il ruolo dello stato nell`economia

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il ruolo dello stato nell`economia
INSEGNAMENTO DI
ECONOMIA POLITICA
LEZIONE X
“IL RUOLO DELLO STATO NELL’ECONOMIA”
PROF. ALDO VASTOLA
Economia Politica
Lezione X
Indice
1
Il ruolo dello stato nell’economia ---------------------------------------------------------------------- 3
2
Il ruolo dello Stato nell’economia classica ----------------------------------------------------------- 4
3
Il ruolo dello Stato nell’economia neoclassica ------------------------------------------------------ 6
4
Il ruolo dello Stato nell’economia Keynesiana ------------------------------------------------------ 9
5
Conclusioni ---------------------------------------------------------------------------------------------- 12
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Il ruolo dello stato nell’economia
Il ruolo dello Stato nell’economia era oggetto di dibattito ancor prima che l’economia si
sviluppasse come scienza autonoma : già nell’antica Grecia filosofi come Socrate e Platone
speculavano sull’argomento preoccupandosi dell’ordinamento economico della polis. In un passato,
non così lontano, lo Strato ha assunto un peso crescente, se non determinante, nell’economia di
tutti i Paesi. Attualmente l’interesse per questo tema non è sempre costante, a volte si affievolisce,
altre volte torma alla ribalta più forte e incisivo.
Questo lavoro si propone di puntare l’attenzione sul ruolo che lo Stato ha o dovrebbe avere
nell’economia in relazione alle teorie economiche così come esse vengono concepite dalle varie
scuole di pensiero. Non v’è dubbio, infatti, che esiste uno stretto rapporto tra il loro credo e l’idea
che esse hanno nel ruolo dello Stato nell’economia. Conseguentemente , capire la loro concezione
di quel ruolo aiuta a capire le teorie stesse ed il ruolo che effettivamente ha avuto lo Stato nello
sviluppo economico.
Lo scopo principale di questa analisi è di evidenziare gli aspetti che consentono di
interpretare più adeguatamente le scuole di pensiero classico, neoclassico, keynesiano, e di
collocare l’analisi marxiana nel giusto contesto.
Perché tutto ciò sia definibile, l’argomento verrà approfondito e inquadrato nell’ambito di un
contesto storico in cui si presentano sia lo sviluppo della teoria economica unitamente allo sviluppo
della storia economica, sia l’evoluzione nel tempo delle caratteristiche socio-economiche che
qualificano i passaggi successivi dell’organizzazione sociale.
Di ogni singola scuola, verrà messo in evidenza il contesto economico che ha permesso lo
sviluppo delle teorie; questo, per approfondire e capire, attraverso le argomentazioni portate avanti
dalle varie teorie, il ruolo dello Stato che esse sostengono.
Il quadro che emergerà dall’analisi scaturisce da una premessa fondamentale e cioè : quando
si parla di ruolo dello Stato nell’economia si fa riferimento oltre che a misure poste in essere dai
governi per regolare i meccanismi di mercato e correggerne le distorsioni, anche a quelle misure
poste in essere per far raggiungere a determinate variabili valori desiderati.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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2 Il ruolo dello Stato nell’economia classica
L’economia politica classica si può considerare il prodotto della rivoluzione industriale che
storicamente viene a collocarsi tra la fine del XVIII secolo ed il 1871\. In quel periodo il sistema
economico era capitalistico come capitalistico era il suo metodo di produzione. Di lavoro ve ne era
in abbondanza ed il suo potere di contrattazione era quasi nullo. Le differenze nella capacità
produttiva non avevano ancora assunto alcuna importanza. Le tecniche di produzione erano quasi
sempre le stesse, sempre più o meno costanti e indipendenti dai prezzi dei fattori. La produzione
congiunta veniva considerata come un caso particolare e rilevante.
L’economia classica si occupa della crescita attribuendo alla produzione un ruolo essenziale
e predominante. Alla base degli schemi classici, vi è l’idea che l’intero meccanismo economico si
sviluppi a partire dalle decisioni relative alla produzione delle merci e dell’accumulazione del
capitale.
Ma qual è il metodo per analizzare il processo economico applicato dai classici? E’ quello di
ridurre il gran numero di relazioni economiche tra soggetti ad un limitato numero di relazioni tra
categorie omogenee di soggetti. Quest’ultimi individuabili in base alla funzione che svolgono nel
processo economico. Così, ad esempio, la distinzione che fa Ricardo tra lavoratori salariati,
capitalisti e proprietari terrieri.
Le teorie dei classici sono definite teorie del sovrappiù perché:
1. considerano il processo economico come un circuito ininterrotto di
produzione, distribuzione e consumo che tende a riprodurre quanto viene
consumato e a generare un sovrappiù da destinare all’ulteriore consumo e
investimento;
2. si basano sulla concezione di una società divisa in classi.
Gli economisti classici come Smith e Ricardo accettano il capitalismo e lo razionalizzano
nei termini delle sue potenzialità di progresso. Essi inoltre sostengono un liberismo fondato
sull’efficienza tecnologica e sono fautori della politica del libero commercio e della libera impresa.
In questo contesto, per gli economisti classici, la considerazione predominante che deve
guidare la politica economica è la creazione di condizioni che possano stimolare l’accumulazione;
condizioni che essi, ed in particolare Smith, individuano nel laissez-faire e nella mano invisibile,
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nella convinzione che tutti gli interessi personali e nello stesso te4mpo ciascuno risulta di fatto
controllato da una legge impersonale.
Le teorie degli economisti classici rivelano una disarmonia nelle relazioni sociali del
sistema, disarmonia che Marx, classico anch’egli, riesce ad individuare. La conseguenza teorica che
scaturisce dal pensiero di Marx riguarda la naturale teorizzazione delle contraddizioni del
capitalismo. Ad avviso di Marx l’origine di queste contraddizioni risiede nella conflittualità
esistente tra salario e profitto. La lotta di classe avrebbe annientato il capitalismo il quale altro non è
che uno stadio dell’evoluzione sociale; la sua sarebbe stata una morte inevitabile dal momento che
non avrebbe potuto reggere all’immanente conflittualità. Di conseguenza non era né possibile né
desiderabile adottare politiche tendenti a superare quelle contraddizioni. Impossibile per ragioni
tecniche in quanto il sistema recava in sé la sua autodistruzione della quale era causa la caduta
tendenziale del saggio di profitto. Non desiderabile
perché le condizioni sociali di estrema
conflittualità, ad avviso di Marx, non andavano salvate.
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3 Il ruolo dello Stato nell’economia neoclassica
La teoria neoclassica domina una intera epoca, dal 1871 al 1936, anno in cui appare “La
teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di Keynes. Si sviluppa in un
periodo di grande espansione dell’economia occidentale, in presenza di sensibili miglioramenti nei
salari
e
nelle
condizioni
di
lavoro.
Questa
epoca
è
caratterizzata
dall’aumento
dell’industrializzazione e delle innovazioni che cambiano in modo drastico le condizioni delle
economie occidentali.
Il lavoro non è più abbondante anzi, comincia a divenire scarso; le innovazioni fano
emergere tecniche alternative di produzione all’interno dei se3ttori e, insieme a queste,
differenziazioni nelle qualifiche.
La teoria neoclassica rioccupa dell’allocazione delle risorse “date” tra linee di produzioni
alternative. Il pensiero neoclassico, nella sua analisi del sistema economico riduce l’attività
economica ad un rapporto dell’uomo con le cose che lo circondano; esse diventano possibili mezzi
di soddisfazione dei suoi bisogni. L’uomo dei neoclassici è l’homo economicus cioè un individuo
privo di ogni connotazione di classe. E’ capace di impersonare ruoli diversi e a seconda dei casi
trasformarsi in consumatore, risparmiatore, imprenditore, proprietario terriero e lavoratore
capitalista.
Le teorie dei neoclassicci vengono definite teorie marginalistiche, perché spiegano ogni tipo
di attività economica in base ad un unico principio: quello del comportamenti massimizzante.
Ad avviso dei marginalisti, l’insieme delle remunerazioni dei fattori esaurisce il prodotto,
pertanto non viene in essere alcun sovrappiù, la cui distribuzione è causa ed insieme oggetto di
contese sociali. Da ciò deriva che non esistono più contrapposizioni di interessi di classi o di
sfruttamento di una classe sull’altra; tutti i fattori produttivi sono posseduti dall’operatore famiglie;
tutti i redditi traggono origine da un contributo necessario alla produzione ed hanno pari dignità
speciale. In definitiva , i marginalisti ci presentano l’immagine di un processo economico
perfettamente armonico, in cui tutti i fattori cooperano al raggiungimento del fine ultimo, che è
quello di soddisfare i bisogni liberamente espressi dai consumatori.
Lo stesso individuo non è più visto come un prodotto della società. Quest’ultima è
considerata come una somma di individui, ognuno dei quali adotta sempre un comportamento
razionale, tendente all’ottimizzazione. Sostenendo un liberalismo fondato sull’efficienza
nell’allocazione, i neoclassici sono fautori del libero commercio e della libera impresa teorizzando
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l’armonia delle relazioni sociali del sistema. Il loro liberismo, a differenza di quello dei classici, è
ottimista e lo strumento di cui i neoclassici si avvalgono per spiegare il raggiungimento
dell’equilibrio dell’individuo e di tutti io mercati è costituito dai prezzi relativi.
In questo contesto, la teoria neoclassica tenta di spiegare le condizioni per le quali
quell’espansione sia efficiente.
Il metodo che essa applica evidenzia come il normale livello operativo di un sistema
economico sia quello della piena occupazione.
Ora, se si verificassero eventuali allontanamenti da esso, il sistema economico stresso,
spontaneamente, metterebbe in moto gli opportuni meccanismi equilibratori. Di conseguenza i
neoclassici teorizzano il non intervento dello Stato, perché è compito degli stabilizzatori automatici,
riportare il sistema in equilibrio. Anche durante le due guerre mondiali, quando l’economia
era caratterizzata da un volume della manodopera e delle potenzialità produttive inutilizzate che
avevano raggiunto proporzioni preoccupanti, i neoclassici hanno difeso i meccanismi automatici di
riequilibrio.
Essi attribuivano le cause del permanere della disoccupazione:
1)
all’azione delle associazioni sindacali, che impedivano la caduta dei salari;
2)
allo sviluppo delle imprese di grandi dimensioni, che turbavano il libero
gioco delle forze di mercato.
Tra i neoclassici della seconda generazione non mancarono alcuni economisti che tentarono
di ottemperare il laissez-faire con una politica di riforme.
Marshall ne fu l’iniziatore. Nella sua visione, a differenza che in quella di Walras, c’era un
intreccio inestricabile tra la sfera economica, sociale e culturale, una connessione forte tra i fatti
della sfera materiale e quelli della sfera morale. Quest’intreccio comportava, come conseguenza di
rilievo, l’abbandono della tesi avanzata dai darwinisti sociali dell’epoca, secondo cui lo Stato non
avrebbe dovuto in alcun modo intervenire per correggere il processo della selezione naturale.
Per Marshall la dimensione socio-politica dell’agire umano va tenuta presente sin dall’inizio
del discorso economico.
Le implicazioni generate da tale atteggiamento sul piano della politica economica sono
notevoli. Secondo Marshall lo Stato ha il diritto e il dovere di intervenire nella sfera economica per
regolare i meccanismi di mercato e correggerne le distorsioni. Egli propone di immettere nel
sistema economico politico della società inglese di quel tempo meccanismi correttivi come la
cooperazione, la compartecipazione ai profitti, l’arbitrato in materia salariale e simili.
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Pigou, è il successore naturale di Marshall all’interno del pensiero economico neoclassico.
Egli, infatti, afferma con determinazione la necessità dell’intervento dello Stato nell’economia. In
una sua opera “The Economics of Welfare” mette in evidenza il contrasto positivo tra intervento e
non intervento dello Stato nell’economia mostrandone le influenze sul benessere.
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4 Il ruolo dello Stato nell’economia Keynesiana
L’economia Keynesiana èp il prodotto della crisi senza precedenti che investe la maggior
parte dei paesi industrializzati negli anni tra le due guerre mondiali.
Compiutamente, mesce nel 1936 con la teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e
della moneta.
L’economia in questo periodo è caratterizzata da una disoccupazione che in USA e nel
Regno Unito non scese mai al di sotto del 10&% e supero ò il 20% della forza lavoro nei periodi
peggiori e da una inflazione in Germania nell’ottobre del 1923 era ad un tasso del 325% mensile
comportando la crisi del sistema monetario ed il ritorno al baratto.
Sono gli anni in cui si acuiscono le tensioni sociali, anni in cui le code per avere pane e
sussidi si allungano sempre più ed i veterani della prima guerra mondiale protestano per essere stati
dimenticati.
Per analizzare il sistema economico Keynes considera le proprietà del sistema capitalistico,
un sistema in cui l’investimento è ciò che mette in moto l’economia ed il cui funzionamento è
motivato dalle aspettative di profitto dei capitalisti, anche se lo stimolo ad investire è governato
dagli spiriti vitali dei capitalisti.
Capovolgendo l’impostazione neoclassica ed attribuendo rilevanza alla domanda, Keynes
spiega l’arresto dello sviluppo dell’economia capitalistica ed il conseguente equilibrio di
sottoccupazione che ne deriva.
Nella teoria generale, egli ritiene che possa esservi in una economia una disoccupazione
involontaria permanente e che pertanto si possa verificare un equilibrio di sottoccupazione.
In particolare, nella sua teoria della determinazione del reddito nazionale, Keynes sostiene
che il livello dell’occupazione e della produzione sia determinato dalla domanda affettiva aggregata
e che non esistano meccanismi automatici tendenti ad assicurare la piena occupazione.
I redditi sono il prezzo di prestazioni corrispondenti a delle domande ed il livello del reddito
nazionale dipende pertanto da due categorie di spese: 1) spese per consumi dipendenti dalla
propensione al consumo e 2) spese per investimenti sussistendo fintantoché esista un divario
positivo tra l’efficienza marginale del capitale ed il tasso di interesse. Ad avviso di Keynes
l’economia capitalistica contiene in sé le cause per le quali essa tende al ristagno, cause che non
sono il risultato di semplici contingenze storiche.
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La causa principale del ristagno, infatti, viene attribuita da Keynes ad un cronica
insufficienza della domanda imputabile alle seguenti tre motivazioni:
a)
progressiva riduzione della propensione marginale al consumo
b)
diminuzione dell’efficienza marginale del capitale;
c)
eccesso di preferenza per la liquidità
Il ristagno tuttavia non implica il crollo del sistema economico capitalistico, e, a differenza
di Marx, Keynes ritiene possibile e desiderabile adottare politiche economiche tendenti a superare la
crisi: possibile mediante l’utilizzo di strumenti destinati ad accrescere la domanda globale effettiva;
desiderabile perchè essi avrebbero consentito al sistema capitalistico di superare le difficoltà i cui
era incappato.
A differenza dei neoclassici, inoltre, Keynes non si illude che una economia capitalistica
lasciata a se stessa sia capace di armonizzare gi interessi provati con quelli sociali, così da
assicurare una allocazione ottimale delle risorse.
Egli è convinto, invece, che il gioco della domanda e dell’offerta possa generare situazioni
di equilibrio su alcuni mercati, escluso quello del lavoro.
Dalla piena occupazione deve prendersi carico l’autorità politica, con una azione di
intervento diretto. Con Keynes la logica del laissez faire viene ribaltata e sostituita dalla logica
dell’interventismo. Nell’ultimo capitolo della Teoria Generale dal titolo potrebbe condurre” Keynes
riprende ed estremizza i temi che aveva affrontato dieci anni prima in “The End of laissez faire,
sostenendo con più autorità la logica dell’interventismo. In particolare egli conferma la sua
posizione antiliberalista, la scarsa efficienza della politica monetaria e la inderogabilità
dell’intervento dello Stato nell’economia. Quest’ultimo non più limitato alla gestione del credito e,
tramite esso, del processo di formazione del risparmio, ma esteso ai campi in cui il laissez faire si è
mostrato debole: la determinazione del livello degli investimenti e la distribuzione del redito.
Keynes ritiene che poiché il livello degli investimenti tende normalmente, in regime di
laissez faire, a portare l’economia verso equilibri di sottoccupazione, lo Stato ha il dovere di
intervenire per assicurare la piena occupazione. Sul fronte della distribuzione del reddito , Keynes
rileva che la naturale tendenza di un regime di laissez faire comporta l’instaurazione di assetti
distributivi arbitrari ed iniqui. Ritiene, inoltre, che l’elevato ammontare di risparmi, generato da una
distribuzione del reddito molto disuguale può solo servire a tenere basso il livello della spesa e della
domanda aggregata, piuttosto che a sostenere il processo di accumulazione. Anche in questo
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contesto lo Stato doveva intervenire senza però intaccare i principi fondamentali su cui poggia
l’economia capitalistica: l’individualismi e la proprietà privata di mezzi di produzione.
Keynes è contemporaneamente antiliberalista e liberale; l’intervento statale per lui non
doveva abolire la mano invisibile ma aiutarla a manifestarsi e, in un certo senso, rendersi visibile.
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5 Conclusioni
In questo lavoro, si è tentato di esaminare la relazione tra le teorie economiche ed il ruolo
dello Stato nell’economia.
Dall’analisi storica è emerso che:
1. nel periodo dominato dalle teorie del sovrappiù il laissez faire francese
costituiva
l’essenza
dell’organizzazione
economica
della
società.
L’intervento dello Stato nell’economia doveva essere ridotto al minimo
indispensabile il modo da consentire agli individui di realizzare la propria
libertà di azione.
2. Nel periodo domi9nato dalle teorie marginalistiche il laissez faire veniva
mitigato. Lo Stato doveva intervenire nell’economia per migliorare il
benessere sociale cioè l’intervento dello Stato nell’economia era basato su
motivazioni microeconomiche che riguardavano l’efficienza. Perché gli
individui sono ritenuto in grado di decidere razionalmente, lo Stato non ha
più motivo di intervenire.
3. Nel periodo dominato dalla teoria Keynesiana il laissez faire veniva ribaltato
e sostituito dalla logica dell’interventismo. L’intervento dello Stato
nell’economia veniva a realizzarsi conseguendo obiettivi macroeconomici
Nel contesto specifico di classici e dei neoclassici, lo Stato assume un ruolo passivo,
perché tenuto solo a rispondere alle sollecitazioni degli individui che difendono la propria
libertà di azione; neutrale perché la sua funzione deve essere solo quella di arbitro tra interessi
individuali, eventualmente in conflitto; giuridica, è perché lo Stato deve realizzare la sua
volontà assicurando il rispetto dei confini della libertà dell’individuo o degli individui, contro
chi e cosa ne compromette la stabilità.
Lo Stato, cioè,è garante del rispetto e del mantenimento della competizione tra individui.
Dopo gli anni trenta del ventesimo secolo, nel contesto propriamente keynesiano in cui
domina l’interventismo, non si nega all’individuo dotato di libertà di azione la possibilità di
perseguire i suoi interessi, ma tale libertà è condizionata dai processi sociali in fieri e dalle
istituzioni che presiedono alla regolamentazione di quei processi.
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In questo contesto, lo Stato assume un ruolo attivo nel definire i bisogni degli individui e
nel contribuire a realizzarli.
La sua azione non è neutrale in quanto produce un vantaggio netto sociale: agisce a
supporto della sfera di azione degli individui ed amplia la sfera degli interessi di questi ultimi.
E’ possibile fare due osservazioni su ciò che è emerso dall’analisi fatta in precedenza;
1. il non interventismo dello Stato richiede un forte intervento dello Stato per
assicurare il non intervento: l’ordine e la legge sono invocati dal liberismo
per assicurare il non intervento. La competizione, la disponibilità di
informazioni la capacità degli individui di conoscere i propri interessi e di
adottare scelte razionali assicureranno l’efficienza di tutti i mercati e
conseguentemente il più elevato tasso di sviluppo possibile in equilibrio di
piena occupazione. I diritti di proprietà devono essere chiaramente definiti e
l’azione dello Stato deve essere diretta ad assicurare che essi vengano
rispettati. Il prelievo fiscale non deve andare al di là dello stretto
indispensabile affinché lo Stato possa garantire l’efficienza dei mercati, la
libera competizione e/o a migliorare entrambi. Diversamente ridurrebbe la
libertà di azione dagli individui ed interferirebbe comunque negativamente
sul processo economico.
2. L’interventismo è frutto di una proposta di un Keynes il quale è più classico
di quanto egli stesso non creda. La domanda che egli si pone infatti è una
domanda classica alla quale anche Marx dà una risposta.
A partire da Ricardo al risposta classica alla domanda “che cosa pone un limite alla
crescita della ricchezza in una economia capitalistica” è che, in assenza di un adeguato flusso di
innovazione, i profitti tendono inevitabilmente a cadere con il processo di accumulazione.
Coerentemente con la prima osservazione il liberismo non sviluppa alcuna teoria
dell’intervento dello Stato dell’economia, né è interessato ad offrire strumenti di analisi
macroeconomica che consentano quell’intervento.
Coerentemente con al seconda osservazione teorizzare l’intervento dello Stato
nell’economia significa accettare una concezione riformista.
Il riformismo prefigura un pluralismo democratico perché ammette l’esistenza in una
società di più gruppo di interessi attribuendo a ciascuno di essi la libertà di perseguire i propri
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fini ed assegna allo Stato il compito di disegnare e difendere un progetto che consenta di
dirimere la conflittualità tra gli interessi dei vari gruppi in vista di un interesse generale.
La macroeconomia si sviluppa quindi in una visione riformista allo scopo di assegnare
allo Stato un ruolo attivo di intervento e di stabilizzazione dell’economia.
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