prime 40 pagine del libro

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prime 40 pagine del libro
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verdenero
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Quest’opera è stata pubblicata con il contributo
del Ministerio de Cultura de España
Dirección General del Libro, Archivos y Bibliotecas
Titolo originale: Contra el cambio. Un hiperviaje al apocalipsis climático
© 2010, Martín Caparrós
© Casanovas & Lynch Agencia Literaria S.L.
© 2010 EDITORIAL ANAGRAMA, S. A.
© 2011, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano
www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277
Traduzione di: Maddalena Cazzaniga
Immagine di copertina: © Laurence Winram
Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100%
Finito di stampare nel mese di settembre 2011
presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)
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MARTÍN CAPARRÓS
Non è un cambio
di stagione
Un iperviaggio nell’apocalisse climatica
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indice
Amazzonia
9
Nigeria
47
Niger
79
Rabat
115
Sidney
137
Manila
173
Isola Zaragoza
189
Majuro
207
Hawaii
235
New Orleans
251
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Change changes.
T. S. Eliot
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amazzonia
È la combinazione dei due movimenti: il dondolio regolare e sereno dell’amaca, il beccheggiare della barca sulle onde del fiume;
insieme fanno del mondo una culla perfetta. Un po’ più in là,
sotto un’altra luna, l’Amazzonia ci disprezza.
Il mondo, dico, una culla perfetta.
Non c’è nulla che detesti di più, nulla che mi piaccia di più di
sentirmi parte di una rete, un tessuto, le forme intricate del plurale: qualche noi. Noi siamo, adesso, i passeggeri pazienti, poveri,
poco puliti ma ammassati del Deus È Fiel. Noi siamo molte signore, molti ragazzi, uomini, tutti stravaccati sulle amache: viaggiare,
qui, per noi, significa stravaccarsi e lasciare che il mondo scivoli.
Ore fa, sulla barca di legno, venti metri di lunghezza – la misura
di qualsiasi caravella, Colombo nella sua deriva più spaventosa –,
quelli che sono arrivati si sono messi ad attaccare una quarantina di
amache in coperta; ognuno cercava l’orientamento che gli era più
congeniale per legarle ai ganci del tetto. Io, in quel momento, ero
un neofito e ho dovuto supporre: i vantaggi possibili consistevano
nel non avere un’amaca direttamente legata sulla faccia, immaginare la possibilità di respirare, evitare gli odori più voraci, avere, in
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caso, una vista sul fiume; ma poiché bisogna legare l’amaca prima
di molte altre, tutta l’astuzia consiste nel supporre gli atteggiamenti
altrui, calcolarli, sbagliarsi in un gioco con variabili molteplici: una
rete, un tessuto. Noi siamo quel gioco, e le corde s’intersecano
nell’aria, le tele si dondolando nell’aria, i corpi si contendono l’aria,
gareggiamo. Le nostre amache sono perlopiù rosse e rosa, ma anche
verdi, blu, azzurre, gialle, una viola, una molto larga in bianco e
nero. Avanziamo, giù per il fiume, in quella posizione inverosimile
che noi persone riusciamo ad assumere sulle amache: sbracati.
Sbracato è il termine.
O, detto in altro modo: con quella mancanza di pudore corporale
che è il grande contributo delle culture tropicali al mondo in cui
viviamo.
Sbracate, le parole.
Fa caldo. A dispetto del vento, sul fiume fa caldo, il sudore si
somma, e il Deus È Fiel ondeggia. Ai lati, trasformato in sponde,
il mondo prosegue il suo avanzare verso nessun luogo. Sul fiume si
alternano momenti di piccoli accampamenti, momenti di foresta
chiusa e sprezzante, momenti di pianura disboscata e mucche. C’è
anche, di tanto in tanto, un paese. Le nuvole persistono basse; in
fondo, un arcobaleno. Noi, sulle amache, discorriamo, quattro
donne leggono riviste, una un libro, due la Bibbia, due dormono
con i bambini addosso, una ragazza guarda un film sul suo laptop;
gli uomini, invece, non fanno niente. Dormono o si dondolano, fissano il soffitto in ogni dettaglio. Il soffitto dev’essere un
mosaico di particolari. Bisogna saperlo fare: oziare per quindici
ore, pancia all’aria, pensare o non pensare per quindici ore pancia
all’aria, faccia al soffitto, tranquillo. Nello stesso tempo c’è chi
crea una religione o, perlomeno, un nuovo culto. Bisogna saperlo
fare e, in generale, per farlo meglio, bisogna essere ai tropici.
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Durante l’iperviaggio, le ore di navigazione lenta e di fiume sono
un viaggio ad altri ritmi, a un tempo di altri tempi.
E la signora molto magra, quasi anziana, invecchiata, seduta di
traverso sulla sua amaca, che si dimena, piange, ripete continuamente non voglio, non voglio, non voglio. Una giovane donna
– sua figlia, mi dirà poi – le massaggia la schiena. Non voglio,
non voglio, piagnucola. Poi la figlia ci racconterà che alla madre
hanno asportato un cancro e una mammella. Le hanno prescritto
una chemioterapia, ma non poteva andare a Manaus per curarsi, e
quindi ha lasciato perdere. Poi, alcuni giorni fa, il seno ha iniziato
a farle molto male, moltissimo, e quindi sono andate a Manaus,
ma il medico le ha detto che non c’era più niente da fare, e adesso
erano di ritorno.
La donna dice che non vuole.
La barca prosegue, beccheggia. Davanti, uno dei paesaggi feticcio
di questo mondo: il fiume più potente, quello che attraversa la
più grande riserva verde del pianeta, un mito dei tempi. Dietro
di noi, le amache, e sotto, sempre più sotto, un carico di casse di
birra, elettrodomestici – ventilatori più che altro, tanta aria che ha
bisogno di muoversi – e mercanzie da emporio: detergenti, riso,
biscotti, cioccolato. L’Amazzonia importa l’80% dei suoi alimenti: il gran vivaio del mondo non è in grado di produrre ciò che
mangia.
Ho iniziato perché pensavo che qui sì che potevano succedermi
delle cose, mi dice il capitano. Si chiama Soares – magro, basso,
nerboruto – e racconta che sono quasi trent’anni che percorre il
fiume, in su, in giù, e ha iniziato perché pensava che così avrebbe
avuto una vita piena, donne, avventure, robe così. Ma le cose che
succedono sono se piove o tempesta, se l’elica della barca gli si
blocca o il motore si arresta, se il capo lo rimprovera per questo
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o quello: le cose che succedono sono problemi. E con le donne
anche: se a volte me ne capita una, diventa un problema. Che se
l’avesse saputo non avrebbe mai desiderato altro, perché è saggio
desiderare le cose che hai già, dice, magro, nerboruto, birra in
mano, filosofo improbabile.
Desiderare le proprie significa non desiderare le altre, dice
o sembra dire in qualche modo.
Sospendere il giudizio, ho sentito dire in questi giorni: che il grande errore commesso dal mondo è stato quello di sospendere l’incredulità di fronte all’inattendibilità del mercato finanziario, per
convincersi a credere ancora nell’inammissibile: che per questo
motivo le persone e i banchieri e i governi hanno creduto di poter
continuare in eterno appesi a un filo. Sospendere il giudizio: sempre questa tentazione di sospendere il giudizio, di lasciarsi dire, di
ascoltare i canti delle sirene, dei cani, dei signorotti in doppiopetto, delle prostitute mal pagate, dei profeti della paura. A Orellana
costò caro. Don Francisco de Orellana è stato il primo esploratore
europeo a viaggiare in queste acque, su zattere mal legate, a capo
di cinquanta straccioni che ogni giorno erano sempre meno, anno
di grazia 1542. Il mondo quell’anno era solcato da straccioni che
navigavano mal legati: il mondo quell’anno traboccava di signorotti che non navigavano né legati né slegati. Ma il mondo era
determinato da quelli che navigavano mal legati; il mondo si è
sempre lasciato determinare da pochi, mi sembra, temo. Insomma: credo. Orellana credeva, ma credeva in altre cose: grazie alla
sua fede proseguì nel suo viaggio impossibile, sfidando la malattia,
le rivolte, gli attacchi. Il viaggio, contro ogni pronostico, fu portato a termine, 5.000 chilometri dopo, alla foce del gran fiume, e
Orellana riuscì a tornare in Spagna e diffondere il suo credo: che
le indigene che lo avevano attaccato dalle rive erano donne amazzoni e che, pertanto, il fiume avrebbe portato il loro nome. Se non
fosse stato così ingenuo, così presuntuoso – o così istruito: se non
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avesse conosciuto e creduto e ripreso il mito delle amazzoni –, il
gran fiume si sarebbe chiamato Orellana o, perlomeno, chissà,
San Francisco. Tuttavia l’uomo credeva, aveva sospeso l’incredulità: per questo riuscì a portare a termine il suo viaggio, per questo
riuscì a sbagliarsi così tanto.
La fede ha numerosi vantaggi, diversi svantaggi, ed è fatta di vie
tortuose. Il fatto che questa barca si chiami Deus È Fiel, solo a
dirlo, mi rende irrequieto: che razza di infedele, di miscredente o di
artista bisogna essere per pensare un dio che potrebbe non esserlo?
Credere, a me, costa più di qualsiasi altra cosa. Per questo motivo,
suppongo, non ho mai creduto nell’ecologia e adesso il castigo del
gran dio verdastro – alleato con il Fondo delle Nazioni Unite per
la Popolazione – consiste nel mandarmi in giro per il mondo a
scovare storie di giovani colpiti dalla più grande ipotetica minaccia contro l’ecosistema: il cambiamento climatico o, in caso, il suo
manifestarsi più spaventoso, il riscaldamento globale. È il tema
del Rapporto sullo stato della Popolazione Mondiale di quest’anno perché è il tema dell’anno (2009, ndT) – che finirà con una
grande conferenza a Copenaghen per negoziare accordi comuni.
A questo punto lo sappiamo tutti: la principale preoccupazione a
lungo termine di molti uomini, istituzioni, governi risiede in quel
cambiamento. Tuttavia il cambiamento climatico è, come tante
altre cose di cui ora parleremo, un argomento che non esisteva
venti, trent’anni fa.
Gli argomenti dominanti cambiano – molto più del clima.
Mi piacerebbe sapere quando due persone hanno parlato del
tempo per la prima volta – nel suo significato banale, meteorologico. Non esistevano, sicuramente, gli ascensori, perfetto scenario
per queste chiacchiere nella città moderna.
«Uh, ha visto quanta acqua è venuta giù stamattina.»
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«Sì, e ieri c’era quel sole. È proprio vero che il tempo è impazzito.»
«Completamente impazzito.»
Durante molti secoli il tempo non è stato il tema di uno scambio semicortese volto a nascondere il disagio di chiudersi con uno
sconosciuto in un cubo di latta ascensionale, ma un argomento
decisivo: che domani avrebbe piovuto o non piovuto poteva fare
la differenza tra mangiare e non mangiare, bere e non bere, vivere
o meno. Sarebbe logico pensare che, quando iniziarono a parlare,
gli uomini e le donne più primitivi conversarono del tempo.
«Ugg acquadasu gigigi la.»
«Iiiiij acquadasu nenen panticunelesisi.»
Di fatto, quando iniziarono a inventare divinità, i primitivi, ovunque fossero, furono d’accordo nell’assegnargli il comando della
pioggia, del fulmine, del tuono, del sole, del vento. Era paura
bella e buona: già quei primitivi sapevano – forse erano addirittura in grado di dirlo – che il tempo era impazzito. Ergo: che quella
variabile decisiva per la loro sopravvivenza era incostante e decisamente imprevedibile. Che quelle piogge che ogni anno arrivavano poco dopo la nascita dei primi cuccioli degli orsi potevano,
improvvisamente, non arrivare; che il vento freddo che aspettavano con terrore per chiudersi in fondo alle caverne a volte ritardava
così tanto che temevano si fosse dimenticato; che a tratti il sole si
faceva così cocente che bruciava qualsiasi cosa.
Con il tempo e la storia – e dunque con il ricordo – gli uomini
impararono a definire quelle costanti, a chiamarle stagioni, a volgerle a loro vantaggio tramite coltivazioni, piani di guerra, itinerari, religioni. Ma continuarono a parlare del tempo con timore
perché, sempre di più, sapevano che nulla garantiva che quello
che era sempre successo sarebbe accaduto di nuovo quest’anno o
il venturo. Che il tempo era impazzito, che si permetteva qualsiasi
tipo di licenza – anche se in ultima istanza, nel medio termine,
tornava a essere ciò che era sempre stato.
Poi, poco a poco, gli uomini più intraprendenti trovarono il modo
per disinteressarsi del tempo. Nessuna società riuscì a vivere senza
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consumare le piante che possono crescere solo grazie a determinati
fenomeni metereologici ma, sempre di più, riuscirono a sostituire
l’acqua piovana con i sistemi di irrigazione, il caldo con le serre,
l’ansia con la manipolazione dei semi e dei germogli. E, inoltre,
quelle stesse società diversificarono le loro produzioni per far sì
che il peso delle attività meteodipendenti fosse, per le loro economie, sempre minore. Ora si può dire che quanto più una società è
sviluppata meno dipende dal clima o, al contrario, che quanto più
una società è primitiva, più la sua dipendenza è forte.
E fu in quel tempo e in quei luoghi già autonomizzati che gli
scienziati incominciarono a strombazzare che il clima stava cambiando così tanto che avrebbe distrutto tutto. Ricominciarono a
dire che il tempo era impazzito, ma che la colpa non era sua ma
nostra, tutta nostra, completamente nostra.
Siamo così potenti, ultimamente, animaletti così potenti.
“La nozione che sia possibile che il clima cambi è un’idea moderna. (...) Ai nostri giorni è diventata cosa abituale trovare gente che
crede che alcuni cambiamenti climatici possono accadere nello
spazio di una generazione”, diceva, il 3 febbraio 1889, un articolo
del New York Times. “Il clima sta cambiando? Il succedersi negli
ultimi anni di estati tiepide e inverni morbidi, culminato l’ultimo inverno con una mancanza quasi totale di ghiaccio nella valle
dell’Hudson, adduce prove alla domanda. I più anziani ci dicono
che gli inverni non sono così freddi come quando erano giovani...” insisteva un altro, il 23 giugno dell’anno successivo, ormai
verso la fine del XIX secolo.
La preistoria del cambiamento climatico risale a quegli anni e
alla mente febbrile di uno scienziato svedese, Svante Arrhenius.
Arrhenius fu un bambino prodigio, un teorico brillante e, a 44
anni, nel 1903, terzo Premio Nobel per la Chimica grazie ai suoi
studi sulla dissociazione elettrolitica. Poco dopo fu uno dei padri
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fondatori della Società svedese per l’igiene razziale, precorritrice
di quelle idee eugenetiche che più tardi sarebbero state applicate
dai nazisti. In quegli anni pubblicò un libro che affermava, per
la prima volta, che le emissioni di anidride carbonica – CO2 –
causate dagli uomini bruciando combustibili fossili come il carbone avrebbero prodotto un “effetto serra” che avrebbe riscaldato
la Terra. Arrhenius lo spiegava: le particelle di carbonio disperse
nell’aria avrebbero impedito al calore della terra di abbandonare
l’atmosfera, fino a riscaldarla sempre di più. Arrhenius era ottimista: un pianeta più caldo, diceva, avrebbe consentito raccolti
migliori, più cibo, e una popolazione meglio nutrita. A quei tempi
molti credevano nel progresso, e Arrhenius e i suoi seguaci supposero che quel riscaldamento sarebbe stato un’altra delle sue possibili cause. Non gli diedero retta: la maggior parte degli scienziati
pensavano che, se ci fossero stati cambiamenti, avrebbero tardato
secoli o millenni.
Cosicché, durante le cinque o sei decadi successive, il tema del
cambiamento climatico languì. A volte qualcuno si risvegliava di
soprassalto: un canale dell’Associated Press, per esempio, novembre 1922, diceva, con accenti moderni, che “l’oceano Artico si
sta scaldando, gli iceberg si fondono e, in alcuni luoghi, le foche
trovano l’acqua troppo calda e cominciano a scomparire, secondo
un rapporto del Dipartimento del Commercio – americano – del
nostro console a Bergen, Norvegia. (...) Spedizioni esplorative ci
informano che non hanno quasi trovato ghiaccio in ubicazioni
così boreali come 81 gradi 29 minuti. Grandi ammassi di ghiaccio sono stati rimpiazzati da morene di terra e pietre”, continua il
rapporto, “e in alcuni punti ghiacciai ben conosciuti sono spariti”.
Tuttavia, in generale, l’argomento non ebbe rilievo nel dibattito
scientifico né, tantomeno, arrivò al grande pubblico.
Fino a che, a metà degli anni Sessanta, il boom del movimento
ecologista fece sì che molte più persone iniziassero a pensare – e
cercassero di dimostrare – che noi uomini stavamo danneggiando la natura in svariati modi. Fu sempre più chiaro che la con-
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centrazione di CO2 nell’atmosfera aumentava di anno in anno;
degli scienziati recuperarono l’idea dell’effetto serra e cercarono
di costruire modelli teorici in grado di calcolare le conseguenze
dell’aumento sulle temperature. I modelli erano nella loro infanzia, i computer lenti, e i calcoli davano risultati assai diversi. Al
contempo, si inventarono dei modi per misurare temperature
molto antiche a partire dai resti fossili – per studiare l’evoluzione
del clima in un arco di tempo di milioni di anni.
Ma il tema continuava a essere parecchio discusso. Negli anni
Settanta l’opinione più diffusa tra gli scienziati che si occupavano dell’argomento era che le attività umane avrebbero finito per
raffreddare il pianeta, perché la polvere e le particelle disperse
nell’atmosfera ostacolavano i raggi del sole, e mostravano serie
statistiche che calcolavano un abbassamento delle temperature a
partire dagli anni Quaranta. Ci fu un leggero panico; libri come
La cospirazione del clima: l’arrivo di una nuova Età del Ghiaccio
prevedevano un futuro gelido, sostenuti da studi scientifici prodotti, tra gli altri, dallo stesso Goddard Institute for Space Studies
– della nasa – che in seguito avrebbe capeggiato la lotta contro
il riscaldamento globale. Le loro spiegazioni sembravano perfettamente logiche.
“Ci sono segnali infausti del fatto che gli schemi climatici della
Terra hanno cominciato a cambiare drammaticamente, e che
questi cambiamenti possono portare a un collasso della produzione alimentare – con serie implicazioni politiche per tutte le
nazioni del pianeta. Il crollo della quantità di alimenti può iniziare a breve, forse tra meno di dieci anni”, diceva un articolo – “Un mondo che si raffredda” – pubblicato da Newsweek
il 28 aprile 1975. “Le prove che sostengono queste predizioni
si stanno accumulando, tanto che i meteorologi non riescono
a tenersi aggiornati. (...) Il fatto basilare è che, dopo tre quarti
di secolo di condizioni straordinariamente tiepide, il clima della
Terra sembra si stia raffreddando. I meteorologi non si mettono
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d’accordo sulle cause e sulla portata della tendenza al raffreddamento, e i suoi impatti specifici sulle condizioni climatiche di
ogni luogo. Ma sono quasi unanimi nel sostenere che questa tendenza ridurrà la produttività agricola per il resto del secolo. Se il
cambiamento climatico è così profondo come qualcuno teme, le
carestie risultanti possono essere catastrofiche. ‘Un cambiamento climatico maggiore forzerebbe rimpasti sociali ed economici
globali’, avverte un recente rapporto dell’Accademia Nazionale
delle Scienze, ‘perché gli attuali modelli di produzione di alimenti e popolazione dipendono dal mantenimento del clima attuale.’
(...) I climatologi dubitano che i leader politici considerino qualsiasi azione positiva per compensare il cambiamento climatico,
o addirittura mitigare i suoi effetti. (...) Quanto più tarderanno i pianificatori, tanto più avranno difficoltà ad affrontare il
cambiamento climatico, una volta che i risultati ottenuti saranno
diventati una triste realtà.”
L’estate del 1978, una delle più calde degli ultimi decenni, sciolse gran parte di quel gelo concettuale. In mezzo alla confusione, sempre più scienziati, istituzioni e governi riconobbero che
non ne sapevamo abbastanza sulle diverse origini delle variazioni
climatiche, e decisero di dedicare sforzi e denaro per cercare di
capirle. Nel 1979, uno studio dell’Accademia Nazionale delle
Scienze nordamericana convinse il presidente Carter a convocare
una commissione e chiedere una diagnosi: il team dichiarò che se
la concentrazione dell’anidride carbonica fosse salita ulteriormente non ci sarebbe stata “alcuna ragione per dubitare che si produrranno cambiamenti climatici significativi” – che tuttavia non
potevano precisare con gli elementi a loro disposizione. Sempre
più fattori si aggiungevano alle possibili cause dei cambiamenti:
i cicli astronomici, l’attività del sole, le deviazioni dell’orbita terrestre, i movimenti del sottosuolo, le correnti oceaniche – e altre
ancora: tra le altre, molti comportamenti umani.
I modelli di simulazione meteorologica diventarono sempre più
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complessi, e si scoprirono altri gas, oltre alla CO2, che influivano sul riscaldamento globale. Nel 1988, un’altra estate particolarmente calda nell’emisfero nord attrasse maggior attenzione sul
cambiamento climatico. Quell’anno James Hansen, già allora
direttore del Goddard Institute, dichiarò davanti a una commissione del Senato americano che la Terra era entrata in un periodo
di riscaldamento e che i gas a effetto serra erano “quasi sicuramente” la causa. Alcuni governi incominciarono a riflettere su come
intervenire, la cia stilò dei rapporti in cui si richiedevano più
risorse per indagare la questione considerandone l’“importante
influenza geopolitica”. Dall’altra, le grandi compagnie legate ai
combustibili e al loro uso – petrolifere, del carbone, automotrici,
siderurgiche, elettriche e un gigantesco eccetera – cominciarono a
spendere cifre considerevoli per convincere il pubblico e i funzionari che il problema non esisteva. Quello stesso anno si istituì un
gruppo internazionale di esperti – l’ipcc o panel intergovernativo
sul mutamento climatico – per studiarlo. I rapporti ipcc erano
il risultato di anni di lavoro: la raccolta d’informazioni e la conseguente analisi erano decisamente laboriose, ma più complicato
ancora era mettere d’accordo tutti i membri e produrre dei documenti che i loro governi potessero accettare.
In generale, i documenti vennero rivisti più volte per renderli
politicamente corretti; tuttavia il secondo rapporto di valutazione, 1995, fu il presupposto della riunione del 1997 a Kyoto, dove
la maggior parte delle nazioni del mondo s’impegnava a prendere
misure – tiepide – per ridurre le emissioni di gas serra. Il Protocollo di Kyoto entrò in vigore solo nel 2005, dopo la ratifica anche
da parte della Russia – e mai del tutto: gli Stati Uniti, i principali
emettitori di gas a effetto serra – si sono sempre rifiutati di ratificarlo, sostenendo, tra le altre cose, che il maggior sforzo ricade sui
paesi industrializzati, mentre i paesi in via di sviluppo più potenti,
come la Cina e l’India, vengono esonerati.
Il quarto rapporto di valutazione dell’ipcc, pubblicato nel 2007,
alzò l’allarme a livelli inediti: la temperatura del pianeta, diceva-
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no, era aumentata insieme ai livelli di anidride carbonica e sarebbe cresciuta ulteriormente a meno che non si fossero prese misure
drastiche. Le stime non erano precise: l’ipcc diceva che, per il
2100, la temperatura sarebbe aumentata tra 1,4 e i 6 °C, e che le
conseguenze sarebbero state catastrofiche. Già allora c’erano personalità influenti che facevano campagna al riguardo; quell’anno,
Al Gore e l’ipcc ricevettero il Premio Nobel per la Pace. Da
quel momento l’argomento è diventato di pubblico dominio, e i
governi e l’opinione pubblica mondiale si sono finalmente decisi
a fare qualcosa. Anche se rimane sempre il problema di cosa,
quando, chi, come.
Continuiamo a credere che ci capitino cose che non sono mai
successe. Non sappiamo – non impariamo a – vivere nella storia:
ci ostiniamo a supporre una volta e un’altra volta ancora che tutto
ciò che ci succede, succeda per la prima volta, e in quella novità
risiede il potenziale che ha di spaventarci.
Forse qualche volta è vero.
Sempre può essere vero, qualche volta.
Nel mentre, risoluti in mezzo alla nebbia, confusi, fervidi, ben
disposti anche se non abbiamo ancora capito del tutto di che si
tratta, avanziamo: la legittima lotta contro il cambiamento climatico ha raggiunto quello status di nobile causa che nessuno può
più mettere in discussione – o quasi nessuno. Il cambiamento
climatico, ora, è come il cancro: chi mai dirà di essere a favore?
Chi mai dirà che è un bene che la Terra si deteriori? Ho sempre
diffidato di quelle cause indiscutibili, che non lasciano la possibilità del disaccordo. Sono – sono solite essere – il modo in cui
alcuni settori che hanno potere fanno credere agli altri che i loro
problemi sono anche i loro; sono – sono solite essere – le trappole
più grossolane ed efficienti.
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È una di quelle scene che riescono a far sì che la mia vita mi piaccia ancora. Sono le sette di sera – è da un’ora che il sole è calato
violento dietro all’orizzonte tropicale – e sono in una capanna in
mezzo all’Amazzonia. Mangio un pesciolino pieno di spine con
riso e farofa, discuto sulla quantità di figli che hanno le famiglie locali con una signora che ne ha avuti otto e ne ha adottato
uno – il tutto senza marito – e li ha cresciuti con il suo stipendio da domestica, e con sua figlia, Genice, che sta per partorire
il suo primo figlio a giorni, poco prima di compiere ventinove
anni. Niente, una chiacchiera tranquilla, i grilli e le rane e gli altri
rumori della foresta, la signora che dice che molte donne fanno
figli perché il governo dà loro dei contributi e con quei soldi si
comprano il motore per la canoa o la televisione o l’antenna della
televisione, e la figlia che conferma che li fanno per questo motivo
e anche perché non ne sanno nulla, perché gli uomini scopano e le
donne partoriscono e nessuno fa domande; una chiacchiera, dico,
in uno spazio così lontano dal mio come mai avrei immaginato:
la constatazione che posso, ancora, non essere caparbiamente io,
ed evadere di tanto in tanto.
Passa una formica che trasporta una foglia verdissima, enorme,
molto più grande di lei, e poi un’altra e un’altra ancora e ricordo
che una volta lessi che le società animali più organizzate sono
quella umana e quella delle formiche. Al porto di Manaus ho
visto uomini trasportare zaini stracolmi sulla testa bendata per
sopportarne il carico – o, peggio, sulla schiena sostenuti da una
striscia di cuoio incrociata sulla fronte, piegati dal peso, la testa
buttata in avanti – e cerco di pensare a qualche altro animale che
lo fa e non ne ricordo e mi chiedo se la condizione per costruire
una società di successo, organizzata – gli uomini, le formiche – è
che ci siano individui della specie che siano disposti a fare queste
cose, a portare questi pesi.
Dicono che si fanno ingravidare per riscuotere il sussidio per figlio
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e, con quei soldi, comprarsi uno dei tre oggetti che più desiderano. Sono già passati quasi due secoli da quando il signor Marx
definì i proletari: quelli che non hanno nulla se non la loro prole.
Quale altro capitale se non quello?
L’amore con il quale Genice si accarezza la pancia, e il sorriso
quando dice che è un maschio e che lei voleva dargli un nome e il
suo uomo un altro e alla fine sarà l’altro perché gli uomini l’hanno
sempre vinta, la risata con cui dice che ha paura – anche se subito
dopo racconta, come se fosse la cosa più normale del mondo, che
quando saprà che è il momento prenderà la barca e andrà a partorire a Manaus, in un ospedale che le dia qualche garanzia. Peccato
che la barca passi solo alcune notti e ci metta venti ore ad arrivare
a Manaus, all’ospedale con le garanzie.
La capanna è il centro del “Progetto casa familiare rurale”, che
l’Instituto de Permacultura do Amazonas sta portando avanti
sull’isola di Urubù: un ettaro – un solo ettaro – straripante di
risorse: più di cento varietà di piante produttive – mais, macaxeira, canna da zucchero, riso, cipolla, banano, caffè, ananas, avocado, castagna, frutto della passione, guaiava, açai e altre ancora – il
vivaio per coltivare altre piante, gli allevamenti di galline e quaglie
che producono uova e concime, il sistema per recuperare e filtrare
l’acqua piovana, i pannelli a energia solare, un wc ostruito per
trasformare la merda in concime – e, un po’ più in là, uno stagno
per allevare pesci e, presto, un porcile i cui resti si convertiranno
in gas metano. La permacultura – agricoltura permanente – prova
a far sì che ogni elemento abbia diverse funzioni: il mais di grano
per gli uomini ma anche per le galline che producono uova per
mangiare e sterco da usare come concime e divorano gli insetti
che minacciano alcune piante e così via, costruendo un sistema
integrato e stabile dove tutto viene utilizzato in più modi, tutto
si amalgama e si completa: un banano serve per fornire banane e
medicine agli uomini, le foglie alle anatre, il tronco alle galline,
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ombra alle persone e alle altre piante. E, allo stesso modo, coloro
che praticano la permacultura devono, per principio, trasmettere
i loro saperi a coloro che glielo chiedono.
Qui al Progetto parlerò con qualche lavoratore: la stessa Genice,
Messias, il Pagé, per imbattermi nella mia prima storia. Esattamente qui, in Amazzonia, uno dei campi di battaglia e simbolo
della lotta ecologista.
L’Amazzonia è la più grande riserva verde del pianeta: cinque
milioni e mezzo di chilometri quadrati – suddivisi tra Brasile,
Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela e le Guayane – che
ospitano una parte consistente della biodiversità mondiale. Grazie alla fotosintesi, milioni e milioni di piante riassorbono grandi quantità di CO2 e riducono l’effetto serra, regolano le piogge
continentali e, attraverso l’umidità che rilasciano o trattengono, i
movimenti delle grandi correnti oceaniche.
Tuttavia, negli ultimi quarant’anni la deforestazione per piantare
la soia e allevare il bestiame ha raso al suolo più di un milione di
chilometri di foresta, e prosegue il suo corso accelerato. Diversi
pronostici affermano che quando la “savanizzazione” – la trasformazione della selva in pianura semiarida – dell’Amazzonia arriverà
al 40% non si potrà tornare più indietro. E che, se si mantiene
l’attuale tendenza, mancano poco più di trent’anni per arrivare a
quella percentuale. L’Amazzonia è un caso emblematico, un casus
belli, o meglio, per nulla bello.
Il paese più vicino si chiama Camoens: sembra quasi una barzelletta che un poeta così antico, mediocre, classicista, portoghese,
che scrisse più di cinquecento anni fa un poema epico pomposo
– e pomposo è la parola giusta – si sia trasformato in queste venti
case in mezzo alla foresta, senza alcuna relazione con lui e con la
sua storia. Qualcosa di simile credo si possa definire “cultura”.
Tutto è iniziato come uno scherzo: uh, questo ragazzo parla così
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tanto che dovrebbe diventare presidente; sì, non smette, è un bodó
na lama – un pesce nel fango – dicevano gli anziani. Eppure, di
barzelletta in barzelletta, cominciarono a prenderlo sul serio, e
alcuni mesi dopo, il quinto figlio di Maria e Raimundo, Messias,
dodici anni, basso, robusto, fu eletto presidente della comunità
di Sant’Antonio, nell’isola di Urubú, comune di Boa Vista do
Ramos, stato dell’Amazzonia.
Messias è nato il 5 dicembre 1984 – “O sarà stato nel 1983? non
ricordo, in verità” – in una capanna col pavimento di terra e il tetto
di paglia vicino al fiume; suo padre lavorava per un proprietario
terriero. In un mondo dove la maggioranza sono coloni appena
arrivati, i genitori di Messias erano amazzoni, figli di amazzoni,
caboclos senza terra. Messias crebbe vedendo i suoi fratelli partire: i
soldi non bastavano e, uno a uno, i più grandi dovettero andarsene e arrangiarsi. Lavoravano come marinai sul fiume e mandavano
sempre qualcosa a casa. Messias diventò una specie di figlio unico;
suo padre, analfabeta, lo portava con sé a lavorare la terra e gli
diceva che non doveva dipendere dai padroni o dai commercianti: che per essere libero doveva prodursi da solo il cibo. Cosicché
alcune notti andavano a cacciare cervo, tatù, paca, tapiro – che
allora abbondavano – e gli insegnava tutto sulle piante e gli insetti. O a pescare a linea, con arco e freccia – “sì, come gli indigeni” –
e con la fiocina. Quando Messias iniziò ad andare a scuola sapeva
già molte cose sul fiume, la foresta e i raccolti.
Urubú è una zona sola, isolata, senza accesso dalla terraferma. A
quei tempi non avevano elettricità, e le persone vivevano – tuttora vivono – al ritmo della luce naturale. Messias aveva sei o sette
anni la prima volta che i suoi genitori lo portarono in città – per
farsi visitare da un dottore. Era scioccato: non aveva mai visto una
strada asfaltata, una macchina, case a due piani, lampade, quei
mercati pieni di cose e frutta e verdura.
In quei giorni Messias vide anche per la prima volta quel coso
così strano che i suoi vicini ricchi avevano portato da lontano: un
televisore. Gli abitanti del posto meravigliati si univano di fronte
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all’apparecchio per guardare le partire di calcio, e ognuno metteva
50 centesimi per pagare il gasolio del generatore – anche se quelli
che non avevano soldi potevano guardare dalla finestra. Tuttavia
tutti volevano appiccicare il naso allo schermo.
«Fu una novità assoluta, perché prima c’era solo la radio, uno
poteva solo sentire ma non vedeva niente.»
Il calcio era al centro della sua vita: ogni sabato e domenica tutti
i membri della comunità si riunivano vicino allo stadio per una
partita, un po’ di musica, chiacchiere e giochi. Messias aveva
dodici anni e trascorreva il tempo a parlare con loro: gli diceva che
dovevano prodursi autonomamente gli alimenti per non dipendere dalle città, che potevano coltivare più vicini a casa per non
dover camminare tanto. In Amazzonia si è soliti usare un processo di combustione e disboscamento che esaurisce rapidamente il
suolo – ogni appezzamento può essere lavorato due anni e, dopo,
deve rimanere a maggese per sei o sette anni – e i contadini non
coltivano tutto ciò di cui hanno bisogno.
La comunità gli dava ascolto: alle successive elezioni, Messias
sconfisse una delle sue cugine – sull’isola sono tutti più o meno
imparentati – per 55 a 34, e fu eletto presidente.
«Il presidente è colui che garantisce che all’interno della comunità
tutto funzioni per il meglio e gestisce le relazioni con le autorità. Gestisce anche il patrimonio comune, si preoccupa che tutta
la collettività contribuisca, organizza la festa del santo patrono,
garantisce la pulizia, controlla il lavoro svolto dai maestri, fa da
mediatore tra gli abitanti. Molti preferivano fare le cose per bene
pur di evitare la vergogna di essere rimproverati da un ragazzino...»
All’inizio Messias aveva paura di sbagliare o che non gli dessero
retta; imparò poco a poco e si tranquillizzò. Erano tempi difficili: il padrone di suo padre lo aveva cacciato, dopo quarant’anni
di lavoro, senza alcuna spiegazione. Raimundo lo citò in giudizio ma, nel frattempo, erano al verde: Messias andò a lavorare
in altre tenute, pescava per mangiare, si disperava. In seguito
avrei domandato al Pagé perché hanno bisogno di soldi, perché
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non possono vivere di quello che coltivano. Il Pagé mi guarderà
strabuzzando gli occhi: «No, amico, qui compriamo quasi tutto.
Dobbiamo comprare zucchero, pile per le torce, vestiti, scarpe,
farina, riso, fagioli».
La deforestazione, dicono gli ultimi rapporti, è responsabile del
25% delle emissioni di gas serra: produce, ogni giorno, la stessa
quantità di CO2 di otto milioni di persone che volano in aereo da
Londra a New York. E, per arrestarla, non servono nuove tecnologie, solo la volontà politica e, ovviamente, gli incentivi: risorse che
permettano a coloro che vivono disboscando e bruciando boschi
di trovare altre forme di sostentamento.
Quando Messias aveva diciott’anni la sua amica rimase incinta e
partorì il loro primo figlio, ma lui non volle trasferirsi da lei. Suo
padre aveva ricevuto come indennizzo la terra dove aveva sempre
vissuto, e Messias riuscì a entrare alla scuola agrotecnica dell’isola.
Lì conobbe le persone che frequentavano l’Instituto de Permacultura do Amazonas, con sede a Manaus, che voleva dar vita a un
progetto nella foresta.
«La permacultura è la scienza dell’ovvio: osservare la natura per
imparare da lei come produrre alimenti senza distruggerla. Pensare sistemi produttivi sostenibili, dove tutti gli elementi si relazionano e aiutano tra di loro, perché tutto è connesso: la permacultura non è il suolo, l’albero, la pioggia, il sole, gli animali,
ma la connessione tra tutti questi. Nessun elemento ha una sola
funzione: tutti ne hanno diverse, e bisogna essere in grado di combinarli. L’idea è quella di creare una nuova equazione di ricchezza
in Amazzonia che permetta di preservare la regione: una ricchezza
che non significhi distruzione.»
Questo mi disse, a Manaus, Carlos Miller, che nel 1997 fondò
l’Istituto assieme a Ali Sharif, adottando il metodo sviluppato
dagli australiani Bill Mollison e David Holmgren negli anni Settanta. Miller aveva lavorato in fondazioni ambientaliste che, per
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preservare certe aree, le svuotavano e ci creavano parchi naturali: «Io mi sentivo a disagio: non era possibile che per salvare la
terra bisognasse cacciare di lì le persone che ci vivevano. Quando
m’imbattei nella permacultura pensai subito che poteva essere una
soluzione. L’uomo, quando coltiva, tira fuori tutto quello che c’è
per poi piantare nel vuoto rimasto. La foresta amazzonica fa il
contrario, poiché occupa un terreno molto povero di nutrienti e
ha bisogno di vivere di se stessa, della propria decomposizione,
ossia cresce sui propri resti. Noi la copiamo, usiamo fertilizzanti
naturali e mischiamo diverse piante che si aiutano tra di loro a
crescere senza rovinare l’ambiente».
A scuola, Messias approfondì con entusiasmo la permacultura: gli
sembrò di aver trovato la giusta strada per la sua gente. Quando
chiese di poter lavorare con la sua comunità, Miller gli suggerì di
continuare a studiare per dimostrare loro che il suo interesse era
autentico. Messias si laureò nell’ottobre del 2004 e lo invitarono
a concludere la sua formazione presso l’Istituto di Manaus, che
allora stava preparando – in collaborazione con il comune di Boa
Vista – il Progetto sull’isola di Urubú, diretto da Genice. Nel
2006, Ali e Carlos lo invitarono a unirsi a loro.
Adesso il Progetto funziona in questo ettaro di terra pullulante di
piantagioni e animali e dovrebbe, soprattutto, essere un modello
per mostrare agli abitanti che possono sopravvivere senza troppo
dispendio di energia, di tempo, di risorse naturali.
«Non è facile, perché quella è la nostra cultura: bruciare, coltivare
e pescare. Quando gli dici che si può produrre senza bruciare,
senza rovinare la natura, alcuni ti prendono per matto, altri per
ignorante.»
Questo dice Messias, seduto all’entrata di quella stessa capanna dove ha sempre vissuto. Messias sembra più grande dei suoi
venticinque anni: il viso largo, abbronzato dal sole, il capellino
calato sugli occhi; ha la febbre e sorseggia un tè che una zia anzianissima gli ha portato. Un po’ più in là, rilassate su un’amaca,
sua cognata e una nipote giocano a ridere. Messias dice che le
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comunità della zona sono troppo abituate a ricevere contributi statali. Pochi mesi fa, per esempio, racconta, il Progetto ha
costruito un pollaio pieno di animali in un villaggio non lontano.
Poco dopo gli abitanti hanno venduto le galline e poi ne hanno
chieste altre: «Sono così dipendenti: non riescono a lavorare senza
qualcuno di fianco che li controlli. Senza qualcuno che gli dia
una spinta passano il giorno a fissare il cielo, lasciando scorrere il
tempo, sono privi di iniziativa. Noi cerchiamo di spiegargli che
devono fare le cose da soli, per se stessi, ma la situazione è strana:
io gli dico di non fare delle cose solo perché gli dico di farle. È
complicato. Tuttavia questo è il nostro ruolo qui, mostrargli che
non c’è bisogno di bruciare e radere al suolo il bosco o pescare con
reti che si portano via tutto quello che c’è nell’acqua. E qualcuno
sta iniziando a capirlo, a metterlo in pratica. Sempre più persone
evitano di bruciare il bosco, pescano con più cautela, cominciano
a lavorare orti, frutteti, alveari».
È un classico: i volontari di tutto il mondo dicono sempre che
la cosa più difficile del loro lavoro è convincere le persone che
aiutano a non dipendere dal loro aiuto.
Messias parla a lungo e lentamente, come chi sa che il tempo,
in questa foresta, scorre in modo diverso. Messias, a differenza
di tanti altri, non pensa alla sua vita come a un castigo dal quale
fuggire. In realtà, dice, la città gli sembra orrenda e un po’ indifesa: noi possiamo vivere senza la città, dice, ma la città non può
sopravvivere senza di noi.
«Io ci sto un giorno, due giorni e poi scappo. Non sopporto il
rumore, lo stress; qui sono tranquillo, respiro aria pulita, se ho
fame pesco, non ho porte da chiudere, non ho paura che qualcuno mi assalga. Io vado in città per acquisire maggiori nozioni da
mettere in pratica qua, per la mia gente.»
Mi piace la sua idea di città come un impianto che altri devono
mantenere in funzione, un produttore di saperi che bisogna saper
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rubare nel miglior stile Prometeo. E l’associazione con quelle divinità spodestate – e il suo stile di militanza spodestata, austera – mi
porta a domandargli se è religioso. Messias dice di no, che lui è
cattolico: «No, sono cattolico, ma non vado quasi mai in chiesa
perché non concordo con alcune pratiche cattoliche: adorare divinità di legno, offrire sacrifici ai santi... Se uno vuole conoscere la
verità, dovrebbe leggere la Bibbia e imparare».
Cattolico contrapposto a religioso: ci metto un po’ a capire che
la sua confusione è un omaggio alla potenza degli evangelisti. Nel
suo paese, nella sua testa, essere religioso significa essere evangelista.
Dodici o tredici anni fa sono venuto in Amazzonia – più a nord,
vicino alla città di Marabá e alle miniere d’oro di Serra Pelada – a
visitare un accampamento del Movimento Senza Terra. L’insediamento della Macaxeira non aveva elettricità né acqua né macchine né negozi; erano capanne costruite con tronchi e palme e
una piazza centrale con un’asta di sostegno e la bandiera rossa, il
cadavere di un enorme albero, una pedana con un tettuccio di
palma per le assemblee e tre capanne di legno che erano la chiesa cattolica, quella cristiana avventista e l’Assemblea di Dio. Un
po’ più in là c’era la capanna della scuola Compagno Oziel, una
delle vittime del massacro di contadini per mano dell’esercito. La
scuola era una delle prime cose che erano state organizzate dagli
accampati del mst: diurna per i giovani, notturna per gli adulti.
In quei giorni, i contadini senza terra mi dissero che avevano scelto quell’appezzamento perché “il padrone di quella terra non la
usava, c’erano solo alberi”, che loro l’avevano disboscato per poter
piantare riso e mais. “La questione dell’ecologia”, scrissi allora, “è
complicata. Sembra quasi più facile fare l’ecologista a distanza,
e rammaricarsi della distruzione della foresta amazzonica da San
Francisco o Parigi, piuttosto che resistere alla tentazione di bruciare gli alberi su quel terreno che, una volta disboscato, potrebbe alimentare colui che lo brucia. Soprattutto, quando nessuno
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offre una diversa soluzione alla sua fame: ‘Noi lo bruciamo perché
abbiamo bisogno che quella terra produca: perché abbiamo bisogno di mangiare’ disse Gorette. L’ecologia è un problema globale,
collettivo, e la fame di ciascuno continua a essere un problema
individuale. Tuttavia il disboscamento massiccio sta danneggiando il sistema. Negli ultimi anni, la temperatura media della regione è salita a causa della deforestazione e la diminuzione dello strato di ozono ha provocato in Brasile un aumento dei casi di tumore
alla pelle: dei 24.000 casi annuali, due terzi colpiscono lavoratori
rurali. E questa terra è povera: la deforestano, ci fanno uno o due
raccolti e poi la lasciano al bestiame e vanno a bruciare un altro
appezzamento. (...) In Brasile, il possesso di terreni ha sempre
prodotto conflitti. Secondo un rapporto dell’onu, il Brasile è uno
dei paesi con la maggiore disparità nella distribuzione della ricchezza: l’1% più ricco – 1.500.000 persone – ha la stessa fetta del
prodotto nazionale del 50% più povero – 75 milioni di persone
– e il 5% dei brasiliani è padrone dell’80% della terra. Solo le 75
fazende più grandi basterebbero per sistemare un milione e mezzo
di famiglie di contadini senza terre.
Tra il 1970 e il 1990, 30 milioni di brasiliani si trasferirono dalle
campagne alla città: una delle più grandi migrazioni della storia. Le
campagne si svuotarono con l’arrivo delle macchine e per la loro
incapacità di mantenere i propri abitanti. In Brasile esiste molta
terra improduttiva. E la Costituzione del 1988 dice che la terra
deve svolgere una funzione sociale di produzione e che, pertanto,
ogni fazenda che non compie questa funzione può essere espropriata dal governo nel quadro della Riforma Agraria. Un recente studio
dice che il 44% delle terre brasiliane non produce alcunché”.
Adesso le cifre sono leggermente migliorate, ma il concetto rimane sempre lo stesso.
Forse tutto sta nel ridefinire il significato di produttivo. Quelle terre improduttive stanno producendo ossigeno per il pianeta
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ma, una volta ancora, ciò non dà da mangiare alle persone che ci
vivono. La proposta più diffusa è quella che i paesi ricchi paghino
un canone per l’uso (indiretto) che ne fanno a quelli che salvaguardano le foreste. Il presidente della Guyana, Bharrat Jagdeo,
per esempio, da anni chiede soldi ai paesi ricchi per mantenere
intatta la sua foresta tropicale: afferma che i suoi alberi detengono una quantità di carbonio equivalente alle emissioni annuali
dell’Inghilterra. Tuttavia, poiché non ha ottenuto grandi risultati, nel 2009 è andato a Davos con una relazione che dichiara
che il suo paese potrebbe guadagnare tra i 4 e i 20 miliardi di
dollari sfruttando le sue terre boschive e che, se nessuno li risarcisce, incomincerà a farlo. “Non è una minaccia”, ha detto “né
un avvertimento sulla distruzione delle nostre foreste se il mondo
non ci paga”, ma ci assomiglia parecchio. L’idea potrebbe avere
una sua logica. Anche se, qualora dovesse funzionare, all’inizio
porterebbe soldi allo Stato – che non sempre arrivano ai contadini. La permacultura ha la stessa radice – un’iniezione di soldi
stranieri che aiuta a sopravvivere e lava via colpe – ma la supera:
immagina una soluzione a lungo termine, una di quelle che ora
vengono chiamate sostenibili.
Il problema di questi sforzi per conservare le foreste è che non
risolvono la questione principale. Ciò che ha fatto aumentare le
emissioni di CO2 negli ultimi trent’anni è stata la generazione di
elettricità, che si è triplicata – e che, ovviamente, non ha niente a
che vedere con foreste e savane.
Messias prosegue entusiasta sulla strada della permacultura, pur
consapevole che in molti si oppongono a questo sistema: gli
agricoltori, perché vogliono possedere più terre per il bestiame;
i commercianti, perché se i contadini iniziassero a produrre da
sé il proprio cibo smetterebbero di comprarlo; molti contadini,
perché è difficile smettere di fare ciò che hanno sempre fatto. Per
questi motivi cerca l’aiuto del governo, e prova a spiegare ai suoi
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compaesani che se non preservano la natura perderanno tutto: che
preservare la natura è il loro dovere di amazzoni, perché il degrado
della foresta ha conseguenze per tutti: per loro stessi e per gli altri.
«Adesso si vedono molti paesi africani soggetti a terribili siccità,
dove la gente muore di fame, e allora cerco di spiegargli che eventi
come questi sono riconducibili al fatto che le generazioni passate
non hanno pensato a quelle presenti: si sono dimenticati che i
loro figli, nipoti, bisnipoti avrebbero avuto bisogno della natura,
e hanno commesso le azioni dannose per le foreste, e per questo
ora stanno così. Per far sì che questo non accada a noi, dobbiamo
istruirci e proteggere la nostra natura. Inoltre, il mondo ha bisogno di respirare l’aria pulita che abbiamo qui, perché non siamo
da soli, tutto il mondo ha bisogno dell’Amazzonia.»
«Ma quando qualcuno ha fame e pensa che bruciando otterrà
cibo, non si preoccupa dell’aria degli italiani o dei cinesi.»
«Beh, prima se ne fregavano. Pensavano se io ce l’ho, perché devo
preoccuparmi di chi non ce l’ha. Ora però nella nostra regione
la pensano diversamente, perché sanno che molto del lavoro che
stiamo facendo qui dipende dai soldi degli altri paesi, e allora io
gli dico che se loro ci aiutano, noi dobbiamo aiutarli. Bisogna
smettere di pensare all’io io io, capire che quando si brucia c’è
molto carbonio che si libera nell’aria ed è per questo che il clima
è sempre più impazzito, e che se le cose continuano così chissà
dove andremo a parare.»
Messias vive del suo raccolto, dei suoi 470 favi di api e dello stipendio del Progetto. Nel frattempo ha avuto un altro figlio dalla
stessa donna, “un’amica”. La maggior parte delle donne in questa
regione ha molti figli, perché nessuno spiega come proteggersi.
«È un circolo vizioso. Per nutrire tanti figli si deforesta di più, si
distrugge sempre più natura. Allora la terra smette di produrre
alimenti e quei ragazzi quando crescono sono obbligati ad andare
in città e non se la passano per niente bene. Per salvaguardare la
natura sarebbe molto utile una buona pianificazione familiare.»
Dice, e che le donne non sono poi così responsabili della distru-
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zione della foresta: che gli uomini hanno una visione più... capitalista, dice, che vogliono abbattere per infilarci più allevamenti di
bestiame, più commercio, che sono assai ambiziosi.
«Le donne, invece, sono più tranquille e si accontentano con
poco.»
Tuttavia Messias non ha intenzione di sposarsi perché, dice, gli
uomini sposati trascorrono molto tempo in famiglia, e lui non ha
così tanto tempo.
«Quindi per ora no, forse tra cinque o sei anni; ora ho ancora
molte cose da fare per la mia gente» dice preoccupato. In questi
giorni gli hanno offerto ancora una volta un posto da consigliere
nel Partido del Trabajo del presidente Lula, e non sa cosa fare.
Lui fa politica sociale, dice, non politica partitica, e vorrebbe continuare così perché la politica partitica è piena di denaro sporco,
accordi, pressioni, corruzione... Tuttavia se vuole cambiare realmente le cose forse dovrebbe mettersi in un partito, dice, chi lo sa.
Il centro di permacultura è uno sforzo importante ed è, al contempo, così infimo. I suoi sostenitori mi hanno già spiegato che la
sua funzione principale è dare l’esempio e convincere altri contadini a seguire il modello; io mi chiedo se queste piccole iniziative
individuali, così benintenzionate, abbiano qualche possibilità di
incidere seriamente. Sono solito pensare che per far sì che le cose
cambino, devono cambiare in un ambito più generale, più ampio:
un cambiamento politico. Ma se quel sistema non ha risolto
alcunché, di contro questo non mi sembra sufficiente.
Andiamo in barca a visitare la comunità: l’acqua è altissima, e
Pagé mi dice che sono decenni che non si alzava così tanto. Pagé
ha pochi denti e un sorriso splendido. Di tanto in tanto s’intravede un paesino di sette o otto case, lungo il fiume, una radura
con capanne costruite dai suoi padroni con l’aiuto di parenti e
vicini – che di solito coincidono – e, intorno, ancora foresta. Mi
raccontano delle storie: imparo che qui la natura è una civilizza-
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zione dello spreco. Io credevo nel modello ragionevole del frutteto, dove un albero che dura molti anni produce, ogni stagione, il
suo raccolto. Eppure Pagé mi mostra un’enorme pianta di ananas
che morirà domani, quando la estirperanno per prendersi il suo
unico frutto, e una palma della quale si mangia solo l’interno del
tronco – i cuori di palma, palmitos – e mi racconta che il banano
cresce quattro o cinque metri in un anno per dare la sua porzione
di banane e morire. È un sistema di produzione basato sulla specie, non sull’individuo.
Su quella dissipazione di individui che la specie consente.
E quello che sono soliti chiamare il miracolo della natura: da dove
saranno mai uscite così tante cose, le macchie nere di questa farfalla, le foglie immense di questa palma, le antenne di quella mantide religiosa, il volo zigzagante di quell’uccello rosso? C’è qualcosa
in tutto questo che evoca la religione – anche se non monoteista.
Mi si perdoni, ma non posso immaginare che un solo dio abbia
la pazienza sufficiente per creare questo airone e quell’altro e un
altro ancora. Trentadue varietà di airone. Io – e qualsiasi altro dio
– ci saremmo annoiati al terzo.
A meno che, quel dio, non abbia consapevolezza e dunque debba
insistere, voglia migliorarsi, provi invidia e lo accetti: in effetti,
sarebbe decisivo che provasse invidia.
Solo un dio invidioso potrebbe essere un mio dio.
Invidio, ora: l’orgoglio con il quale Joacir, un caboclo cinquantenne con nove figli e una gran quantità di nipoti, mi offre un
bicchiere del suo guaranà – ma stia attento, perché chi lo beve
torna sempre, mi dice, riprendendo un mito che sopravvive quasi
ovunque – e poi mi mostra il porcile, che ha costruito da poco.
E il rammarico con il quale mi racconta che i suoi maiali non
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crescono più perché non li può lasciare liberi e mangiano solo
quello che lui gli può dare, che non è mai tanto. E perché non
li libera? Perché lei sa com’è la gente, amico: sono invidiosi, se li
lascio andare i vicini poi mi dicono che gli fanno quello e quell’altro, che gli distruggono le piante, tutto perché io sì che ho un bel
porcile, dice. I suoi vicini formano dodici famiglie – e quelli che
non sono cugini sono nipoti.
Parlano cantando, strascicando, piano piano, come per dire che
ciò che dicono non gli importa granché. Un giorno, quando sarò
grande, mi piacerebbe scrivere come parlano.
E, ancora una volta, fugacità, ciò che fugge via. Babaçu, açai,
macaxeira, ananas, legno di rosa sono le mie principali preoccupazioni del momento: riconoscerli, capire a cosa servono, come
si usano, come si coltivano. In pochi giorni, non riconoscerei un
babaçu anche se ci andassi a sbattere sulle foglie con un occhio.
Mi ha sempre impressionato la fugacità delle cose che per un paio
di ore o un paio di giorni ti sembrano decisive. È la caratteristica
del viaggio, il suo fascino: presenza così urgente di ciò che non
conosciamo. E, poi, di quello rimangono solo resti, come il fatto
che io adesso abbia scritto la parola babaçu, tre volte, quattro:
babaçu, e poi mai più.
Sono giorni che non ricevo alcuna notizia dal mondo esterno e
che non mi guardo allo specchio. Il mondo esterno, il mio. La
distanza dal mio aspetto mi conforta: mi risulta facile immaginarmi come un tizio qualunque senza quella testa pelata, quelle
rughe, quei baffi sempre più canuti. Ma la distanza con il resto del
mondo mi sembra lievemente erotica: come se improvvisamente
avessi scagliato lontano la morale in base alla quale devo essere
informato di ciò che accade a coloro che amo, a quelli che non
amo, all’umanità in generale, a me stesso nello sguardo altrui. So
che non durerà – non so se sopporterei che durasse – ma ricor-
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do, anche, che così solevano essere i viaggi prima del cellulare e
internet: quando viaggiavo da ragazzo trascorrevo settimane intere
senza sapere alcunché degli altri e viceversa: adesso, invece, si suppone che dovrei sapere tutto prima che succeda.
È curioso: adesso quell’ignoranza sembra inaccettabile, ma ricordo
che era assai tollerabile. Di fatto, tutti gli uomini fino a trent’anni
fa vivevano – vivevamo – così. Le grandi trasformazioni culturali
sono quelle che fanno sì che gli altri modi – i modi precedenti – di
fare qualcosa vengano percepiti come inverosimili.
In questi giorni parleremo di cambiamento.
Ma la parola che mi risuona continuamente è decadron. Attraverso l’Amazzonia supplicando del decadron: ho un forte dolore ai
denti e so che la soluzione è un cicchetto di decadron, ma qui non
ho alcuna possibilità di procurarmelo. La selvaggeria – la distanza
dalla propria cultura – è un’inquietudine costante di tutto ciò
che non c’è. Poi saprò che ciò che volevo non era il decadron: la
selvaggeria più bruta è l’ignoranza.
La mia ignoranza.
Un’altra volta notte. Su una lancia in riva al fiume, in mezzo
alla foresta e all’ombra, aspetto la barca che mi riporterà indietro.
Il Progetto è due fiumi più in là, in un’ansa troppo piccola per
le grandi barche, cosicché Pagé ha remato fin qui per cercare di
fermarla quando passerà. Notte buia: si suppone che vedranno la
nostra lanterna. Non sappiamo se manca mezz’ora, un’ora, due:
solo che a un certo punto passerà, e magari si fermerà pure. Passa
il tempo, confuso; sulla lancia, in mezzo al nulla, ascolto lo sciabordio dell’acqua, grida urla canti animali: il completo abbandono. Stiamo zitti, fumiamo, cerchiamo di dimenticare. Il mondo è
un cielo senza stelle, lampi in lontananza, le sagome degli alberi
che si muovono nell’ombra. Ancora grida, ancora urla: se io capis-
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si questa lingua così straniera, così sconosciuta, potrei riconoscere,
tra i rumori della selva, il suono di una barca che si avvicina.
Qui la notte è notte:
non c’è luce che la distragga.
Arrivò, si fermò, salii.
Ancora altre ore e ore sulla barca, sull’amaca, sdraiato pancia in
su, senza fare un bel niente: con un po’ di pratica, potrei diventare bravo. E un giorno scriverò una difesa accanita, di pancia,
dell’amaca. Deve essere di pancia: non c’è luogo dove la carne si
senta più a suo agio. E allora scriverò della differenza tra il giacere, disteso, su un letto, e lasciarsi avvolgere da un’amaca. Il letto
è un mobile, un artefatto; l’amaca è un animale domestico, un
organismo che ti fa sentire che capisce ciò di cui il tuo corpo ha
bisogno – prima che tu lo sappia. Quando mi posso stravaccare su
un’amaca mi risulta difficile pensare a un luogo migliore. E qui,
mentre il fiume delle Amazzoni mi scivola accanto, ancor meno.
Ma tutto sta nel cercare di captare i movimenti. Non intendo
capire i movimenti, meno ancora scomporli: intendo proprio captarli, registrarli senza che si disfino. Viaggiare, credo, sia qualcosa
del genere.
Penso al cambiamento. In questi giorni, mentre preparavo il lavoro, ho letto sfilze e sfilze di dichiarazioni tonanti sul pericolo del
cambiamento e del riscaldamento: “Salviamo il nostro pianeta”,
“questa è la madre di tutte le battaglie, perché senza di lei non ce
ne saranno altre”, “è la sfida più grande della storia dell’umanità”.
Io dubito, credo, non credo. Gli evangelisti contro il cambiamento dicono che le minacce concrete più serie per la popolazione
mondiale – oltre ai suoi effetti sulle piante e gli animali – sono,
molto in sintesi:
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• le ondate di calore, che metterebbero in pericolo i raccolti e la
salute delle popolazioni interessate, e aumenterebbero la possibilità di incendi;
• la mancanza d’acqua e le siccità, che ridurrebbero i raccolti e
causerebbero problemi sanitari;
• l’incremento delle piogge e degli uragani, che causerebbero
inondazioni, deterioramento del suolo, distruzione di boschi,
abitazioni e infrastrutture;
• il progressivo deterioramento dei ghiacci polari, che porrebbero
fine a un intero ecosistema e causerebbero a loro volta l’innalzamento del livello degli oceani, che produrrebbe inondazioni,
sprofondamento di zone abitabili, danni al turismo e alla pesca,
salinizzazione dell’acqua potabile.
Che sono alcune delle questioni che devo affrontare nel mio iperviaggio.
Esattamente davanti al porto di Manaus, esattamente davanti a
quel molo dove si ritrovano le barchette di legno a due piani,
dipinte a colori, che trasportano persone e merci lungo il fiume,
esattamente davanti alle urla e alle casse di birra caricate sulle spalle e ai venditori di pesci e alle donne con quattro o cinque figli,
c’è un negozio che si chiama Casa Fin do Mundo e che vende
articoli per la pesca e ferramenta varia. Mi piacciono quei posti
i cui abitanti hanno la sensazione di vivere alla fine del mondo.
Non potrei mai immaginare un posto più al centro del mondo di
questo – migliaia di chilometri di terre, foreste e pantani prima di
arrivare a qualsiasi confine – ma l’idea della fine del mondo non
ha niente a che vedere, è ovvio, con la geografia. Sono anni che
penso a un viaggio che consiste nel percorrere le fini del mondo:
Tombuctù, dove va solo chi si perde; qualche base antartica,
luogo dove non esistono luoghi; Jaisalmer, quella città murata nel
deserto dove finisce l’India; la punta della Siberia che una volta
era connessa all’America grazie allo stretto di Bering; un’isola in
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mezzo al nulla; l’aeroporto di Dubai o di Francoforte; il laboratorio più moderno a cui possa accedere.
Immaginarsi la fine in quelle fini.
Chi lo sa. Quando dicono salviamo il nostro pianeta dicono salviamo il nostro pianeta – uno che possiamo utilizzare. Il pianeta
si salva comunque; il problema siamo noi su di lui, con la nostra
cultura e i nostri costumi. Quello può smettere di funzionare, ma
solo quello: non il pianeta; il nostro modo di vivere su di lui: il
nostro pianeta.
Che non è poco.
L’idea – così diffusa – che l’ecosistema sia un posto pieno di piante e animali, uccellini al vento. L’isolato di casa mia, i suoi edifici
e i suoi fumi, è un ecosistema abbastanza efficiente per la vita
dell’essere umano.
Aspetto un aereo a Manaus. Aspetto sempre un aereo. Manaus
ha, a oggi, quasi due milioni di abitanti. Cinquant’anni fa – non
cento, non duecento; cinquant’anni, quanti ne ho già vissuti –
Manaus ne aveva un quarto di milione: otto volte meno. Questa
è pura potenza. È la stessa potenza che ha riempito – devastandolo
– il Rio delle Amazzoni. Senza quella potenza, la foresta continuerebbe a essere poderosa; senza di essa, il Brasile non sarebbe una
delle prossime grandi nazioni – ed è probabile che ci siano forme
migliori, tuttavia. Ogni volta che sento le lamentele riguardo la
deforestazione in Brasile, Indonesia o Congo ricordo il mio slogan
ecololò: “Recuperiamo il bosco nativo di Manhattan”.
I paesi ricchi hanno già fatto la loro conquista della natura, il
loro sviluppo sporco. E il mondo è messo com’è a causa loro,
ma ora si dedicano a dettare norme ai paesi più poveri su come
salvaguardare quella natura che loro stessi han distrutto: come
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continuare a essere poveri ma verdi. Dico: è una barzelletta che
i grandi paladini dell’ecologia siano le società che cambiarono i
loro ecosistemi tre, cinque, due secoli fa per adattarli ai loro bisogni e appetiti – e che ricavarono da questo cambiamento copiosi
benefici. Adesso vogliono che gli altri, i poveri, rispettino quello
che loro non hanno rispettato, sotto l’egida dello slogan “salvare il
pianeta”. Questa è, adesso, una delle chiavi del dibattito.
A Manaus ci sono più librerie bibliche che librerie, voglio dire:
ci sono più posti dove si vende un solo libro che posti dove se ne
vendono mille. Dev’essere difficile essere un pioniere, installarsi
al centro del centro o alla fine del mondo, litigare con la selva,
creare una potenza. Forse non è possibile farlo senza qualche tipo
di credenza forte. I brasiliani, comunque, sembra non possano o
non vogliano.
Penso proprio che non vengo mai in Brasile perché detesto quell’atteggiamento – che assumo una volta arrivato – e che consiste nel
domandarmi perché loro ci sono riusciti e noi no. Il Brasile è la
messa in scena e il termometro fedele del fallimento argentino. Lo
detesto anche, il Brasile. L’ho detestato fin da piccolo, da quando
imparai – educazione di giovane argentino – che noi eravamo seri
tristi decisi, dediti alle cose importanti, e loro invece si consacravano a sciocchezze come la musica la festa il corpo essere felici.
Grazie a questo – vedere, a diciott’anni, gli sforzi degli adoni di
Copacabana per migliorare la loro condizione adonica mentre io,
giovane serioso, fuggivo dal mio paese in fiamme – sono riuscito
a detestarli per un bel po’. Ma le cose peggiorarono ulteriormente
quando scoprii che, in mezzo alla musica la festa il corpo la felicità, loro stavano costruendo il paese che noi non avremmo mai
fatto – che minacciammo di fare non riuscendoci mai.
Quando ero un ragazzino il Brasile era un paese enorme, assai
folcloristico e abbastanza inutile dove, per esempio, gli studenti
di medicina usavano i libri argentini perché loro non li avevano.
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