LA PREISTORIA DEL CAPRIONE

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LA PREISTORIA DEL CAPRIONE
Enrico Calzolari
LA PREISTORIA
DEL CAPRIONE
Ricerche di etnoscienza e paleo-astronomia
effettuate sul promontorio che domina il Golfo dei Poeti
MARNA
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Parte Seconda
LA PROTOSTORIA
Ipotesi protostorica
Non è stato facile prendere la decisione di attribuire una presenza protostorica nel territorio, basandosi sulla sola survey, senza l’ausilio dell’archeologia. Il tentativo va inquadrato come “ipotesi di lavoro”.
Le valenze che potrebbero essere considerate
come protostoriche, cioè coeve alle prime forme di
scrittura, sono il sito sacro di Scornia (skeir-na, etimologia celtica per “luogo delle rocce”) e il temenon
di Sorgenzia, siti peraltro assai vicini. Potrebbero
anche essere considerati protostorici i “cavanei” del
Caprione, quelle costruzioni a tholos, cioè a falsa
volta, che hanno una etimologia celtica, da cobhancabhan, “luogo rotondo”.
Il fatto che la etimologia sia celtica non significa
che siano stati costruiti dai Celti, ma significa soltanto
che furono da essi utilizzati con continuità, tanto da
aver lasciato la memoria di una perspicua res, cioè
cosa utilizzata perché evidente. La cosa era così evidente, ed è stata così a lungo utilizzata, per cui sono
rimasti in zona i cognomi Cabani-Cabano!
Fino alla Seconda Guerra Mondale, nel Caprione,
si potevano scorgere centinaia di queste costruzioni,
illustrate dallo studioso lericino Gino Cabano nel
quaderno del territorio a titolo I Cavanei del Monte
Caprione (Cabano G., 1985).
In termini di antropologia culturale, sono notevoli
le citazioni dallo stesso fatte della presenza della “pietra manale” e la citazione del proverbio di Tellaro:
«a’è menà di cavanei se ghe dà i fruti pù bei», che
ricordano il culto degli antenati e il lancio delle fave
attraverso la pietra manale, che avveniva alla fine di
ottobre, perché essi non venissero più a disturbare i
viventi, e la presentazione delle primizie per invocare la fertilità dei campi alle divinità protettrici (le
Menadi?).
Circa la valenza dei “cavanei”, non considerati
importanti dalla cultura ufficiale e quindi non protetti
dai vincoli della Soprintendenza (il loro numero sta
infatti assotigliandosi), si ritiene necessario riportare quanto scritto da Louis-René Nougier nel suo libro La Preistoria, a proposito delle costruzioni a
pseudo-cupola:
«... formare dei muri mediante sovrapposizioni di
scaglie, ognuna delle quali aggetta leggermente dal-
la sottostante... il problema dello scorrimento delle
acque sarà risolto inclinando leggermente verso
l’esterno tutte le scaglie... segnano un decisivo progresso... dell’architettura occidentale... sono fragili...
basta che una pietra salti e l’equilibrio è rotto... ma
la capitelle può essere facilmente ricostruita... la tecnica è continentale, armoricana, e può essere facilmente datata verso il 4.000 a.C., se non nel V millennio» (pp. 232-235).
Per meglio comprendere il tema dell’aggetto si
riproduce lo schema in verticale (fig. 109 bn) che si
legge alla pag. 5 del suddetto “quaderno del territorio” di Gino Cabano, nonché una sezione orizzontale di “cavaneo” (fig. 110 bn), oltre che un “cavaneo”
di località Cambià (fig. 111 bn) con stele esterna.
Si noti come nella lingua francese sia le costruzioni a pseudo-cupola sia le greggi siano chiamate capitelles. Si riproducono due immagini di capitelles
rinvenute nel Massiccio Centrale, di cui una ne mostra la struttura in rovina (fig. 112) e l’altra la struttura così come appare all’interno (fig. 113). In Liguria queste costruzioni sono chiamate “caselle”, e anche questo termine sembra di derivazione celtica,
dalla voce cashel, di cui si legge nel libro Book of
Irish Names: «... all the places of this name, including Cashel in Tipperary, were so called from a caiseal (cashel) or a circular stone Fort» (Coghlan R.,
1990). Si noti come, in analogia con il cognome Cabano, a Lerici si abbia anche il cognome Casella, unitamente ad alcuni toponimi di identica etimologia
celtica (canae de casela, aigua de casela, fontana de
casela).
Il sito sacro di Scornia
È il più esteso e il più ricco sito sacro del Caprione, raffinato nella liturgia e fortunatamente ancora
integro, a motivo delle forti interazioni geomasse/
biomasse in esso percepibili, che lo rendono difficile da frequentare.
La sua toponomastica è da manuale, perché nei
vari atti notarili è chiamato “Rocchette di Scornia”,
cioè vi è rimasta la etimologia celtica, ma, essendone ormai incomprensibile il significato, se ne è ripetuta la semantica con il termine corrispondente della
lingua italiana.
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Il sito è ricco di inghiottitoi, oltre che di pietre
emergenti, dalle forme più varie. I campi energetici
particolari favoriscono una crescita assai vigorosa
dell’alloro, assieme al pungitopo, piante considerate
sacre per i Celti. Queste piante, considerate “radiofone” (cioè amanti delle radiazioni) assieme alla vitalba, al sambuco, al ginepro, alla quercia e al leccio,
formano la flora che attornia il sito. La forma degli
alberi è snella, svettante e i rami si innestano nel tronco con angoli acuti, a seguito dei campi ionici che
salgono dal terreno, caratterizzato dalla presenza di
una faglia (master-fault) e dalla conformazione degli strati in direzione verticale. Si noti come lo strato
di calcare rosa, esistente altrove nel golfo fra il calcare angulato e il calcare portoro, sia qui assente,
perché sprofondato. Non appartiene ai cinque siti
sacri arcaici, che formano l’immagine di Cassiopea,
perché è più recente, ed è già conforme alle prescrizione della liturgia codificata nella “religo”.
Non si sa chi abbia costruito questa complessa
area sacra, ma le analisi petrografiche ne hanno rivelato l’origine antropica, ed è difficile fare comparazioni perché mancano banche dati in proposito. Dalla survey è possibile suddividere l’area sacra in diverse aree specializzate, utilizzando le Tavole di Gubbio,
come testo della liturgia delle genti pre-etrusche, che
si sono insediate in Italia nel Secondo Millennio a.C.:
a) area di purificazione, mediante lavacri (lustratio). Nella parte bassa del sito la geologia ci fa conoscere che vi era una dolina con raccolta di acque. I
fenomeni di micro-carsismo ci mostrano una bella
pietra vulviforme a sezione verticale, dalla quale esce
saltuariamente acqua. Nel sito si nota anche una pietra portante un analogo segno vulviforme (fig. 114),
che l’analisi geologica ci conferma necessariamente
scavato dall’uomo, non utilizzabile per usi idrici, ma
semmai per uso astronomico (dal calcolo dell’azimuth il seggio sembra orientato al sorgere del Sole al
Solstizio di inverno, ma una conferma sperimentale
non è più possibile perché in quella direzione è stata
costruita una casa).
b) Poco sopra la piccola dolina si scorge una pietra a forma di U, posizionata orizzontalmente, che si
presta a esperimenti di interazione fra geomasse e
biomasse, utilizzandone le estremità come fosse una
calamita (fig. 115). Accanto a questa pietra a U si nota
una fenditura in cui è inserita una pietra a forma di
fallo (fig. 116).
c) Salendo attraverso camminamenti fra grandi
massi si raggiunge l’area chiamata confarreatio, perché si è scoperta in essa la presenza della “canoa tantrica”, cioè la pietra a doppia sella adatta per la preparazione al matrimonio (fig. 92). Questa scoperta è
per ora unica nella sua tipologia. Per capirne il significato sono stati fatti molti esperimenti con persone
percettive, ma la soluzione definitiva è venuta da per-
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sone che hanno frequentato l’India, patria del “Tantrismo” o religione tantrica.
Davanti alla “canoa tantrica” è posta una grande
pietra che porta una canalizzazione che sembra adatta
per farvi scorrere le acque rituali. Per cercare di capire meglio se questa ipotesi sia plausibile, considerato che nell’antica liturgia era prevista la distruzione dei vasi con cui erano state effettuate le offerte, si
è asportato un sottile strato di terreno sotto la roccia
(di pochi centimetri di spessore e di pochi centimetri
di estensione, come mostra la fig. 117) e sono emersi alcuni frammenti di vetro molto sottile e di ceramica, troppo pochi per fornire una certezza di “prove archeologiche diagnostiche”, ma idonei – si crede – a suggerire la necessità di una ricerca futura, attraverso una prospezione di scavo, che si spera venga debitamente effettuata o autorizzata quando verrà superata la portata della lettera della Sovrintendenza, in cui si afferma testualmente: «Questa Soprintendenza verifica per quanto possibile tutte le segnalazioni che riceve. In tale contesto è stata recentemente assegnata al Dipartimento di Archeologia dell’Università di Pisa la verifica di 25 sue segnalazioni che
non hanno purtroppo restituito prove archeologiche
diagnostiche».
Ciò veniva scritto in data 14 giugno 1999. Successivamente, in detta nota, si legge: «Qualora emergessero in futuro prove archeologiche della sussistenza
di fenomeni c.d. “megalitici” di età preistorica nel
territorio di competenza, questa Soprintendenza sarà
ben lieta di prendere atto ed agirà di conseguenza».
Evidentemente “prove archeologiche diagnostiche” non sono neppure le selci di cui è stata fatta elencazione nel “quaderno del territorio” a titolo Raccolta
di toponimi del territorio di Lerici- tomo IV (giugno
2005), selci scoperte e analizzate già prima dell’ottobre 1999, e di cui era stata richiesta la consegna con
lettera raccomandata R.R. del 7 ottobre 1999, selci
che però non erano e non sono in mio possesso, bensì erano allora in possesso del proprietario del terreno, peraltro non inseribile in nessuna “area archeologica” ufficiale, giusta la suddetta contestuale affermazione dell’autorità di salvaguardia, scritta in data
14 giugno 1999.
Si noti che pochi metri al di sopra della “canoa tantrica” è stata scoperta un’altra fenditura nella roccia
in cui appare infilata una nuova pietra fallica. Il tutto
contribuisce a rafforzare, in termini probabilistici, la
indicazione del sito come luogo dei matrimoni.
d) Spostandosi verso est, si scorge una pietra a forma di altare, di circa cm 80 di altezza, a sezione triangolare (fig. 118), che è stata considerata come una
pietra per offerte rituali non cruente, in conformità ai
dettami delle Tavole di Gubbio, che spiegano la presenza di un altare sussidiario, denominato tremnu, da
cui dovrebbero derivare le striscioline ornamentali di
pasta dette da noi “trenette”. Ciò si pone in relazione
con la paleogastronomia, la disciplina che studia la
storia degli atti alimentari e degli atti culinari (con
l’utilizzo o meno del fuoco) e cerca di ricostruire
come le offerte cruente e non cruente siano rimaste
nelle forme e nelle denominazioni della cucina tradizionale (vedi approfondimento nel Glossario).
e) Spostandosi ancora verso est ci si avvicina alla
parte centrale dell’area sacra, caratterizzata dal grande cerchio, al cui centro si ha una pietra altare a forma triangolare (fig. 25), più grande della precedente, e posizionata su una più estesa base.
f) A fianco della pietra altare si rileva la presenza
dell’ara per i sacrifici cruenti, formata di due parti,
la sella e la base (fig. 24). Nella sella veniva steso
l’animale da uccidere, col taglio della gola. Il sangue
che colava doveva essere raccolto in un recipiente e
versato alla Madre Terra attraverso un vicino inghiottitoio.
Questa ipotesi viene avvalorata dal fatto che sotto la pietra a sella si nota una pietra che presenta un
seggio a forma di vortice discendente, che sbocca
proprio sopra l’inghiottitoio, fornendo così l’apporto della sacralità di questo potente archetipo, noto
anche come spirale (vedi Glossario).
g) Spostandosi ancora verso est, si osserva una
trincea formata da grandi massi posizionati in senso
verticale, alti quanto un uomo, all’interno della quale si nota il seggio sacerdotale (solium) (fig. 119) proprio nel punto in cui questa trincea posizionata in
senso est-ovest viene intersecata da un’altra trincea
posizionata ortogonalmente, in senso nord-sud. Si
tratta quindi di un templum, cioè dello spazio suddiviso in quattro parti dalla linea meridiana e dalla linea equinoziale, e agli equinozi la luce del Sole che
sorge penetra nella trincea (fig. 120).
Il solium, ricavato dalla pietra intagliata, veniva
usato dal sacerdote “augure”, cioè colui che doveva
interpretare il responso della divinità circa il sacrifico effettuato, se cioè fosse stato accettato o meno.
L’augure stava quindi in coppia con il sacerdote incaricato di uccidere e offrire alla divinità l’offerta
cruenta. Doveva controllare se il prescelto uccello
augurale, da osservare con provenienza da levante o
da ponente, ritornasse, dopo l’esecuzione del sacrifico, ad attraversare la “linea augurale”. Questa poteva essere determinata da qualche grande albero o
dalle pietre augurali, collocate per fornire un buon
allineamento.
Va considerato che la positura del solium era con
la spalliera verso Nord, e quindi la provenienza da
sinistra era corrispondente alla provenienza da levante e la provenienza da destra era corrispondente alla
provenienza da ponente.
Se ad esempio, come si legge nelle Tavole di Gubbio, si sceglieva il picchio verde (che doveva esser
osservato da levante, cioè da sinistra) e se, dopo l’esecuzione del sacrificio, da levante si presentava un
nuovo picchio verde che attraversava la linea augurale, il sacrificio si considerava accettato dalla divinità.
In una delle Tavole di Gubbio si spiega come deve
avvenire la purificazione dei soldati dell’esercito (lustratio). Vi si legge dell’utilizzo dell’upupa come
uccello augurale, da osservare da destra:
«... l’officiante vada a far rilevare dall’augure gli
uccelli... indossi la toga traversa curiale e la tracolla,
portandola sulla spalla destra... quindi formuli l’impegno che l’upupa sia a destra...» (Ancillotti & Ricci, 1996).
Se, invece, dopo l’esecuzione del sacrificio, si
presentava un diverso uccello che attraversava la linea augurale, il sacrificio doveva essere considerato
non accettato e quindi doveva essere ripetuto.
Ciò metteva in crisi il sacerdote che uccideva e
offriva, e ben si capisce come egli dovesse fare uso
di droghe per superare il difficile momento del responso negativo, specie se ripetuto. Questa complessa parte del sito di Scornia, dedicata all’augure, è
indicata, utilizzando una terminologia delle Tavole di
Gubbio, come “asa”, cioè lo spazio attorno all’ara.
Queste tavole rappresentano il più importante testo liturgico della cultura dell’Occidente, corrispondente per importanza ai contenuti dei libri della Bibbia, Levitico, e in parte Deuteronomio.
In merito ai seggi sacerdotali, una grande roccia
incavata a forma di sedile si trova a Gubbio, sulle
pendici del Monte Foce, alla sommità di un grande
pietrone (Ancillotti & Cerri, 1996). Un altro simile
incavo si rinviene in Corsica, nel sito di Lupertacce
(Niolu) sotto la grande pietra che porta il foro in cui
penetra, agli equinozi, la luce del Sole che sorge (fig.
103). In Val di Vara, a Lagorara, nel sito preistorico
ove è stata in funzione per millenni la cava del più
grande giacimento di diaspro finora rinvenuto nel
mondo, si trova la tipologia del sedile costruito con
un masso incavato (fig. 121), opportunamente posizionato per la osservazione del Sole che sorge al Soltizio d’Inverno, fra la grande piramide di roccia appuntita e la costa del monte (fig. 122).
Si noti come il toponimo del sito derivi proprio
dalla piramide appuntita, in italico “agu” (agu+ara).
Un’altra tipologia a più sedili, incavati nella roccia e variamente posizionati come orientamento, si
ritrova in Sicilia, a Pietra Perzia (Enna). I sedili possono essere multipli, affiancati, e sono indicati come
“seggio rituale a più posti” nella pubblicazione fatta
dal Comune di Pietra Perzia (2000). Questi sedili
sono presenti nelle località Balate, Fastuchera, Favolisi, Tornabé, mentre nella località “Cirummeddi” si
ha un seggio unico posizionato per osservare il tramonto del Sole al Solstizio d’Estate (fig. 123).
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In Lunigiana, nel Sentiero 132 CAI, che porta alla
Bocchetta dell’Orsaro, a quota m 1240 s.l.m., si rinviene un’area sacrificale, che si presenta modellata
in forma ellittica dalla presenza di grandi pietre e di
un muro laterale. La sacralità di questo sito viene
sancita da alcune formazioni geologiche a doppia corona circolare, che nell’immaginario degli antenati
potevano essere considerati come occhi della Dea
Madre. Si legga a proposito in Gimbutas (Il Linguaggio della Dea) il capitolo “Gli occhi della Dea”. La
presenza di queste conformazioni geologiche naturali
ha dato luogo al toponimo “I Tornini”.
Nell’area sacra suddetta, posta a quota m 1240, si
rinvengono:
a) una pietra sacrificale con coppelle e canalicoli,
posizionata a piano inclinato. La tipologia è simile a
quella che si rinviene a Coregna (Fabiano Alto), anche se le dimensioni della pietra in quest’ultimo sito
sono inferiori (fig. 124).
Nel piano inclinato è presente una canaletta che
scende da una coppella superiore e raggiunge una
coppella inferiore.
A lato delle due coppelle si rinvengono due canaletti, uno diretto per far scendere i liquidi in un lato e
l’altro diretto nel lato opposto.
È da ritenere che, dal canaletto laterale proveniente dalla coppella posta in alto, fosse fatto scendere il
sangue, mentre dalla coppella posta in basso fosse
fatto uscire il liquido anale (che veniva rilasciato alla
morte dell’animale) (fig. 125 bn). I due liquidi, comprensibilmente di ben diverso valore rituale, non dovevano certo essere mescolati!
b) Una pietra altare a forma trapezioidale, per offerte non cruente.
c) Una pietra con un’incisione a forma ellittica
(naturale?).
d) Una pietra con canalicoli e segno oculiforme.
e) Una grande pietra a forma di seggio sacerdotale (solium) ricavata da una conformazione geologica ellittica (fig. 126). Questo seggio è il più grande
finora da me rinvenuto, sia in Lunigiana, sia altrove.
La eccezionale ricchezza del sito di Scornia lascia
aperto il problema se questo sito debba essere considerato preistorico o protostorico.
Saranno necessari ancora molti anni di studio e,
soprattutto, dovranno essere fatte campagne di scavo per fissare le date di frequentazione del sito. Ciò
costituisce uno dei corni del problema. L’altro è quello di capire quando in Lunigiana sia arrivata la scrittura.
Quanto sopra è implicito nella definizione stessa
di “protostoria”. Ciò che rimane certo è che Scornia
non appartiene alla tipologia arcaica dei cinque siti
di Cassiopea. Volendo azzardare una ipotesi personale, la distanza temporale fra le due realtà consiste
in almeno quattro millenni o forse più. Infatti San
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Lorenzo al Caprione poteva funzionare come sito
energetico caratterizzato ancora dalla mancanza di
alberi, ove la luce del Sole, prossima all’infrarosso,
diveniva luce polarizzata, riflessa dagli abbondanti
acquiferi provocati dall’innalzamento del livello del
mare di 110 metri. Una datazione per analogia si può
trovare in Corsica nel sito di Niolu, ove sono stati
datati reperti del 6.000 a.C.. La estrema raffinatezza
liturgica di Scornia, non più basata sulle interazioni
con la luce, bensì sulle emissioni di faglia, ed impostata con una liturgia simile a quella delle Tavole di
Gubbio, potrebbe essere attribuita al Secondo Millennio a.C..
Nulla si conosce del sito del Lozère, che è noto
soltanto per la estrema ricchezza di 400 dolmen e 350
menhir, datati a partire dal 3600 a.C.. Nessuno studioso francese ha finora voluto interessarsi delle strutture orientate di Château Neuf o di Château Vieux de
Randon, perché ciò inevitabilmente costringerebbe ad
aprire il campo alle ricerche di paleoastronomia,
evidentemente non gradite.
Un testimone di eccezione, sui fenomeni di interazione fra le geomasse e le biomasse nel sito di Scornia, è David Herbert Lawrence. Egli venne a Lerici
con la baronessa Frieda von Richtoffen e stette a
Tellaro negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale. In una lettera scritta da Fiascherino (Tellaro) il
14 Marzo 1914 all’amico A.W. McLeod egli ci offre
il racconto del grande picnic fatto sulle alture del Caprione.
Partendo da Fiascherino salì attraverso la via che
porta alla fonte di Capo Acqua e quindi salì verso la
Valletta (Monte Bandita), luogo ove sono state rinvenute le tracce dell’Ursus spaeleus, e giunse sul
crinale. Oggi la morfologia del terreno è diversa, perché la Todt, durante la Seconda Guerra Mondiale, vi
ha tracciato una strada di crinale utilizzata per mettere in postazione batterie contraeree. Qui giunto attraversò la master-fault che passa per Scornia, come
si deduce dalla visione del paesaggio esposta nella
lettera.
Attraversando questa particolare zona geologica,
lo scrittore ebbe delle reazioni improvvise, forti quanto inaspettate. Va detto, per meglio capire il fenomeno che egli descrive, che Lawrence era malato di tisi:
«Today we have been a great picnic high up, looking at the Carrara mountains, and the flat valley of
the Magra, and the sea coast sweeping round, in a
curve that makes my blood run with delight, sweeping
round, and it seems up into the vaporous heaven with
tiny scattering of villages, like handfuls of shells
thrown on the beach, right beyond Viareggio. I could
not tell you how I could jump up into the air, it is so
lovely» (Lawrence, Selected Letters) (fig. 127).
Occorre soffermarsi sulla frase in cui dice che il
suo sangue si mise a scorrere velocemente (run) e
procurandogli piacere (delight), in cui appare un fenomeno energetico, confermato poi dalla frase successiva in cui egli narra di come si sentì di saltare in
alto (jump up), riconfermando il piacere provato (it
is so lovely).
Il temenon o temenos di Sorgenzia
Il canale di Sorgenzia è posto al di sotto del sito
sacro di Scornia ed è inserito nel territorio del Comune di Ameglia. Il toponimo è chiarissimo e molto significativo, perché coniuga, nel plurale latino, la presenza di molte sorgenti. Vi si rinviene ancora oggi una
sorgente captata dall’Acquedotto Comunale, posta
proprio a fianco del temenon o temenos, spazio sacro all’aperto, o meglio, secondo la etimologia greca, spazio separato. In prossimità si trovano la Fonte
Fada e la Caverna della Fada, una caverna orizzontale che penetra nel monte per almeno cinquanta
metri. Quest’ultimo toponimo è di derivazione celtica, dalla radice fadan, “lungo”, ma richiama anche
altre etimologie legate alle entità femminili presenti
nel bosco. Secondo la ricca tradizione di Ameglia,
«alla Fada nascono i bambini» e ancora oggi vi si
costruisce il Presepe.
Di questa grotta tratta anche il Canonico Gonetta, nel Saggio istorico descrittivo della Diocesi di
Luni-Sarzana (p. 394): «Grotta delle Fate, inverso
Ameglia, sul Caprione...» (1867).
Per capire la sacralità di questo sito occorre effettuarne la visita accompagnati dal geologo, il quale
potrà spiegare i segni chiarissimi di una elevata presenza di acquiferi. Scendendo lungo il ripido sentiero si potranno vedere delle grandi marmitte, non spiegabili con la caduta a valle delle acque piovane, ma
soltanto con l’apporto di potenti sorgenti che sgorgavano poche decine di metri più in alto, in prossimità
del crinale del monte.
La potenza degli acquiferi si può inoltre scorgere
proprio in prossimità del temenon, in quanto permangono gli alvei di due potenti cascate, ora asciutte, di
cui una scendeva da Scornia, incontrandosi proprio
in prossimità della punta della costruzione ad angolo del temenon (figg. 128-129). Il terrapieno, formato da un muro ad angolo retto con il lato sporgente
verso il punto in cui si incontravano le acque, non mostra alcun altro elemento caratterizzante, e di per sé
sarebbe enigmatico, se non fosse possibile leggerlo
con la geobiologia.
Le due cascate corrispondevano alla conformazione energetica dell’incontro della energia maschile con
l’energia femminile (secondo il Taoismo lo Yang è il
principio maschile, attivo e luminoso, mentre Yin è
il principio femminile, passivo e oscuro) e le persone, anche quelle che non sono cultrici delle interazio-
ni geomasse/biomasse, restano molto colpite dalla
bellezza del sito.
Si è preferito indicare questo sito con il nome di
“temenon” perché esso, tuttora ricco di acqua, era, nel
passato preistorico e protostorico, un luogo di esplosione della potenza dell’acqua e pertanto non poteva
non essere sacro, secondo l’indicazione tramandataci da Servio: «Nullus lucus sine fonte, nullus fons non
sacer, propter attributos illis Deos, qui fontibus praeesse dicuntur» (Servio, VII, 84).
Il temenon in questo caso è uno “spazio sacro
naturale”, appositamente attrezzato per poter contenere un certo numero di persone, una piccola tribù,
dedita ai culti delle acque in condizioni di sicurezza,
senza correre rischi, considerata la scivolosità delle
argille e la ripidezza del costone. Si noti infatti che il
ruscello attuale, subito dopo il temenon, scende con
uno strapiombo di decine di metri, e la sottostante
cascata d’acqua (detta del “Zigaon”, cioè del cicalone, per lo strano rumore che produce) ha un salto di
quasi quaranta metri.
Si osserverà, da parte di qualcuno, che, se la discesa dell’acqua nelle cascate fa risalire alla preistoria la sacralità del luogo, non se ne capisce la collocazione nel libro nella parte dedicata alla protostoria.
Si è voluto con ciò fare riferimento alla costruzione
del muro e del terrapieno, che non ha le caratteristiche di una tipologia preistorica, ma già risente della
organizzazione dello spazio liturgico secondo la “religo-religio”.
Potremmo definire Sorgenzia uno spazio sacro
naturale preistorico, trasformato in uno spazio liturgico attrezzato protostorico.
La Necropoli del Cafaggio (IV sec. a.C.)
Contribuisce ad arricchire la ricerca sulla protostoria del Caprione lo scavo della Necropoli del Cafaggio (IV sec. a.C.) che contiene tombe a incenerazione (fig. 130). Questo toponimo è di origine longobarda, come luogo recintato, gahagi, da cui il nostro termine dialettale gagìnae, cioè il recinto in cui
si tengono “e gagìne”, cioè le galline. I Rom (gli zingari) ci chiamano infatti gagi, “stanziali”.
Il toponimo che induce però a richiamare un luogo di battaglia è “Costa Celle”; “Celle” deriva dalla
voce celtica “ceallach”, war, contention, cioè guerra, contesa (Book of Irish Names).
Questa interpretazione è sostenuta dal toponimo
stesso di Ameglia, che, anche se viene risolto con
etimologia latina nel Dizionario di Toponomastica
UTET, contiene però la “g” di maglios, voce celtica
per “prìncipi, grandi, migliori” (si veda la corrispondente voce romanesca). La professoressa Giulia Petracco Sicardi, dell’Istituto di Glottologia della Uni-
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versità di Genova, ha stabilito l’etimologia di Ameglia dal nome romano Aemilius. Non si capisce come
questa insigne docente abbia accettato questa ultracomoda etimologia latina, quando nello stesso dizionario UTET, per l’umbra Amelia (pur senza la “g”)
non si è sostenuta la etimologia latina da Aemilius,
ma si è preferito far capire, pur senza sbilanciarsi, che
il toponimo era antichissimo: «Il nome è di origine
prelatina e di etimologia incerta» (Carla Marcato,
Università di Udine).
Bene si adatta a questo toponimo dell’Umbria
l’origine paleoumbra, dalla allocuzione, presente
nelle Tavole di Gubbio, di esmei stahmei, che significa “spazio augurale”, vista l’imponenza delle mura
megalitiche di Amelia, palesemente un “luogo alto sacrificale”. Questa semiologia ben si addice anche al
belvedere di Ameglia, da cui si può godere lo spazio
acqueo del fiume e del mare, con sullo sfondo il crinale delle Alpi Apuane, che con la loro sky-line possono determinare un marcatore calendariale al sorgere. La radice umbra è rimasta non modificata nell’Amelia dell’Umbria, mentre nel corrispondente
toponimo ligure si è avuta la sovrapposizione del termine maglios, che ha lasciato, con molta probabilità, lo strascico della “g”.
La Necropoli del Cafaggio è stata illustrata nella
Guida Archeologica N° 6 Toscana e Liguria, pubblicata a seguito del Congresso Internazionale U.I.S.P.P.
del 1996 (Abaco, Forlì).
Dalla Necropoli del Cafaggio, come già detto, proviene la bella spada esposta a Palazzo Grassi, in occasione della mostra “I Celti” (1991).
Dai sepolcreti a incinerazione, cassette formate
con lastre scistose, sono emerse ceramiche di importazione tosco-laziale, anfore greco-italiche e massaliote, oggetti di ornamento femminile (spiralette,
anelli a verga e con castone, orecchini, pendagli di
collana, in bronzo, argento, oro e vetro), armamenti
di guerrieri (elmo, spada, lancia).
In particolare il vasellame tosco-laziale induce a
considerare lo scalo di Ameglia come uno dei porti
di distribuzione di questi prodotti nell’area del Mediterraneo Settentrionale. Si noti come lo scalo di
Ameglia fosse anche in contatto con la Corsica, in
ragione della traversia dominante di Libeccio, che
consentiva una facile navigazione da Alalia (oggi
Aleria) verso il Golfo della Spezia.
Il numeroso materiale, soprattutto le spade di foggia celtica sacrificate col proprio titolare (spade piegate, di enorme fascino per i cultori della Celticità)
potrebbero essere messe in mostra in un apposito
museo di arte e cultura celtica, da crearsi o in territorio di Ameglia (si veda il Forte di Montemarcello, in
stupenda posizione panoramica, con disponibilità di
grande parcheggio), o in territorio di Sarzana (si veda
la bellissima cittadella, ora restaurata). Questa pro-
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posta potrebbe essere il complemento dell’idea-progetto di creare nel Caprione un museo all’aperto di
megalitismo, paleoastronomia e archeoastronomia,
così come nella comunicazione presentata nel Convegno di Isernia dell’aprile 1999.
La stele del principe guerriero di Lerici
L’ultimo apporto in termini di Protostoria è stato
l’eccezionale rinvenimento della stele di Lerici (fig.
156 bn) da parte dello studioso lericino Francesco
Ginocchio. Va subito detto che questa statua-stele non
pone alcun problema di identificazione semantica
come le altre, attorno alle quali si dibatte ancora. Ciò
che si sta delineando sulla interpretazione di questi
manufatti è il consolidamento della convinzione che
non siano stele funerarie, ma che siano da mettere in
relazione con l’interazione geomasse/biomasse, o che
possano essere marcatori dei confini sacri del territorio, o addirittura che possano essere messe in relazione con fenomeni di visitatori alieni. Si legge infatti nell’articolo di Alberto Cesare Ambesi, pubblicato nella rivista “Le Scienze” n° 364 del dicembre
1998: «... [manufatti eretti] con scopi cultuali, con la
volontà di ricordare un evento mitico o celebrare la
sacralità cosmica di un luogo... riconducibili, secondo la mentalità partecipazionista, a divinità astrali
oppure agli eroici capostipiti, umani o sovrumani».
L’immagine della stele di Lerici è stata per la prima
volta pubblicata nel libro Incisioni rupestri e megalitismo in Liguria, edito a Ivrea nei Quaderni di Cultura Alpina (Priuli & Pucci, 1994).
Non deve stupire molto questo fatto, perché sta
semplicemente a dimostrare l’estrema resistenza alla
innovazione degli studi in terra di Liguria. Alla pagina 156 viene riportata l’immagine della stele, con
una prima datazione, da parte dei suddetti studiosi,
fra l’VIII e il VI sec. a.C.:
«Il soggetto si presenta come un guerriero visto
di profilo ed in movimento, munito di elmo, spada,
lancia nella mano destra; la mano sinistra impugna
un’altra arma da lancio».
Nel 1998, da parte dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici di Firenze, è stato pubblicato l’articolo a titolo La stele di Lerici e l’Oplismós dei Liguri in età arcaica, curato da L. Gervasini e A. Maggiani, che analizza in profondità il manufatto, costituito da una stele in arenaria tipica del nostro promontorio (un affioramento è presente nel Poggio di Lerici) antica di millenni, riutilizzata per rappresentare un
principe guerriero che utilizzava armi da difesa di
provenienza etrusca e armi da offesa e da lancio di
provenienza Hallstattiana.
Si riporta quanto scritto da Lucia Gervasini a proposito della datazione, perché importante sia per la
stele, sia per il problema dell’arrivo dell’alfabeto in
Lunigiana: «... se è vero che i rari documenti scritti
lunigianesi si situano nei decenni centrali del VI secolo a.C., la stele di Lerici, immediatamente precedente...»
Dovendo accettare ciò, il sito di Scornia, precedentemente analizzato, dovrebbe essere considerato
preistorico e non protostorico, anche se il toponimo
è decisamente di etimologia celtica, perché i Celti
avrebbero soltanto lasciato tracce della loro lingua,
ma non ne sarebbero i costruttori.
Nell’articolo il Maggiani riporta che la destrutturazione dei centri indigeni (Liguri) sulla costa, sarebbe stata completata nel VII sec. a.C.; il ritrovamento
della stele di Lerici, da considerare “ligure”, starebbe invece a dimostrare che nel corso del VI sec. a.C.
una entità ligure sopravviveva in Lunigiana.
Certo, immaginare un ligure in questa immagine
è assai difficile, se si considera che i Liguri erano alti
e snelli, capaci gli uomini di tenere testa a cinque
Galli e le donne a tre (quelle stesse donne che, dopo
aver partorito, continuavano a zappare...) (Fontes
Ligurum).
La stele è di proprietà privata ed è conservata in
una villa in località Codina di Lerici. Non è visitabile e solo in un caso eccezionale è stato possibile vederla assieme ad alcuni corsisti dell’Università delle
Tre Età di Lerici. Il ritrovamento della stele di Lerici
ha sconfitto tutto un mondo culturale che risentiva
ancora di una ìpoteca romaneggiante (“Roma Doma”
era scritto sulla facciata di una casa di Romito Magra durante il Ventennio) e che negava la logicità della
etimologia del toponimo Lerici, proposta dal linguista Giacomo Devoto, da eruk, “leccio” (radice celtica) e non dalla voce latina da esso direttamente derivata e avente lo stesso valore semantico, cioè ilex, “leccio”, come invece sostenuto dal Merlo, glottologo
dell’Università di Pisa. Questa linea conservatrice era
invocata, in nome della sicurezza nella ricerca etimologica, da parte della cultura ufficiale, pur essendo noto
e acclarato che i Celti erano stati presenti nel territorio, come attestano le fonti (Fontes Ligurum):
– «... verso le pianure già menzionate dei Celti...
Molte tribù, tutte celtiche eccetto i Liguri: questi sono
di razza diversa, ma simili [ai Celti] per il modo di
vivere... gli scrittori posteriori invece, li chiamano
Celtoliguri... Questi furono i primi Celti transalpini...» (Strabo II, 5, 28);
– «L’una [regione] è abitata dalle tribù liguri e
celtiche che vivono in parte sui monti, in parte in pianura; l’altra invece è abitata dai Celti e dai Veneti...»
(Strabo V, 1, 4);
– «Sia chiamata seconda parte la Liguria che è...
situata fra la Celtica...» (Strabo V, 2, 1);
– «... Marsiglia, città della Liguria, presso la Celtica...» (Hecateus, frammento 55, Jacoby);
– «Pertanto, avendo arruolato anche mercenari
della costa opposta, sia molti Liguri e Celti...» (Polibio I, 17, 4);
– «... parte infatti erano Iberi, altri Celti, alcuni poi
erano Liguri...» (Polibio I, 67, 7; vedi anche in Polibio XI, 19,4 - XV, 11,1);
– «... reclutavano come mercenari Iberi, Celti e
Liguri...» (Diodoro XVI, 73, 3).
Venceslas Kruta, nel trattare il capitolo sui Celti
nella grande opera Italia Omnium Terrarum Alumna,
scrive esplicitamente che la «diffusione capillare
della koinè celto-italica è illustrata da degli insiemi
che provengono sia dalla parte orientale del territorio boico... sia dai materiali di Ameglia e La SpeziaPegazzano. Da questa costa, le influenze giungono
fino ad Aleria in Corsica».
Fra le numerose spie etimologiche nel nostro territorio si rinviene il toponimo “Lemmen”, che sembra proprio legato all’albero lem, “olmo”, così come
il toponimo “Guercia Colomba” induce a pensare a
un luogo delle querce (Cercia Cumba), rafforzato dal
“Pernedro” (pernaies) che ancora significherebbe
“quercia”, toponimi questi presenti nel Canale del
Guercio o Canale di Remaggio (etimologia questa
latina da rivus major).
Per meglio inquadrare la ricchezza delle radici
celtiche ancora viventi in Lunigiana, si ritiene necessario offrirne un panorama completo, in modo che,
se qualcuna di queste dovesse risultare errata (errare humanun est), il sistema onomastico non verrebbe compromesso:
– awa (acqua) come in Avenza e in Deiva;
– bel (lo splendente, il Sole) come in Belaso (Santo Stefano Magra e in Buggi Belè (Fabiano Basso);
– bram (pietra fallica) in Bramapane (Montelungo sulla Cisa, Pegazzano e Fabiano Alto) e Branzi;
– carraigh-na-bhfer (le pietre degli uomini) come
in Carignano (Sarzana e Genova);
– carru (carro, o il cereale spelta?) in Carro e Carrodano (come in Cracovia - Polonia);
– cashel (costruzione a cerchio) come in Casella
(Lerici e Val di Pino);
– ceallach (disfida, battaglia) come in Costa Celle (Ameglia);
– cobhan (costruzione a falsa volta) come i “cavanei” del Caprione;
– faddan (lungo) come in Fonte Fada (Ameglia);
– fert (trincea, apertura nel terreno) come nel canale di Ferdana-Fredana (Caprione);
– gar (cespuglio) come in Garana, Garane (Caprione);
– gort-na-poll (foro, inghiottitoio) come nella
Fonte a sifone di Redarca, chiamata in dialetto Gorten o Gorte o Gò;
– karn-kairn (pietra) come in Canarbino (Arcola);
– ken cruach (passaggio in alto fra le rocce) in
63
Cento Croci, toponimo presente in due passi, l’attuale
e l’antico Passo dell’Ospedalaccio, e nel mare a Pertusola di Muggiano;
– linn-lynn (acqua che scorre) come in “Canae der
Lin” e “Bozo dar Lin” in Lerici;
– loop (inghiottitoio) come in Bocca Lupara (La
Spezia, Pegazzano);
– macras (secco) come il fiume Magra;
– magh (campo) come in Mago (la Serra di Lerici);
– mass-cork-ceann (la lunga collina delle querce
da sughero) come nel promontorio di Punta Mesco
(Monte Rosso);
– meglios (prìncipi) come in Ameglia;
– mullach-na-ndealg (collina dei cespugli di Biancospino) come in Mulazzo;
– nas-nawee (luogo di riunione) come in Nave
(Sarzana);
– nebla cumba (valle del nebbio, il sambuco)
come in Nebbia Colomba (Muggiano-Falconara);
– skeir (rocce) come in Schiara (Riviera spezzina
- Cinque Terre) e Scornia (skeir-na) nel Caprione;
– uxellos (alto) come in Uselea (Canarbino) e Lusuolo (Aulla);
– var (acqua che scorre fino ad arrivare al mare)
come il fiume Vara e Varicella (e i numerosi Varazze, Varigotti, Varo ecc.).
Di fronte a tanta ricchezza di “toponimi-spia” i
glottologi avrebbero dovuto attivarsi per andare a ricercare le radici pre-latine, rompendo così un diffuso tabù. Ciò non avvenne, e non perché questi studi
siano difficili (basta applicare l’approccio olistico, o,
se si teme questo termine, applicare almeno lo studio multidisciplinare), ma perché queste ricerche
sono pericolose per la carriera, in caso di errori.
I glottologi restarono, ed in parte restano, arroccati, stretti in mutua difesa corporativa. Per fortuna
le analisi del sangue del prof. Piazza (1990) ci hanno mostrato una identità genetica fra i Liguri e gli
abitanti della Sicilia occidentale, e quindi, in parallelo, il possibile riconoscimento di una unica radice
etimologica in Lerici ed Erice (da eruk), che fa saltare le precedenti ipotesi etimologiche basate sul culto
di una Venere Ericina (che, anche se più tardo, non
si può negare), cioè un flusso, comunemente accettato, da Sud verso Nord e non il flusso da Nord verso Sud, proposto dal Devoto, ora ineccepibile. Quando andai a Erice per proporre ciò, potei prendere atto
della mia ignoranza sulle fonti greche. Il prof. Vincenzo Adragna, indigeno, mi fece notare come nel VI
sec. a.C. Ellanico di Mitilene avesse scritto che, due
generazioni prima della guerra di Troia, i Liguri avevano colonizzato la Sicilia occidentale, come riportato nel suo libro Erice, pubblicato nel 1986, quindi
ben prima delle scoperte genetiche suddette:
«Risponde Ellanico di Mitilene (sec. VI a.C.): gli
Elimi (Liguri) vennero tre generazioni prima della
64
guerra di Troia dall’Italia, e precisamente dalla Liguria, in Sicilia». E ben si sapeva che i Liguri, con le
loro zattere, partivano sospinti dalla tempesta di tramontana e raggiungevano la Sicilia occidentale e la
Libia (mentre gli altri si mettevano al ridosso impauriti) (Fontes Ligurum). Adragna cita più volte gli studi
del Pace (1958), ben precedenti ai propri, per richiamare l’affinità dei toponimi della Sicilia occidentale
con la Liguria orientale, circostanza questa considerata negativamente nel Dizionario di Toponomastica UTET, ove alla voce “Entella” si legge: «Accostamento non valido, seppur suggestivo» (senza però
chiarirne le ragioni).
Appendice
Itinerari marittimi della protostoria
Lo studio degli allineamenti fra i crinali del Caprione1 ed i crinali delle Cinque Terre non può prescindere dalla constatazione che la “pietra altare” del
Persico di Campiglia è allineata con lo scoglio cuspidato detto “a gagiarda” (indicato in carta nautica
come “Scoglio Ferale”) e con la cuspide del Monviso, il Monte delle Alpi Marittime distante 230 chilometri, alto metri 3.841 e perfettamente visibile, perché con la sua mole sovrasta di quasi duemila metri i
monti circumvicini. Al collegamento offerto dall’allineamento cartografico, verificabile anche ad occhio
nudo nelle giornate particolarmente limpide, si va ad
aggiungere la constatazione semantica, come già
detto che la “pietra-altare” del Persico di Campiglia
appare incisa con un cerchio di coppelle, così come
la pietra fallica del sito di Canaa Granda. Oltre all’allineamento con il Monviso si riscontrano nella costiera delle Cinque Terre altri allineamenti di pietre, e di
fori di pietra, diretti verso il Monte Argentera, verso
il limite occidentale della costa del Mar Ligure (Provenza) e verso le isole dell’Arcipelago Toscano. Nel
sito della Valletta di Campiglia, da ritenersi area sacra per la presenza di una grande pietra con due coppelle, esiste un allineamento, formato da un foro e da
due pietre verticali, poste a guisa di mirino, indicante l’azimuth del punto in cui il profilo di Capo Corso, a 210°, si innalza verticalmente oltrepassando la
linea altimetrica dei mille metri.2 La Meridiana di
Monte Capri, nelle giornate di perfetta visibilità, oltre che determinare la linea meridiana, mostra, all’interno del vano delimitato da due grandi pietre parallele, l’isola Capraia. Si noti come la longitudine di
Monte Capri sia di 09° 44’ Est e come la longitudine
media dei rilievi dell’isola Capraia sia di 09° 49’ Est,
con la differenza di appena 5’ sulla distanza di 105
miglia marine, corrispondenti a chilometri 195. Seguendo l’allineamento del Monviso (288°) si raggiunge, partendo dallo Scoglio Ferale, l’antico approdo di Varazze, alle cui spalle esistono notevoli valenze
archeologiche preistoriche.
Seguendo l’allineamento dell’Argentera (274°) si
raggiunge, partendo dallo Scoglio Ferale, l’antico
approdo di Pietra Ligure, alle cui spalle esistono valenze archeologiche messe in luce recentemente.3
Seguendo gli azimuth indicanti la Provenza, variabili
da 250° a 255° (che paiono credibili proprio perché
a seconda dell’effetto della rifrazione la visione della costa muta) si raggiungono i siti delle antiche colonie greche di Massalia (Marsiglia) e Antipolis (Antibes) e quindi, navigando verso occidente, la mitica
Tartesso. Tutto ciò ha permesso di formulare l’ipotesi che nella preistoria e nella protostoria si usassero questi allineamenti per impostare la navigazione
di altura nel Mar Ligure.
Ciò appare confermato da quanto scrivono Strabone, Diodoro Siculo e Posidonio a proposito della
navigazione dei Liguri:
– «...contro i Liguri che avevano sbarrato le strade che conducono in Iberia lungo la costa, facevano
infatti razzie per terra e per mare ed erano tanto forti...»; (Strabone IV, 6,3)4
– «Essi sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle circostanze della vita non scevre di pericolo. Come mercanti solcano il Mare di Sardegna e quello Libico, slanciandosi coraggiosamente
in pericoli senza soccorso; giacché usano barche più
semplici di quelle per combattere da vicino e con un
numero scarsissimo di equipaggiamenti utili per la navigazione, sopportanto le più paurose condizioni atmosferiche che l’inverno crea tremendamente» (Posidonio, frammento 118 Jacoby = Diodoro V 39,1).5
Questi allineamenti furono opera degli antichi Liguri, dei Focesi, dei Fenici, degli Etruschi oppure si
devono a più antiche tribù, capaci di navigare nel
Mediterraneo ben prima del 5.000 a.C., per effettuarvi
il commercio del’ossidiana6, quando il livello del
mare era circa 110 metri inferiore all’attuale?7
L’appartenenza di Luni e di Alalia alla giurisdizione della flotta romana di Capo Miseno induce a fare
alcune considerazioni storiche sulla realtà dei collegamenti marittimi nell’Alto Tirreno e nel Mar Ligure. Forti venti da Sud-Est (Scirocco) avrebbero facilitato la navigazione nella tratta Capo Miseno-Alalia mentre forti venti da Sud-Ovest (Libeccio) avrebbero facilitato la navigazione nella tratta Alalia-Luni.
In senso inverso sarebbe stato sfruttato il vento da
Nord-Est (Grecale) oppure da Nord (Tramontana).
In caso di mare calmo e di assenza di vento la
navigazione sarebbe avvenuta lungo la costa, utilizzando i remi e, se favorevoli, anche le brezze costiere. È opinione comune che la navigazione lungo la
costa si svolgesse nelle ore diurne, con approdo nei
sorgitori, cioè in quei siti riparati ove si potesse fare
rifornimento di acqua sorgiva.
È controverso invece se dover contare le giornate
di navigazione dal punto di stacco al punto di nuovo
approdo, perché per poter dar credito agli scrittori
antichi di cose di navigazione sembra più verosimile dover considerare la giornata di navigazione dall’ultimo momento in cui si vedeva la terra che si abbandonava, al primo momento in cui si scorgeva la
terra in cui si sarebbe fatta la sosta notturna (è chiaro
che ciò dilata di molto l’unità di misura!).
Per meglio comprendere questa tematica occorre
considerare l’ampiezza dell’orizzonte marino che si
poteva scorgere dalla coffa di una nave antica (si noti
come l’etimologia più a noi vicina sia araba, da quffa = “cesta”, mentre l’antica sia greca, da kophinas
= “cesta”). La formula nautica per il calcolo del cerchio di visibilità, espressa in miglia secondo l’algoritmo due che moltiplica la radice quadrata della elevazione dell’osservatore espressa in metri, considerata l’altezza di una coffa in circa dieci metri, porta a
circa sette miglia marine, il che è ben poco. Bisogna
però introdurre l’elemento “altezza della costa” e
nella nostra configurazione geografica la sky-line,
cioè la linea di demarcazione della terra con il cielo,
è ricchissima di picchi che si elevano oltre i duemila
metri, con punte che si spingono nel Mar Ligure fino
a 3.841 metri del Monviso. Considerando quindi
questa poderosa variabile, si possono introdurre nella navigazione oggetti visibili da distanze che oltrepassano le cento miglia, cioè circa 185 chilometri, il
che fa pensare che si potesse effettuare nella protostoria la navigazione di altura. Una tratta di tale navigazione potrebbe essere individuata nel percorso
Luni-Provenza, come scrive Strabone8: «...dalle alture
che circondano il Portus Lunae si possono vedere
entrambi i mari, ai due lati e una grande porzione di
costa...» Logico quindi che i marinai antichi tentassero di raggiungre detti punti notevoli dell’orizzonte, evitando di proseguire lungo tutta la costa dell’arco ligure. La recente scoperta, sul crinale della Valletta di Campiglia, di megaliti che non paiono orientati verso asterismi (non riconducibili quindi all’archeoastronomia) ma che sono orientati per angoli che
indicano punti della costa occidentale, fanno pensare ad un avvio di navigazione assistita da terra e corretta dall’alto, con segnali di specchi, o di fumo, o di
fuoco, o con suono di corni, verso una direzione precisa, anche quando la visibilità non permettesse di
scorgere fin dall’inizio della navigazione il Monviso o l’Argentera o i vari promontori della costa.
La grande pietra del Persico e la grande pietra a
ridosso del crinale della Valletta di Campiglia, inducono a ritenere che quei marinai, prima di partire,
celebrassero riti propiziatori. Ci troviamo forse di
65
fronte ad una organizzazione completa della talassocrazia di cui narra Strabone (V, II, 5) di “uomini dominatori di tanto mare per così tanto tempo”?9 Sembra proprio di sì, specie dopo il ritrovamento di due
scritte incise nelle rocce di Navone e del Persico, che,
pur nella difficoltà di attribuzione, sembrano essere
una di origine etrusca ed una di origine greca o messapica. Queste attribuzioni paiono spiegabili in senso temporale dal successo dei Greci di Gerone di
Siracusa nella battaglia di Capo Licola, presso Cuma
(474 a.C.). Con essa gli Etruschi persero il dominio
del mare che porta il loro stesso nome, Tyrrenoi o
Tyrsenoi, come narra Erodoto.10 Resta comunque
aperta una questione: furono per primi gli Etruschi a
navigare in altura oppure ciò veniva fatto anche da
popoli precedenti? Emergono infatti nuove scoperte
che inducono a ritenere che già nel Quarto Millennio a.C. il Mediterraneo fosse percorso in lungo e in
largo dai “popoli del mare”.
Durante una conferenza tenuta nella Sicilia occidentale ho saputo del ritrovamento, presso Sciacca,
in una delle grotte vulcaniche del Monte Kronio, dette
“Stufe di San Calogero”, di alcuni otri contenenti
grano non coltivato, nato spontaneamente in Palestina, e datato al radiocarbonio nel V millennio a.C.. Ciò
fa capire che, prima ancora dell’agricoltura, e prima
ovviamente dell’allagamento della grotta da parte di
acque vulcaniche molto calde, marinai provenienti
dal Mediterraneo orientale avessero fatto approdo
nella costa siciliana, mettendovi al sicuro provviste.11
Navigazioni ulteriori verso le coste sarde sono documentate dal ritrovamento nel Santuario di Monte
d’Accodi, presso Porto Torres, di quello che potrebbe essere uno ziggurat mesopotamico a più piani, un
unicum in tutto il Mediterraneo occidentale ed in
Europa (fig. 131). Una prima cella sacrificale, dipinta
in ocra rossa, risulta distrutta da un incendio e la successiva, ricostruita sopra, venne datata al radiocarbonio attorno al 2.590 a.C..12 Ciò prova, inequivocabilmente, e con il massimo di credibilità scientifica, che
nel millennio precedente avvennero comunicazioni
stabili fra la Mesopotamia e la Sardegna. E, ovviamente, non furono i Sardi ad andare in Mesopotamia,
bensì avvenne l’inverso, durante navigazioni mirate
alla ricerca del rame e dello stagno. Ciò è provato
dalle analisi biogenetiche sulle popolazioni italiche,
condotte dal prof. Alberto Piazza, collaboratore di
Luca Cavalli Sforza, professore emerito di Genetica
presso l’università di Princeton, secondo le quali gli
abitanti della Sardegna hanno sangue simile alla popolazione del Libano.13 Volendo peraltro non credere ad una simile prova, il fatto che un solo ziggurat
sia nel Mediterraneo Occidentale e molti siano invece in Mesopotamia, farebbe giungere in via stocastica ad analoga conclusione. Gli stessi studi del prof.
Piazza dimostrano affinità genetiche fra la Liguria e
66
la Sicilia Occidentale; ciò perché i Liguri erano anche un popolo di pirati e quindi, sicuramente, abili
navigatori. Non si può infatti negare quanto scrive
Tito Livio per gli Ingauni : «Fu intimata la consegna
degli equipaggi e dei piloti delle navi corsare, e tutti
vennero imprigionati”.14 Il decemviro C. Matieno a
sua volta catturò trentadue navi lungo le coste liguri
che esercitavano la pirateria.15 Né si può ignorare
quanto scrive in proposito Strabone: “ In effetti questi due popoli (Liguri e Celti) esercitano il brigantaggio in terra ed in mare e si mostrano così potenti che
la rotta è appena praticabile da delle grandi armate.»16
I Liguri, sfruttando il vento di tramontana, potevano facilmente raggiungere la Sicilia e la Libia.
L’etimologia ligure di barma = grotta,17 si trova infatti nella nostra isola Palmaria, nell’isola di Palmaiola (Elba) e nell’isola Palmarola (in antico anch’essa Palmaria) nelle isole Pontine.
Ciò prova che i Liguri viaggiavano per meridiano! Che i Liguri avessero colonizzato la Corsica è
fuori di dubbio. Lo dimostra il toponimo del fiume
<Asco>, nome diffuso in Liguria, che significa “pozzo sacro”, con etimologia di derivazione sanscrita. Un
ulteriore elemento si è recentemente aggiunto a dimostrare che la Liguria orientale era toccata da antiche rotte.
Tre ingegneri chiavaresi (Baudà, Campagnoli, Casaretto) hanno identificato in alcuni “medaglioni”
trovati in tombe femminili, e conservati presso il Museo Archeologico di Chiavari, degli strumenti per il
calcolo della latitudine, provenienti da Ninive (latitudine 37°) e successivamente adattati per la latitudine di Chiavari (44°). Simili strumenti sono stati
rinvenuti anche in Danimarca. L’analisi astronomica compiuterizzata ha consentito di datare il più antico di questi strumenti astrologici (in antico l’astronomia era chiamata astrologia, cioè parlare degli
astri) all’887 a.C..18 Dalle “Fontes Ligurum” si attinge
la narrazione della navigazione effettuata lungo le coste spagnole, francesi e liguri, condotta in parte sotto-costa e in parte in altura , così come descritta nel
Periplo dello Scylax (pseudo Scylax)19: «La navigazione lungo il territorio dei Liguri da Ampurias fino
al Rodano dura due giorni e due notti. Dopo il fiume
Rodano abitano i Liguri fino ad Antion. In questa
regione vi è la città greca di Marsiglia, con il suo
porto. Anche Tauroeuis e Olbia sono colonie di Marsiglia. La navigazione lungo questo territorio dal fiume Rodano fino ad Antion dura quattro giorni e quattro notti. Dalle Colonne d’Ercole fino ad Antion tutta la regione è dotata di buoni porti. Dopo Antion
abita la gente dei Tirreni, fino alla città di Roma».20
Antion è il nome antico di Framura. La navigazione giornaliera risulta essere stata di 60 miglia, con
pernottamento a terra ogni notte. Utilizzando la carta nautica 432 dell’Istituto Idrografico della Marina
è possibile controllare la lunghezza delle seguenti
tratte di navigazione:
1. da Cabo Creus a Cabo Agde;
2. da Cabo Agde alle Foci del Rodano;
3. dalle Foci del Rodano a Cap d’Armes;
4. da Cap d’Armes a Nizza;
5. da Nizza a Capo Noli;
6. da Capo Noli a Punta Mesco.
Dall’approdo di Noli la navigazione doveva avvenire in “altura” utilizzando come dromone21 le Alpi
Apuane. In tale modo tutto il raccondo dello “pseudo Scylax”, finora considerato incredibile dagli storici, sia perché alcuni consideravano Anzio di Roma
e non Anzo di Framura, sia perché molti ignoravano
la possibilità di navigare in altura, diviene chiaro e
sperimentabile da chi ancora oggi voglia dedicarsi
alla navigazione a vela lungo gli antichi itinerari dei
marinai greci.
La farfalla nella più antica tomba etrusca
Il 16 giugno 2006 il Ministro per i Beni e le Attività Culturali Rutelli ha presentato alla stampa la più
antica tomba etrusca dipinta mai rinvenuta, da considerarsi il più antico monumento pittorico del Mediterraneo occidentale.
La tomba, rinvenuta a Veio a seguito di una operazione investigativa, è datata al 690 a.C., più antica
quindi di quella qui rinvenuta in precedenza, la “Tomba delle anatre”, datata 680-660 a.C..
La tomba è stata definita dei «Leoni ruggenti» per
alcune fiere con artigli e fauci spalancate, considerate
apportatrici di morte. Secondo l’interpretazione della Sovrintendente per l’Etruria Meridionale Annamaria Moretti, la tomba vorrebbe significare il passaggio dalla vita alla morte. Nella parete di fondo della
tomba esistono figure di uccelli acquatici in movimento, incisi e completati a margine con i colori nero
e rosso, e all’interno corredati di disegni geometrici.
Secondo gli archeologi si tratta di uccelli acquatici
migratori, che alludono al passaggio dalla vita alla
morte, resa più orrenda dal terrore ingenerato dai leoni ruggenti.
Ciò che interessa particolarmente la nostra ricerca è il notare che all’interno di una figura di uccello
migratore, forse un’anatra, sono incisi una farfalla e
due simboli a M, visibili nell’immagine seguente.
Ciò ci consente di interpretare l’uccello migratore come ulteriore passaggio dalla morte alla vita futura dello spirito, nella costellazione-generatrice, attraverso la farfalla inserita al suo interno, cioè l’animale psicopompo che aiuta lo spirito a raggiungere
la costellazione Cassiopea, chiaramente individuabile
con i segni a M. Potrà essere obbiettato che un simile salto temporale non è accettabile se limitato ad un
singolo caso. Occorre però notare che nel Museo
Archeologico Nazionale di Manfredonia (Daunia)
sono conservate molte statue-stele, ed una di queste
presenta un particolare fregio, indicato nel pannello
illustrativo come “simbolo ad occhiali”. È evidente
che questa attribuzione è soltanto formale, e non può
essere antropologicamente esauriente, mancando di
una spiegazione storicizzata (in quanto il fregio si era
presentato per la prima volta nel contesto delle statue-stele daunie?). Trattasi del frammento portante il
numero di inventario 0808, rinvenuto presso l’antica Arpi (Bari), datato al secolo VIII a.C. e studiato
da Silvio Ferri, che ne ha curato particolarmente la
descrizione: «... è costituito dalla metà inferiore di una
stele (solito calcare) che ha su ambedue le facce una
risega per l’infissione... le due braccia del morto sono
a rilievo (dita maldestramente qualificate) nella faccia A…nella fascia B una striscia di rappresentanza
corografica o topografica...»
Lo studioso ha omesso di rilevare la simbologia
presente nella faccia A, che rappresenta chiaramente una farfalla, visibile nell’immagine seguente.
Ciò non impedisce però di analizzare questa simbologia, che costituisce un ponte ideale con la statuetta di Passo di Corvo (fig. 33) datata al 5 300 a.C., mostrante sotto i seni le due farfalle.
Una ulteriore convinzione a gettare questo ponte
spazio-temporale fra le genti vissute nella Daunia ci
è offerto dallo studio di Laura Leone a titolo Scrittura ideografica sulle stele daunie, fatto sulla stele
chiamata “Sansone”. In questa stele compaiono tre
scenette. Mentre la prima è relativa allo svolgimento di un battaglia, la seconda presenta due personaggi, seduti uno di fronte all’altro: «A sinistra siede il
personaggio più importante, quello con il copricapo
conico (verosimilmente un sacerdote o anche una
sorta di sciamano), a destra siede colui che potremo
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designare come il protagonista del racconto... Questi è a colloquio col sacerdote che gli offre una bevanda in una tazza, dalla sua bocca esce una nuvoletta ad indicare il fiato espressivo...» Questa nuvoletta appare di nuovo a forma di simbolo ad occhiali,
cioè di farfalla, visibile nell’immagine seguente.
La terza scenetta mostra il mondo ctonio, in quanto rappresenta lo stesso personaggio di prima, in uno
stato di allucinazione, seduto a colloquio con un enorme cane (si veda l’immagine allegata).
L’autrice ritiene che questo tipo di rappresentazione, o meglio quest’arte, abbia una connotazione esoterica. Ciò è spiegabile con l’uso del Papaver sonniferum da parte dei Dauni, argomento presentato dalla studiosa nell’articolo Oppio. Papaver sonniferum,
la pianta sacra ai Dauni delle stele, pubblicato nel
Bollettino del Centro Camuno di Studi Preistorici n°
28, 1996.
Note
Il promontorio è già indicato nella cartografia
di Tolomeo fra gli ottomila toponimi di cui ha fornito le coordinate geografiche Latitudine 42° 50’
1
68
Nord - Longitudine 30° 45’ Est (Fontes Ligurum,
pag. 6)
2
Trattasi del Monte Alticcione, di m 1139. Si confronti la carta nautica dell’Istituto Idrografico n°
2150, “Da Cap Corse a Punta di l’Acciolu. Golfo di
Saint Florent”, scala 1 : 50.000.
3
Odetti G., Pietra Ligure e la Val Maremola, dalla
preistoria alla Storia, Comune di Pietra Ligure, 1996.
4
Fontes Ligurum, pag. 28.
5
Fontes Ligurum, pag. 99.
6
Acquafredda P., «Non destructive... ».
7
Combourieu-Nebut N. et alii «A high-resolution...»
8
Strabone, Geografia (V, 2,5).
9
Strabone, ibidem (V, 2,5).
10
Staccioli R.A. Gli Etruschi, mito e realtà, pagg.
21-29.
11
Cantone S., Sciacca Terme, Guida turistica, nonché il sito Internet www.termeitaliane.com/sicilia/
sciterfi.htm ove si legge, a proposito della frequentazione delle grotte nel periodo neolitico: «Questa
grande rivoluzione nell’attività economica è ormai
accertato che abbia avuto luogo nei paesi del Vicino
Oriente (Palestina e Siria) e che ben presto i risultati
abbiano raggiunto la Sicilia lasciando traccie proprio
nelle stufe».
12
Guide Archeologiche U.I.S.P.P. n° 2, “Sardegna”, pagg. 10-17.
13
Piazza A. L’eredità genetica dell’Italia antica,
Le Scienze. La presenza di questo reperto è stata segnalata alla Sovrintendenza ligure con lettera raccomandata del 28.07.1998, in cui si precisava che le
analisi geologiche avevano reso noto come la natura
delle rocce, “caratterizzata da alcuni relitti problematici di steli di crinoidi” fosse compatibile con tale
presenza (si veda appendice 1).
14
Tito Livio, Storia di Roma, Libri XXXIX-XL a
cura di C. Vitali, pag. 225.
15
Tito Livio, ibidem, pag. 227.
16
Strabone (Libro IV, 6, 3) da Fontes Ligurum,
pag. 28.
17
Calzolari E. La Comunità di Fabiano, pag. 36.
18
Ada Lorini, IL SECOLO XIX, 28.03.2001.
19
Fontes Ligurum, Scylax Car. (pseudo Scylax)
pagg. 85-86.
20
Trattasi di Anzio o Anzo di Framura e non Anzio di Roma, entrambi toponimi di origine etrusca, da
antion = confine. Il passo deve leggersi come indicazione che la gente dei Tirreni viveva nel litorale fra
i due Anzio, di Framura a Nord, e di Roma a sud.
21
Termine di derivazione greca, da drymos, quercia, indicante un palo di legno che serve da segnale.
Si veda nel “Vocabolario etimologico” di Pianigiani
Ottorino la voce “dromo”.
76. San Consas (Oniferi, Nuoro) - La parete
dalla quale è stata asportata la farfalla.
77. Groppina (Tellaro) - Al tramonto
del Solstizio d’estate la luce del Sole,
che viaggia polarizzata sulle acque
del golfo, riscalda particolarmente lo
spettatore.
78. Groppina (Tellaro) - Ricostruzione computerizzata della posizione del Sole, al tramonto
del Solstizio d’estate, nel IV millennio a.C. (Davide Gori).
122
79. Cattafossi - Pietra fallica.
80. Cattafossi - Pietra a sella semplice.
81. Cattafossi - Costruzione rotondeggiante (in lingua celtica cobhan).
82. Cattafossi - Pietra a sella con in
basso seggio vulviforme passante.
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