Prologo - Nerbini

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Prologo - Nerbini
Prologo
Alla fine dell’università, come tutti gli studenti di
ogni ordine e grado, la mia mente era occupata con
una certa costanza da un pensiero; un pensiero che mi
si presentava in forma di domanda, che non spiccava
certo per originalità, e che può qui essere riportato in
maniera semplice come segue: «E ora?». Ho terminato
i miei studi a cavallo tra il 2008 e il 2009, ed ero spaesato. Lo so che dicono si tratti di una cosa normale,
che capita sempre alla fine dell’università, ma il senso
di disorientamento rispetto alla strada da intraprendere
era dovuto soprattutto a due ordini di motivi, del tutto
contingenti al momento che stavo vivendo.
Il primo era che la crisi, dopo le prime avvisaglie
manifestatesi sui mercati finanziari d’oltreoceano nel
biennio 2007-2008, stava iniziando a mostrare sintomi
degni di nota anche in Italia.
Erano gli anni in cui l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro avveniva quasi esclusivamente attraverso
il ricorso agli stage; i molti, tanti, troppi stage poco o
punto retribuiti che sempre meno si trasformavano in
un’occupazione stabile.
Considerata la mia traiettoria di vita, non posso
proprio dirmi un effettivo, ma mi ritengo pienamente
un riservista della cosiddetta Generazione Mille Euro,
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sorta di esperimento sociale di durata molto breve, del
quale oggi non rimane quasi alcun ricordo cosciente
nel dibattito pubblico (se volete rinfrescarvi la memoria in maniera indolore e, anzi, facendovi anche due
risate, potete riguardare il film Tutta la vita davanti di
Paolo Virzì), ma che ha segnato l’apprendistato e l’inserimento lavorativo di molti.
I mille euro erano i soldi in busta paga a fine mese –
in realtà una fortuna già all’epoca – ed erano sinonimi
di una qualche forma di assunzione.
La situazione, però, era difficile soprattutto da un
punto di vista psicologico, per un motivo molto semplice: se fino ad allora il benessere intergenerazionale (cioè quello che si registra tra due diverse generazioni) era sempre cresciuto, aprendo prospettive per
i figli economicamente migliori rispetto a quelle che
avevano avuto i padri, ora si registrava per la prima
volta una netta inversione di questa dinamica, e molto
rapidamente si diffuse il concetto che i figli avrebbero
guadagnato meno dei propri genitori.
Per diversi motivi – alcuni dei quali di certo legati
ai cambiamenti nelle forme di partecipazione politica
avvenuti negli anni ’80 e ’90 – non vi furono manifestazioni particolarmente visibili del malcontento giovanile; ciononostante, lo shock per chi faceva parte
della generazione dei figli non fu per nulla indolore,
tutt’altro. Quando ci trovammo di fronte a un fenomeno di aspettative disattese su una scala talmente vasta, fummo pervasi dalla mestizia e dal senso d’impotenza: alcuni sociologi rimproverano alla società nella
quale viviamo, tra le altre cose, l’incapacità di rendere
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collettivi i problemi comuni che ognuno sperimenta
nella propria vita di tutti i giorni, e questo mi pare sia
stato il caso dei ragazzi della mia generazione.
Quest’ultima considerazione apre al secondo ordine di motivi, per il quale trovare una risposta alla mia
domanda era ancor più complesso: detto in poche parole, la società era cambiata. Ma non solo, continua
a cambiare molto rapidamente e molto in profondità,
lasciandoci senza punti di riferimento stabili.
Io credo che la mia generazione sia stata il testimone
più diretto, perché bersaglio privilegiato, di una serie
di fenomeni che hanno sancito, per così dire, l’ingresso nella «fase di ultimazione» di processi che avevano
preso l’avvio alcuni decenni prima e che sono arrivati
a una maturazione (finale? prima di una lunga serie?
punto di partenza di una svolta di là a venire? chissà…)
i cui sviluppi futuri fatichiamo a leggere.
Quando penso alla società che cambia, mi ricordo sempre di una citazione che ho letto alcuni anni
fa in un bel libro di sociologia. L’autore del libro è
Ulrich Beck, famoso per la sociologia del rischio; l’autore della citazione, di ambientazione tedesca, è Hans
Magnus Enzensberger – per i cultori di Nanni Moretti:
sì, quell’Enzensberger lì, quello di Caro diario.
Perdonatemi, ma non riesco a non riportare il passo
per intero:
Borgoni della Bassa Baviera, paesotti dell’Eiffel, cittadine dello
Holstein si popolano di personaggi che ancora trent’anni fa
erano assolutamente impensabili: macellai che giocano a
golf, mogli importate dalla Thailandia, addetti alle pubbliche
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relazioni che coltivano l’orticello fuori porta, mullah turchi,
farmaciste attive in comitati per il Nicaragua, vagabondi che
girano in Mercedes, autonomi con coltivazioni ecologiche,
funzionari del fisco che collezionano armi, coltivatori diretti
che allevano pavoni, lesbiche militanti, gelatai tamil, filologi
classici che si occupano di contratti a termine su merci,
mercenari in vacanza, estremisti della protezione degli animali,
spacciatori di cocaina con saloni di abbronzatura, «domine» del
sadomaso con clienti dell’alta dirigenza, mostri del computer
che fanno la spola tra le banche dati californiane e i parchi
naturali dell’Asia, falegnami che esportano in Arabia Saudita
porte d’oro, falsificatori di opere d’arte, studiosi di Karl May,
guardie del corpo, esperti di jazz, fautori dell’eutanasia e
produttori di film porno. Al posto dei tipi strani e degli scemi
del villaggio, delle macchiette e degli originali, è subentrato
il deviante medio, che tra milioni di omologhi non spicca
neanche più (H.M. Enzensberger, 1991).
Impressionante, no? Se penso che è una cosa scritta nel 1988 (anno in cui è stata pubblicata la versione
originale del libro da cui è tratta la citazione di H.M.
Enzensberger), mi sento un po’ vecchio. E immagino
di non essere il solo.
Perché quando penso al cambiamento penso a questo passo?
Beh, innanzitutto perché è una riflessione vivace
e intelligente, che riesce in maniera colorita e molto
pratica a raccontare un fenomeno difficile da definire,
soprattutto in relazione al periodo storico in cui venne
formulata.
In secondo luogo, credo non si possa non riconoscergli un certo valore predittivo: la contaminazione di
elementi culturali tanto diversi e lontani tra loro è un
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fenomeno che, tra forti battute d’arresto e improvvise
accelerazioni, è ormai stabile nelle nostre società.
In terzo luogo, perché dà bene il senso di spiazzamento che deriva dall’irruzione del cambiamento nel
quotidiano, fenomeno sempre difficile da interpretare
e che noi tendiamo a leggere generalmente sotto la
lente della diffidenza. Niente di male in tutto ciò, è una
disposizione naturale; di più, è una cosa perfettamente
razionale.
Se applichiamo il ragionamento alla vita di tutti i
giorni è facile vedere come tendiamo a privilegiare le
cose che conosciamo rispetto a quelle che non conosciamo: è un atteggiamento alla base della costruzione di una routine, che è un metodo molto efficiente
per tenere organizzata la nostra vita, in maniera che sia
possibile controllarla.
Spesso, però, un atteggiamento del genere sfocia in
una ricerca assoluta di prevedibilità, cosa che a volte fa
a pugni con alcune delle necessità proprie dei processi
di innovazione, per motivi davvero elementari: se non
lo abbiamo mai fatto, come facciamo a sapere cosa succederà un attimo dopo averlo fatto?
Ecco, per me sta qui il nodo da sciogliere, cioè in
una disposizione nei confronti della novità che si bilanci tra due tendenze: la prima a rischiare, a provare, a
inventare il nuovo – senza avere eccessive remore per
paura di fallire: bisogna provare, testare, innovare, sperimentare, e possibilmente farlo fin da giovani, perché,
come quando si cade, da piccoli ci si fa meno male – e
la seconda a conservare gli strumenti senza i quali non
è possibile alcuna innovazione.
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Sì, è un ragionamento ad alto tasso di banalizzazione, ma è proprio da questo che bisogna difenderlo e
difendere ciascuno di noi: da una deriva in cui tutto
è uguale a tutto, niente viene veramente inventato né
scoperto, e in cui l’Italia è il più bel paese al mondo.
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