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nella stessa collana:
Viaggio in Grecia, di Emilio Cecchi
Nei mari del Sud, di Robert Louis Stevenson
Al Marocco, di Pierre Loti
Michael cane da circo, di Jack London
Memorie di un bevitore, di Jack London
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Gustave Flaubert
VIAGGIO NEI PIRENEI
E IN CORSICA
Traduzione e cura di Ispano Roventi
TARKA
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Titolo originale dell’opera:
Voyage aux Pyrénées et en Corse
Traduzione e cura di Ispano Roventi
Prima edizione: marzo 2016
Tutti i diritti sono riservati
© 2016 Tarka/Fattoria del Mare s.a.s. di Franco Muzzio
Piazza Dante 2 - Mulazzo (MS)
www.tarka.it
ISBN: 978-8898823-84-0
Questo libro è disponibile anche in ebook (ISBN 978-8898823-85-7)
Impaginazione ed editing: Monica Sala
Stampa: Printbee- Padova
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INDICE
Nota Del Curatore 1
VIAGGIO NEI PIRENEI E IN CORSICA 11
Bordeaux 13
Bayonne, Biarritz, I Paesi Baschi, I Pirenei 29
Bagnères-De-Luchon 47
Tolosa 55
La Linguadoca 63
Arles, Marsiglia, Tolone 69
Corsica 79
Scritto Al Ritorno 99
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NOTA DEL CURATORE
S
uperato l’esame di baccalaureato, Flaubert ottiene in premio un viaggio che compirà dal 22 agosto
al primo novembre 1840. Poco dopo la partenza il
padre, Achille Cléophas, ribadisce per lettera quanto certamente già suggerito: “Approfitta del tuo viaggio e ricordati del tuo amico Montaigne che vuole che si viaggi per
conoscere principalmente l’indole delle nazioni e le loro
usanze, e per ‘sfregare e limare il nostro cervello con quello
degli altri’. Va, osserva e prendi nota; non viaggiare come
un bottegaio o come un commesso viaggiatore”.
In un primo momento, sulla vacanza pesano i dubbi
legati all’imposizione di un compagno di viaggio di fiducia,
il dottor Jules Cloquet, amico del padre. A Ernest Chevalier, (che cinque anni più tardi coprirà la carica di sostituto
procuratore del re a Calvi, in Corsica), prima della partenza
Flaubert aveva scritto: “Non so ancora cosa farò, né dove
andrò per le vacanze, sono nel più grande imbarazzo, se
devo fare il viaggio nei Pirenei. La ragione e il mio interesse mi esortano, ma il mio istinto a cui è mia abitudine
obbedire, alla maniera dei bruti […] mi dice che il viaggio
senza dubbio mi piace, ma il compagno non molto, dopo
tutto forse ho torto, grande torto. Per ciò che riguarda il
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suo carattere e il suo umore è eccellente, ma il resto?”. Una
volta partito Flaubert avrà occasione di ricredersi e scriverà
alla sorella Caroline: “Il signor Cloquet è molto buono e
ringrazio Achille di avermi procurato un simile compagno
di viaggio”.
Mal tollerato, tuttavia, rimane l’invito a “prendere
nota”, ritenuta un’attività faticosa, noiosa e senza scopo,
come Flaubert appunta sul suo taccuino già ricco di annotazioni. Inoltre gli appunti che leggerà ai compagni di
viaggio (inizialmente faceva parte del gruppo anche la sorella del medico e un prete italiano), saranno accolti tiepidamente, procurando al giovane viaggiatore una forte delusione, anch’essa diligentemente annotata: “leggo le mie
note al signor Cloquet, alla signorina Lise, poca approvazione e poca intelligenza da parte loro, sono toccato, la sera
scrivo a mamma, a tavola sono triste, fatico a trattenere le
lacrime” (Souvenirs, notes et pensées intimes).
Con la scrittura di diari e racconti di viaggio – semplicemente viaggi, si diceva –, attività a quel tempo data
per scontata, quasi un obbligo di ogni persona colta che
viaggiasse, Flaubert manterrà sempre un rapporto conflittuale. Da un lato non perderà l’occasione di manifestare
le proprie convinzioni: “il genere viaggio è per se stesso
una cosa quasi impossibile. […] su questo (sui viaggi) ho
delle idee molto ferme, per averne scritto uno io stesso. Ne
riparleremo”, scriveva nel 1866 a Hippolyte Taine (all’uscita del Voyage en Italie di questi). Dall’altro non eviterà di
riempire quaderni su quaderni e carnets de travail dai quali
attingerà materia per i suoi romanzi, se non per ipotetiche
opere di viaggio talora evocate. Maxime Du Camp (vanno ricordate le sue straordinarie fotografie, nonché i suoi
scritti), in occasione del “grande viaggio” in Oriente (così
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NOTA DEL CURATORE
veniva indicato l’insieme dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, posti sotto il dominio ottomano), Du Camp
come già in occasione di un precedente viaggio in Bretagna
(1847), cercherà di coinvolgere il compagno nella scrittura
di un viaggio: “Rigettò il mio consiglio; mi rispose che i
viaggi come il liceo non dovevano servire che a ‘rinvigorire
lo stile’, e che gli incidenti raccolti in un paese straniero
potevano essere utilizzati in un romanzo, ma non in un
racconto; scrivere un viaggio o redigere un fatto di cronaca,
per lui era tutt’uno, era bassa letteratura, e lui aveva aspirazioni più elevate”.
Eppure, come ha notato René Dumesnil in una storica
edizione dei Voyages di Flaubert (1948), gli inizi dello scrittore “si confondono il lui con gli anni di viaggio. Il viaggio
non è che un complemento della preparazione al mestiere
– un complemento indispensabile. Bisogna apprendere a
vedere bene, a osservare”. E Guy de Maupassant (anch’esso
grande viaggiatore, non occorre ricordarlo) individua nei
viaggi di Flaubert la linea di demarcazione anche fisica tra
la giovinezza e la maturità: “Era bello, allora, parrebbe, di
una bellezza olimpica di dio greco. / Questa bellezza fisica
durò poco. Un viaggio in Oriente lo affaticò e lo appesantì,
e divenne l’uomo che noi abbiamo conosciuto, un grande,
un forte, un superbo Gallo, dai baffi superbi, dal naso possente, dalle spesse sopracciglia che proteggono e coprono
un occhio azzurro di uccello marino, come una macchia
in mezzo a una piccola pupilla nera, sempre mobile e che
guardava fissamente, acuta e conturbante, agitata da un incessante tremore”.
La luminosità e l’esotismo del sud, l’azzurro del Mediterraneo (è la “malattia dell’azzurro” di Gautier; Voyage en
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Algérie, 1865: “Siamo in preda ad allucinazioni di cobalto, di oltremare e di indaco”), preannunciano a Flaubert
quell’Oriente che sognava dalla prima giovinezza e già allora affidava alla scrittura. In proposito viene spesso ricordato
un terribile passo di Rage et impuissance (1836). Il protagonista, sepolto vivo per errore, sogna l’Oriente “con il suo
sole ardente, il suo cielo azzurro, i suoi minareti dorati, le
sue pagode di pietra; l’Oriente con la sua poesia tutta d’amore e d’incenso; l’Oriente con i suoi profumi, i suoi smeraldi, i suoi fiori, i suoi giardini dai pomi d’oro; l’Oriente
con le sue fate, le sue carovane nella sabbia; l’Oriente con i
suoi serragli, luogo di fresche voluttà”.
Nel racconto autobiografico Mémoires d’un fou (1838),
Flaubert aveva unito nella stessa immagine il sud, nella sua
specificazione francese di Midi, e l’Oriente: “sognavo viaggi
lontani nelle contrade del Sud; vedevo l’Oriente e le sue
sabbie immense, i suoi palazzi che i cammelli calpestano
con i loro campanelli di bronzo, vedevo i cavalli balzare
verso l’orizzonte arrossato dal sole; vedevo delle onde azzurre, un cielo puro, una sabbia d’argento; sentivo il profumo dei tiepidi oceani del Midi”.
Il viaggio in Corsica fa quasi toccare con mano il sogno
orientale dei racconti giovanili: “Amo molto il Mediterraneo, ha qualcosa di serio e di delicato che fa pensare alla
Grecia, qualcosa d’immenso e di voluttuoso che fa pensare
all’Oriente”. E una bella pagina sulla brulicante vitalità di
Marsiglia, dice come già in questa città Flaubert abbia visto muoversi tutta l’umanità che su questo mare vive. (E
di passaggio, come non ricordare la bella e grande tela di
Puvis De Chavannes su una parete dello scalone del Palais Longchamp di Marsiglia – Marseille, porte de l’Orient,
1869 –, dove sul ponte di una nave, in primo piano e con
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NOTA DEL CURATORE
la città assolata sullo sfondo, è raccolta quell’umanità in
attesa di raccontare l’Oriente con la sola sua presenza).
Si assiste dunque a una dilatazione dei confini dell’Oriente verso il luogo stesso di partenza, una vicinanza più
volte affermata dagli scrittori in viaggio: “pure la Spagna è
l’Oriente; la Spagna è mezza Africana, l’Africa è mezza asiatica”. Come Théophile Gautier avrà modo di ribadire: “La
Spagna non è fatta per i costumi europei. Il genio dell’Oriente vi traspare sotto tutte le forme ed è forse spiacevole che non sia restata moresca o maomettana” (Voyage en
Espagne, 1840, l’anno del viaggio in Corsica di Flaubert).
Anni più tardi Eugène Fromentin (pittore-scrittore disse
Baudelaire; assai pregevole nelle due attività), parlerà delle
“coste mezze africane della Provenza […] una regione che
prepara a questa [Algeria] e la fa desiderare: acque chiare,
un cielo stupendo, e quasi la luce viva dell’Oriente” (Un été
dans le Sahara, 1857). Come Maupassant (La vie errante,
1890), in navigazione lungo la costa ligure alla volta della
Tunisia, si sentirà già immerso in un paesaggio orientale;
da Mille una notte dirà.
Da Chateaubriand a Gérard de Nerval, da Maxime Du
Camp a Théophile Gautier, e quanti altri ancora, nelle narrazioni dei viaggi non sarà difficile imbattersi nell’evocazione dei “racconti arabi” delle Mille e una notte; la scoperta
del savant Antoine Galland, viaggiatore nel Seicento al seguito della Compagnie du Levant; racconti che sollecitandone l’immaginario ha spianato la via dell’Oriente a molti
scrittori dell’Ottocento. Alla grande stagione dei savants en
langues orientales, delle missioni diplomatiche, delle compagnie commerciali dell’Oriente (una città portuale bretone ne serba il ricordo nel proprio nome: Lorient); epoca in
cui lo sguardo occidentale si allarga su nuovi confini (ne
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hanno lasciato memoria personaggi quali Bernier, Chardin, Thévenot, Della Valle, Niebuhr, ecc.), e fondamentale
è la campagna d’Egitto di Napoleone (con le opere di Vivant Denon); a questa stagione si affianca di riflesso quella
dell’Orientalismo letterario e pittorico. Fenomeno vasto, di
grande fascino e di grande ricchezza, che farà dire a Victor
Hugo: “Nel secolo di Luigi XIV erano ellenisti, adesso siamo orientalisti”. L’Occidente aveva così inventato l’Oriente; un modo per esercitare il proprio predominio anche sul
piano culturale, dirà qualcuno con molte ragioni in tempi
a noi prossimi (E. W. Said, Orientalism, 1978).
Parallelamente all’infatuazione per l’Oriente, la narrazione del viaggio subisce una radicale mutazione; la relazione impersonale, descrittiva, tendenzialmente neutra,
lascia spazio all’io narrante. Nel Voyage en Égypte et en Syrie
(1787), gemma delle relazioni settecentesche, Volney dichiarava di aver “rigettato […] le avventure personali” poiché “il genere dei Viaggi apparteneva alla Storia, e non ai
Romanzi”. Ma con il Sentimental Journey (1768), Laurence
Sterne aveva già ribaltato la regola che nella travel literature prescriveva al viaggiatore di parlare poco di sé, mettendo invece al centro dell’opera la sensibilità dell’autore.
In Francia il “sentiment” di Sterne diverrà “impression”.
Tra i primi, Charles Nodier dirà: “Questo viaggio non è
dunque un viaggio di scoperte; è un viaggio d’impressioni,
se è permesso esprimersi così” (Voyage pittoresque et romantique dans l’ancienne France, 1820). Lamartine intitolerà le
sue note di viaggio Souvenirs, impressions, pensées et paysages
(1832-33). Alexandre Dumas, che scriverà ben ventinove
volumi di viaggio, non di rado utilizzando i journals di altri viaggiatori, chiamerà i suoi libri Impressions de voyage.
Gérard de Nerval (Voyage en Orient, 1844) dal canto suo
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NOTA DEL CURATORE
accosterà i termini inglese e francese, dicendo di aver voluto annotare le proprie “impressioni sentimentali”.
In questa rassegna (redatta un po’ alla rinfusa e non certo esaustiva) può essere compreso lo stesso Flaubert, seppure per pochi cenni, come in una lettera a Ernest Chevalier
(9 aprile 1851): “Tra poco, quando verrai ad arrostirti la
suola dei tuoi stivali accanto al fuoco, potrò renderti partecipe delle mie impressioni di viaggio che, per essere meno
scherzose di quelle del signor Dumas, forse non mancheranno di divertirti altrettanto”. Sorprende tuttavia come il
nostro autore sia sfuggito a quella sorta di ipnosi delle Mille e una notte e alluda un’unica volta a certi “contes arabes”
(Funérailles du docteur Mathurin, 1839). Ma va aggiunto
che è noto l’abbozzo mai sviluppato di un suo conte oriental
– Les sept fils du derviche – il racconto cui spesso accenna
nelle sue lettere (“rumino sempre il mio racconto orientale”), e che in qualche misura è certamente debitore delle
novelle di Galland. A questo racconto, come scrive a Louise Colet (1853), e a un “grande romanzo moderno” (forse
Bouvard et Pécuchet, l’ultima opera rimasta incompiuta),
Flaubert avrebbe dedicato tutto il suo lavoro: “Tutti i miei
libri non sono che la preparazione di due, che farò se Dio
mi lascia in vita, 1° quello, e il racconto orientale”.
Di Flaubert restano cinque viaggi, nessuno dei quali –tranne poche pagine sull’Egitto (A bord de la Cange)
– pubblicato in vita. Nel primo, Voyage aux Pyrénées et
en Corse (1840), l’erudizione rallenta talvolta il passo del
narratore, appesantisce la fluidità del racconto; per altro
ricco di pagine felici e attraversato da una gradevole vena
ironica. Questo viaggio – “il mio caro viaggio”, come lo
definirà Flaubert – non richiede attenzione solamente per
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uno scontato obbligo cronologico. Sue tracce appariranno in quelli successivi, in particolare nel “grand voyage”
in Oriente del 1849, la cui attesa viene continuamente
evocata già in questo primo itinerario, nelle lettere e nelle
prime prove narrative. Un’avventura, un folgorante incontro a Marsiglia, resta esclusa da queste annotazioni; ma è
fortunatamente narrata nel Journal dei Goncourt (20 febbraio 1860):
All’angolo del suo camino, Flaubert ci racconta il suo primo amore.
Andava in Corsica. Aveva semplicemente perduto la sua verginità
con la cameriera di sua madre. A Marsiglia capita in un piccolo
hôtel, dove delle donne, che tornavano da Lima, erano tornate con
un mobilio del XVI secolo, di ebano incrostato di madreperla, che
destava la meraviglia dei passanti. Tre donne in vestaglia di seta che
arrivava ai talloni; e un negretto, vestito di nanchino e con babbucce. Per quel giovane Normanno, che era solo stato dalla Normandia alla Champagne e dalla Champagne alla Normandia, era di un
esotismo ben tentatore. Poi un patio, pieno di fiori esotici, dove
cantava, nel mezzo, un getto d’acqua.
Un giorno che tornava da un bagno nel Mediterraneo, portando
con sé la vita di quella fontana della Giovinezza, è attirato in camera dalla donna, una donna di trentacinque anni, magnifica. Le dà
uno di quei baci dell’anima. La sera la donna va nella sua camera e
inizia col succhiarlo. Fu un fottio di delizie, poi lacrime, poi lettere,
poi più nulla.
Diverse volte, tornò a Marsiglia. Non gli seppero mai dire cosa
fosse stato di quelle donne. L’ultima volta che ci passò, per andare
a Tunisi per il suo romanzo su Cartagine – poiché ogni volta, andava a vedere la casa – non ritrovò più quella casa. Guarda, cerca,
si accorge che è diventata un bazar di giochi. Al primo piano, un
parrucchiere; ci sale, si fa rasare e riconosce la carta della camera.
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NOTA DEL CURATORE
Il secondo itinerario porterà Flaubert in Italia (Voyage
en Italie et en Suisse, 1845), in compagnia della sorella e
del cognato in viaggio di nozze. A Palazzo Balbi di Genova
Flaubert rimane colpito dalla Tentazione di sant’Antonio di
Bruegel, prima ispirazione di un’opera che vedrà la luce
molti anni più tardi, nel 1874, e che avrà lo stesso titolo.
Il terzo viaggio, un’escursione in Bretagna (“scarponi,
zaino, a piedi”) con Maxime Du Camp è concepito fin
dall’inizio per essere scritto a due mani con l’amico. Il testo, Par les champs et par les grèves (1847), sarà tuttavia pubblicato postumo nel 1886. Le lettere che Flaubert scrive in
quell’occasione non di rado conterranno allusioni nostalgiche alla Corsica.
Il quarto (Voyage en Orient, 1849-1850), sarà al seguito
di Du Camp. Anche in questo caso Flaubert non pubblicherà le sue note, mentre l’amico, tra altri scritti, ne trarrà un libro con preziose illustrazioni fotografiche (Égypte,
Nubie, Palestine, Syrie, 1852; visibili sul sito Gallica.fr della
Bibiothèque Nationale de France). Come un cerchio che
si chiude, nelle prime pagine riaffiora ancora una volta il
ricordo del viaggio in Corsica e dei quaderni lasciati intonsi
e carichi di dubbi:
Era, credo, il 12 novembre dell’anno 1840. Avevo diciotto anni.
Tornavo dalla Corsica (il mio primo viaggio). La narrazione scritta
era terminata, e io consideravo, senza vederli, tutti sparsi sul mio
tavolo, alcuni fogli di carta di cui non sapevo più che fare. Per
quanto mi ricordo, era carta da lettere, di colore azzurro, e ancora
divisa in quaderni per poter tenere entro le cordicelle della mio
portafogli da viaggio.
Erano stati acquistati a Tolone, in uno di quei mattini di appetito
letterario in cui sembra di avere i denti abbastanza lunghi per scri-
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vere su ogni cosa. Ho gettato sulle pagine scribacchiate un lungo
sguardo d’addio; poi, respingendole, ho spostato la sedia dal tavolo
e mi sono alzato. Allora ho camminato in lungo e in largo nella
mia camera, le mani nelle tasche, il collo nelle spalle, i piedi nelle
pantofole, il cuore nella mia tristezza. [...]
Infine, con un lungo sospiro, mi sono riseduto al tavolo. Ho rinchiuso sotto un quadruplo sigillo i quaderni di carta bianca, ho
scritto sopra, con la data del giorno: “Carta riservata per il mio
prossimo viaggio”, seguito da un grande punto interrogativo, ho
gettato tutto nel cassetto e ho girato la chiave.
Dormi in pace, sotto la tua copertina, povera carta bianca che dovevi contenere gli straripamenti d’entusiasmo e le grida di gioia
della libera fantasia. Il tuo formato era troppo piccolo e il tuo colore troppo tenue. Le mie mani invecchiate romperanno un giorno i
tuoi sigilli polverosi. Ma cosa scriverò su di te?
Infine, il quinto viaggio (Voyage à Cartage, 1858) condurrà Flaubert in Tunisia; un viaggio di documentazione,
con lo scopo preciso di “conoscere a fondo” i paesaggi che
vuole descrivere in Salammbô, come si legge in una sua lettera. In questo rimanendo fedele a un suo vecchio interesse
(15 settembre 1846): “Mi occupo un po’ dell’Oriente, per
un quarto d’ora, non con uno scopo scientifico, ma tutto
pittoresco: cerco il colore, la poesia, ciò che è sonoro, ciò
che è caldo, ciò che è bello”.
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Viaggio nei Pirenei
e in Corsica
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BORDEAUX
C
i sono persone che alla vigilia della loro partenza
hanno tutto pronto in tasca: calamaio pieno, erudizione esibita, emozioni mostrate in anticipo. Felici e puerili creature che giocano con se stesse e si fanno
solletico per ridere, come dice Rabelais. Ce ne sono altre,
al contrario, che rifiutano tutto ciò che giunge loro dall’esterno, si rabbuiano, calano la visiera del berretto e del loro
animo per non veder niente. Io credo che sia difficile tenere, qui come altrove, la raffinata via di mezzo raccomandata
dalla saggezza, punto geometrico e ideale posto al centro
dello spazio, dell’infinito della stupidità umana. Nondimeno cercherò di riuscirvi e di darmi carattere, buon senso e
gusto; ancor più, non avrò alcuna pretesa letteraria e non
mi curerò dello stile; se ciò succede, che sia a mia insaputa
come una metafora che per ignoranza si usa in senso letterale. Mi asterrò dunque da ogni declamazione e non mi
permetterò che sei volte per pagina la parola pittoresco e una
dozzina di volte ammirevole1. I viaggiatori dicono la prima
ad ogni mucchio di sassi e la seconda ad ogni cippo, mi sarà
1 Corsivi di Flaubert.
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ben permesso di stereotiparlo in tutte le mie frasi, che, per
rassicurarvi, d’altronde sono molto lunghe.
Questo è un preambolo che mi sono concesso e che
avrei potuto intitolare predellino, per indicare le emozioni
che provavo salendo in vettura, vale a dire che non ne avevo
alcuna. Morirei se sapessi di avere avuto l’intenzione di fare
qui qualcosa di un po’ serio; voglio del tutto semplicemente, con la mia penna, gettare sulla carta un po’ della polvere
dei miei abiti; voglio che le mie frasi abbiano l’odore del
cuoio delle mie scarpe da viaggio e che non abbiano né sottopiedi, né bretelle, né pomata che grondi in grassi periodi,
né cosmetici che le irrigidisca in ardue espressioni, ma che
tutto sia semplice, franco e buono, libero e disinvolto come
l’aspetto delle donne di qui, con i pugni sulle anche e l’occhio gagliardo, possibilmente il naso sottile e innanzi tutto
niente corsetto, ma che il busto sia ben fatto. Preso questo
impegno, eccomi legato da solo e forzato ad avere lo stile
di un onestuomo.
La campagna di Parigi è triste, l’occhio va lontano senza incontrare del verde; grandi ruote che estraggono pietre
dalle cave, un magro cavallo affiancato da un asinello che
trainano dei tombarelli di letame, del pavé, il tintinnio dei
vetri e quell’indefinibile vacuità della mente che vi prende
al momento della partenza, ecco tutto ciò che ho visto, ecco
tutto ciò che ho sentito. Certo, non domandavo di meglio
che rovistare nella mia mente per pensare al XVI secolo
passando per Longjumeau, e da lì per associazione d’idee
lasciarmi scivolare nel Brantôme e in pieno Medici, ma non
ne avevo l’animo, così pure a Montlhéry, la torre non mi ha
affatto richiamato ricordi. Espressione delle più affascinanti
soprattutto come ne affiorano alla bocca di coloro che non
sanno niente e che l’adottano per passione storica.
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BORDEAUX
L’indomani mattina quando mi sono svegliato, la campagna era cambiata; c’erano grandi vigneti, illuminati dal
sole nascente, e c’era l’aria fresca del mattino, alle 5, nel
mese d’agosto. Il terreno s’abbassa impercettibilmente e
con una dolce pendenza vi porta ai bordi della Loira che
costeggiate su una carreggiata di 17 leghe, da Blois fino a
Tours. Paese onesto, paesaggio borghese, natura come la si
intende nella poesia descrittiva; è qui la Loira, sottile filo
d’acqua in mezzo a un grande letto pieno di sabbia, con
dei battelli che si trascinano a rimorchio la vela alta, stretta e mezza gonfiata dal vento senza vigore. D’altra parte,
e sotto un certo punto di vista da simbolismo letterario,
questo luogo mi è sembrato rappresentare un aspetto della
letteratura francese. Man mano che avanzate, la valle si allarga, gli alberi dell’altra riva si specchiano tranquillamente
nell’acqua, i pendii boscosi spariscono gli uni dopo gli altri;
qui si vorrebbe mettere piede a terra, per stendersi sull’erba, ad ascoltare il rumore di quella povera acqua tranquilla,
che non chiamo onda; non è né grande, né bello, né tanto
verde, ma è, se volete, un ritornello di Charles d’Orléans,
nulla di più, in cui la sola semplicità ha una certa tenerezza
che non è nemmeno sentimento, tanto è debole e pacata,
ma tranquilla e dolce.
Non occorre nientedimeno che la vista di Blois per fare
pensare a qualcosa di più vigoroso e riportarvi in mente la
corte di Enrico III. Ahimè! non ho affatto visto il castello
dove Enrico si vendicò della sua paura, né quel letto, come
dice Chateaubriand, in cui tante ignominie fecero morire
tanta gloria; la rapidità del viaggio mi ha appena permesso
di vedere i muri esterni.
Se fossi stato un bel gentiluomo della Turenna come
quelli del tempo a cui pensavo, in cammino nel XVI seco15
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lo, le mani in tasca e il largo cappello calato sulle orecchie,
o che si avviava sulla sua mula verso gli États di Blois, non
avrei mancato di rileggere Rabelais all’ombra di queste vigne dove egli dormì; poiché è vissuto qui. In questi sentieri nella sabbia, tra le canne, forse vi ha fatto la siesta un
certo giorno che era ubriaco; il suo riso è risuonato lungo
i pioppeti che costeggiano il fiume; la voce di Gargantua
è rimbalzata su queste rive, se ne è andata dietro a questa corrente lenta e silenziosa a perdersi nell’Oceano pieno
di clamori sicché tutte le altre beffe sono ingrandite con
essa; il gigante ha camminato in queste larghe pianure, sotto questo dolce sole; gli occorrevano ogni giorno il latte
di 3.600 vacche che egli beveva a grandi sorsate. Tutta la
contrada è fatta a sua misura: larghe pianure, alberi freschi,
acqua calma, largo letto che talvolta si riempie, viale senza
fine che diviene fastidioso per la sua lunghezza.
Per il resto niente di originale, niente di colorato, una
piattezza tutta francese fino a Tours. Mi ricordo solamente
tre bambinette che mi hanno chiesto l’elemosina a Montbazon, la prima stazione di posta uscendo da quella città;
soprattutto la maggiore, che aveva appena dieci anni, mi
ha dato la prima idea del Midi2: piedi nudi, correva nella
polvere seguendo la portiera; la sua voce che ripeteva in
crescendo3 la carità! la carità! la carità! aveva qualcosa di nasale e di stridulo; dei capelli neri e appiccicati di sudore, un
colorito di bistro, dei denti bianchi che mi si sono mostrati
in uno scoppio di riso infantile quando la vettura è partita
al galoppo. Affascinante rappresentazione di farsa infantile
e di ingenua grazia, sperduta in mezzo alla strada maestra e
2 3 Il Mezzogiorno della Francia.
In italiano nel testo, come in musica.
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che mi è costata l’allettamento prolungato di una monetina
da due soldi.
A Poitiers, inizia il Midi: larghi berretti, tuttavia meno
eleganti di quelli di Montbazon, qualche cosa di severo,
per quanto ho potuto giudicare da un cattivo pranzo e ricordandomi che il Poitou è la patria dei... Conservo un
ricordo più piacevole di Angoulême e della collina dove
si erge. Si cominciano a incontrare dei tiri di buoi che mi
hanno fatto pensare al quadro di Léopold Robert. I postiglioni hanno il berretto rosso dei Baschi e i calzoni con la
banda, i cavalli sono più piccoli, più sfiancati; i tetti divengono piatti; le tegole rosse e gibbose che li coprono, i muri
bianchi delle case la cui sommità spesso non è più alta delle
vigne, tutto ciò è ben il Midi. Dappertutto capelli neri e
barbe folte, vestiti variopinti come in un ballo mascherato, contadini che battono il grano davanti al loro granaio.
Quando passate in questi piccoli villaggi bianchi come la
campagna in cui sono adagiati e come il sole che li illumina, e girate agli angoli dei muri uniformi, bucati da piccole
finestre, ci si crederebbe, immagino, in Spagna.
Non siete più assaliti, come nel Poitou, da donne che
sfruttano la sete o la pietà del viaggiatore, soltanto la polvere fa dei turbini e il sole dardeggia; né rumori né canti nella
campagna. Per rendere la somiglianza più perfetta, il rapporto più giusto, a Savignac ho avuto una vera apparizione
moresca: mentre cambiavamo i cavalli, un’imposta verde
si è aperta, dapprima si è scorta una mano (perché non mi
si accusi troppo di esplorazione femminile, dichiaro che la
scoperta è del mio serio e colto compagno signor Cloquet),
una mano, poi un profilo, poi due, due teste nere con un
superbo sopracciglio appena intravisto! Beffa! una placca
gialla mi fece supporre che erano le due figlie del notaio.
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Ciò che normalmente chiamano bell’uomo è una cosa
molto sciocca; finora, ho timore che Bordeaux non sia una
bella città. Strade larghe, piazze aperte, molti fazzoletti
sulle teste brune, tale è la frase sintetica nella quale la riassumo prima di saperne altro. Per amarla ho bisogno di
qualcosa di più del suo ponte, dei pantaloni bianchi dei
suoi commercianti, delle sue strade allineate e del suo porto che è il tipo del porto4. Non fa, secondo me, né assai
caldo né assai freddo; non c’è niente d’incisivo e di accentuato: è una Rouen meridionale, con una Garonna dalle
acque melmose. Contavo dunque di gettarmi in acqua e di
lasciarmi trascinare dalla corrente, stendermi nella molle
lanugine del fiume, soave giaciglio le cui limpide lenzuola vi baciano la pelle. Immaginate uno spazio chiuso dove
l’acqua è stagnante come in un boccale, confronto poco
lusinghiero per coloro che vi vivono anche momentaneamente, delle griglie di legno che impediscono all’aria di
circolare e anche di svuotare l’acqua, un’atmosfera di sigaro
spento, del fango e delle oche che vi sguazzavano, tale era
la scuola di nuoto. Esitai ad affondarvi le mie membra, il
mio eroismo mi ci fece immergere fino ai gomiti, poiché
un borghese piancito sostituisce il letto del fiume, in modo
che non c’è nemmeno la possibilità di bagnarsi la testa senza timore di cadere sul piancito. Andate dunque a riposarvi
nell’erba, sfiorare con l’estremità del naso le punte spinose
delle canne, rimuovere i ciottoli nel fondo del letto, salire
a cavalcioni sui cavi tesi e seguire la barca con le grate in
cui si sentono delle voci? Volete della frescura, del silenzio,
dell’ombra, dell’acqua chiara e accarezzante, e sentite il fetore dei rigagnoli, il grido delle taverne, il grasso calore che
4 Corsivo di Flaubert.
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trasuda dai muri; poiché qui l’onda è avvelenata, la corrente fermata, tanto sono abili a insudiciare ciò che purifica, a
sporcare ciò che lava!
Tuttavia oggi ho visto, in pieno sole, una barchetta coperta con una tenda quadrata, sotto la quale si deve dormire bene e da dove la povera Garonna deve apparire bella
al chiaro di luna quando la città tace e gli uomini lasciano
parlare i giunchi nella corrente. Io vi sognerei volentieri
l’India e il Gange, con i cadaveri che trasporta come foglie e che la sera gli avvoltoi vanno a beccare con grandi
gridi. Avrei altrettanto voluto passare così la serata invece
di andare subito come ho fatto a pranzare in città, da un
bravuomo con tutta la forza del termine, nella sua casa di
campagna che è in un sobborgo, per bere dell’eccellente
vino, ne convengo, la cui digestione è stata guastata da romanze al piano e due sigarette di Maryland, musica da bottegai, tabacco da scrivano di notaio, il tutto insulso e dolce
come latte di mandorle. Credo che si trattasse di un’aria
italiana di Rossini cantata in francese. Povero Rossini! più
dissecato dei miei cadaveri del Gange, e in più da becchi
femminili, che è peggio. Il salotto e la sala da pranzo erano
ornati di insetti e di uccelli posti verticalmente al muro in
scatole munite di vetri. Ho promesso del seme di melone
al mio cordiale anfitrione. Il pranzo dopo tutto è stato piacevole, e mi sono un po’ riconciliato con la mia vicina che,
di primo acchito, aveva tutta l’aria di una beccaccia che ha
paura di bagnarsi i piedi nell’acqua chiara; ed ecco perché.
Ero sceso dall’omnibus con un confortevole caldo, acconciato e tirato nei miei sottopiedi, con una cravatta di raso
nuovissima, l’occhialino al bottone del gilet e dei guanti del
più scrupoloso biancore da cui il mio braccio aveva l’aria di
uscire tanto la mano vi era inviluppata. Dopo le presenta19
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zioni facemmo un giro in giardino; il più squisito bon ton
regnava nei miei modi, lasciai camminare da sola nei viali
una giovane donna, la ragazza di casa, nel timore di essere
frettoloso. Trovandomi semplicemente vicino a lei, le offrii
infine il mio braccio che rifiutò, cosa che trovai molto di
cattivo gusto; poiché subito feci una considerazione su me
stesso in cui non ebbi la mediocrità di illudermi, e ripassai
in un lampo tutte le mie qualità fisiche e intellettuali, con
una tale lucidità che quasi ne arrossii di umiltà. Per il resto,
ci si addentrava nei viali del giardino come nelle lande, e
ciò che vi trovai di più bello, è il canto dei grilli la sera,
dopo cena, che valeva di più dei magri accordi dell’asmatico piano.
Poiché sono stato al giardino, ieri ho visto pure il cimitero di Bordeaux, grande giardino di aceri, dove le tombe
sono, penso, più stupide dei trapassati che racchiudono; i
poveri stanno in mezzo e hanno il vantaggio di non avere affatto nome e rimpianti dipinti sul legno o incisi sulla
pietra.
Qui la vanità ha fatto ricorso alla sciocchezza che l’ha
ben assecondata. Piramidi di granito sono ammucchiate
sui bottegai, sarcofagi di marmo sugli armatori; nel giorno
del giudizio coloro che hanno più pietre addosso forse non
saranno i più lesti a salire in cielo, carichi come saranno del
peso del loro orgoglio. Il custode aveva l’aria pietosa e rapace, quando ci ha visto entrare la sua bocca ha sorriso come
una tomba che si apre. I cipressi erano polverosi, nell’erba
c’erano già delle foglie gialle, soltanto la piattezza del luogo
era triste.
Un viaggiatore è tenuto a dire tutto ciò che ha visto, il
suo grande talento è raccontare in ordine cronologico: colazione al caffellatte, salita in fiacre, stazione di posta in un
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angolo del confine, museo, biblioteca, gabinetto di storia
naturale, il tutto condito con emozioni e riflessioni sulle
rovine; dunque per quanto sarà possibile io mi ci conformerò.
Ero curioso di vedere il museo di antichità per spiegare
ai miei compagni due bassorilievi di cui al mattino avevo
letto la descrizione, ma non li ho ritrovati affatto e il signor
Cloquet, con intuito, me ne ha nominato uno che non conoscevo. Malasorte dell’erudito. In biblioteca ho toccato il
manoscritto di Montaigne con altrettanta venerazione per
una reliquia, poiché ci sono pure delle reliquie profane. Le
note a margine sono numerose, sovraccariche, ma chiare e
senza cancellature, come il resto scritte di getto; è più spesso un’estensione che una correzione del pensiero o della
parola, il che tuttavia talvolta accade per scrupolo d’artista
e per rendere la propria idea con tutte le sue sfumature.
Ho sfogliato quel libro con più religione storica, se ciò
si può dire, di quanto non sono entrato con raccoglimento
nella cattedrale di Bordeaux, chiesa che vuole fare la gotica,
ma che tradisce il suolo pagano su cui è costruita, alleanza
di due architetture, amalgama di due idee che non produce
niente di bello. Il jubé5 è ornato di sculture leggiadre e ben
lavorate che starebbero meglio a qualche battuta di caccia
di Francesco I, in qualche boudoir di pietra in mezzo ai boschi, per rinchiudervi a mezzogiorno l’amante del re; degli
archetti romanici si estendono lungo tutta la chiesa, e le
ogive superiori formano la volta, ogive pure rotonde, per
quanto facciano, che non hanno avuto la forza di elevarsi
al cielo in uno slancio d’amore e che sono ricadute quasi
in pieno sesto, schiacciate e stanche. Hanno sostituito le
5 Nelle cattedrali gotiche, tribuna ad archi riccamente scolpita che attraversa
la navata centrale, isolando il coro dal resto della chiesa.
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antiche vetrate con delle nuove, in modo che il sole entra
malgrado le tende che hanno teso, fa mille ridenti giochi
di luce sui lastroni, il che porta lo spirito lontano dal luogo santo nei campi, sotto le vigne. Ho pensato allora alle
nostre belle chiese del Nord dove fa sempre buio e sempre
freddo, dove le pitture delle vetrate non lasciano penetrare
che raggi mistici che si riflettono severamente, pieni di malinconia, sui lastroni grigi. Se salite sui campanili, vedete
tutta la pianura di Bordeaux, bianca e luminosa; il cielo
è azzurro e le torri ottagonali si staccano su questo sfondo limpido; la terra e il cielo si confondono all’orizzonte
nel loro biancore, e lo spirito affascinato e affaticato ricade
dall’alto delle torri su questo suolo che intiepidisce gli animi.
Ho voluto salire le scale e andare fino in cima, ma ho
sentito giungere le vertigini; delle luci partite dal basso mi
assalivano tra i piani delle scale e le fessure delle armature,
sono sceso con piacere tutto contento di essere sfuggito in
tempo alla paura. L’organo, che stavano accordando mentre visitavamo la chiesa, ronzava come un moscone.
È nella torre Saint-Michel che si trova la famosa cripta
da cuoio, che ha la proprietà di conciare gli uomini; ingegnosa cripta che non è stata alla scuola d’arte e mestieri e
che delle pelli dei cristiani fa pelli d’asino, poiché io attesto
che sono tutte dure, brune, coriacee e risonanti. Sono disperato di non aver avuto delle idee fantastiche in mezzo a
quelle venerabili mummie; non sono molto sensibile tanto
più per ciò che mi ha fatto orrore; confesso che mi sono assai divertito a contemplare le smorfie di tutti quei cadaveri
di diversa grandezza, di cui gli uni hanno l’aria di piangere, gli altri di sorridere, tutti di essere svegli e di guardarvi
come voi li guardate. Chissà? forse sono loro che vivono e
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che si divertono a vedere che andiamo a vederli. Stanno intorno ad una cripta circolare, il cui suolo è salito a metà degli archetti, poiché quei morti sono ritti su 17 piedi di altri
morti, e questi senza dubbio su altri, e noi, faccia a faccia
con i primi. Si va, li si esamina con la lanterna, il guardiano
fa risuonare loro il petto per far vedere che è duro; si passa
al seguente e, quando la rivista è finita, si risale la scala. È il
loro mestiere, di questi morti; li hanno tirati fuori da sotto
la terra, e li hanno allineati in cerchio; l’uno ha 100 anni,
l’altro 80, ecc., un terzo 76, nondimeno tutti vecchi gli uni
come gli altri! Quando vi hanno raccontato il loro genere
di morte e avete dato i vostri dieci soldi, tutto è detto e
fate posto ad altri. Qui invidio la sorte di quei bravi morti
conciati che si vanno a vedere nudi (poiché la morte non
ha pudore); c’è una negra che ha ancora un’aria da odalisca,
un facchino, bel ragazzo di più di 6 piedi, d’aspetto superbo, e un conte del posto ucciso in duello. Io non chiedo
di essere più celebre, poiché ce ne sono molte di persone
virtuose, poeti e membri dell’Institut6 che non sono così
interessanti da vedere come questi cuoi induriti, e che non
avranno mai la rinomanza di questa polvere oscura.
Il cristianesimo non è affatto serio a Bordeaux. La chiesa è circondata da un vecchio cimitero, dove tra gli altri
riposano i Girondini (Vergniaud, e secondo l’affermazione
di un vecchio compagno di Julien, il signor Mabitte, medico di Bordeaux), adesso trasformato in passeggio. Qui
è peggio che a Saint-Michel, i vivi non solo camminano
sui morti, vi fanno l’amore e chiamano questo luogo viale
6 L’Institut de France, fondato nel 1795. L’istituzione, nata dalla soppressione di precedenti accademie, ne comprende ora cinque: Académie française,
Académie des inscriptions et belles lettres, Académie des sciences, Académie
des beaux-arts e Académie des sciences morales et politiques.
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