TIBULLO - la vita migliore - Liceo Classico Scientifico XXV Aprile

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TIBULLO - la vita migliore - Liceo Classico Scientifico XXV Aprile
La vita migliore
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da F. Piazzi – A. Giordano Ramponi, Multa per æquora. Letteratura, antologia e autori
della lingua latina – Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004.
Tibullo vive contento del poco che possiede. La terra gli offre frutti sufficienti, con parte dei
quali onora le divinità campestri (1-24). Invece di fare il soldato, egli s’impegna nelle
attività manuali della vita agricola, talora si rilassa in un luogo ameno del suo poderetto.
Compie gli annuali riti di purificazione dei greggi e offre agli dèi doni modesti, ma a loro
graditi (25-40). Non desidera gli abbondanti raccolti degli avi, né intende rischiare la vita
in mare per procacciarsi ricchezze. Gli basta potersi addormentare stringendo la donna
amata, mentre il vento e il ticchettio della pioggia conciliano il sonno (41-52). Messalla
vinca pure le guerre e ostenti le spoglie nemiche.
Tibullo della gloria non sa che farsene. Finché l’età è adatta all’amore, egli cercherà di
soddisfare il desiderio insieme con la sua donna. Lontano dalla guerra, vivrà sereno in una
decorosa equidistanza dalle ricchezze e dalla fame (53-78). L’elegia proemiale è
innanzitutto una recusatio scritta probabilmente nel 29 a.C., allorché il poeta, guarito da
una malattia che l’ha colpito a Corcira, si rifiuta di raggiungere Messalla in Oriente e si
accinge a ritornare in patria.
Nel motivare la decisione, egli ci espone la propria scelta di vita: il sogno tibulliano di
un’esistenza semplice, improntata all’otium e all’amore. Diversamente dalla maggior parte
delle composizioni proemiali solitamente di argomento metaletterario – in esse sono
presentati i modelli, sono discussi la poetica, lo stile, il genere, si polemizza contro gli
avversari – questa elegia riveste un carattere quasi esclusivamente etico. Anche se poi
l’assunzione di una cornice bucolica implica tutta una serie di convenzioni letterarie, temi,
motivi, delimitando il genere di poesia prescelto.
Come in un protrettico (o esortazione alla filosofia) sono presentati i fondamenti di quella
che il poeta considera “la vita migliore”. Il modello retorico sembra quello della Priamel,
che nella sua forma topica è una rassegna degli altrui generi di vita, cui è opposto il
proprio. Secondo questo schema, probabilmente legato alla diatriba e alla filosofia
popolare, la varietà delle propensioni umane (bìoi, cioè “vite”) era ricondotta alle quattro
classi seguenti, riscontrabili nell’Ode I 1 di Orazio: vita consacrata alla gloria, alla
ricchezza, al piacere, alla sapienza. Tibullo rifiuta il bìos dedicato alla gloria (esemplificato
da Messalla) e alla ricchezza (fondiaria e mercantile), optando per il modello di vita
semplice e piacevole raccomandato dalla tradizione diatribica e dalle filosofie ellenistiche.
La campagna, infatti, non è solo sede di idilliaca delizia, ma è anche il luogo della saggezza,
nel quale si realizza l’ideale dell’autàrkeia, cioè dell’autonomia spirituale. Il collegamento
tra vita agreste, sapienza e integrità morale era stato istituito da Orazio proprio
nell’epistola in cui si rivolge a Tibullo: «Albio… giri tra quei boschi salùbri pensando a cose
degne dell’uomo onesto e del sapiente?» (I 1 ss.).
Il rifiuto di una vita al servizio delle ricchezze coinvolge perfino l’avo antico, che si era
arricchito con il commercio o l’usura e soprattutto con l’agricoltura latifondistica. Al poeta
non interessano gli iugera multa (v.2) né i proventi del latifondo: Non ego divitias patrum
fructusque requiro,/quos tulit antiquo condita messis avo (vv.41-42). In tempi di guerre
civili sanguinose, nei quali non mancavano certo gli esempi di repentini mutamenti di
fortuna, la condizione più desiderabile per il poeta sembra essere una tranquilla
paupertas, che non significa “povertà”, ma “tenore di vita modesto”. Si tratta di
un’esistenza semplice, rallegrata dalla presenza della donna amata, vissuta nell’otium,
estranea al militarismo della retorica imperiale, trascorsa in pace con gli uomini e con gli
dèi. Gli dèi agresti in particolare sono oggetto della pietas del poeta, che con sincera
commozione rievoca antichi riti della religione laziale. E qui si attenua il dissenso rispetto
all’ideologia del principato. Se il disimpegno politico, l’antimilitarismo, la centralità
dell’eros erano incompatibili con il programma augusteo, al contrario la pietas, la frugalità,
l’operosità contadine – rievocate con accenti delle Bucoliche virgiliane – erano valori sui
quali il principe mirava a rifondare la morale tradizionale. Tibullo, diversamente da
Catullo, Properzio, Ovidio, non opponeva alla virtus militare e civica una vita “scapigliata”
o libertina, ma improntata ad alcuni capisaldi dell’etica repubblicana, quali la parsimonia,
la religiosità agreste, l’amore per la terra. l’adesione di Tibullo a questi valori era autentica
e corrispondeva a diffuse aspirazioni di una società stremata dalle guerre civili.
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Che un altro accumuli pure per sé ricchezze di biondo oro
e possieda molti iugeri di terreno coltivato,
in modo che un continuo assillo lo tenga in ansia per l’incombente nemico
e le trombe di guerra, suonate a forza, gli tolgano il sonno[1]:
quanto a me[2], la mia modesta condizione mi faccia vivere tranquillo,
purché il mio focolare splenda di un fuoco inestinguibile.
Io stesso pianterò, divenuto agricoltore[3], le tenere viti
e i grandi pomi con abili mani;
e la Speranza[4] non m’inganni, ma mi conceda sempre mucchi di biade
e denso mosto nel tino pieno.
Infatti, sono religiosamente devoto[5], sia che un tronco abbandonato nei campi,
sia che una vecchia pietra a un incrocio[6], abbiano una corona di fiori,
e qualunque frutto produca per me l’anno nuovo,
sia posto come offerta innanzi al dio rustico.
O bionda Cerere, per te ci sia sempre una corona di spighe
dal mio podere, che sia appesa alle porte del tuo tempio,
e Priapo, il rosso custode, sia posto nei frutteti,
affinché spaventi gli uccelli con la falce minacciosa[7].
Anche voi, o Lari, custodi un ricco podere una volta, ora povero,
avete i vostri doni[8].
Allora una vitella sacrificata purificava innumerevoli giovenchi,
ora una modesta agnella è la vittima del piccolo podere.
Un’agnella cadrà per voi, attorno alla quale i giovani contadini
grideranno «evviva! Concedete messi e buoni vini».
Ora, finalmente, che io possa vivere solo accontentandomi del poco,
e non essere sempre impegnato in lunghi viaggi,
ed evitare l’estivo sorgere della canicola all’ombra
di un albero presso un ruscello d’acqua corrente[9].
E non mi disturbi impugnare talvolta il bidente o
incitare col pungolo i lenti buoi,
non mi rincresca di riportare all’ovile, prendendoli in braccio,
un agnello o un capretto dimenticato dalla madre.
Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il piccolo gregge:
la prede dev’essere strappata da un grande armento.
Qui, io sono solito ogni anno purificare i miei pastori
e cospargere di latte la dea Pale[10], perché sia pacifica.
O dèi, siate propizi e non disdegnate i doni
che provengono da una povera mensa e da semplici vasi di terracotta.
L’antico contadino costruì per sé in terracotta le prime
ciotole e le plasmò in morbida creta.
Io non ricerco le ricchezze dei miei avi e i frutti
che la messe raccolta rese all’antico avo:
mi basta un piccolo raccolto, mi basta – se è possibile –
riposare nel letto e ristorare il corpo nel solito giaciglio.
Com’è bello ascoltare i venti impetuosi stando a letto
e stringere la propria donna in un tenero abbraccio,
oppure, quando l’Austro invernale rovescia gelide piogge,
abbandonarsi tranquillo al sonno che la pioggia concilia![11]
Questo mi tocchi in sorte! sia giustamente ricco, colui
che può sopportare il furore del mare e le tristi piogge.
Oh, che tutto l’oro e le pietre preziose vadano in malora,
piuttosto che una ragazza pianga per la mia partenza!
A te, mio caro Messalla, s’addice combattere per terra e per mare,
perché la tua casa esibisca le spoglie dei nemici.
Quanto a me, mi trattengono avvinto le catene di una bella ragazza,
e siedo, come un portinaio, davanti alla porta crudele.
Non mi importa di essere lodato, mia Delia; purché
io sia con te, mi si chiami pure indolente e ozioso!
Che io ti guardi, quando verrà l’ora suprema
e possa, morendo, tenerti con languida mano.
Mi piangerai, o Delia, posto sul feretro da bruciare
e mi darai baci misti a tristi lacrime[12].
Piangerai: il tuo cuore non è avvinto da duro ferro
e nel tenero petto non hai certo una pietra.
Nessun giovane, nessuna fanciulla, potrà tornare a casa
da quelle esequie con occhi asciutti[13].
Tu non far soffrire la mia ombra, ma risparmia
i capelli sciolti e le tenere guance, o Delia.
Intanto, finché i fati lo consentono, amiamoci:
presto verrà la Morte, ricoperta il capo di tenebre:
presto subentrerà la torpida vecchiaia e non sarà più conveniente,
quando la testa è ormai bianca, amare e sussurrare parole sdolcinate.
Ora è il momento di godere della spensierata Venere, finché non è
disdicevole infrangere porte ed è bello intrecciare litigi[14].
Qui io sono un buon condottiero e soldato: voi, insegne e trombe,
andatevene lontano, portate ferite all’uomo ambizioso,
portategli ricchezze: io tranquillo, ammassato il mio raccolto,
non mi curerò dei ricchi e me la riderò della fame.
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Bassorilievo raffigurante un mietitore (‘vallus‘). Arte gallo-romana, Buzenol (Belgio).
Note:
[1] Il poeta dichiara che, a differenza della maggior parte degli uomini, egli non desidera
una vita piena di ricchezze, ma lascia agli altri le preoccupazioni legate all’ansia di far
denaro. L’affermazione, che si colloca sul solco della tradizione diatribica (disprezzo dei
beni materiali, autàrkeia del saggio) richiama lo schema retorico della Priamel (che
consiste nell’opporre la propria scelta di vita ad altre scelte).
[2] Ai primi quattro versi che descrivono gli affanni della ricchezza faticosamente
conquistata, si contrappone ora il distico che presenta la scelta di vita di Tibullo.
[3] Il poeta non disdegna il lavoro manuale, rispettando la tradizione romana più antica e
proponendo qui un modello di vita bucolico-agreste; «è possibile cogliere un riferimento
all’ideale dell’agricola che coltiva da sé con amore il proprio terreno, secondo il modello
offerto dalle Georgiche di Virgilio» (M. Citroni).
[4] Speranza è una “personificazione”: a Roma era una vera e propria divinità, festeggiata
alle calende di agosto, alla quale era dedicato un tempio. Il lecito desiderio del contadino di
avere un ricco raccolto, grazie all’aiuto della divinità, si contrappone all’avidità dell’uomo
ricco descritta nel primo verso.
[5] Qui il poeta vuole esprimere tutta la sua devozione o pietas da uomo romano per la
divinità, in questo caso per entità religiose agresti come un vecchio tronco o una pietra, che
probabilmente segnavano il confine tra i campi. Tali divinità, legate alla natura e
contrapposte a quelle olimpiche, erano oggetto di particolare culto nella campagne dove
Terminus, dio dei confini, era oggetto di grande venerazione e veniva festeggiato nei
Terminalia, in febbraio, appunto con corone di fiori.
[6] Sul trivium, o “crocicchio”, luogo venerato nelle tradizioni contadine, si trovavano le
edicole dedicate ai Lares Compitales, divinità protettrici dei campi.
[7] Cerere è la dea delle messi, bionda perché giallo è il colore del grano maturo, festeggiata
in aprile nel corso dei Cerealia, solitamente onorata con una corona intrecciata fatta con le
prime spighe raccolte. Priapo è una rozza divinità contadina spesso raffigurata in legno
scolpito, dipinto di rosso, con evidenti attributi osceni, simbolo di fertilità. Veniva posto
nei frutteti per proteggerli da ladri e uccelli, dunque con funzione di “spaventapasseri”.
[8] I Lari sono divinità tipicamente romane: probabilmente raffigurazioni degli spiriti dei
morti della famiglia, avevano il compito di proteggere la casa, i campi, la città ed erano
molto venerati nelle campagne, più degli dèi dell’Olimpo, perché più vicini alle plebi
agricole. Ai Lari si facevano sacrifici alle calende di ogni mese. Per Tibullo queste divinità
sono simboli della pietas e della purezza di un passato ideale, ma anche un ricordo della
propria infanzia. «La religiosità di Tibullo… si collega alla concezione della campagna
come ultimo regno della devozione religiosa, un’idea coltivata anche da Virgilio nelle
Georgiche» (F. Cairns).
[9] L’invito a vivere con semplicità accontentandosi di poco è proprio della filosofia
epicurea.
[10] Alla dea Pale erano dedicate le Palilie, feste che si tenevano il 21 aprile, giorno natale
di Roma, in cui sia il simulacro della dea sia i pastori erano aspersi con latte.
[11] Tibullo sembra riproporre in chiave elegiaca i versi famosi del proemio del II libro del
De rerum natura di Lucrezio: «È bello, quando i venti sconvolgono le distese del vasto
mare, guardare da terra il grand’affanno degli altri: non perché il dolore altrui ti procuri
grande gioia, ma perché sei contento di vedere da quali affanni sei libero». Tibullo insiste
sui toni della tenerezza, più che dell’erotismo, ricorrendo al lessico della poesia amorosa
per creare un quadretto di vita idilliaca semplice, ma sicura. Il concetto espresso è
riconducibile all’insegnamento epicureo, ma manca ogni riferimento di carattere filosofico,
gnomico o didascalico.
[12] Il languido vagheggiamento della propria morte, da parte del poeta, è un motivo
ricorrente nella poesia tibulliana, che riprende, pur modificandoli, modelli dell’epigramma
funerario ellenistico. La morte può ricevere consolazione solo dalla vicinanza delle persone
care, mentre la mancata vicinanza, antico motivo del lamento funebre presente in Omero,
genera profondo dolore.
[13] Il distico amplia l’idea della morte del poeta, compianta non solo dalla donna amata,
ma anche dalla gioventù romana. Tutti i giovani romani, commossi e turbati, piangeranno
la morte di Tibullo, il grande poeta che ha saputo cantare le passioni umane, anteponendo
il valore dei sentimenti ad ogni altro. Coloro che condividono tale sensibilità si riconoscono
e costituiscono i “fedeli d’amore”, il pubblico cui il poeta si rivolge.
[14] L’ultimo passaggio logico dell’elegia riporta ad un livello tipicamente epicureo: gli
esseri viventi, consapevoli della brevità della vita e dell’ineluttabilità della morte, devono
afferrare i piaceri della vita.