale malattia, causata da un protozoo conseguente alla puntura della zanzara anofele femmina.
La legge n°2967 fu emanata il 12 giugno del 1866. Questa permetteva la coltivazione del riso alle
distanze dagli aggregati di abitazioni e sotto le condizioni prescritte da Regolamenti speciali in cui
si stabiliva che tali regolamenti dovevano essere deliberati dai Consigli Provinciali nell’ interesse
della pubblica igiene.
Castel d’ Ario divenne suolo italiano il 22 ottobre di quell’ anno tramite plebiscito, e fu uno dei
pochi comuni a prender in seria considerazione i motivi della legge sopra citata, appena possibile,
infatti la giunta comunale nel 1868 si adoperò commissionando un’ ispezione di due ingegneri del
paese: tali Giacomo ed Eugenio Sartori, i quali dovettero ispezionare tutte le case di Castel d’ Ario
rapportandone la condizione strutturale e la salubrità degli ambienti.
Un importante mantovano che compì studi sulla situazione dei lavoratori fu Achille Sacchi, il quale
si occupava in particolare della pellagra che infuriava tra il ceto povero a causa dell’ alimentazione
limitata e ripetitiva a base di polenta. Questa malattia si manifestava tramite la comparsa di piaghe
cutanee e bubboni, si poteva arrivare alla pazzia ed infine alla morte. Il Dott. Sacchi esaminando i
dati in suo possesso s’ accorse dell’ incremento di tale malattia degenerativa in tutto il mantovano,
eccetto nei comuni di Ostiglia e Roverbella, che insieme a Castel d’ Ario erano i maggiori centri
di coltivazione del riso. Sacchi comprese tale coincidenza e valutò la possibilità dell’ esistenza
di un rapporto proporzionale diretto tra un’ alimentazione a base di riso (tipica della sinistra
Mincio) e la diminuzione dei casi di pellagra. Questo fu confermato dalla scienza in tempi non
lontani individuando nel riso una vitamina detta oggi P.P. (Pellagra Preventing). Tale malattia fu
denunciata in paese da Tito Melesi: maestro elementare e direttore giornalista de’ “ Il pellagroso”
il quale propose un miglioramento alimentare per quanto riguarda la mensa dell’ asilo comunale,
inserendo una zuppa probabilmente a base di riso.
Anche il poeta dialettale Don Doride Bertoldi di Villagrossa in una delle sue poesie in rima accenna
al risotto, più precisamente alla cottura, con questi versi della poesia “ Per nozze” :
“ Cara ti fam al piaser
Da’ n parlaram da moier –
Ma lui invece la Marina
Da la sera a la matina
Al gh’ ha in ment, l’ è cot, stracot,
l’ è pasà come’ l risot
tant e tant che so papà
al permes al gh’ ha lasà”
Don Doride paragona l’ esser cotto e stracotto del ragazzo desideroso di maritarsi con questa
certa Marina, alla cottura del riso, il quale viene lasciato a riposare a fuoco spento per finire la
cottura tramite il calore incamerato precedentemente: in gergo lasciato a “ passare” . Con questo
paragone “ l’ anfibio rana” ci assicura che la tecnica della cottura “ alla pilota” era certamente già
presente in Castel d’ Ario, dato che la poesia sopra citata risale alla prima edizione de’ “ La Musa
Paisana con li fransi” del 1923, Mantova, Tip. “ La Provinciale” di A. Baruffaldi.
Assunto ciò, un termine di paragone similare per diventare tale e venir impiegato con questa
modalità, quasi ad essere uno “ slang” , deve avere radici già ben assicurate nell’ immaginario
folkloristico comune del paese da alcuni decenni.
Un importante contributo alla storicità e composizione del piatto è stata data in tempi non lontani
dall’ importante folklorista di Villafranca Giovanni Tassoni, il quale a pagina 266 della sua
opera “ Tradizioni popolari del mantovano” del 1964 cita:
“ il “ risotto alla pilota o piladora” si può definire senz’ altro il principe dei risotti per le
qualità distintive di nervo, in completa antitesi con la collosità dei piatti congeneri. Se
non che esso è piatto d’ area ristretta, esclusiva dei “ pilador” che l’ hanno escogitato e
conformato alla loro esperienza di buongustai. Invano lo si cercherebbe in città, o nelle
locande del viadanese o nella fascia collinare; bisogna chiederlo e consumarlo sul luogo
d’ origine soltanto, dove amorevoli cuciniere lo preparano secondo gl’ insegnamenti
dell’ ortodossia tradizionale, cioè crogiolato a secco, sì che riesca un po’ consistente, e
poscia acconciato senza parsimonia con grana, burro e salsiccia nostrana. Si mangia
al solito col rinforzo d’ una abbondante frittura di pesce pescato in risaia o con il
classico “ puntel:” una braciola infilata “ a puntello” nella colmata del piatto fumante e
stuzzicante” .
Grazie alla recente intervista alla Sig.ra Gabriella Portioli Roncaia, moglie di Ernesto Roncaia, è
stato possibile collocare la data di nascita del nostro piatto tipico nella seconda metà dell’ 800. La
Sig.ra Gabriella infatti ci racconta che la Sig.ra Itala, madre del Sig. Ernesto già cucinava il “ Riso
alla Pilota” e fu appunto lei ad insegnarlo all’ intervistata.
Itala infatti si sposò nei primi anni venti cominciando a cucinare per la famiglia e deliziando con i
suoi squisiti risotti i frequenti ospiti di casa Roncaia.
Spiega inoltre la signora Roncaia che Itala aveva imparato a sua volta la cottura “ alla pilota” la
signora Erminia Franco (1862-1955), moglie del capostipite Attilio Roncaia. In questo modo si
arriva a dare una collocazione temporale del prodotto “ Riso alla Pilota” approssimata agli anni
ottanta dell‘ 800. Erminia si sposò a vent’ anni circa assumendo il ruolo di donna di casa e madre
di una numerosa prole di futuri “ risari” e “ pilotti” ma anche abile imprenditrice risicola assieme al
marito.
Chiedendo a famiglie originarie di Casteld’ Ario, che possiedono ancora una memoria storica viva,
una collocazione spazio-temporale del “ Riso alla Pilota” spiegano con certezza che questo nasce
nelle Pile casteldariesi di metà ‘ 800 ed assume tale nome dal ruolo del“ pilotta” cioè colui che è
addetto alla pilatura del riso. Infatti molte pile erano incluse nelle corti autonome di campagna;
dove il riso veniva condito con ciò che era disponibile durante il turno lavorativo e la stagione. Nel
periodo d’ asciutta delle risaie si utilizzava spesso condirlo con il “ psin e saltarei” ovvero pesciolino
di risaia e gamberetti d’ acqua dolce, mentre in inverno, nel periodo della macellazione del maiale,
lo si condiva con il macinato disponibile.
Il tipo di cottura indagato permette di lasciare il riso a riposo ricoperto da un canovaccio che ne
assorba l’ umidità in eccesso, lasciandolo passare, questo permette la cottura del cuore del chicco di
riso pur restando al dente ed un maggior insaporimento dello stesso. Infatti non tutti gli operatori
della pila erano sempre in grado di mangiare allo stesso momento. Per questi scopi lavorativi nasce
la cottura cosiddetta “ alla pilota” in cui il riso non scuoce, ma si mantiene ed addirittura arricchisce
di sapore, permettendo a tutti i risari e pilotti di mangiare in orari sfasati. Col passare del tempo e
dei decenni, con l’ acquisizione di un migliorato status sociale ed economico, si è andati verso un
abbandono progressivo degli scarti della lavorazione della carne di maiale, in favore di parti più
saporite e pregiate. Oggi il “ Riso alla Pilota” non è più piatto povero da lavoro, ma bensì motivo di
curiosità gastronomica, che spinge migliaia di decine di persone l’ anno a confluire nei numerosi e
rinomati ristoranti di Castel d’ Ario e stagionalmente durante le svariate feste di piazza.
(veduta di Piazza Garibaldi, Castel d’ Ario 1936-37, prima festa del risotto collezione privata
A.Binco)
• Bibliografia:
- “ La famosa ricetta degli squisiti risotti col puntello di Castel d’ Ario nel Mantovano” Benito
Rocchi, 2a edizione, 1975, tipografia CITEM Mantova via F.lli Bandiera 32.
- “ Castel d’ Ario ambiente naturale e storia” a cura della biblioteca comunale, dicembre 1992,
tipografia Grassi, Mantova.
- “ La musa paisana con li fransi” Don Doride Bertoldi (anfibio rana), a cura della biblioteca
comunale di Castel d’ Ario, stampato nel giugno 1985 presso lo stabilimento grafico della PubliPaolini di Mantova, Gianluigi Arcari Editore.
- “ Cinque secoli di storia del Consorzio di Bonifica fossa di Pozzolo” Romano Sarzi, Sommetti
editore, Mantova
- “ Le campagne del Mantovano nell'età delle Riforme” C. Vivanti Milano, 1959.
- http://www.mynet.it/mantova/cultura/Romano_Sarzi/il_riso_e_le_pile/