ROBERTO PARDOLESI I.

Transcript

ROBERTO PARDOLESI I.
ROBERTO PARDOLESI
I.- Un paio di premesse, rapidissime. Primo. Incombe su di me la fama, cattiva (quanto
immeritata), di contrarian, bastian contrario, dovuta forse al fatto che, se c’è da
criticare, non sono solito ritrarmi; ma oggi Stefano Micossi mi ha riscattato e messo
anzi in una situazione di privilegiata tranquillità, perché, per quanto io possa ingegnarmi
di estremizzare il discorso, non riuscirò in nessun caso ad essere altrettanto corrosivo.
Secondo.Mi manca il tempo per assemblare un abbozzo di riflessione organica, che
richiederebbe una qualche attenzione su passaggi assai delicati; quindi, in più di una
circostanza, mi vedrò costretto a rispondere alle varie sollecitazioni, che ho creduto di
cogliere nel dibattito, in maniera assolutamente apodittica. Ve ne chiedo scusa sin d’ora.
II.- Sfidando le leggi di gravità, da giurista provo a cimentarmi innanzitutto
sull’interrogativo intorno al ruolo dell’analisi economica applicata al controllo delle
concentrazioni. Risponderò con una metafora, chiedendovi di meditare, soltanto di
scorcio, su ciò che è stato del regime comunitario delle intese verticali.
Basti un solo esempio, riferito al quadro imperante ancora una dozzina d’anni fa,
quando l’analisi economica veniva tagliata fuori senza incertezze, dichiarata estranea al
solco della riflessione comunemente ricevuta dagli organi preposti all’enforcement della
disciplina antimonopolistica europea. Teneva banco, con sicumera da impianto
concettuale a prova di critica, un’autentica strategia del patchwork, che aveva indotto i
giuristi, in virtù dell’affidamento alimentato da rassicuranti formulazioni formali (solide
all’apparenza, nel loro nitore tassonomico, ma assolutamente prive di qualsiasi
fondamento economico), ad attivare linee discretive straordinariamente bizzarre. Per
toccare con mano: si condannava nella maniera più draconiana la selezione distributiva
quantitativa quando, appena più in là, il franchising -coperto dalla sua supposta
eccentricità- si candidava a rappresentare il lato buono della forza e, sotto l’egida
dell’intuitus personae, passava indenne attraverso lo stesso vaglio. Va da sé che non v’è
modo, dal punto di vista giuridico sostanziale, di tracciare una linea distintiva fra le due
figure. Ma la diversità di etichette bastava per propiziare, a livello comunitario, una
drammatica disparità di vedute e, quel che più conta, di disciplina.
Una visione d’insieme avrebbe aiutato a comprendere che questa, e le molte altre
smagliature che il sistema esibiva senza imbarazzo alcuno, andavano tutte collegate al
fatto che la Comunità europea aveva inserito, fra le finalità perseguite dall’antitrust, un
obiettivo assolutamente estraneo alla sua tradizionale matrice, sino, appunto, a far uscire
il suo ‘modello’ dal solco dell’antitrust pensato in termini economici. In altre parole,
mentre negli Stati Uniti il caso GTE Sylvania portava al riconoscimento della necessità
di analizzare le intese verticali sotto l’ombrello della rule of reason, in Europa si
ribadiva e corroborava un approccio di tendenziale ostilità, sostenuto dal timore che,
altrimenti, le imprese avrebbero ricostituito, tramite i contratti di distribuzione, le
licenze e i diritti di proprietà intellettuali, quelle barriere nazionali, quelle
compartimentazioni che gli organi comunitari così faticosamente tentavano di abbattere.
Per cinque o sei lustri, non senza qualche nota di arroganza, su questo snodo cruciale il
diritto antitrust comunitario ha fondato e rivendicato una diversità, un modo di essere a
se stante, la volontà di esprimere una logica autoctona. Ci è voluto del bello e del buono
perché il regolamento di Natale ci avvicinasse, per usare i toni morbidi del professor
Tedeschi, non già ad una valutazione a pieno titolo economica, ma ad un inquadramento
compatibile con il buon senso (economico): ci è voluto –voglio dire– un bel pezzo di
storia per rendersi conto che il villain della tipica storia antimonopolistica, guarda caso,
è il monopolista e non necessariamente il concedente in un contratto di distribuzione.
Ecco perché, da giurista (e con tutte la shyness da apprendista stregone che mi attanaglia
all’atto di interfacciarmi con gli amici economisti), non ho esitazione alcuna a ritenere
che il ruolo dell’analisi economica all’interno dei meccanismi di controllo delle
concentrazioni debba essere pivotale. Altrimenti, dovremmo accontentarci di regole
che, magari hanno un aspetto formale ineccepibile, ma finiscono col funzionare a mo’ di
camicia di Nesso, oppure si traducono, in punti di fatto in qualche cosa di
semplicemente ingovernabile.
III.- Analisi economica sì, dunque. Ma quale analisi economica? E questo diventa il
punto più delicato. Si dirà che la risposta è legata ad un problema che taglia da sempre
trasversalmente la riflessione in ambito antitrust, anche perché, evidentemente, l’analisi
economica non esprime un pensiero unitario, ma va a frastagliarsi in articolazioni
spesso anche molto conflittuali. Mi limito, allora, ad una prima osservazione, nel segno
della fatica dell’ovvio. Occorre un’analisi economica che si regga sulle proprie gambe.
In altre parole, in tanto si può sostenere che la riforma sia una reazione agli insuccessi
inattesi della Commissione --incappata in un bigio giudice danese che, in maniera
sommessa ma estremamente puntigliosa, ha passato in rassegna l’elaborazione
economica delle sue decisioni e ha scoperto che il re era nudo--, in quanto si riconosca
che l’ordito argomentativo spacciato in precedenza a tale titolo era bad economic
analysis. Al di là delle interpretazioni che si vogliano dare della vicenda consumatasi -da Airtour/First Choice in poi-- con i tre grandi rovesci giudiziali subiti dalla
Commissione, si deve convenire che, nelle circostanze cennate, alla Commissione è
stato rimproverato di aver abborracciato le sue argomentazioni economiche in maniera
talmente approssimativa e sfilacciata da non reggere allo scrutinio (non già di un
sofisticato interlocutore, in possesso di strumenti più raffinati e di una più coesa
capacità di impiegarli al meglio, ma) di un giudice, che per definizione sarebbe disposto
ad accontentarsi di verificare che non siano state fatte affermazioni controintuitive.
Niente paura, però. Perché a questo punto ci dovremmo sentire tutti rassicurati dal fatto
–si tratta, appunto, di una delle orgogliose rivendicazioni della proposta di riforma-- che
il livello di acculturazione del sistema cambierà. Ci sarà un processo di selezione, in
esito al quale si vedrà brillare la nuova stella polare del chief economist: figura
estrapolata, di peso, dal modello organizzativo delle agenzie nordamericane. Temo,
però, d’intravedere un fraintendimento. Sono ovviamente d’accordo con quanti
assumono che il chief economist in posizione indipendente, così come previsto, possa
contribuire ad una migliore qualità e congruenza dell’analisi economica impiegata
operativamente. Sennonché, il modello dell’agenzia nordamericana è più sottile, non si
riduce al fatto crudo del professore universitario prestigioso parcheggiato per un torno
limitato di tempo in quella funzione. La sua posizione di interlocutore è, certo, interna e
dialettica rispetto all’elaborazione dell’agenzia, ma rimane condizionata alla credibilità
esterna che l’accademico ‘in sonno’ momentaneo possiede e che, tempo massimo
quattro anni, lo porterà, al termine del mandato, a rientrare nel suo ruolo di professore
universitario, impegnato, insieme ai colleghi, a revisionare criticamente i provvedimenti
delle agencies. Nessuno in quella posizione (e con quelle prospettive) si sognerebbe di
mettere in campo, non dico bad economic analysis, ma semplicemente tentative
economic analisys, perché il nostro uomo, comunque, dovrà poi tornare a inserirsi nel
mainstream della compagine accademica. La garanzia di qualità, allora, non sta soltanto
nella qualificazione dell’apporto, quanto nella consapevolezza che quell’apporto non
sarà isolato, per virtù del ruolo, dal confronto con la comunità scientifica.
Nulla del genere nei nostri disegni. Il che m’induce a pensare che il preteso colpo di
bacchetta magica e l’assunzione di un economista, per quanto prestigioso, non bastino a
sciogliere il nodo.
IV.- Pochi cenni ad un altro profilo, sempre alla ricerca dell’analisi economica che deve
venire in soccorso per superare le molte difficoltà del presente.
In realtà, si tratta di un sospetto. Mentre nelle Guidelines statunitensi del ‘78 si iniziava
a costruire in termini economici il controllo delle concentrazioni e l’enfasi era tutta sul
coordinamento, chi legga quelle del 1992 non tarda a constatare come, medio tempore,
il pendolo abbia compiuto per intero la sua oscillazione. Il perché è presto detto. La
serie di insuccessi registrati prima dell’emanazione della seconda ondata di linee-guida
valse a mettere in esponente la convinzione, diffusa tra gli economisti, che
l’elaborazione (econometrica) in materia di effetti unilaterali è particolarmente evoluta,
mentre quella in ordine agli effetti coordinati continua a scontare difficoltà, non
suscettibili di essere rilevate da test applicati con tecniche che vantano una raffinatezza
da spannometro. Per tutta conseguenza, a far tempo dal 1992, le agencies degli Stati
Uniti hanno affisato la loro attenzione sugli effetti unilaterali: in altre parole, hanno
operato una scelta, fortemente condizionata dallo ‘stato dell’arte’ dell’analisi economica
in quel torno di tempo. Ne è derivato il suggerimento di puntare sugli effetti unilaterali,
perché il resto della storia ci riesce difficile. Le luci della ribalta statunitense si sono
così venute concentrando su qualcosa di cui in Europa (e fuori dalla cerchia degli
economisti) si aveva, al più, notizia epidermica.
Ma, allora, il gap di cui ci ha parlato Mario Monti –il quale, frequentando famiglie dove
si fanno discorsi certamente diversi da quelli correnti nelle famiglie che mi capita di
incrociare, conosce giovani con dimestichezza su cose che, per la verità, stento a
immaginare come normale oggetto di conversazione per i figli dei miei amici-; quel
gap, dicevamo, c’è o no? La risposta, dal punto di vista degli economisti, è nitida. E
positiva. Ce l’ha ricordato Tedeschi un attimo fa in maniera particolarmente incisiva,
anche se implicita per certi aspetti. Fuori dall’ipotesi degli effetti unilaterali da impresa
singola che assume la posizione paramonopolistica, si annoverano: 1) la situazione degli
effetti coordinati, cioè dell’oligopolio con inclinazione collusiva o, in alternativa, 2)
quella dell’oligopolio non cooperativo. In questo secondo contesto, apparentemente
meno insidioso, possono però radicarsi conseguenze assai improvvide. Può, cioè,
verificarsi un primo effetto interno, quello, appunto, dell’aumento dei prezzi ad opera
delle imprese che si sono concentrate; e, poi, prendere consistenza l’effetto finale
esterno --rappresentato dall’aumento di prezzi del comparto complessivo, frutto del
rincaro attuato anche dai rivali-, il quale ha margine per materializzarsi anche in assenza
di una posizione egemone in senso tradizionale. Mi sembra dunque fuori di dubbio –e
sono stati proprio i giuristi a denunciarlo (Valentine Korah, tanto per fare un nome)- che
il gap c’era; che gli economisti, forse perché condizionati dallo stato dell’arte,
enfatizzavano il rischio di concentrazioni con portata restrittiva della concorrenza,
anche al di sotto della soglia mitica del 40% (mai dichiarata ufficialmente, per la verità),
che si vuole segni l’inizio della zona a rischio di “speciale responsabilità”.
Risolto il dubbio sull’an, il passo successivo è obbligato e consiste nel chiedersi come
far fronte al gap. Si davano tre possibilità.
Una prima traiettoria metteva capo, nella sostanza, ad un espediente: definire il mercato
in modo tanto rigoroso da far sì che, in ogni caso, la somma delle quote di mercato delle
imprese concentrate si collocasse, più spesso che, al di là della fatidica soglia.
La seconda scelta era quella di immaginare che anche gli oligopoli non collusivi
potessero essere riportati allo schema della dominanza collettiva: ma si tratta di una
contraddizione in termini e quel bigio giudice danese ci ha ricordato che forzature del
genere non passeranno inosservate.
La terza possibilità consiste nell’affermare che il punto di riferimento del regolamento
non era la dominanza, ma qualcos’altro, mettiamo il potere di mercato (concetto più
caro agli economisti); il che significava, nella sostanza, recidere il cordone ombelicale
con l’art. 82 del trattato e creare il goffo compromesso che oggi ci viene proposto, ossia
la dominanza che prende il nome di predominanza e aspira a fare storia a sé.
Un drafting siffatto fa il paio con la perentoria affermazione di Humpty Dumpty (per il
solo che non la ricordi: “quando io uso una parola, quello significa ciò che io voglio che
significhi, né più, né meno”). Alle corte. Ci troviamo al cospetto di un’operazione che,
da giurista, non posso non giudicare ipocrita. Si fa salvo il test della dominanza, ma con
una furbesca strizzatina d’occhi; giusto per ammonirci, à la Lewis Carrol, che, sì, la
chiamiamo così, ma poi è qualunque cosa noi vogliamo etichettare in questo modo.
Sicché tutto è ricomposto, e tacitato il dibattito nelle famiglie italiane frequentate da
Mario Monti, col semplice espediente di precisare che, a questo livello, dominanza
significherà qualunque cosa si decida di volerle far dire. Con, in più, la soddisfazione
derivante dal fatto di aver, altresì, preservato il generoso patrimonio dei precedenti
(peccato che, per la parte più significativa, essi siano stati sconfessati dalle tre recenti
bocciature e da quella che presumibilmente maturerà in ordine a GE/Honeywell).
Quanto di così mirabolanti risultati sia tenuto insieme dall’operazione proposta, io ve lo
tacerò. Solo perché credo superfluo suggerirvelo.
Grazie.