La Mafia al nord divenne affare nostro,Bravi figli e bravi gentori

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La Mafia al nord divenne affare nostro,Bravi figli e bravi gentori
La Mafia al
affare nostro
nord
divenne
LA RIFLESSIONE
- Le mafie investono enormi proventi di attività illecita e
influenzano lo sviluppo minando i diritti civili e mettendo in
pericolo la democrazia ad ogni latitudine. Per comprendere gli
affari di una delle più potenti “multinazionali” al mondo, in
grado di condizionare non più solo i territori tradizionali
che ne sono la culla, ma l’economia a livello europeo, nasce
Est, un progetto europeo firmato dall’Associazione Ilaria
Alpi,
da
FLARE
Network
(braccio
europeo
di
Libera,
l’associazione contro le mafie di Don Luigi Ciotti) e da Crji
(Romanian Centre for investigative Journalism).
Grazie allo strumento dell’inchiesta televisiva e alle denunce
dei cittadini europei, Est propone un itinerario informativo
tra l’Italia e la Romania, portando poi i quesiti a Bruxelles
per far crescere la consapevolezza dei rischi a livello
europeo.
Il progetto Est segue tre filoni principali: il riciclaggio
nel settore chiave dell’edilizia, il rischio di infiltrazioni
nel fiorente mercato dell’eolico oltre ad una riflessione
allargata sugli strumenti giuridici di contrasto specifici
della realtà italiana ed estendibili a livello europeo. Nove
video inchieste dunque tra Italia Romania e Bruxelles che
saranno visibili su internet (www.estprocjet.eu), in tv su
RaiNews.
Inchieste giornalistiche che saranno il punto di partenza
della due giorni di workshop che si terrà a Riccione durante
le giornate del Premio Ilaria Alpi il 16 e il 17 giugno 2011.
Ad aprire la serie di documentari è “Anticorpi”, un inchiesta
a tutto campo sulle infiltrazioni mafiose al nord. “Non ci
sono luoghi al riparo dalle infiltrazioni mafiose. Pensare il
contrario induce inevitabilmente a “tragici risvegli”.
Come avvenuto in Emilia Romagna, la ricca regione del nord
Italia convinta per la sua storia di avere gli anticorpi per
opporsi al radicamento delle mafie. La culla della Resistenza
italiana è costretta ora a fare i conti con gli effetti della
presenza criminale, come avvenuto nella provincia di Reggio
Emilia. Secondo un imprenditore edile il boom dell’edilizia
che ha interessato negli anni duemila il territorio è stato
alimentato per il 50% da denaro illecito. Una denuncia
clamorosa smentita in modo netto e sdegnato dalle autorità.
Eppure gli elementi per non considerarla sono troppi ed
emergono sempre più ora che la crisi sta colpendo duramente il
settore. Ma sul riciclaggio non ci sono dati, le banche non
hanno lanciato allarmi, le forze dell’ordine nemmeno. Nel
silenzio generale sulle illegalità commesse dai palazzinari,
diecimila metri cubi di cemento hanno eroso a tempo di record
la campagna e spopolato i centri storici”.
Bravi figli e bravi gentori
LA TEOLOGIA DEL RAGIONIERE
di Gianfranco Vanzini
Come sempre accade, lo abbiamo già constatato e continueremo a
constatarlo, seguire i suoi Comandamenti e le sue indicazioni
è il modo più sicuro per vivere bene… qui… oggi.
Entriamo allora nel vivo del tema. Le due affermazioni appena
citate rappresentano la nascita della famiglia. Creando l’uomo
e la donna, Dio ha istituito la famiglia umana e l’ha dotata
della sua costituzione originaria e fondamentale: un uomo e
una donna.
A mio avviso, dopo la libertà, di cui abbiamo parlato la volta
scorsa, la seconda cosa bella che Dio ci ha donato è
senz’altro la famiglia…
Nasciamo infatti piccoli e indifesi, incapaci di provvedere al
nostro sostentamento, ma nasciamo in una famiglia, nasciamo
cioè da due genitori: un padre e una madre.
Due genitori che per il fatto di averci fatto nascere
attraverso un atto d’amore sono pronti ad accogliere e
custodire il frutto del loro amore: i figli. Padre, madre e
figlio/i sono pertanto: la famiglia. Quella famiglia nella
quale i genitori hanno il dovere di allevare i propri figli,
provvedendo alle loro esigenze materiali e spirituali ed
educandoli ad un corretto uso della ragione e della libertà
uniti ad un profondo rispetto per tutte le persone…
“ I genitori sono i primi responsabili dell’educazione dei
loro figli” (Catechismo della Chiesa Cattolica – par. 2223 –
). Hanno pertanto la responsabilità di creare una famiglia in
cui la tenerezza, il rispetto, la fedeltà, il servizio
disinteressato siano la norma.
Il focolare domestico, infatti, costituisce l’ambito naturale
più idoneo per una iniziazione al senso di responsabilità e
alla solidarietà, sotto la guida attenta dei due genitori che
avranno cura di insegnare ai figli di guardarsi dai
compromessi pericolosi, dalle infedeltà e dalle ipocrisie, dai
cattivi maestri e dagli sbandamenti umani, particolarmente
presenti in questi tempi.
Quando questi insegnamenti passano attraverso l’esempio e la
testimonianza vissuta da parte dei genitori hanno sicuramente
un valore ed una efficacia molto alti. Se i genitori hanno
doveri e responsabilità, altrettanti doveri e responsabilità
sono anche in capo ai figli.
Il quarto comandamento, infatti, si rivolge espressamente ai
figli dicendo “Onora il padre e la madre”. Ho pensato diverse
volte al perché Dio si rivolge ai figli anziché ai genitori.
La risposta che mi sono data è la seguente: perché tutti
nasciamo figli, poi cresciamo.
E allora dobbiamo, da subito, imparare ad essere figli
onorando e rispettando i genitori..
Il rispetto per i genitori è, prima di tutto, un atto di
riconoscenza verso coloro che, con il dono della vita, il loro
amore e il loro lavoro, hanno messo al mondo i loro figli e
hanno loro permesso di crescere in età, in sapienza e in
grazia. E si manifesta attraverso la docilità e l’obbedienza
ai loro insegnamenti e l’aiuto in caso di necessità.
“ Il figlio saggio ama la disciplina, lo spavaldo non ascolta
il rimprovero” (Prv.13,1) Imparando ad essere bravi figli,
automaticamente, impareremo ad essere, a nostra volta, bravi
genitori. E così la storia dell’umanità va avanti.
In questo quadro di diritti e di doveri, di servizi ricevuti e
resi, di valori appresi e trasmessi di responsabilità verso
Dio e verso il prossimo, ogni cosa è al suo posto e tutto
acquista un significato armonico e soddisfacente. Cioè si vive
bene …qui….oggi.
Perché tutto questo oggi avviene così raramente? Perché si
sono perse le coordinate di fondo, si è smarrito il fondamento
di tutto: Dio. Oggi, troppo spesso, non si parla di atto
d’amore, ma solo di atto sessuale, oggi si dice: – Faccio
sesso -, come si direbbe: – Vado al cinema -, ma non sono la
stessa cosa.
La preoccupazione di molti genitori non è quella di insegnare
il giusto uso, nei modi e nei tempi, della sessualità; ma è
unicamente quella di raccomandare l’uso del preservativo.
Come se ad un figlio che chiede di mangiare una mela acerba
anziché dire: – Aspetta che maturi – gli dicessimo: – Mangiala
pure, ma avvolgila in un sacchetto di plastica -. Vi sembra
una cosa intelligente? A me poco!
E ancora, a 20 anni, più o meno, si dice che i giovani devono
essere fuori di casa. E perché? Chi lo ha detto? E con quale
criterio? Se un ragazzo o una ragazza, che ancora non hanno
finito gli studi, vanno a vivere da soli, chi li mantiene?
Come fanno a pagarsi l’affitto, il vitto, il vestire ecc.? I
loro genitori?
E allora dove sono il senso di responsabilità, la maturità e
l’indipendenza dei giovani?
Non sarebbe meglio stare in casa con i propri genitori,
volendosi bene, collaborando ed evitando spese (o sprechi)
inutili?
Staremmo tutti meglio, per dirla in latino: hic et nunc, cioè
qui …adesso.
(Continua)
Segio e la sua colpa
LA RIFLESSIONE
di Astorre (Pepe) Mancini
- L’ultimo numero della rivista di sociologia Communitas –
ormai una delle più prestigiose in Italia – ospita uno studio
scientifico veramente pregevole di Sergio Segio, sugli effetti
sociali della crisi economica.
Offre spunti interessanti anche per un amministratore locale,
evidenziando che la crisi ha consolidato come prassi due
principi fino ad oggi sviluppati solo dalla teoria economica :
il principio del “troppo grandi per essere lasciati fallire”
(con riferimento alle banche ed alle multinazionali) ed il
principio del “troppo piccoli per essere aiutati” (con
riferimento alla piccola impresa). Se pensiamo alle macro e
micro politiche economiche della nostra Italia tutto ciò è
vero, considerato che dal 2008 non ci sono stati provvedimenti
significativi per la salvaguardia della piccola impresa,
esclusa anche dagli ammortizzatori sociali; nel frattempo
grandi imprese come Alitalia (e prima Parmalat, ecc…) sono
state salvate grazie a leggi e provvedimenti eccezionali.
L’analisi offre lo spunto per ribadire che gli amministratori
locali, Comuni, Province, Regioni, hanno una responsabilità
enorme nel mettere in campo iniziative per sostenere la
piccola impresa, in mancanza di politiche governative che non
possiamo attendere per l’impossibilità di incidere in modo
significativo in questo segmento di imprese, che rappresentano
il 98 % delle imprese italiane. Altrimenti, ci si deve
arrendere all’eterno gioco della privatizzazione dei profitti
e della socializzazione delle perdite. Il contributo analizza
poi gli effetti sociali di queste politiche sulla capacità di
impresa dei piccoli e medi imprenditori, soprattutto giovani.
Conclude con una interessante analisi sulla “bulimia delle
merci e l’anoressia dei diritti”, osservando come in tempo di
crisi vengono incentivati i consumi nello stesso momento in
cui si comprimono, per mantenere i livelli di competitività
(Marchionne docet), i diritti.
Mi ha fatto un certo effetto la profondità dell’analisi di
Segio, per certi versi non nuova ed originale, ma certamente
meritevole di riflessione.
E’ il Sergio Segio ex terrorista di Prima Linea che ha ucciso
più volte, sparando anche in testa a quel grande servitore
dello Stato che è stato il Giudice Emilio Alessandrini, il cui
figlio, oggi avvocato, gira le scuole per ricordarne la grande
testimonianza.
Segio ha scontato 23 anni di carcere, è uscito nel 2004, e in
questi vent’anni si è distinto per innumerevoli iniziative
sociali (ricordo che fondò il Gruppo Abele assieme a don
Ciotti).
Oggi indubbiamente è un’altra persona.
Bcc Gradara, centenario nel
sostegno della comunità
BCCG – CULTURA
“Quando fai progetti per un anno, semina grano; se fai
progetti per un decennio, pianta alberi; se fai progetti per
la vita, educa i giovani”. E’ lo spirito con cui opera e
agisce la banca.
Nel 2010 restituiti al territorio 781mila euro
- “Quando fai progetti per un anno, semina grano; se fai
progetti per un decennio, pianta alberi; se fai progetti per
la vita, educa i giovani”. E’ lo spirito con cui opera e
agisce la banca di Credito Cooperativo di Gradara che
quest’anno affronta il centeraio della fondazione con una
serie di eventi nel segno della sobrietà. Tre le grandi
direttive: il sociale, la cultura, il sostegno alle famiglie e
alle imprese.
“Il Consiglio di Amministrazione della Bcc di Gradara –
rimarca il presidente Fausto Caldari – ha deciso di ricordare
i cento anni con una serie di iniziative sociali e culturali
differenziate, ma particolarmente significative. Ha rinunciato
a grandi manifestazioni, a mega concerti, a costosissime
rappresentazioni di piazza. Ha scelto di festeggiare in modo
sobrio, discreto, come la situazione economica e le tensioni
sociali richiedono.
Ha deciso di intensificare l’abituale attività extrabancaria,
focalizzando la sua attenzione su alcuni eventi che tendono
alla identità dei luoghi, alla loro valorizzazione, alla
crescita culturale del territorio”.
“Ha scelto – continua il presidente – di ricordare il
Centenario con una importantissimo investimento in campo
sanitario per la prevenzione e cura della salute. Dopo la Tac,
il mammografo, l’ecocardiografo, l’ecotomografo; la Bcc di
Gradara sta lavorando per l’acquisto di una ‘Risonanza
Magnetica’ del valore di circa 700 mila Euro, da donare
all’Ospedale di Cattolica. E’ senza dubbio un grosso
investimento per una banca come la nostra, ma siamo più che
mai consapevoli che la nostra salute, non ha prezzo”.
“Stiamo vivendo una situazione di precarietà – riflette il
presidente – il cui superamento, richiederà impegno, rispetto
delle regole, capacità di sacrificio, ma anche collaborazione,
equilibrio, senso civico, volontà di riscoprire i valori della
mutualità, della solidarietà, della cooperazione. La Bcc di
Gradara vuole dimostrare ancora una volta, il suo interesse
per il territorio. Vuole sostenere in concreto la propria
comunità. Vuole dimostrare che essere banca locale, significa
lavorare per la propria gente, investire per la sua crescita e
per il suo benessere. Rappresentano ancor oggi, una delle
migliori soluzioni per una società basata sulla giustizia,
sull’equità, e sulla solidarietà”.
Per le attività sociali, culturali, tempo libero, prevenzione
e cura della salute, ed opere benefiche, nel 2010 sono stati
restituiti al territorio 781.544 euro.
“Il Centenario – chiude il presidente Fasuto Caldari – non
deve essere quindi, solo un’occasione di festa; ma deve
rappresentare un’opportunità per consolidare il nostro
rapporto con i soci, i clienti, l’intera collettività,
proiettando la banca nel futuro, senza mai dimenticare la
centralità della persona, i suoi valori, i suoi ideali”.
La messa del centenario: 27 marzo 2011 a
Gradara
- L’arcivescovo di Pesaro monsignor Piero Coccia celebra la
messa del centenario della nascita della Banca di Credito
Cooperativo di Gradara. La celebrazione si tiene nella chiesa
di San Giuseppe domenica 27 marzo alle 10 a Gradara. La
cerimonia naturalmente è aperta a tutti. L’istituto di credito
fu fondata il 25 marzo del 1911. Ad avere l’idea della banca
fu l’allora parroco di Gradara, don Raffaele Ceccarelli. Un
illuminato, che nel solco del cattolicesimo sociale intendeva
combattere l’usura e aiutare i più deboli. Nel bel libro sui
70 anni della banca, il compianto autore Delio Bischi intitolò
quel capitolo “Congiurati in canonica”. Ecco quell’inizio:
“Cerca di non dare nell’occhio… avvicina Bagaren, el Ross,
Mingaron e Badil e dì loro di passare parola agli altri… di
venire… ma alla spicciolata… questa sera alla Benedizione, nel
Coro, dietro l’altare. Terminata la Funzione attardatevi, e
quando la gente si è alzata e vi ha voltato le spalle per
uscire, voi tutti, sempre con calma e indifferenza, attraverso
la porticina del Coro, salite in cucina dove non tarderò a
raggiungervi per mettervi al corrente delle ultime decisive
novità; quello che mi raccomando è di non dare nell’occhio:
una indiscrezione, un passo falso, potrebbero mandare all’aria
i nostri piani…”. Nacque la Cassa Rurale di Gradara..
BCCG – SALUTE E TERRITORIO
Bcc di Gradara, ecotomografo per il Ceccarini di Riccione
- “Ancora un gesto di grande generosità da parte della Banca
di Credito Cooperativo di Gradara nei confronti della nostra
sanità”, ha affermato Romeo Giannei, direttore del presidio
medico dell’ospedale Ceccarini di Rimini.
La Banca di credito Cooperativo di Gradara ha donato un
ecotomografo digitale all’Unità Operativa di Pronto Soccorso –
Medicina d’Urgenza, guidata dalla dottoressa Marina Gambetti.
Consente di effettuare diagnosi più precise e tempestive, in
particolare per quanto riguarda le lesioni interne (versamenti
di liquidi soprattutto dell’addome, litiasi colecistica e
renale, patologia dell’apparato genitale femminile e maschile,
e in generale ogni forma di patologia dolorosa dell’addome)
“Stiamo lavorando – ha detto nell’occasione Fausto Caldari, il
presidente della Bcc – alla donazione di un altro importante
apparecchio diagnostico. Noi siamo una banca piccola ma siamo
la banca della gente. E, specie in momenti come questi in cui
‘la coperta è corta’, siamo felici di aiutare la comunità”.
BCCG – SOCIALE
Bcc sociale, un pulmino per Gradara
- Nel solco della mutualità. La Banca di Credito Cooperativo
di Gradara ha donato al Comune di Gradara un pulmino
attrezzato per il trasporto di anziani e disabili, del valore
di 30.000 euro. La cerimonia della consegna si è tenuta lo
scorso 26 febbraio alle 10,30 a Gradara. “Aiutare i meno
fortunati – ha detto Fausto Caldari, il presidente della Bcc
di Gradara – è un dovere. Significa fare semplicemente la cosa
giusta, seguendo le ragioni della solidarietà. E senza troppi
fronzoli nel ragionamento. Mi piacerebbe parafrasare un valore
universale: fare agli altri, ciò che vuoi che gli altri
facciano a te. Inoltre, il dono va riscoperto come senso della
comunità e coesione sociale, come avveniva in passato. Siamo
orgogliosi di aiutare chi ha bisogno, specialmente nell’anno
del centenario e specialmente qui a Gradara”.
Amarcord Gabicce di Dorigo
Vanzolini
Porto Vallugola, sala gremita
“zittisce” il sindaco Curti
- Zittito in malo modo il sindaco Corrado Curti nella serata
pubblica che si è tenuta lo scorso 14 febbraio al cinema
teatro Astra che aveva al centro della discussione
l’ampliamento del porto di Vallugola. Da una parte il Comitato
“Vallugola terra nostra” che si batte contro il no; dall’altra
la proprietà che ha chiesto il poderoso intervento. In mezzo
il sindaco che ancora sta in mezzo al guado. Sta aspettando,
insomma. Sono giunti anche da Riccione a sostegno delle tesi
del Comitato.
Scrive il Comitato “Vallugola terra nostra”: Il Piano
Regionale dei Porti, approvato dal Consiglio Regionale nel
mese di febbraio 2010 dopo lunghe e faticose mediazioni,
consente solo interventi finalizzati alla messa in sicurezza
degli attuali bacini portuali ed al miglioramento della
imboccatura esistente. Secondo il piano, la messa in sicurezza
dei bacini portuali esistenti consentirà nel contempo una
miglior utilizzazione degli specchi acquei con la possibilità
di aumento dei posti barca. E’ ovvio pertanto che l’aumento
dei posti barca possa avvenire solo nell’ambito di una
migliore utilizzazione degli attuali bacini, senza ampliamenti
dell’attuale area portuale, se non quelli strettamente
necessari per la messa in sicurezza e la modifica
dell’imboccatura o per un più razionale utilizzo dell’area
esistente.
Confutando i dati contenuti nella relazione di progetto, pare
ovvio pertanto che il raffronto dimensionale del bacino
progettato vada fatto con le strutture esistenti e non con
quelle del progetto precedente esaminato dalla Conferenza dei
Servizi.
Il raffronto evidenzia la non conformità del progetto con la
normativa sopra citata, in quanto la superficie degli specchi
acquei esistenti risulta di circa mq. 16.500, mentre quelli
progettati ammontano a mq. 32.150 circa per i bacini di
stazionamento, oltre a mq. 14.220 per il bacino di calma, per
un totale di circa mq. 46.370. Come si vede una superficie
complessiva che è quasi il triplo di quella esistente.
Anche le misure lineari del complesso portuale sforano
abbondantemente le attuali dimensioni in quanto la lunghezza
complessiva passa dagli attuali circa 325 m. a circa 530 m.,
mentre la larghezza, computata dal confine demaniale, passa
dagli attuali m. 96 riferiti alla banchina verso mare del
porto (con un’apertura massima verso mare di m. 135 del faro),
ai 150 m. circa, misurati al limite interno dello specchio
acqueo, oppure ai 195 m. circa, misurati sulla linea esterna
della mantellata di protezione. E’ evidente che il parametro
utile per determinate l’ampliamento dei bacini è rappresentato
dalle dimensioni e dalle superfici; i posti barca in più sono
solo 29 per effetto della loro maggiore superficie unitaria”.
Beghelli e lo sbancamento del
monte
Dallo scorso novembre quello che fu il Marechiaro, dall’altra
parte dell’Eden Rock, a picco sul mare, è un grande cantiere
sul quale tireranno su circa 800 metri quadrati di manufatti
per un fronte parallelo al mare di oltre 50 metri. Di
proprietà dell’industriale bolognese Giampietro Beghelli, ha
ereditato una capacità edificatoria che risale ad un una
ventina di anni fa; nella cornice di espansione urbanistica
del borgo di Gabicce Monte.
Il monte “scappucciato” è una ferita aperta che ti coinvolge
emotivamente e ti fa porre una serie di domande sul fragile
rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Possibile che nel 2011, non
riusciamo ancora ad astenerci da simili invadenze?
Nonostante la tecnologia, i materiali, le conoscenze
scientifiche, è difficile pensare quali possano essere le
conseguenze di interventi tanto invasivi: sono stati asportati
circa 2.500 metri cubi di materiali. Dall’altra parte, per
contrapporsi alla forza/debolezza del monte pali giganteschi e
contrafforti in cemento armato non meno possenti.
Altra domanda: l’acqua penetrata nel monte “causa la ferita”
che cosa starà mai compiendo nel suo naturale corso? E’ vero
come dice qualcuno che su tali ragionamenti i paesini della
Costiera Amalfitana, o Casteldimezzo, o Fiorenzuola di Focara,
non sarebbero mai sorti, ma deve essere questo il tipo di
espansione urbanistica che dobbiamo portare avanti? Oppure
bisognerà optare per un pensiero più armonico?
Madonna del Monte, che cosa
fare
con
la
chiesa
abbandonata?
Secoli di devozione popolare andati in rovina per l’incuria
dell’uomo. L’uomo moderno, disincantato, che non crede pìù ai
miracoli, “roba da Medio Evo”.
Mano sacrilega colpì l’immagine sacra, ma ancor più sacrilega
è l’indifferenza e l’incuria nostra.
Come intervenire? Ci vogliono soldi. Questo è un periodo di
magra e chiedere soldi alla gente è come chiedere sangue ad un
anemico.
Si incominci a raccogliere fondi e a fare i primi lavori. Una
volta riaperta la chiesetta alle preghiere e devozioni si
aggiungeranno offerte che permetteranno di finanziare
ulteriori opere a completamento della stessa.
Le chiese sono nate così, con la carità dei fedeli. Alla
stessa maniera ora si possono riparare.
Allora la chiesetta rifiorirà ed il profumo delle grazie
tornerà a spandersi da quel dolce colle.
Roberto Ghigi, Rimini
Addio a Vincenzo Verni, un
grande marignanese
IN RICORDO
di Matteo Marini
“Ricordatevi sempre che io non sono ‘il padrone’, ma uno che,
come voi, vuole che questa azienda vada bene”. Poi alle parole
faceva seguire i fatti. Vincenzo Verni era davvero un
imprenditore illuminato e chi lo ricorda non manca di citare
il suo carattere razionale e pragmatico, alla continua ricerca
della verità e delle fonti. Uno dei pochi ‘padroni’ che, cosa
non facile negli anni ’70, era rispettato e benvoluto dai suoi
stessi operai.
Raccontare “l’Ingegnere” non è facile. In realtà non lo è di
nessuno ma se chi, come lui, ha lasciato intendere che non
avrebbe mai voluto essere ricordato con “un santino”, allora
lo sforzo deve essere necessariamente maggiore.
Classe 1923, Vincenzo Verni ci ha lasciati il 14 febbraio. Si
era laureato al Politecnico di Milano e, dopo alcuni anni di
libera professione, aveva finalmente realizzato quello che era
il suo pallino: la riapertura della fornace di San Giovanni in
Marignano. La fornace Verni è tuttora l’azienda più vecchia
del paese. È un pezzo importante della nostra storia. I primi
mattoni dalla fossa del Ventena videro la luce nel 1860. Negli
anni ’50 il padre fu costretto a chiudere ma il futuro della
lunghissima ciminiera era già limpido nella testa del figlio:
“Alóra..?” Domandava Vincenzo fissandolo negli occhi. E alla
fine la ebbe vinta. Il fuoco della nuova fornace Verni prese
vigore nel 1968. Dava lavoro a 40 operai e ora, più di 40 anni
dopo, la Ve.Va. (nel frattempo era nata la collaborazione con
l’ingegner Vannoni a S. Ermete) esporta la maggior parte della
sua produzione all’estero, soprattutto in Medio oriente.
Vincenzo ci aveva visto giusto e la sua testardaggine è stata
premiata.
Seduti al tavolo con le due figlie, Donata ed Elena, i ricordi
fluiscono sinceri, tutti ricamati da un sorriso. “Era un
padre. Un padre che sapeva essera autorevole ma anche un
consigliere, aveva una mentalità molto aperta”. In questo
senso era stretta per lui anche la casacca della Democrazia
cristiana, con la quale era stato eletto consigliere comunale
nel 1975. “Era la fine degli anni ’70 – ricorda Elena –
manifestavamo per chiedere un corso di educazione sessuale.
Sai com’erano quegli anni. Lui venne di persona al liceo in
appoggio degli studenti”. Una reazione alla disciplina rigida
con la quale era stato cresciuto e soprattutto una sana
curiosità per il nuovo, l’entusiasmo quasi adolescenziale per
le idee rivoluzionarie. Era un appassionato del web: “Da
quando è arrivato internet passava ore al pc – racconta Donata
– si documentava sulla politica e sui fatti dell’Italia,
interpretava i segni dei tempi, ma con amarezza constatava
sempre che la giustizia non trionfava mai. Pensava sin
dall’inizio che la rete fosse l’invenzione del secolo. Dopo
essere andato in pensione le sue giornate erano divise tra la
famiglia e le letture: libri, giornali e siti internet. A
volte lo trovavamo addormentato la mattina davanti al computer
con le cuffie alle orecchie. Ordinava tutto via internet,
anche i libri, nonostante la sua casa fosse già piena. E poi
certe cianfrusaglie. Una volta arrivò a casa un apparecchio:
la lavatrice per le verdure. La mamma ne fu inorridita”. Le
sue figlie da piccole per prenderlo in giro lo chiamavano
“profeta”, perché amava riflettere sulla realtà presente e
fare previsioni. Quasi mai campate in aria. Negli ultimi anni
intrattenne corrispondenze importanti, in particolare una
lunga con Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, del
quale amava commentare (e spesso criticare) i lunghi corsivi
domenicali.
La ricerca della verità e della fonte fu anche il suo
paradigma politico. I suoi interventi in Consiglio comuale
erano seguiti in un rispettoso e religioso silenzio, sia dai
democristiani dell’opposizione che dalla maggioranza del Pci.
Una parentesi nella quale la politica calava il cappello di
fronte alla competenza e all’onestà del tecnico e dell’uomo.
Salvo poi tornare alle proprie logiche con l’alzata di mano
del voto. Questa fu per lui una delusione. E suo malgrado
l’impegno politico per la comunità che amava tantissimo fu
breve. Forse proprio a causa della camicia stretta delle
logiche di partito. Ma il l976 arrivò l’alluvione che inondò
di fango una vallata intera e l’emergenza prese tutto il suo
tempo. La Ve.Va. stava sotto un metro e 80 di acqua e sembrava
che fosse davvero tutto finito. Invece le famiglie Verni e
Vannoni, assieme ai dipendenti, si rimboccarono le maniche e
ripulirono tutto. Fecero debiti. Con diverse centinaia di
milioni delle lire di allora, ammortizzate in bilancio per
decine di anni, rimisero in moto l’attività. Il fango,
divenuto poco più che polvere, ancora macchia le pagine dei
libri contabili che riposano nell’archivio dell’azienda.
Nel 1971 il capitolo più buio di una bella storia. Pietro, il
più grande dei suoi cinque figli, morì a Bologna assieme al
cugino per le esalazioni di una stufa difettosa. La tragedia è
ancora viva nella memoria di chiunque, a San Giovanni. Pietro
studiava ingegneria e seguiva volentieri il padre alla
fabbrica, nel laboratorio di chimica per testare i colori sui
laterizi. Un giorno avrebbe forse preso lui le redini della
storica azienda. Era questo un sogno che andava realizzandosi.
Di quella vicenda il rammarico più vivido è espresso nelle
semplici parole di Vincenzo: “Eravamo felici e non lo
sapevamo”.
Il lavoro nella fornace era per tutti l’estensione della sua
visione del mondo: “Ricordo il primo contratto integrativo
dell’azienda – racconta Giacomo Bedetti – disse che il premio
di produzione doveva essere uguale per operai e dirigenti.
Perché se la fabbrica andava bene era merito di tutti. E
quando andavo a fare i versamenti Inps, le segretarie dei
notai strabuzzavano gli occhi nel vedere quanto versavo.
Prendevo 100.000 lire di stipendio e versavo per 100.000 lire,
com’era giusto. Non la vedevano mica tutti così”. E se gli
episodi sono la punta di un bellissimo iceberg, vale la pena
raccontare di quando impose a Giacomo di portare con sé la
piccola Claudia al lavoro, quando non aveva nessun altro che
se ne potesse occupare: “Il giorno dopo arrivò in ufficio con
una scatola di colori per mia figlia. Era capace di finezze
inimmaginabili. Allo stesso tempo stargli a fianco al lavoro
non era facile, perché era preciso ed esigente. Cercava la
perfezione e pretendeva che anche gli altri dessero il
massimo”.
Con il puntiglio e la precisione tipiche sue, forse, Vincenzo
avrebbe da ridire anche su queste poche righe, certo
incomplete. Magari dopo averle lette e averci riflettuto un
po’ su, come faceva lui, direbbe che sono quel panegirico che
tanto temeva. A te ora vanno le nostre scuse sincere, caro
Vincenzo, non volevamo scrivere un “santino”, solo il ricordo,
quello bello, di un giusto che ci ha lasciato. Che la terra ti
sia lieve.
Don Piero, nel cielo
dell'Africa nera
IL REPORTAGE
buio
- Ho avuto sempre un certo “pudore” al pensiero di andare in
Africa, in America Latina, in India; come si ha pudore ad
accostarsi al letto di un ammalato grave; scacciavo il
pensiero dicendo: hanno già tanti problemi, non è il caso di
aggiungere anche il tuo. Il mio amico Stoppiglia mi rinfaccia
ancora, dopo anni, il rifiuto di andare in Brasile con lui,
perché gli dissi di non avere le motivazioni.
Eppure sono stato in India (Panjab), in America Latina
(Colombia ed Ecuador) e ultimamente in Africa (Nigeria); ho
superato le perplessità iniziali e, ultimamente il peso degli
anni e il limite della salute, perché nel frattempo sono
cresciute in me “le motivazioni”. Oggi le motivazioni sono
volti, storie, paure, sorrisi e, non di rado, lacrime.
Paramjit e la sua famiglia mi hanno chiamato in India, ai
confini del Pakistan, a sedere in confidenziale conversazione
con il padre Momi, la madre e i figli e gustare un buon the,
mentre la piccola Emi mi faceva le fusa attorno alle
ginocchia, dimostrandomi gratitudine.
Martha Isabel e i suoi nove figli hanno acceso in me il
desiderio di attraversare l’Atlantico per incontrarli e
riannodare una storia che aveva avuto inizio ventisei anni fa,
a Santa Maria, quando don Oreste Benzi me li presentò: allora
David, il marito, era ancora vivo e i figli erano solo due,
Radha e Govinda.
Qualche giorno fa sono stato in Africa, per rispondere a una
domanda semplice, detta con il cuore, dai miei amici e ormai
famigliari Emeka, Vittoria, Chiariti, Ladi e Ada: “Perché non
vieni a visitare la nostra terra?
E così sono stato in Nigeria. Quest’ultimo viaggio forse l’ho
preso un po’ alla leggera, nel senso che ho un po’
sottovalutato che stavo andando in un paese dove la vita è
lotta nella sua normalità. Quello che per noi è questione di
voglia e di tempo, lì diviene difficile e complicato.
I tempi vanno a rilento come il traffico, se nella giornata ti
riesce di ultimare quello che hai programmato torni a casa e
ti senti miracolato; normalmente non riesci ad arrivare in
tempo all’appuntamento e se ci riesci, la persona che doveva
arrivare è rimasta imbottigliata nel traffico caotico.
La viabilità oggi è un problema insormontabile per questo
paese e costringe le moltitudini a passare gran parte della
giornata nel tentativo di arrivare alla meta prefissata; le
strade sono un vero attentato alla vita delle persone e ai
mezzi di trasporto; questi sono un po’ tutti rifiuti che il
nostro mondo dismette. Per cui si vedono vere carcasse di bus
e auto, che, miracolo vivente, riescono ancora a muoversi e a
portare il povero carico di cose e di persone alla meta.
Lasciando dietro a sé nuvole di polvere e caligine.
Si ha l’impressione che l’Africa diventi a breve una bomba
ecologica; già da ora non si vede mai l’azzurro del cielo e
una cappa grigia che ti sovrasta per tutta la giornata.
Ma l’aspetto che più colpisce sono le moltitudini di persone
che dalla mattina alla sera si mettono in movimento per
procurare quanto serve alla persona e alla famiglia. È la
lotta alla sopravvivenza. E allora tutto diventa mercato dove
si vende e si compra tutto, si apre al mattino ancora buio e
si chiude alla sera, quando è già notte: la strada che stai
percorrendo, in tutta la sua lunghezza, si fa bazar, dove
trovi le povere cose che servono per tirare avanti: benzina,
frutta, farine, acqua, pezzi di ricambio. Eppure vedi il
sorriso sul volto dei bimbi e se entri nelle povere abitazioni
ti accolgono con gioia.
È una popolazione molto giovane e si ha l’impressione che se
troveranno una guida politica all’altezza della situazione
possa avere un futuro di speranza.
Ora le cose non vanno bene. Sto parlando di un paese dove l’1%
della popolazione ha il controllo quasi assoluto della
ricchezza nazionale e in cui i fondi destinati alla spesa
pubblica sono una misera manciata di spiccioli rispetto al
volume complessivo del denaro generato dal business
petrolifero.
Un paese corrotto nel quale il diritto alla cittadinanza
sembra ancora una nozione astratta per la grande maggioranza
della popolazione.
In questo contesto “caratterizzato da forti disparità
sociali”, è facile manipolare l’insoddisfazione dei ceti meno
abbienti in nome dell’appartenenza a questa o quella etnia, o
anche in nome della fede.
Eppure, tutti sanno che dietro le quinte si celano interessi
politici di parte, giochi di potere e antiche rivalità, sia a
livello regionale che nazionale. I politici, anche i nostri,
fanno delle letture di comodo per nascondere i veri problemi.
I missionari che vivono la situazione sanno bene come stanno
le cose: “Quando hai a disposizione masse di gente non povere,
ma misere, fai presto a sfruttarle e a lanciarle l’una contro
l’altra, facendo accadere anche dei massacri”.
È la questione sociale, economica e politica che, a volte, fa
scattare queste follie che poi alcuni giornali amano
presentare come dovute alla religione. La causa prima
dell’instabilità di quella terra, “metafora delle ingiustizie
di oligarchie che godono della connivenza di potentati
stranieri” è che letteralmente “galleggia sugli idrocarburi”.
(padre Franco Moretti, comboniano).
Monsignor John Olorunfemi Onaijkan, arcivescovo di Abujia, ha
dichiarato l’8 marzo scorso a radio Vaticana: “Facilmente la
stampa internazionale è portata a dire che sono i cristiani e
i musulmani a uccidersi. Ma non è questo il caso. Perché non
si uccide a causa della religione”. Le vittime infatti “sono
povera gente che non sa, che non ha niente a che fare con
tutto questo e che non ha alcuna colpa”.
Le missioni cattoliche stanno facendo un prezioso lavoro a
riguardo della scolarizzazione e della formazione delle
giovani generazioni: la cultura dovrebbe essere l’arma
vincente!
Per concludere questa breve riflessione, posso dire che è
stato un viaggio duro e amaro, ma che ha lasciato in me tanta
dolcezza.