la politica economica

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INSEGNAMENTO DI
POLITICA ECONOMICA
LEZIONE II
“LA POLITICA ECONOMICA”
PROF. GAVINO NUZZO
Politica Economica
Lezione II
Indice
1 Teoria normativa e positiva ---------------------------------------------------------------------------- 3 2 Gli obiettivi della politica economica ----------------------------------------------------------------- 5 3 Gli strumenti della politica economica --------------------------------------------------------------- 9 4 I modelli -------------------------------------------------------------------------------------------------- 12 5 L’approccio normativo: l’introduzione del gruppo sociale ------------------------------------ 15 6 Qualche riflessione sulla classe politica e la burocrazia ---------------------------------------- 17 7 Conclusioni ---------------------------------------------------------------------------------------------- 21 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Teoria normativa e positiva
Una definizione universalmente accettata del concetto di politica economica
non esiste, ma in genere si è soliti suddividere la scienza economica in due rami:un
ramo positivo (l’economia politica) ed un ramo normativo (la politica economica
appunto); mentre l’economia politica studia i fenomeni economici così come si
presentano all’osservazione cercando di individuare delle regolarità o leggi economiche,
vale a dire dei comportamenti che si presentano in talune circostanze; la politica
economica studia gli strumenti più adatti ad influenzare i fenomeni economici di
modo da raggiungere determinati obiettivi.
I soggetti attivi della politica economica sono i soggetti pubblici (Stato, Regioni,
Enti locali). E’ ad essi che spetta il compito di pianificare l’economia nel suo
complesso, di fissare gli obiettivi prioritari e di effettuare trade-offs (scelte)fra obiettivi
conflittuali. In un’economia di mercato, però le decisioni di governo avranno soltanto
una funzione di indirizzo poiché dovranno sempre confrontarsi con il comportamento
dei soggetti privati e con le loro aspettative.
Rientrano inoltre, fra i soggetti attivi della politica economica, ma con compiti
meno incisivi, gli organismi internazionali, che esercitano delle funzioni sovranazionali
di indirizzo sia politico che economico: ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite),
FMI ( Fondo Monetario Internazionale), Banca Mondiale e, per quanto attiene più
direttamente agli interessi europei ,la CE (Comunità Europea).
L’attività pubblica che diventa politica economica si qualifica come
programmazione; infatti, ogni intervento deve collimare e coordinarsi con tutti gli altri
per creare un’azione coordinata e coerente. In economia le cose sono strettamente
connesse e le ripercussioni di ogni aspetto critico su tutti gli altri sono immancabili,
pertanto programmare significa anche tenere bene in chiaro la relazione tra le grandezze
economiche (reddito, disoccupazione, inflazione, tasso di interesse, quantità monetaria,
ecc.).
La programmazione si compone di tre elementi fondamentali:
1.
Gli obiettivi
2.
Gli strumenti
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3.
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Il modello economico che racchiude la rappresentazione ideale del
funzionamento della realtà e che guida la programmazione rilevando i collegamenti tra
gli obiettivi e gli strumenti.
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2 Gli obiettivi della politica economica
Innanzi tutto occorre concentrarsi sulla relazione tra obiettivi, strumenti e
modelli economici.
Gli obiettivi ai quali gli interventi di politica economica devono mirare sono
molteplici e tutti ugualmente inerenti al progresso civile, economico e sociale della
nazione.
Prima di parlare della programmazione o della massimizzazione del prodotto
nazionale presentiamo un semplice esempio: immaginiamo che i policy maker siano
impegnati nella soluzione di un unico specifico problema che potrebbe essere ridurre il
tasso di disoccupazione. Assumiamo questo come obiettivo.
Sia N il numero dei lavoratori presenti nell’economia, esso è fissato ad un livello
giudicato insoddisfacente, si stabilisce di portare N al livello N*., l’obiettivo sarà
pertanto N = N*.
A questo punto occorre fare riferimento ad un modello economico, ci serviremo
di quello keynesiano, da esso si evincono le seguenti relazioni:
Y = πN
Y=C+A
A=G+I
C = cY
Il valore π indica la produttività media del lavoro, C rappresenta il consumo, A
quantifica la componente autonoma di spesa, composta da G (spesa pubblica) e I
(Investimenti) c è la propensione marginale al consumo.
Con opportune sostituzioni della seconda , della terza e della quarta nella prima
si ottiene la seguente espressione N:
N = 1/p . 1/(1-c) (G + Ī)
A questo punto lo Stato può decidere quale strumento utilizzare per ottenere N*,
saranno valutati i margini di manovra sui diversi elementi dell’ultima equazione.
La produttività media del capitale, in quanto attinente al livello attuale delle
conoscenze tecnologiche, è fuori dalla portata dell’intervento pubblico, il valore c della
propensione marginale al consumo può essere indirettamente modificato attraverso
manovre di politica fiscale, aventi per effetto l’espansione del consumo; la quantità G è
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direttamente determinata dallo Stato, mentre I, gli investimenti privati, pur dipendono
da decisioni autonome degli imprenditori, possono essere incoraggiati da manovre di
politica monetaria tendenti ad abbassare il livello del tasso di interesse.
Lo Stato può scegliere una o più di queste <<leve>> per azionare la crescita
dell’occupazione, se decide di agire esclusivamente su G, di diretta competenza, e
considera dati i valori delle rimanenti variabili,è in grado di determinare l’unico livello
di spesa pubblica compatibile con l’occupazione N*, tale livello sarà:
G = [π (1 – c ) N*] – Ī
Gli obiettivi ai quali gli interventi di politica economica devono mirare sono
molteplici e tutti ugualmente inerenti al progresso civile, economico e sociale della
nazione.
Primo fra questi per importanza è quello inerente la massimizzazione del
prodotto nazionale, la sua razionale ripartizione fra i diversi impieghi e il suo massimo
tasso di crescita.
Le forze di mercato abbandonate a se stesse, non sono infatti sufficienti ad
accrescere il prodotto nazionale, si nel breve periodo che nel lungo periodo.
Per tali ragioni le autorità statali devono intervenire attraverso investimenti,
potenziamento delle strutture tecniche ed incentivi per favorire un incremento del
prodotto nazionale.
Secondo obiettivo, che gli interventi di politica economica possono mirare a
raggiungere, è la piena occupazione delle forze lavoro. Questo obiettivo,
particolarmente sentito ai nostri giorni, è anch’esso molto importante in quanto la
disoccupazione è causa di malessere acuto nella società, oltre ad essere ostacolo allo
sviluppo della capacità produttiva del paese ed al pieno utilizzo delle risorse.
Un altro obiettivo della politica economica concerne la stabilità dei prezzi ,
necessaria a contrastare gli effetti deleteri del processo inflazionistico. Infatti, fenomeni
inflattivi possono creare disparità nella distribuzione del reddito fra percettori di salari e
percettori di reddito variabile, nonché distorcere l’allocazione delle risorse.
Un altro fondamentale obiettivo della politica economica è rappresentato dalla
equa distribuzione, personale e territoriale, del reddito.
Attraverso la redistribuzione del reddito si arriva ad attivare anche la produzione
di settori meno favoriti, cosa che può fungere da stimolo all’offerta nel lungo periodo.
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Altro obiettivo della politica economica è il pareggio della bilancia dei
pagamenti, ovvero l’eliminazione degli scompensi che inducono un paese ad
indebitarsi o ad accumulare crediti verso l’estero.
L’affermarsi di una più diffusa attenzione alla cosiddetta qualità della vita, ha
portato prepotentemente alla ribalta un ulteriore obiettivo della politica economica: la
tutela dell’ambiente, che richiede, però rispetto agli obiettivi classici un maggiore
coordinamento degli interventi ed una maggiore attenzione agli impatti qualitativi di
ogni scelta pubblica.
Il raggiungimento di un obiettivo risulta condizionato dal raggiungimento
dell’altro.
Può capitare che due obiettivi siano in rapporto antitetico, ad esempio,
immaginiamo il caso di una società divisa in due classi sociali, caratterizzate da
esigenze opposte, ad esempio, agricoltori e lavoratori dell’industria. Lo stato non
possiede abbastanza risorse per migliorare le condizioni di entrambe le categorie,
esisterà una frontiera di possibilità, o curva di trasformazione tra i redditi dei due
gruppi.
La realizzazione di due obiettivi di politica economica
Se lo Stato assume un obiettivo fisso, potrà collocarsi su un preciso punto della
frontiera. Ovviamente se decide di migliorare il reddito di una delle due classi, potrà
farlo unicamente riducendo quella dell’altra, ovvero spostando verso l’alto la frontiera,
la seconda ipotesi tuttavia richiede tempi più lunghi.
Il metodo delle priorità viene utilizzato quando lo Stato non conosce
esattamente la curva di trasformazione, inoltre valuta prioritario il raggiungimento di un
determinato obiettivo rispetto all’altro.
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A questo punto, si stabilisce di realizzare l’obiettivo prioritario e di
massimizzare il secondo obiettivo.
L a figura mostra due diverse curve di trasformazione che testimoniano la non
completa informazione sull’effettivo meccanismo di trade off tra i due obiettivi. Lo
Stato giudicando prioritario il mantenimento del reddito Y’a, tenterà di massimizzare il
reddito Yi che potrà raggiungere un livello imprecisato e dipendente dalla curva di
trasformazione ignota.
Un terzo sistema di determinazione degli obiettivi è molto simile al metodo di
scelta del consumatore.
Se lo stato dispone di un’informazione certa circa la curva di trasformazione,
potrà stabilire la mappa delle curve di indifferenza del benessere sociale e rilevare la
combinazione ottima dei due obiettivi
La fissazione degli obiettivi nel caso di informazione certa
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3 Gli strumenti della politica economica
Una variabile economica diventa strumento di politica economica se è dotata di
tre caratteristiche:
• La controllabilità;
• L’efficacia;
• L’indipendenza.
Per controllabilità si intende che la variabile sia manovrabile dall’azione
pubblica, abbiamo visto che mentre alcune variabili come il livello di spesa pubblica o
la propensione marginale al consumo sono in modo completo o parziale, indirizzabili
dallo Stato, variabili come la produttività del lavoro restano, in larga misura, al di fuori
della portata dell’intervento pubblico.
L’efficacia è la possibilità della variabile strumento di agire sulla variabile
obiettivo.
L’indipendenza indica la distinzione di una determinata variabile dalle altre.
La realtà non offre molti esempi di variabili strumento che godono delle tre
proprietà, inoltre, una stessa variabile può diventare talvolta obiettivo. E’ il caso della
spesa pubblica (G) che spesso si cerca di contenere, indipendentemente dagli altri
obiettivi.
Anche il requisito della controllabilità non sempre è del tutto svincolato da
elementi anche spuri rispetto all’economia. Su alcune grandezze non è consentita
un’azione libera da parte del governo a causa di limitazioni stabilite dalla costituzione o
dagli accordi internazionali. E’ il recente caso dell’Unione Europea che ha fortemente
limitato l’autonomia monetaria dei paesi aderenti.
L’intervento dello Stato nell’economia avviene attraverso politiche di tre tipi:
a. Politiche quantitative che modificano unicamente il valore di uno
strumento ;
b. Politiche qualitative che introducono un nuovo strumento, ovvero
eliminino l’azione di uno già operante senza importanti ripercussioni sul
sistema economico generale (es. introduzione di una nuova imposta);
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c. Politiche di riforma che introducono o eliminano uno strumento con
sostanziali ripercussioni sul sistema economico ( es. privatizzazioni di
grandi impresa, legislazione sulla proprietà privata, sull’inquinamento
ecc).
Alcune misure di intervento pubblico mirano direttamente a modificare un
comportamento dei cittadini, in altri casi, lo Stato, influenza indirettamente tale
comportamento. Ad esempio, rispetto al consumo di prodotti esteri, lo Stato potrebbe
alternativamente, impedire le importazioni (controllo diretto) oppure stabilire forti dazi
(controlli indiretti).
Le politiche di intervento possono essere automatiche o discrezionali.
Le prime consistono in meccanismi anticongiunturali preesistenti alle condizioni
avverse, che entrano in gioco non appena tali condizioni si verificano, le politiche
discrezionali, sono invece stabilite ad hoc, e a posteriori.
Gli interventi automatici sono ritenuti superiori per la tempestività con cui
agiscono, tra essi i principali sono gli stabilizzatori economici si dividono,
essenzialmente in :
1)
Trasferimenti
Quando l’economia si trova in una fase di ristagno, un più duro contraccolpo sui
redditi degli individui e quindi sui consumi, può essere evitato grazie al meccanismo dei
trasferimenti.
Se la normativa prevede sussidi alla disoccupazione, contributi sociali per fasce
di reddito basse, esenzioni e vantaggi fiscali per gli individui meno abbienti, tutte queste
misure, comprese nella spesa pubblica per trasferimenti, aumentano nei periodi in cui i
redditi degli individui si abbassano. Questa quota aggiuntiva di trasferimenti sostiene i
redditi e riduce l’effetto abbattimenti dei consumi.
2)
Imposte sul reddito
Questo secondo stabilizzatore automatico agisce in più direzioni. Nel caso
esaminato al punto 1), la riduzione delle imposte quando i redditi diminuiscono,
espande il reddito disponibile e questo a sua volta sostiene i consumi. Supponiamo
invece che vi sia un incremento del reddito per motivi congiunturali in presenza di piena
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occupazione. La condizione di piena occupazione di per sé esclude la possibilità di un
aumento della produzione, in quanto in piena occupazione, tutti i fattori produttivi sono
già impiegati. L’aumento del reddito e, conseguentemente, dei consumi palesa il rischio
di inflazione da domanda. Le imposte sul reddito domano almeno in parte l’esubero di
domanda, andando a tagliare il reddito disponibile.
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4 I modelli
L’equilibrio generale dei mercati e il funzionamento complessivo del sistema
economico dipendono da un numero indefinito di variabili e di interrelazioni di ogni
tipo (economico, sociali, culturali, istituzionali). Per tale motivo gli economisti hanno
messo a punto modelli teorici di funzionamento del sistema economico che
rappresentano semplificazioni della realtà.
I modelli funzionano sotto diverse ipotesi e condizioni e sono di diversa
complessità.
La costruzione di un modello richiede la definizione di alcune ipotesi e
caratteristiche descrittive, in genere ci si serve poi di un ragionamento automatico per
verificare l’intima congruenza del sistema: ossia si verifica analiticamente se tutte le
implicazioni sono dimostrabili.
I limiti di questi modelli sono proprio le condizioni di funzionamento
individuate che, se troppo semplicistiche, o troppo parziali, possono discostarsi
enormemente dalla realtà. Quest’ultima rappresenta una sfida continua per il
macroeconomista che tenta di imbrigliarla in formulazioni matematiche, ma soprattutto
le continue trasformazioni dei mercati nel mondo reale determinano, più di ogni altro
fattore, l’evoluzione della teoria economica.
Il modello keynesiano funzionò fino agli anni settanta, quando la crescita
simultanea di inflazione e disoccupazione costrinse gli economisti ad una sua revisione.
Occorreva creare una nuova teoria in grado di spiegare il fenomeno della stagflazione
(inflazione e stagnazione insieme) fino ad allora mai analizzato.
Nella costruzione di nuovi modelli si usano i risultati di quelli precedenti e si
tiene conto delle critiche ad essi rivolte.
La difficoltà nella costruzione di un modello risiede soprattutto nella
impossibilità di effettuare esperimenti guidati, ossia quelle verifiche che gli altri
scienziati effettuano quando vogliono ripetere un processo per essere certi che il
risultato sia sempre identico, lasciando invariate tutte le condizioni. Ovviamente ciò è
impossibile per un economista.
Nessun meccanismo economico può ripetersi a condizioni invariate nella realtà,
nessun risultato può essere verificato in laboratorio o sul campo, ne si può essere certi,
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in presenza di fenomeni economici analoghi verificatisi in diversi paesi o in epoche
diverse nella medesima area, che essi siano da attribuirsi a cause identiche, in quanto
fattori istituzionali (il quadro normativo, la composizione dello Stato, il tipo di governo,
ecc.), fattori sociali (il numero di abitanti, l’età media della popolazione, le
caratteristiche culturali, ecc.) e fattori fisici (la composizione delle risorse, la morfologia
del Paese, le infrastrutture) possono aver interagito e determinato condizioni irripetibili
e specifiche del momento e del luogo.
E’ per questo molto spesso i macroeconomisti non sono d’accordo tra di loro.
Poiché la realtà è sempre molto più complessa di quanto si immagini e ogni
singolo accadimento è collegato ad un quadro di insieme di dimensioni amplissime, essi
possono attribuire a questo o a quel fattore una prevalenza determinante nel verificarsi
di un certo fenomeno. Queste divergenze contribuiscono a creare le varie scuole di
pensiero che si separano in quanto seguono diverse interpretazione del reale.
A ciò va aggiunto che, nonostante le attuali potenzialità dell’econometria e delle
scienze della raccolta e dell’elaborazione dei dati, in grado di mettere a disposizione dei
ricercatori enormi quantità di informazioni di alta attendibilità, i medesimi dati
assumono significatività molto diversa a seconda dei paradigmi dominanti nella scuola
di appartenenza dell’economista che li esamina.
Collocare il proprio lavoro, per un economista, all’interno di una certa corrente
di pensiero ne influenza pesantemente il risultato, ed analisi aventi oggetti identici
possono essere condotte in maniera molto diversa a seconda degli strumenti di analisi e
degli approcci adoperati. Ecco perché Keynes, ironizzando, considerò il valore del PIL
come l’unico punto di accordo tra i macroeconomisti.
Tanto premesso, ci soffermiamo adesso a rilevare gli aspetti comuni dei modelli
economici.
In primo luogo essi possono essere definiti modelli di decisione perché il loro
scopo è quello di orientare l’azione pubblica:
Ogni modello si definisce attraverso delle equazioni che esplicitano le relazioni
esistenti tra le variabili. Le equazioni possono distinguersi in:
¾
Di definizione: definiscono le caratteristiche del sistema (es. nel
modello keynesiano, che utilizzeremo anche negli altri esempi, AD = C + I + G, ossia la
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domanda aggregata corrisponde alla somma del consumo privato, degli investimenti e
della spesa pubblica);
¾
Di comportamento: definiscono il comportamento degli operatori (es. C
= cY, il consumo è funzione del reddito secondo un parametro c che misura la
propensione marginale al consumo);
¾
Tecniche: stabiliscono relazioni tra grandezze fisiche (es. tutte quelle
che definiscono la produttività)
¾
Di equilibrio: stabiliscono le condizioni di equilibrio (es. Y = C + I + G,
che rappresenta l’equilibrio tra domanda e offerta aggregate);
¾
Istituzionali: rendono merito di norme istituzionali.
Una distinzione ritenuta fondamentale è quella tra variabili:
o
Esogene che influenzano altre variabili del modello economico e sono
indipendenti da qualsiasi variabile del modello;
o
Endogene che sono determinate da variabili del modello e possono
influenzare altre grandezze.
Affidarsi alle variabili di questi modelli significa ritenere costante il
comportamento degli operatori privati a fronte di variazioni della politica economica.
Ciò appare del tutto discutibile, e da questo deriva il ricorso sempre maggiore alle
applicazioni della teoria dei giochi che prevede un comportamento strategico di risposta
e contro risposta tra operatori economici privati e pubblici.
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5 L’approccio normativo: l’introduzione del gruppo
sociale
Finora abbiamo rappresentato il sistema economico come un meccanismo
regolato da leggi giuridiche e fisiche ( rapporti di produzione) entro cui si realizzano le
interrelazioni tra soggetti indifferenziati ed anonimi, caratterizzati da diverse preferenze
di consumo.
La descrizione di questo modello ne mette immediatamente in luce i limiti,
tuttavia, come abbiamo riscontrato, la politica economica si basa sui modelli.
E’ però arrivato il momento di aggiungere altre connotazioni agli operatori
economici, si abbandona così l’idea di una collettività indistinta, al più caratterizzata da
tipologie differenti di reddito (lavoratori, capitalisti, imprenditori), e di una classe
politica anonima che persegue unicamente l’interesse collettivo.
Questa necessaria complicazione riporta la teoria economica ad un’impostazione
classica risalente a Malthus, Marx, Ricardo e altri grandi, tutti studiosi accomunati dal
fatto di essere non esclusivamente economisti, e infatti le categorie di pensiero e di
analisi del ragionamento normativo esorbitano la sfera economica, che purtroppo molti
ritengono limitarsi alla impostazione neoclassica, per attingere da altre discipline ( a ben
guardare un tempo opportunamente indistinte): la sociologia, le scienze politiche,
l’antropologia.
In quest’ottica, la collettività si anima di gruppi sociali tendenti a realizzare
obiettivi complessi, non riguardanti esclusivamente il reddito, ma attinenti al potere e
alla influenza politica, questi gruppi si manifestano sulla scena attraverso relazioni di
forza cercando di orientare l’azione dei governi. Inizia a delinearsi l’attività dei partiti,
dei sindacati, delle lobbies, dei gruppi di opinione.
Gli stessi governi perdono la ingenua connotazione anonima e iniziano ad
operare sulla scia di dialettiche interne ed esterne, più precisamente vi saranno
dinamiche:
ƒ Interne giocate tra i diversi membri e tra i diversi centri di potere;
ƒ Esterne, nella realizzazione dei progetti, nelle opposizioni dei gruppi sociali
avversi, nella relazione con i gruppi sociali di sostegno elettorale, nel rapporto con la
burocrazia.
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Le interazioni tra questi nuovi agenti sono molteplici e variegate,
concretizzandosi in azioni che vanno dalle campagne elettorali al commercio del voto,
dalle relazioni personali alle campagne di opinione, dalla corruzione alla concussione,
dalle promesse agli scambi di favori, dalla propaganda elettorale alla attribuzione di
posti di lavori ai seguaci fedeli, ecc.
La difficoltà non risiede tanto nel rappresentare tutte queste situazioni che
potrebbero essere prese direttamente dalla cronaca, bensì nel dover ricucire le nuove
dinamiche in una teoria macroeconomica e/o microeconomica che si avvalga dei
contributi di discipline contigue e geneticamente affini.
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6 Qualche riflessione sulla classe politica e la
burocrazia
Fin qui abbiamo visto come l’azione del mercato, entro cui ogni singolo
operatore persegue il suo personale tornaconto, non conduce, se non nella speranzosa
teoria smithiana, a situazioni di benessere collettivo. L’intervento pubblico viene
interpretato come deus ex machina chiamato a risolvere i fallimenti di mercato. E’ il
momento di chiarire alcuni concetti:
a)
I policy maker non sono creature iper-razionali, animate unicamente dal
desiderio di realizzare il benessere collettivo;
b)
Nella realizzazione dei loro programmi si trovano ad affrontare
resistenze caparbie, sia da parte degli operatori privati, sia da parte della burocrazia,
anzi alcune delle più interessanti teorie dell’azione politica si concentrano proprio sulla
dialettica: classe politica/burocrazia.
Per quanto riguarda il primo punto, la più immediata intuizione sulle reali
aspirazioni della classe politica, riguarda il suo desiderio di conservare il potere, il che
nei paesi democratici significa essere rieletti.
La teoria del ciclo politico elettorale ipotizza oltre al desiderio di rielezione della
classe politica, la asimmetria delle informazioni tra governanti e governati e la memoria
corta degli elettori. Quando il governo sa di essere vicino all’appuntamento elettorale,
dà l’avvio a politiche espansionistiche, quali ad esempio: facilitazioni del credito,
agevolazioni fiscali, aumenti della quantità di moneta offerta, assunzioni nel pubblico
impiego. Il risultato combinato di tutti questi interventi è il rilancio dell’economia
attraverso maggiori consumi ed investimenti. Si registra una certa crescita economica, la
disoccupazione si riduce, il reddito disponibile aumenta.
Il popolo è soddisfatto della propria classe politica e ben persuaso a
riconfermarla. All’indomani dell’elezione, o perlomeno entro tempi brevi, le cosa
cambiano radicalmente.
La tanto decantata crescita economica, non supportata da interventi radicali
nell’apparato produttivo che avrebbero richiesto programmi ben più complessi e a lungo
termine, si rivela effimera e foriera di inflazione. Quando i prezzi salgono troppo, e
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magari sale anche il debito pubblico, e intanto gli investimenti crollano al governo sarà
molto semplice richiedere un piccolo sacrificio agli elettori, imponendo nuove tasse per
fronteggiare la crisi. Ormai il quadriennio è assicurato. Occorrerà del tempo prima di
rimettere in moto le manovre espansive pro elezioni e intanto gli elettori avranno
dimenticato quanto la nuova campagna elettorale somigli a quella vecchia.
La teoria che postula un andamento del trend economico fortemente connesso
agli appuntamenti elettorali, oltre che sconfessata parzialmente dai fatti, è messa in crisi
dal dubbio sulla effettiva possibilità dei politici di realizzare euforia economica, seppur
di breve durata, in un mercato globale dove gli andamenti dell’economia dipendono in
misura sempre maggiore da ciò che viene deciso all’estero. Inoltre si può immaginare
che al miopia degli elettori sia più o meno grave da paese a paese, e anche, se il governo
già gode del consenso sociale, non ha bisogno di mettere a punto strategie elettorali
come quelle previste dalla teoria.
Più aderente a quello che accade nella realtà sembra essere la teoria partigiana
del ciclo politico economico secondo la quale, ogni eletto si mantiene fedele alla
volontà dei suoi elettori e cerca di realizzare politiche favorevoli al gruppo sociale che
lo ha sostenuto.
Con riferimento agli Stati Uniti, Paese in cui le posizioni bipolaristi che sono
ben chiare, è molto probabile che la vittoria dei repubblicani significhi lotta
all’inflazione anche a danno dell’occupazione, mentre un passaggio di staffetta ai
democratici significherebbe favorire le politiche di rilancio occupazionali con maggiore
tolleranza verso l’aumento dei prezzi.
Se l’alternanza di potere tra i partiti è stabile e se l’opposizione del partito di
minoranza è leale e lungimirante il ciclo politico economico può risultare vantaggioso
per tutti i gruppi sociali e superare molte inefficienze che invece sarebbero generate da
sterili posizioni di ostruzionismo esercitate dal gruppo in momentanea minoranza.
Un altro aspetto da esaminare è la relazione tra classe politica e burocrazia, il
primo viene eletto, mentre il secondo si trova a svolgere una funzione pubblica che è
spesso nella sostanza, un lavoro statale dipendente. La stabilità del secondo gruppo è
una delle caratteristiche più immediate e spesso attaccate.
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Quando i politici mettono a punto i programmi, per la loro effettiva realizzazione
devono appoggiarsi all’apparato amministrativo dello Stato, anche questo è formato da
uomini reali, con diverse capacità, con aspirazioni, ambizioni, strategie.
Molte teorie, concentrandosi sull’azione del burocrate, hanno messo in evidenza,
il suo desiderio di accrescere il prestigio e il potere personale, differenze tra le diverse
teorie si riscontrano piuttosto sula maniera in cui il potere e il prestigio possono essere
accresciuti.
Ad esempio si discute se una struttura molto accentrata che si occupa di attività
differenziate possa garantire maggior prestigio di una struttura decentrata e specialistica
in cui ogni ufficio disponga di una sua competenza e sfera di azioni specifiche.
La specializzazione dell’attività, da svolgere con l’uso di alti profili
professionali, oppure un gran numero di impiegati rendono più importante un ufficio e
influente il suo direttore ? Probabilmente anche a questa domanda non è possibile
fornire una risposta univoca valida in ogni circostanza.
Certamente il burocrate gode di un indubbio vantaggio derivato dalla
informazione asimmetrica sia nei confronti della classe politica che dei cittadini. La
classe politica ignora i costi dell’amministrazione, spesso non è in grado di valutarne i
risultati, gli stessi sono sfuggenti a valutazioni economiche.
Riportiamo un noto esempio che fa cogliere immediatamente la difficoltà di
queste valutazioni: diremo che l’azione di un corpo di polizia è meglio condotta in un
paese dove si verificano più arresti o meno denuncie? In altri termini un alto numero di
arresti corrisponde ad una maggiore efficienza della polizia o ad una maggiore
incidenza dell’attività criminosa? Poche denunce testimoniano poca presenza di
criminali o assoluta sfiducia nello Stato?
Risultati come maggiore alfabetizzazione, allungamento della vita media,
riduzione dei crimini sono difficilmente valutabili, eppure è opinione comune che la
burocrazia pubblica sia inefficace.
Alcuni autori hanno cercato di generalizzare il problema della burocrazia,
affermando che anche nella grande azienda, esistendo il problema della delega e la
asimmetria informativa tra i numerosi azionisti e gli amministratori, si ripropongono
alcune delle strategie tipiche del comportamento della burocrazia pubblica, tuttavia, gli
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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stessi autori ritengono che il confronto col mercato mitighi parzialmente la possibile
inefficienza della amministrazione privata.
Dopo aver constatato la problematica si sono avanzati dei suggerimenti:
a. Creare diversi uffici che offrono lo stesso servizio al fine di modificare la
relazione di monopolio bilaterale classe politica/burocrazia e realizzare
un monopsonio;
b. Stabilire con precisione le procedure a cui la pubblica amministrazione
deve attenersi per limitare la discrezionalità del burocrate che si può
tradurre facilmente in corruzione ed arbitrio. Questa soluzione tende a
creare forti rigidità nel sistema e a cristallizzare i comportamenti e le
soluzioni possibili rendendo la pubblica amministrazione incapace di
affrontare situazioni nuove;
c. Fissare forti incentivi per i burocrati al fine di migliorarne la loro
produttività anche a costo di remunerarli in maniera esorbitante rispetto
allo sforzo profuso.
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Lezione II
7 Conclusioni
Dopo aver sottolineato la necessità dell’interventi pubblico e aver messo in luce
diversi aspetti normativi che la teoria economica stenta a riassorbire in un continuum di
pensiero, vale la pena citare taluni autori riuniti nel filone noto come teoria dell’offerta.
La teoria è estremamente liberista e contraria alla presenza dello Stato nell’economia.
Quest’ultimo dovrebbe invece ripiegare nelle retrovie delle sue funzioni istituzionali
(giustizia, difesa, ordine pubblico) e ridurre drasticamente la spesa pubblica e le imposte.
Tali misure dovrebbero garantire le imprese in varie maniere: con l’aumento del
reddito disponibile, le famiglie si ritroverebbero nella possibilità effettuare maggiori consumi
e maggiori risparmi, quest’ultimi sarebbero prestati per gli investimenti del settore privato,
essendosi quello pubblico allontanato dall’economia, ciò annullerebbe l’effetto dello
spiazzamento (preferenza delle famiglia ad investire in titoli di Stato, meno remunerativi ma
più sicuri). Le imprese, quindi, avrebbero maggiori profitti da investire (perché le tasse sono
diminuite), maggiori richieste di consumo e maggiore offerta di capitali. Tutto questo
dovrebbe fornire grande impulso alla crescita economica, in termini fisici e occupazionali.
L’iniziale riduzione del gettito fiscale, dovrebbe, alla fine del processo, essere più che
compensata dall’aumento della produzione, del reddito e della ricchezza del Paese e, quindi
della base imponibile.
La politica di Reagan, costruita sulla scia di questa teoria, si mostrò fallimentare: il
debito pubblico aumentò per il minore gettito fiscale mentre gli aumenti dell’occupazione e
del risparmio furono tali da compensare questa perdita di colpi dell’economia.
Probabilmente il processo richiedeva tempi più lunghi di quelli consentiti dagli
intervelli elettorali, mentre la riduzione della spesa pubblica non favorì la crescita della
popolarità e del consenso sociale.
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