Opening - European Press Academic Publishing (EPAP)
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Opening - European Press Academic Publishing (EPAP)
Alison Castelli Testa di Ca...volfiore Traduzione dall’Inglese di Elisabetta Roveri EUROPEAN PRESS ACADEMIC PUBLISHING collana narrativa Mariposa Prologo NEW YORK CITY Il walkman mi fa sentire libera. Quando trotterello per Broadway ascoltando Small Blue Thing di Suzanne Vega, mi sento protetta dagli uomini che mi insultano o che mi chiedono di uscire. Non posso sentirli. Non riesco a capire cosa cavolo stanno dicendo. Chiunque sia stato ad inventarsi il detto: «Pietre e bastoni possono rompermi le ossa, ma gli insulti non riescono a ferirmi», non si trattava sicuramente di una donna, perché nel mio caso gli insulti mi rendono impotente. La scorsa domenica, mentre stavo giocando a rugby a Central Park, un punk mi ha chiamata «testa di cavolore». Ma veramente i miei capelli ricci naturali, così raccolti all’indietro, in quella fase in cui non sono né lunghi né corti, fanno assomigliare la mia testa a un cavolore? Dopo questo insulto non sono più riuscita a combinare nulla e mi sono talmente distratta che Betsy è riuscita a rubarmi la palla dalle mani. E, per di più, mi ha dato un morso all’avambraccio. Forse, quest’anno sono particolarmente sensibile. I democratici diventano repubblicani, la terra si sta surriscaldando, e le scarpe da ginnastica mi fanno un male tremendo ai piedi. Spengo il walkman e mi dirigo al settimo piano del palazzo della musica. Margaret, l’annoiata amministratrice, sommersa di lavoro, indossa una camicia nera come ogni giorno; mi guarda con aria minacciosa e io, per tutta risposta, faccio cenno 6 a un sottomesso studente del primo anno. Nella cassetta delle lettere trovo il quarto capitolo della mia tesi, segnata dall’inchiostro rosso del Professor Vincent «Vivace» Sheppard - il secondo nome è il risultato di anni e anni di seminari comatosi - niente di particolarmente positivo da dire sul mio lavoro, tranne le solite note su virgole e sviste di ordine tipograco? E le mie idee, non erano originali, non sono stata brillante? Non può dirmelo? Sento arrivare il panico come una valanga, ad assicurarmi che nell’ambiente accademico, con la fretta, non arriverò da nessuna parte. Sono un disastro - come suona familiare. Cos’altro devo pensare? I miei amori, i miei genitori, mio fratello e anche la mia affamata voce artistica interiore lo dicono. Resisti! Questa volta sarà diverso. Correggerò gli errori e andrò avanti. Raccolto ciò che resta del mio ego, accendo di nuovo Suzanne Vega e, era, attraverso l’ufcio della facoltà; splende ancora alto il sole e fa indurire le gomme appiccicate sui marciapiedi. Andrà tutto per il meglio… Non sarei riuscita a fare questo un anno fa. Lasciate che vi racconti. Ero follemente innamorata. Si chiamava Robin, età 32 anni, architetto presso la grande banca di Wall Street. Una tipa completamente ed emotivamente incasinata, ma non certo quanto lo fossi io, che uscivo con una così. Aveva un danzato di Pittsburgh da 6 anni, genitori diabolici, autostima zero e grande ego: una combinazione davvero letale. Non era mai «stata a letto con una donna» prima (oh mio Dio!) ma aveva tradito più volte il danzato con colleghi assillanti. Era incredibilmente sexy: occhi verdi e capelli castani ondulati, taglio alla moda, lunghe gambe sinuose, seno morbido abbondante, ma con un problema «relazionale». Perfetto. 7 La incontrai per la prima volta in un campo di rugby a Long Island. Quell’estate giocavamo entrambe per lo stesso allenatore irlandese. La osservai mentre si tirava i muscoli: facendo scivolare dolcemente la mano sui polpacci, allungò il collo magnico verso le dita dei piedi e in quell’istante dall’orlo della canotta le sporse il seno. Quel giorno d’estate a Bethpage faceva un gran caldo e l’aria era umida; Tim mi aveva appena urlato di piantarla di far cadere la palla e di fare un bel placcaggio almeno una volta nella vita. Così mi presi gli insulti e tentai uno scatto verso la donna che portava la palla, ma d’improvviso sentii cedere il ginocchio destro. Il dolore esplose nei legamenti. Robin si avvicinò per vedere se fosse tutto a posto. Allora, nel mio solito tono mascolino risposi: «Nessun problema», ma in cuor mio sperai che non mi avrebbe mai più lasciata. La pioggia raccolta sopra la fronte, all’improvviso grondò sul volto. Per quel giorno, avevo già dato. Le ferite da sport esercitano un certo fascino dolce e amaro sulle lesbiche: sei lì a contorcerti dal dolore, e vieni circondata da donne che chiedono se hai bisogno di qualcosa e ti abbracciano strette strette. Senza sofferenza, non c’è guadagno. Perdemmo, e Tim ci denì un branco di pigre americane capaci solo di mangiare pop-corn. Poi propose di farci una birra al rustico bar di Bethpage lungo la strada, dove grosse auto americane punteggiavano il parcheggio. C’erano solo uomini barbuti, col volto rosso. «Per favore Robin, mi prenderesti una Coors alla spina?» le chiesi con la gamba appoggiata alla sedia. Allora lei attraversò la stanza, si sedette al bancone e si mise a chiacchierare con un tizio robusto e peloso. Una lesbica degna di questo nome non si volterebbe mai a guardare dei tizi al bar, neanche per scherzo. È più probabile che siano proprio uomini ubriachi a chiamarti lesbica. Merda! Allora è etero! 8 Il mio ginocchio pulsava, Tim ci mise sopra del ghiaccio. Tim era di Dublino, era venuto negli Stati Uniti perché, secondo suo padre, non era abbastanza bravo per giocare nella Nazionale irlandese di rugby. Così per un anno allenò in una scuola media del posto, poi se ne andò per inserirsi nel settore della telefonia mobile. Non abbiamo mai saputo in realtà cosa facesse per vivere, tranne che guidava una Lexus per le strade di New York e andava a letto con Wynette, il capitano della squadra. Tim era alto, aveva bellissimi occhi verdi che evidenziava con un po’ di eyeliner nero, ne sono quasi certa. Lui mi piaceva, ricordava mia madre, un’italiana. Era uno che urlava spesso, ci diceva che «giocavamo come un branco di vecchiette», e se si faceva tardi, ci accompagnava a casa perché non corressimo il pericolo di venire aggredite, o peggio. Questa sorta di confusa giustapposizione di sentimenti positivi e negativi forma la base della mia nevrosi. Poi capirete. Robin mi allungò la birra ghiacciata e si sedette. Come quelle attrici nelle compagnie d’opera cinese, il suo corpo si muoveva in cerchi più che in angoli acuti, le sue mani palpavano l’aria e le labbra sottili si separavano dolcemente quando parlava. All’improvviso la sua gamba nuda sorò la mia, e mi eccitai all’istante. Il mio metabolismo subì una violenta e profonda trasformazione: passò da «regolare» a «iperinnamoramento incontrollato», ma nessuno se ne accorse. Fuori incombeva un cielo grigio che, d’improvviso, preannunciava gioia, non più dolore. Tim non era più uno stronzo, diventò un’anima smarrita. La mia famiglia non era più un ostacolo a una vita sana e felice, ma fonte di compassione e speranza. L’amore cambiò tutto, o meglio, alterò la combinazione delle sostanze chimiche. Tornai bruscamente sulla Terra. Tim pagò il conto e la squa- 9 dra si separò per dirigersi verso le rispettive destinazioni nell’area di New York. Dato che abitavo nei pressi della Columbia University, accompagnai chi abitava nel West Side. Debbie abitava sulla 85ma East e accompagnò Robin. Non avevo dubbi.