CHRISTOPHER il Bardo

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CHRISTOPHER il Bardo
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CHRISTOPHER
il Bardo
Di Nicola “Tartan” Dalpozzo
Custode degli Antichi Singulti
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Personaggio creato per l’ambientazione
“RAVENLOFT”
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Ho deciso di riempire queste pagine di una storia. La mia storia. Non per raccontare agli
sfortunati ignoranti di questo mondo infame, l’agonia delle cicatrici sanguinanti che
l’esperienze di una vita subita con la stoicità degna solo di una bellissima statua sorda e
fredda hanno tracciato impietosamente sulla mia anima vuota. No. Lo faccio per me,
perché ora sono davvero solo.
Ah le nebbie! Così simili all’inquietudine del non sapere, che agita la poca anima che mi
rimane. Quando chiesi a Madame Clarisse chi fossi veramente, non mi rispose subito. Mi
raccontò una storia. Rimpiansi la rassicurante finzione che avevo perduto.
Nell’ora che precede l’alba, quando l’aria di una notte d’estate è carica soltanto dei
ronzii degli insetti e dell’odore umido del fiume ed attende, con i primi raggi rincuoranti
del sole, i canti ed i rumori d’operosi paesani ignari, una figura, così avvolta in un mantello
di semplice stoffa scura da non poter essere riconosciuta, emerse dall’ombra come una
creatura della notte, silenziosa, veloce, risoluta. Alla base di una fontana pubblica dal
rubinetto a forma di testa di lupo, ritrovo delle mattiniere comari di Skald, lasciò,
sull’acciottolato umido, un fagotto e si allontanò. Non una carezza, né un nome scritto su
un pezzo di pergamena, né un segno distintivo, come si racconta in tante storie che
infiammano i cuori. Neanche un ripensamento, né un rimorso forse. Un fagotto, un
neonato. Ero io, coccolato dal continuo gorgoglio dell’acqua sulla pietra. Ancora in
fasce ed inerme, addormentato, avvolto in un sonno che non avrei mai più conosciuto...
Poi le stelle lontane e noncuranti, oramai diafane e stanche dopo quella notte senza luna
in cui fu decisa la mia vita, videro una donna. Capelli neri, rigogliosi, che incorniciavano la
pelle abbronzata di un viso dalla bellezza fredda e calcolatrice. Gli occhi azzurri erano di
una tranquillità disarmante, mentre osservavano la piazza vuota. A piedi scalzi, aggraziata
e regale, ma non avventata, come solo una tigre sa fare, si diresse verso la fontana. Le
vesti larghe e dai colori vistosi si gonfiarono lungo il tragitto, i ninnoli tintinnarono. Le vesti si
richiusero ed i ninnoli tacquero quando si fermò, accovacciandosi su di me. Mi prese in
braccio, si volse, alzandosi fiera. Con un cenno chiamò una piccola ombra rimasta
accanto al muro. Una bambina di circa cinque anni, la faccina bianca, sporca e i capelli
biondi scarmigliati, gli occhi azzurri, sbarrati di paura rispettosa, corse incontro alla nostra
madre adottiva aggrappandosi alla sua lunga gonna. I rari gesti affettuosi di una mano
che accarezza ed un sorriso caldo, in quel momento non ci furono. La madre mi porse
alla bambina. “Tienilo, Viviane. Questo sarà tuo fratello fintanto che non sarà pronto per
essere un marito.” “Come si chiama, madre?” “Ti piace Christopher?” “Sì.” Nell’ora che
precede l’alba, un neonato fu abbandonato. Un debito fu riscosso.
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Non riesco mai ad attribuire aggettivi alla mia infanzia più calzanti di: molto movimentata ed
istruttiva. Ogni tanto la memoria rievoca ricordi ormai spogli da quelle emozioni svianti ed inutili,
quali possono essere quelle di un bambino ignaro del proprio destino e del mondo tenuto a distanza
dal gruppo, desiderato sicuro e confortante come una vera famiglia. Famiglia… Cos’è una
famiglia?… Ricordo Madame Clarisse e le sue storie piene di crudeltà e saggezza, i suoi movimenti
aggraziati e terrificanti per noi bambini seduti attorno al fuoco della sera… i suoi occhi… la voce.
Ricordo Jacob, il vecchio Vistana che mi ha insegnato tutto quel che so sulla musica, il violino e
l’intrattenimento “onorevole”, e sulle donne ed a come non farsi legare nelle loro trame maliziose di
cui sono padrone, soprattutto quelle vistana. Ricordo Marcus e le nostre scaramucce da adolescenti
per imparare l’uso della spada, della frusta e dei pugnali, sotto gli occhi invisibili ed attenti del resto
del clan e di Viviane, per la quale ho ucciso Marcus. Ricordo Viviane. Madre, sorellastra, amante e
sposa. Ricordo lei e la sua promessa di restare sempre con me, sancita dal suo stesso sangue versato
da Marcus, pazzo di gelosia, la notte delle nostre nozze. Ricordo Marcus tentare di tenersi le viscere
mentre la testa rotolava vicino al fuoco del campo e prendeva fuoco. Ricordo i volti della mia gente
mentre mi allontano nella selva da solo, senza perdono e senza rimorso. Io e Viviane... Potevamo
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essere una famiglia…
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Viviane è tornata da me…E’ rimasta bella come allora…Come la ricordo. Una silenziosa
bellezza che ha donato al mio cuore un dolore tale da farmi sentire di nuovo vivo…
Come allora. Poi il tocco. Un’estasi di sentimenti contrastanti ha spezzato la mia fragile
anima. Ma non importa ora siamo di nuovo insieme. Neanche la morte può ormai
separarci.
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L’esilio non è poi così male, se lo passi con le persone giuste. Se non ci fosse Viviane a
tenermi compagnia in questi primi giorni di silenziosa agonia interiore, di sicuro la mia vita
avrebbe avuto un brusco arresto nel fondo di un burrone. Ed invece, per quel maledetto
destino crudele che mi tiene appeso, impotente, ad una vita senza pace e felicità, sono
spinto e tirato da una volontà che non desidero di città in città, di taverna in taverna, per
portare quel sollievo che solo la gioia e la musica sanno donare a chi, per sua fortuna, è
inconsapevole della futilità dell’esistenza in un mondo avaro del dolce calore di una
carezza.
Se c’è un motivo per cui questa mia penosa esistenza arranchi ancora per sentieri impervi
e nebbiosi, io non lo conosco. Ma lo vorrei davvero sapere, se ci fosse? Io dico di no.
Qualunque esso sia non ne vale la pena, perché, comunque sia, finirà in un decesso.
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La musica ha sempre salvato questa inutile parodia di esistenza che sono. Non c’era
momento della giornata che io non cercassi di estendere la mia anima verso questa
aliena energia pulsante, viva, corroborante del mio essere. Un tempo era un’amica. Mi
proteggeva e mi spronava ad esprimere attraverso la sua nobile e leggiadra voce i
sentimenti: quelli dolci come il vino appena spremuto, quelli forti come il pungente vento
impetuoso dell’oscuro mare in tempesta, quelli impalpabili e sottili come l’inquietudine del
dubbio.Era una consolatrice …da quanto tempo non cerco la sua voce… Era una
consigliera…
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Marcus… è tornato per compiere la sua giusta vendetta su colui che lo ha strappato dalle
inconsistenti gioie della vita.Se le lacrime che ho versato potessero…Il suo corpo gonfio e
macilento scavato dai vermi ora è sulla pira. È riuscito nel suo intento… Mi ha ferito al
petto. Il fuoco purificatore sale tra gli sterpi, lambendo i vestiti, le membra, la carne… se
c’è qualcosa al di là di questa miserevole vita, chiedo che possa farne parte. Ma nel
profondo del mio essere sento l’eco delle mie parole… sento ridere. Distolgo gli occhi in
un silenzio ostinato mentre il ruggito del fuoco sale in un cielo nero di rabbia. Piango in
questo momento le lacrime che per orgoglio ho allontanato. Viviane è qui vicino a me, lo
so. Mi sta sussurrando parole che non riesco a capire ma neppure riesco a tenere lontane
dall’anima.
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La febbre stringe ancora il mio corpo squassato dai brividi, mentre fra veglia ed incubi la
vita mi abbandona. Ho lasciato che Absynthia, il mio ronzino, vagasse per le strade di
questo oscura terra, sperando che il Fato non sia più crudele della Fortuna. La mano
fatica a scrivere le parole che si affollano davanti agli occhi. Sì... è già ora di lasciare tutto
questo dolore ed andare, io a morire, il resto del mondo a vivere. Chi di noi vada incontro
ad una sorte migliore, a tutti è ignoto tranne che a....
***
Non ho ancora capito quanti giorni sono stato nell’amoroso abbraccio della morte.
L’unica informazione che sono riuscito a carpire dai silenziosi Vistana muti del circo è di
essere stato raccolto in stato di incoscienza, al limitare della foresta di Sithicus, non molto
lontano dal mio vardo e dai resti della pira. Non mi sono state poste domande nemmeno
su Viviane. Neanche il mio nome. Quando ho tentato di chiedere non mi è stato
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concesso. Né da loro, né da Viviane.
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I gesti frenetici ma semplici, gli sguardi impercettibili ma pieni di significati ed i sinuosi
movimenti del corpo non lasciano alcuno spazio alle parole, così deludenti ed infide a
volte. Ma in un certo modo che non riesco a capire, Viviane dice che è giusto che sia
così, è necessario. Come sono necessari quegli strani disegni gialli sui loro visi.
***
Il mio aspetto sta peggiorando, lo vedo. Il pallore che in principio pensavo fosse dovuto ai
postumi della convalescenza si sta accentuando. Il senso di gelo che mi attanaglia il
cuore sembra farsi più intenso. Le membra di questo corpo le sento pesanti ed insensibili.
Non c’è più calore nella musica. Solo echi lontani senza senso, svuotati di ogni bellezza.
Pallide imitazioni di tempi ormai perduti.
È questo posto, lo so. Distorce il corpo e la mente. Se avessi ancora un’anima da spezzare
farebbe la stessa fine ne sono certo.
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Assieme al fantasma della donna che amo, la mia dolce e traslucida Viviane, ho
abbandonato il circo e continuerò il mio viaggio nelle cupe terre dell’incubo fino a
quando lei ed io potremo tornare ad esistere sullo stesso piano, non importa se il mio o il
suo. Mi sono lasciato alle spalle il circo e tutti i sentimenti contrastanti con cui
quell’inaspettata famiglia ha riacceso una debole fiamma fra le ceneri che soffocano il
mio cuore. L’ho fatto, ma se devo esser sincero, non trovo le parole adatte per definirne
le motivazioni… e, alla fine, chissà se realmente mi interessa..
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