diritto di famiglia

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INSEGNAMENTO DI
DIRITTO DI FAMIGLIA
LEZIONE IV
“LE QUESTIONI PATRIMONIALI NEI CONTESTI FAMILIARI
(SECONDA PARTE)”
PROF.SSA TIZIANA TOMEO
Diritto di famiglia
Lezione IV
Indice
1 Il fondo patrimoniale ------------------------------------------------------------------------------------ 3 2 L’impresa familiare -------------------------------------------------------------------------------------- 8 3 La pubblicità del regime patrimoniale dei coniugi ---------------------------------------------- 11 4 Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio --------------------------------------- 13 5 L’usufrutto legale dei genitori ----------------------------------------------------------------------- 17 6 Gli alimenti ---------------------------------------------------------------------------------------------- 20 Bibliografia ---------------------------------------------------------------------------------------------------- 22 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Lezione IV
1 Il fondo patrimoniale
Le questioni patrimoniali che attengono al contesto familiare, rappresentano il
contenuto di ben due lezioni. In una si sono affrontati i doveri di contribuzione nonché le
convenzioni matrimoniali e la sorte dei beni personali dei coniugi, sino ad evidenziare gli
aspetti della separazione; in quella di oggi verranno esaminati istituti molto particolari come il
fondo patrimoniale o l’impresa familiare, con riguardo anche al loro regime pubblicitario.
È opinione diffusa che il fondo faccia parte di un patrimonio separato di appartenenza
dei coniugi e come tale sia privo di soggettività in quanto mancante di un’autonoma volontà e
di un’organizzazione del patrimonio, elementi caratterizzanti invece centri d’imputazione di
effetti giuridici. Tale assunto porta a considerare che i creditori per i bisogni della famiglia si
possono soddisfare non solo sui beni del fondo ma anche su quelli del patrimonio personale
dei coniugi e senza che lo sposo possa sottrarsi a tale responsabilità.
V’è da dire però che le norme predisposte alla regolamentazione dell’istituto
richiamato non sono sufficientemente esplicative circa l’identificazione dei destinatari, se cioè
si debbano considerare solo i componenti della famiglia nucleare o anche altri membri.
Dopo la novella del 1975 comunque il dubbio pare essere stato dissipato considerando
sempre come soggetti beneficianti delle disposizioni solo i coniugi ed i figli e ciò si ricava a
più forte ragione dall’osservazione in virtù della quale, quando si suole fare riferimento ad un
gruppo onnicomprensivo, il legislatore lo fa espressamente.
Il fondo risponde delle obbligazioni contratte dai coniugi per soddisfare esigenze della
persona, adeguate al tenore di vita prescelto e non invece per quelle che possano eccedere il
suddetto limite. Per bisogni della famiglia devono intendersi non solo quelli comuni a tutti i
membri ma anche quelli relativi ai singoli componenti che per legge o per scelta, il gruppo
intero è tenuto a rispettare, purché siano sorte dopo la celebrazione del matrimonio. Per tale
motivo dunque ne restano escluse quelle che sarebbero state contratte per esigenze individuali
non rientranti in quelle socialmente meritevoli di tutela nonché quelle sorte prima della
celebrazione del matrimonio.
Il particolare legame che deve sussistere tra il fatto generatore dell’obbligazione ed i
bisogni della famiglia rappresenta il dato dal quale individuare la responsabilità del fondo e
tale circostanza è anche stata rimarcata dalla cassazione che ha confermato che la regola
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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indifferibile sia l’assunzione dell’obbligazione per l’esecuzione delle esigenze della famiglia
ed in quanto poste in essere nell’interesse dei terzi. Così le parti non possono restringere
l’ambito dei bisogni che è funzionalizzato a realizzare, sottraendo determinati beni
all’esecuzione di quei creditori il cui diritto è sorto per pretese comprese nell’indirizzo di vita
prescelto. L’art. 167 c.c. Dispone che possano far parte del fondo beni immobili, mobili
registrati, titoli di credito nonché i frutti dei medesimi beni considerati (art. 170 c.c.) Mentre
non possono essere oggetto di conferimento le pertinenze dei beni del fondo, le universalità ed
anche le aziende. Un orientamento recente considera facenti parte del fondo anche i crediti
dematerializzati garantendo anch’essi trasparenza e certezza come i crediti cartolari.
La lettera della norma dispone che il regime del fondo patrimoniale possa nascere per
iniziativa di uno dei coniugi, di entrambi o anche di un terzo. È evidente che essa presti il
fianco ad una duplice interpretazione a seconda che si abbia riguardo all’aspetto strutturale
dell’atto costitutivo o a quello personalistico.
Nel primo caso quindi esso potrebbe sorgere unilateralmente, bilateralmente o
plurilateralmente, mentre nel secondo la legge fa riferimento all’atto di attribuzione dei beni e
non alla struttura che come tale resta sempre o bilaterale o plurilaterale.
Secondo alcuni la scelta sulle modalità della contribuzione ai bisogni familiari spettano
a ciascuno dei coniugi così come accade per la costituzione del fondo; per altri invece la
gestione sarebbe paragonabile alla figura prevista dall’art. 1333 c.c. Per il quale, ai fini della
stipulazione dei contratti per il solo proponente, non sarebbe necessaria l’accettazione della
controparte pur prevedendosi il rifiuto. Considerato che l’ordinamento tutela l’interesse dei
consociati a non subire ingerenze nella propria sfera giuridica, anche se esse si presentino
vantaggiose, verificandosi una tale situazione al costituirsi del fondo, entrano nel patrimonio
di un coniuge beni appartenenti anche all’altro e che spesso potrebbero non essere liberi da
pesi e dunque comportare conseguenze negative per la gestione coniugale.
C’è da notare che l’atto costitutivo del fondo è un istituto che nasce per regolare
l’assetto dei rapporti economici all’interno della coppia che sia unita in matrimonio per cui
non sorgerà mai senza il consenso dei coniugi stessi anche perché è frutto di una convenzione
adottata proprio ed in funzione della convenzione matrimoniale; si dovrà pertanto affermare
che la costituzione del negozio di fondazione sarà il risultato di due negozi consecutivi, quello
di attribuzione patrimoniale e la convenzione con cui si decide di dar vita al fondo.
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Come detto in premessa, anche con l’iniziativa di un terzo si può dar vita ad un fondo,
quando egli non si limiti solo a conferire beni ma abbia intenzione di concorrere nella
determinazione della disciplina; il proprio apporto comunque, può limitarsi al trasferimento
dei beni con l’intesa che essi dovranno servire alla costituzione del fondo.
Come accade per le convenzioni, anche per la stipula del fondo si sostiene che esso
sorga prima del matrimonio o anche dopo e che possa presentarsi con un contenuto che sia
liberamente scelto dalle parti purché entro i limiti dei principi fondamentali dell’ordinamento.
Il negozio di fondazione ha le caratteristiche della gratuità del titolo e della liberalità,
alcuni hanno sostenuto che quando i conferimenti provengono da un terzo esso ha gli estremi
della donazione obnuziale; se invece è posto in essere da un solo coniuge è da considerarsi
oneroso solo se volto a sgravare l’altro dal proprio dovere di contribuzione. Affermazioni che
trovano contestazione da parte di chi vuole vedere in una tale regolamentazione d’interessi
non una donazione obnuziale, poiché l’atto di liberalità in oggetto sarebbe diretto a
funzionalizzare un regime coniugale che manca nella donazione obnuziale, inoltre per
stipulare il primo sarebbe necessario il consenso di entrambi i coniugi, non richiesto per
l’altro.
Prospettandosi come convenzione matrimoniale, il fondo soggiace ad un duplice
regime di pubblicità, uno con riguardo ai beni che lo comprendono, l’altro invece relativo al
regime della convenzione. Ex artt. 2647 e 2685 c.c il vincolo deve ovviamente risultare dai
registri immobiliari o mobiliari, con trascrizione mentre i titoli di credito dovranno essere
annotati sul documento e sui registri dell’emittente; la convenzione invece verrà ad essere
annotata sull’atto di matrimonio.(ex art. 167 4°co) trascritto il vincolo dovrà esserlo anche
l’acquisto ex art. 2643 e 2684 qualora la costituzione del fondo comporti uno spostamento di
titolarità dei beni conferiti a favore dei coniugi o di uno di essi. Gli effetti della trascrizione
sono diretti a tutelare e favorire il soggetto che acquista (cioè entrambi i coniugi) rispetto al
soggetto che conferisce i beni.
L’amministrazione dei beni del fondo è disciplinata dalle stesse regole che sono
previste per la comunione legale e che sono fissate negli artt. 180-184 c.c..perché però sia
possibile alienare, ipotecare o dare in pegno i beni, è necessario il consenso di entrambi i
coniugi e, in presenza di figli minori, dell’autorizzazione giudiziale. Gli atti di ordinaria
amministrazione possono essere compiuti congiuntamente da entrambi i coniugi, mentre per
quelli di straordinaria amministrazione e per la stipula dei contratti di concessione o di
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acquisto dei diritti personali di godimento, sarà necessario che i coniugi agiscano
congiuntamente; se nasce un disaccordo nella regolamentazione della gestione, essi potranno
adire il giudice per la risoluzione della controversia. La competenza al riguardo spetta al
tribunale ordinario del luogo di residenza della famiglia o dell’altro coniuge, in camera di
consiglio e sentito il pm con la possibilità di proporre reclamo in appello su richiesta dei
coniugi o del pm.
In casi eccezionali la titolarità e l’esercizio dei poteri di amministrazione dei beni,
invece di spettare ad entrambi i coniugi possono collegarsi alla titolarità di uno solo di essi o
di un terzo potendosi anche verificare l’esclusione di un coniuge dall’amministrazione on
concentrazione della stessa in capo all’altro coniuge o con attribuzione ad un terzo.
tale eccezionale titolarità si concretizza quando un coniuge sia temporaneamente
impedito ad amministrare anche a causa della lontananza dalla casa familiare ed al riguardo ci
si chiede se il giudice, in tale situazione possa autorizzare il compimento di una pluralità di atti
proprio in quanto abbia valutato la durata dell’impedimento e della situazione familiare;
effettivamente accogliere una soluzione positiva delle vicenda si mostra consona anche alle
esigenze della famiglia e rispondente al tenore della norma 182 c.c. Che appunto parla di “atti
necessari” e non piuttosto di “atto".
Il fondo si estingue ex art. 171 c.c. A seguito dell’annullamento, dello scioglimento e
della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Comunque esso resta in vita sino al
raggiungimento della maggiore età di tutti i figli al fine di consentire loro il soddisfacimento
dei bisogni esistenziali. Si è discusso circa la tassatività dell’elencate cause o se invece esse
debbano essere completate anche dalle norme previste in tema di comunione legale.
L’ampliamento delle cause di scioglimento sembrerebbe in contrasto con il senso proprio della
convenzione, infatti il fallimento o la separazione dei beni non incidono sul vincolo coniugale
e sull’esistenza della famiglia, non ponendosi come ragioni valide per determinare la
cessazione del fondo. Verificatasi la causa di scioglimento del fondo, viene meno il vincolo di
destinazione dei beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia così che i creditori di
quest’ultima perdono il vantaggio attribuito dalla legge, di non subire sul fondo il concorso
con i creditori personali dei coniugi i quali saranno consapevoli che il loro personale credito è
sorto per motivazioni diverse rispetto a quelle dei bisogni familiari. Pertanto, la logica
conseguenza è la restituzione ed il rimborso di quanto sia già stato conferito previa
autorizzazione giudiziale. Ciascun coniuge dovrà reintegrare il fondo se la propria quota sia
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stata in tutto od in parte espropriata dai creditori personali. L’art. 192 stabilisce che i rimborsi
possano avvenire prelevando beni dal patrimonio comune per l’importo dovutogli; al
momento dello scioglimento s’instaura tra i coniugi una comunione ordinaria, quindi tra loro i
beni rimangono in comunione se il fondo si estingue per accordo dei coniugi senza che venga
pattuito lo scioglimento del regime.
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2 L’impresa familiare
Con l’entrata in vigore dell’art. 230 bis c.c. Solo alcuni dei problemi manifestatisi
hanno trovato soluzioni condivise mentre per altri aspetti, vige ancora una molteplicità di
teorie.
Così non rappresenta un punto di attrito affermare che è necessaria, ai fini della
ravvisabilità dell’istituto di cui all’evocato articolo, un’impresa in senso tecnico non rilevando
la sua natura e dall’altro, un rapporto familiare tipizzato dalla legge con colui o coloro che
assumono la qualifica d’imprenditori.
La materia che sottende l’applicazione dell’art. 230 bis c.c., origina dall’art.55 ult. Co.
Del testo di riforma approvato dalla camera che stabiliva:<quando nelle aziende a conduzione
familiare prestano la loro attività altri componenti la famiglia, costoro partecipano alla
comunione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro svolto>con l’ulteriore precisazione
che equipara il lavoro della donna a quello dell’uomo. L’obiettivo principe della predetta
disposizione era ovviamente di tutelare il lavoro dei familiari che avrebbero concorso allo
sviluppo delle “imprese”, sia collaborando con l’imprenditore che prestando lavoro domestico
nell’ambito della famiglia. Il senato in sede di discussione del testo respinse quegli
emendamenti che separavano il lavoro nella famiglia da quello dell’impresa, promuovendo il
principio di retribuzione del lavoro solo dei familiari che comunque avrebbero giovato
all’imprenditore.
Del resto, la novella del 1975 ha incentrato la sua portata innovativa proprio basandosi
sulla tutela del lavoro nell’ambito dell’impresa familiare, contemperando e garantendo quei
valori costituzionalmente previsti quali la tutela della persona, della proprietà, del lavoro e
dell’iniziativa economica privata.
Tali aspetti fondamentali non sono stati appieno tenuti in considerazione e ciò ha
generato intorno all’art. 230 bis c.c. Una molteplicità d’idee non definite e variegate. Pertanto
c’è una parte della dottrina che considera l’istituto in questione con riguardo al concetto di
“partecipazione” dei familiari ai quali è riconosciuta una con titolarità nell’azienda familiare,
notando nell’impresa familiare una struttura plurisoggettiva, collettiva e a rilevanza esterna.
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A contrario, altra parte della dottrina incentra la propria attenzione sulla tutela al
lavoro, intravedendo nell’impresa familiare lo strumento tecnico che consente di fornire
un’adeguata tutela a quei familiari che collaborano in essa.
L’elemento fondamentale dell’impresa familiare si ravvisa in particolare nella
prestazione lavorativa svolta dal familiare nell’organizzazione aziendale e nella stessa
direzione è l’orientamento della giurisprudenza che considera tale istituto come “non pattizio”
ponendo l’accento sulle caratteristiche della collaborazione che deve essere contraddistinta dai
caratteri della coordinazione continuatività e non esclusività di un lavoro che potrà essere
tanto intellettuale che manuale, direttivo od esecutivo.
Ovviamente si pongono problemi significativi nel momento in cui dovesse sorgere un
conflitto tra l’interesse dei partecipanti e quello del titolare dell’impresa circa la direzione
della stessa e le scelte per la sua gestione.
Va senza dire che non genera conseguenze di rilievo la costituzione da parte
dell’imprenditore individuale di un’impresa familiare relativamente alla titolarità della
proprietà dell’azienda che è e resta dell’imprenditore; a questi spetta l’esclusiva direzione
dell’impresa e le decisioni sulla gestione ordinaria. Ai familiari invece spetta il diritto al
mantenimento degli utili e degli incrementi nonché la tutela della propria posizione di lavoro
in uno a quello di prender parte alle decisioni previste dall’art. 230 bis c.c.
È sempre di derivazione giurisprudenziale l’assunto in virtù del quale la decisione di
cessazione dell’impresa, adottata dalla maggioranza dei partecipanti contro la volontà del
familiare imprenditore, non importa come conseguenza la cessazione della propria attività
bensì solo la liquidazione dei diritti spettanti ai partecipanti.
Significativi elementi si possono derivare, nella logica di collocazione degl’istituti
familiari, dal coordinamento dunque con la struttura dell’impresa familiare. Infatti abbiamo
avuto modo di evidenziare come nel disegno unificato del progetto di riforma del diritto di
famiglia sia l’impresa che l’azienda coniugale erano contenute entrambe nell’art. 55 2° co.
Tale argomento però nei successivi lavori parlamentari, operò una scissione tra l’azienda e
l’impresa familiare continuando a fare della comunione legale la disciplina sulla quale basare
la gestione comune e che comporta un equo potere decisionale parimenti supportata da eguale
responsabilità per i coniugi.
È bene evidenziare le caratteristiche del diritto riconosciuto in capo ai partecipanti e
valutare se esso preveda una contitolarità oppure no. In effetti, non sembra destare particolari
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problemi l’interpretazione ictu oculi posta in essere da più parti e diretta ad attribuire in luogo
d’una intestazione comune di utili ed incrementi, un credito nei confronti del familiare
imprenditore, così distinguendo e ponendo su differenti piani pur tra loro compatibili, la
cumulatività di beni destinati all’esercizio dell’impresa ed il diritto alla liquidazione del
credito nei confronti del coniuge imprenditore. Da tanto si evince che il familiare
collaboratore, pur non rispondendo con il proprio patrimonio delle obbligazioni dell’impresa,
non può andare esente dalle conseguenze negative di veder diminuire gli utili e/o gli
incrementi a causa degli atti esecutivi dei creditori o dell’espropriazione familiare per il caso
d’insolvenza. Del resto, “la partecipazione”attribuita ai familiari è da intendere come adesione
ad una ricchezza prodotta e che residuerà alla cessazione per una qualsiasi causa della
prestazione di lavoro, tenendo conto dei debiti e delle passività esistenti. È così che si può
affermare che i crediti dei familiari nei confronti dell’imprenditore non concorrono con quelli
dei creditori dell’impresa atteso che il loro ammontare è determinato dedotti i debiti e le
passività; il concorso tra familiari collaboratori e creditori dell’imprenditore si potrà avere nel
caso in cui il credito di quest’ultimo abbia diversa natura rispetto all’esercizio dell’impresa.
L’imprenditore possiede libertà d’iniziativa in ordine all’eventualità di cedere la “sua”
azienda senza dover essere obbligato a sentire previamente gli altri dei quali il consenso non è
previsto dall’art. 230 bis c.c. Il richiamo processuale in tal senso è insito nell’art. 732 c.c. Che
per il legislatore ha voluto significare ricomprendere tale diritto in quelle prelazioni proprie
caratterizzate dal fatto che esse sono attribuite a condizioni di parità con l’offerta del terzo.
Egualmente si considera possibile la prelazione nel caso della “datio in solutum” allorquando,
essendo determinato l’ammontare del debito relativamente al quale la datio si verifica, risulti
indifferente cedere il proprio bene al creditore o versargli la somma di denaro riscossa come
corrispettivo della vendita. Con la mancata notifica della proposta di alienazione sorge in capo
al familiare il diritto al “retratto”; in caso di alienazione dell’azienda, la conseguenza
immediata è la scelta tra l’accettazione della liquidazione od il riscatto dell’azienda stessa. Nel
momento in cui la scelta sia stata fatta, non sembra ci siano opposizioni fondate affinché non
debba realizzarsi il diritto per legge o esaurirsi.
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3 La pubblicità del regime patrimoniale dei coniugi
L’art. 2947 c.c. Disciplina la procedura di pubblicità del fondo patrimoniale ex adverso
l’art. 162 c.c. Non prevede invece il negozio costitutivo tra quelli da annotare a margine
dell’atto di matrimonio. Nonostante le divergenze di opinioni però è prevalsa l’ipotesi di
annotazione a margine dell’atto di matrimonio sia per l’assimilazione del negozio costitutivo
del fondo alle convenzioni matrimoniali che per un’interpretazione analogica applicata.
Annotazione e trascrizione dunque che spiegano due effetti differenti in quanto l’una ha
efficacia costitutiva del vincolo nei confronti dei terzi, l’altro avrebbe valore di pubblicità
notizia o comunque sarebbe una fase di una fattispecie complessa di pubblicità diretta ad
individuare beni oggetto del vincolo di destinazione.
Con riguardo al fondo costituito da un terzo, il codice prevede un elemento in più oltre
alla trascrizione a carico di costui ed a favore dei coniugi e dalla quale emerga l’indisponibilità
del fondo. Essa dovrebbe essere fatta con onere a carico dei coniugi beneficiari del fondo
patrimoniale o del solo a cui favore sia stata compiuta l’attribuzione, se non fatta a favore di
entrambi i coniugi. Se in fondo viene costituito un bene che sia già di proprietà del coniuge o
di entrambi, verrà effettuata un’unica trascrizione senza che si faccia luogo ad una contestuale
vicenda traslativa. Può però accadere che al fondo venga conferito il solo godimento dei beni e
che invece il disponente ne mantenga la proprietà e non è univoco l’orientamento al riguardo
cioè se debba procedersi ad una duplice trascrizione a favore dell’altro coniuge ed a carico di
entrambi; la questione sembra risolta nel senso di considerare sufficiente una sola trascrizione
essendo pressoché inutile la sua duplicità.
Altra fattispecie contenuta nell’art.2647 c.c. È quella della trascrizione delle
convenzioni matrimoniali che escludono beni immobili dalla comunione dei coniugi.; in modo
particolare si valuta l’evoluzione della stessa dal momento del passaggio dal regime di
comunione fino alla separazione.
L’impostazione dell’attuale opinione è di considerare la trascrizione da fare in
occasione di ogni singolo acquisto mentre nessuna andrebbe fatta a carico dell’altro coniuge;
così verrebbe a perdere di utilità il contenuto dell’art. 2643 c.c. Che non prevede una
pubblicità aggiuntiva.
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Dopo la riforma del 1985 modificativa dell’art. 2659 c.c. Diviene superflua la doppia
trascrizione poiché è già indicato nella nota di trascrizione il regime scelto dalle parti, in tal
modo il bene acquistato non ricadrà nella comunione. Essendo venuta meno la necessità della
doppia trascrizione l’art. 2647 c.c. Si può ritenere tacitamente abrogato.
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4 Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more
uxorio
I conviventi ricorrono all’adozione di convenzioni al fine di disciplinare i loro
reciproci rapporti economici. È oltremodo sentita dall’opinione pubblica l’esigenza di un
mutamento nelle relazioni sociali tanto che, ad esempio, in olanda con il cosiddetto ”registred
partnership” l’unione è equiparata al matrimonio ed in molti paesi come la slovenia, olanda,
germania, le famiglie eterosessuali e quelle omosessuali, non si differenziano tra loro. Ciò a
cui si assiste è un cambiamento nelle coscienze sociali e giuridiche ed infatti in molti paesi è
ammesso ed è considerato legittimo il matrimonio tra persone dello stesso sesso; tale spunto lo
si ricava in particolare dalle molte sentenze che riconoscono nel fenomeno uno spiccato senso
comune proprio in quanto sia la convivenza more uxorio che la famiglia di fatto che ne segue,
sono poste in essere perseguendo una meta unica che è la stessa della famiglia legittima.
L’autonomia privata ancora, rappresenta un ulteriore elemento diretto a garantire non
solo la nascita di rapporti anche non costituzionalmente previsti ma la costituzione di quelle
unioni di fatto che s’instaurano tra persone dello stesso sesso e per la tutela delle quali si è
pronunciata anche la commissione europea presentando una proposta di raccomandazione
sulla parità di diritti di omosessuali. Essa avrebbe dovuto non solo fungere da garante dei
diritti ma avrebbe dovuto rimuovere gli ostacoli frapposti al matrimonio delle coppie
omosessuali, tutelando i diritti ed i vantaggi del matrimonio anche con la registrazione delle
unioni.
È chiaro che se si tutelano vincoli ulteriori oltre quello del matrimonio, sorgono
rapporti anche in capo ai titolari dei predetti legami, obbligazioni giuridiche che non sempre è
facile individuare e qualificare. Per la coscienza sociale ciò che in passato era considerato ai
limiti del lecito, attualmente realizza quella struttura sociale paragonabile al matrimonio pur
differente da esso che è nota come convivenza more uxorio. Gli obblighi che sorgono
all’interno del rapporto sono privi dei caratteri della coercibilità e della precettività ed una
volta eseguiti non possono più essere ripetuti. Dagli elementi elencati appare chiaro che la
struttura giuridica evocata è quella delle obbligazioni naturali che, dunque, rappresenterebbero
l’unico tipo di relazione tra “lo stare insieme” ed il riconoscimento del mantenimento in
assenza del vincolo matrimoniale. Nelle obbligazioni naturali come in simili legami atipici,
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manca il nesso tra debito e responsabilità e l’estrinsecazione dell’evolversi di questo nesso si
verifica attraverso il contratto che assume carattere programmatico del rapporto mentre
l’interesse perseguito non consiste più nel regolare l’adempimento di obbligazioni naturali ma
nel garantire per il futuro gli effetti economici del rapporto, con soddisfazione per entrambe le
parti. La nascita di un figlio, l’obbligo di fedeltà o la convivenza, possono essere dedotte in un
rapporto come un oggetto dell’obbligazione tanto da costituire un elemento della prestazione o
può anche essere dedotto in obbligazione come una causa di sospensione dell’efficacia. È
ovvio che gli effetti che derivano da una situazione nella quale l’operatività di una condizione
vengano sospesi oppure cadono, sono diversi, come lo sono se si vuol regolare il rapporto
rendendo obbligatoria la convivenza o diversamente applicando una penale o facendo
corrispondere un premio al verificarsi di una condizione. Per esempio la pattuizione di una
penale posta a carico del convivente che abbandonerà l’altro, non è legittima atteso che essa
potrebbe essere disciplinata solo per mezzo del matrimonio. La regola prevista per il
matrimonio, consentendo la separazione ed il divorzio, ha in debita considerazione la libertà
del singolo così che qualunque forma di restrizione della libertà si pone in contrasto con
l’ordine pubblico od il buon costume.
Seguendo tale indirizzo si perviene alla determinazione che il diritto del convivente di
fatto, pur ammettendo che fosse paragonabile a quello di un lavoratore subordinato, non può
essere reso coercibile dalla conclusione di alcun contratto.
Sorte diversa invece sembra abbiano quelle clausole che prevedono la corresponsione
di somme di denaro o di altro bene al verificarsi di un evento; non volendo considerare la
forma che il contratto potrebbe avere poiché la sua particolare natura premiale lo
assimilerebbe alla donazione. Pur ammettendosi che quest’ultimo abbia i requisiti di sostanza
e di forma del contratto richiamato, una condizione contraria al buon costume o all’ordine
pubblico, apposta al contratto di convivenza, implicherebbe il collegamento di elementi propri
dell’atto di matrimonio invece. In conclusione, se in un contratto è dedotto un evento futuro ed
incerto al verificarsi del quale sorga un’obbligazione a carico di uno dei conviventi, ciò che
bisogna considerare è se questa possa limitare la libertà personale dell’obbligato. Nel caso in
cui essa fosse effettivamente limitata, la clausola è da ritenere nulla ex art. 1419 c.c..
Molto particolari e di grande attualità sono i cosiddetti contratti di convivenza e/o di
mantenimento che regolamentano il sostentamento di un convivente nei confronti dell’altro o
dei coniugi reciprocamente. Essi non sono equiparabili al contratto di rendita vitalizia in
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quanto la prestazione cui sarebbe tenuto l’acquirente, innanzi tutto non è di dare ma di fare ed
inoltre contraddistinta dal carattere della infungibilità, continuatività e non periodicità oltre ad
essere intuitus personae; tutti elementi che nella rendita vitalizia mancano. In considerazione
delle numerose pronuncie della cassazione che hanno dato dignità di lavoro remunerato anche
a quello domestico, appare condivisibile che quest’ultimo non debba trovare qualificazione
nella sua gratuità ma in un corrispettivo che ne sia pertanto logica conseguenza anche
nell’ambito di un rapporto di convivenza. Più problematica è invece la figura di una
prestazione eseguita senza contropartita, questione che fa lecitamente dubitare sul carattere
della stessa, affine alla donazione. È infatti proprio con riguardo alle peculiarità del lavoro
domestico o alla natura della casa di abitazione e ai suoi arredi che si pongono significative
diatribe tutt’ora non risolte da parte della giurisprudenza.
se da un lato abbiamo avuto modo di rilevare che la “riforma” per antonomasia del
“diritto di famiglia”prevedendo il regime di comunione legale tra i coniugi ha voluto garantire
maggior tutela per il coniuge debole, dall’altro è bene ricordare che la materia che essa
sottende non è suscettibile di applicazione anche per le convivenze o per lo meno, pur nel
rispetto della formula dell’art. 1372 c.c. Può essere convenzionalmente riprodotta una volontà
diversa. Così per evitare di esporre a pericolo i beni che erano goduti in comune prima della
cessazione della convivenza, è auspicabile che i conviventi predispongano un inventario degli
stessi distinguendo tra quelli che nella comunione non rientrino rispetto agli altri; certamente
verrà a porsi un problema circa la vincolatività del patto nell’ipotesi della morte di uno degli
stipulanti. In tal caso, pur non potendo siffatta clausola spiegare effetti verso i terzi,comunque
avrà la funzione di distribuire equamente tra i coniugi gl’incrementi del patrimonio.
È ovvio che decidendo di “rimanere insieme” sottraendosi alla ritualità e formalità del
matrimonio, si opta per la non volizione di quelle rigide previsioni sia personalistiche che
patrimonialistiche che il vincolo richiamato pretende avere, con la conseguenza che se i
conviventi intendono contraddistinguere il proprio legame alla stessa stregua di quello dei
coniugi, dovranno espressamente e ritualmente stabilirlo per iscritto e con la sacralità della
forma che l’atto richieda. Risulta altrettanto naturale che all’interno del contratto sorto tra i
conviventi non sia pensabile reintrodurre un obbligo diretto a non sciogliere il rapporto o a
stabilire regole punitive nel caso in cui uno dei due decidesse di rompere il legame. Si può
affermare con certezza, ad ogni modo che una volta che sia stata rispettata la volontà delle
parti di salvaguardare la libertà personale di ciascun partner, ogni soluzione astrattamente
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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possibile sia anche ammissibile, sempre nei limiti dei paradigmi della liceità e meritevolezza
di cui all’ordinamento giuridico.
Oltre che da un contratto suscettibile di avere differenti contenuti, i rapporti
patrimoniali nell’ambito di una convivenza more uxorio possono essere regolati anche da un
trust.
Il costituente, che può essere sia uno dei conviventi che entrambi o addirittura un terzo,
potrebbe destinare o separare parte del proprio patrimonio prescrivendo per il trustee norme a
beneficio dell’unione di fatto fissando eventualmente disposizioni relative allo scioglimento.
L’ipotesi sarebbe quella di chi, volendo garantire alla propria compagna una vita
dignitosa commisurando le elargizioni alle necessità della convivente, non procura e non vuole
procurare danno alla propria famiglia.
La dottrina suggerirebbe la creazione di trusts tra i conviventi affinché producano
efficacia per quando il disponente abbia cessato di vivere dunque post mortem. È ovvio che
ogni situazione debba essere esaminata caso per caso atteso che il richiamo fatto al trust non
esclude un contrasto con il divieto dei patti successori.
Esaminando la struttura della figura giuridica in questione può evincersi che il
trasferimento di beni dal settolor al trustee non è un atto con causa di liberalità lì dove manchi
l’animus donandi del settlor nonché dell’arricchimento del trustee ma potrebbe costituire
donazione indiretta l’attribuzione che il settlor attua a favore del beneficiario
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5 L’usufrutto legale dei genitori
L’art. 324 c.c. Novellato dalla legge 1975 assegna in comune ai genitori esercenti la
potestà, l’usufrutto dei beni del figlio i quali sono destinati al mantenimento della famiglia ed
all’istruzione ed educazione dei figli.
A partire dal code napoleon passando attraverso quello del 1865 sino all’ attuale del
1942 per poi finire con la legge di riforma del diritto di famiglia del 1975, l’istituto richiamato
ha subito significative modifiche la cui portata è facilmente desumibile dal fatto che in passato
si era sempre e solo parlato di usufrutto legale del padre mentre ora esso è dei genitori.
Inizialmente s’intendeva come corrispettivo delle cure che il genitore aveva prestato al
figlio mentre altri ne hanno rinvenuto la volontà nella presunta volontà del figlio stesso.
Entrambe le teorie però hanno dato adito a dibattute critiche e soprattutto è stata respinta
quella che considerava l’usufrutto dei genitori quale compenso per le cure prestate al figlio.
La significativa innovazione apportata dalla l. Del 1975 riguarda l’eliminazione degli
obblighi inerenti l’usufrutto legale ex art. 325 c.c. Ossia le <spese di mantenimento, istruzione
ed educazione del figlio> prevedendo all’art. 324 c.c. Che <i frutti percepiti siano destinati al
mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli>. Non esiste un
orientamento univoco nemmeno per ciò che riguarda la precisa individuazione della natura
dell’istituto in parola tant’è che a fronte di chi dubiti sulla possibilità di considerarlo oppur no
un diritto, c’è chi si chiede se abbia natura reale e se possa essere ricondotto ad un usufrutto
ordinario. Pertanto se da un lato ci sono coloro i quali lo considerano un diritto soggettivo, ex
adverso esiste l’orientamento di chi lo inquadra come diritto reale e dunque ricompreso
nell’usufrutto ordinario prima della novella di riforma, l’usufrutto spettava al padre fino a
quando questi esercitava la patria potestà mentre nelle disposizioni attuali, titolari sono
entrambi i genitori che esercitano la potestà ex art .324 i°co c.c. Opportunamente modificato al
fine di attuare anche in questo caso il principio di parità, dunque se si adotta il criterio della
potestà per ascrivere la qualifica di titolare del diritto, nel caso in cui fosse esclusiva
prerogativa di un genitore l’esercizio della potestà, solo questi avrà l’usufrutto.
Anche i genitori adottivi possono essere titolari di questo particolare diritto ed a
seconda del tipo ed a seconda del tipo di adozione; ad esempio nel caso di normale adozione
di minorenni, cosiddetta adozione legittimante, l’adottato acquista lo stato di figlio legittimo
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dell’adottante ai sensi dell’art. 27 della l. 184 del 1983 e pertanto agli adottanti spetta la
titolarità dell’usufrutto legale. Nel caso di adozioni in casi particolari, l’art. 48 co 3° esclude
che all’adottante vada attribuito l’usufrutto legale.e parimenti nessun rilievo può assumere
l’adozione di persone maggiori d’età disciplinato dall’art. 291 c.c., differente invece è la
posizione dei genitori naturali i quali se hanno riconosciuto il proprio figlio ne avranno anche
l’usufrutto.
È
importante sottolineare come prima della riforma della legge sull’affidamento
condiviso, l’esercizio della potestà fosse attribuito ad entrambi i genitori ed anche la titolarità
dell’usufrutto legale poteva essere comune, pur dovendo solo il giudice dare disposizioni sul
concorso dei genitori. Oggi con le nuove regole non ci sono più vincoli applicativi per
l’usufrutto legale dovendosi ricorrere alle regole generali ex art. 324 c.c. Così che i genitori
esercenti la potestà avranno in comune l’usufrutto dei beni del figlio senza che il giudice
debba dare disposizioni specifiche al riguardo.
Genericamente si sostiene che tutti i beni dei figli siano sottoposti al vincolo
dell’usufrutto legale ma con eccezioni dettagliate vengono escluse determinate categorie di
beni e precisamente:
-quelli acquistati dal figlio con i proventi del lavoro; i beni lasciati o donati per
intraprendere una carriera, un’arte o professione; quelli lasciati o donati al minore a
condizione che i genitori esercenti la potestà o uno di essi non ne abbiano l’usufrutto; infine
quelli pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione e accettati nell’interesse del figlio
contro la volontà dei genitori esercenti la potestà. Esiste poi un’altra ipotesi particolare al
realizzarsi della quale i beni del minore non possono essere soggetti all’usufrutto, quando ci
sia stata un’esclusione dalla successione a causa d’indegnità ed in tal caso è escluso che si
possa ipotizzare un esercizio in capo all’indegno. Le ipotesi elencate sono da considerarsi
tassative e di stretto rigore interpretativo anche se è compatibile con le medesime farvi
rientrare i beni in surrogazione di questi appena ricordati. Quali obblighi stabilisca l’art. 325
c.c. In capo all’usufruttuario è presto detto in quanto essi sono previsti dall’art. 1001 ss con
eliminazione, dopo la novella del 1975, del riferimento alle spese di mantenimento, istruzione
ed educazione circoscritte al soddisfacimento del solo figlio ed estese invece alla tutela
dell’intera famiglia. Data la diversità di presupposti e di disciplina tra l’usufrutto legale e
quello ordinario, di sovente accade che il primo si spenga a seguito di avvenimenti che invece
non avrebbero portato all’estinzione del secondo. Così sono cause di estinzione dell’usufrutto
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legale il raggiungimento della maggiore età del figlio o la sua emancipazione, inoltre,
conducono al medesimo risultato la morte di quest’ultimo ma anche quella dei genitori nonché
l’interdizione per infermità di mente del titolare.
Stabilisce l’art. 329 c.c., rimasto immutato anche dopo la riforma del 1975, che una
volta cessato l’usufrutto, se il genitore ha continuato a godere i beni del figlio convivente con
esso senza procura ma senza opposizione, o anche con procura ma senza l’obbligo di rendere
conto dei frutti, egli od i suoi eredi non sono tenuti a consegnare i frutti esistenti al tempo della
domanda. Esiste al riguardo un’impostazione tradizionalistica che individua il fondamento
della norma nella volontà del figlio di voler tollerare la continuazione del godimento da parte
del padre, ed a contrario ce n’è un’altra che considera la produzione di tali effetti non in
quanto provenienti dalla volontà del figlio bensì della legge. È importante al riguardo aprire
una parentesi sull’azione di risarcimento danni riconosciuta in capo al figlio, qualora si provi
che i frutti dei suoi beni siano stati utilizzati per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
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6 Gli alimenti
L’ordinamento giuridico riconosce varie figure di obbligazioni alimentari che derivino
o da contratto come il cosiddetto vitalizio alimentare o da fatto illecito o da qualunque atto o
fatto idoneo a produrle (come l’obbligo legale di alimenti od il legato di alimenti).
Tale istituto è storicamente risalente nell’ambito della cerchia familiare e trova il suo
fondamento nel dovere di solidarietà anche se non può dirsi che si esaurisca in essa, anzi, vive
di una sua propria autonomia;basti pensare ad esempio al contenuto dell’art. 437 c.c. E che si
riferisce al donatario in quanto primo obbligato alla corresponsione degli alimenti al suo
donante, pur non essendo allo stesso legato da alcun vincolo di familiarità.
La ratio dell’istituto si ravvisa nella tutela delle persone che si trovino in stato di
bisogno, incapaci di provvedere a se stesse, così che l’obbligo alimentare sarà eziologicamente
diretto a garantire una vita dignitosa da parte di coloro che dispongono di maggiori mezzi e
che si trovino con l’alimentando in una particolare relazione personale. Non ci troviamo di
fronte ad un istituto discrezionale nel contenuto né arbitrario nell’individuazione dei soggetti
legittimati in quanto devono sussistere presupposti soggettivi ed oggettivi per la sua
operatività;in primis essa è un ‘obbligazione personale, dunque chi ne usufruisce deve trovarsi
in effettivo stato di bisogno od il suo rappresentante legale ed inoltre essa si estingue ipso iure
alla morte del soggetto alimentando o dell’alimentante. La prestazione cui è tenuto
l’alimentante ha i caratteri dell’urgenza nonché dell’indisponibilità da cui ne deriva anche
quello dell’incedibilità per un diritto che seppure di per sé è imprescrittibile lo sono invece le
singole annualità che soggiacciono alla prescrizione quinquennale ex art. 2934 2° co.
Non è solo la famiglia nucleare ad essere tenuta a garantire adeguati mezzi di
sostentamento per il soggetto che versi in particolare stato di bisogno, esso è esteso al rapporto
di coniugio come a quello di parentela (che ricomprende la famiglia legittima, legittimata,
naturale o adottiva), il rapporto di affinità e quello di parentela in linea collaterale. Sul
momento in cui nascerebbe il diritto a percepire questa particolare obbligazione, esiste un
vivace contrasto tra chi sostiene che la domanda giudiziale o stragiudiziale rappresenti
l’elemento costitutivo del rapporto e chi invece meno ritualmente riterrebbe che la necessità
improcrastinabile del “bisognoso” lo indurrebbe a fare formale e seria richiesta in tal senso.
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appare chiaro che la prima ipotesi sia quella più percorribile e che convince maggiormente
anche la giurisprudenza.
Il quomodo della corresponsione è abbastanza singolare atteso che secondo il dettato
dell’art.443 c.c.<l’obbligato può scegliere di corrispondere, in via anticipata, un assegno
alimentare periodico oppure di accogliere e mantenere l’avente diritto nella propria casa>
entrambe le prestazioni hanno carattere patrimoniale. È ovvio che il diritto di scelta spetti al
debitore e le regole per effettuarla sono tipiche soprattutto se si considera che il giudice può
valutare l’opportunità della scelta effettuata ed anche di modificarla eventualmente. Proprio in
considerazione di questo potere attribuito all’autorità giudicante, non sono lontani dalla realtà
situazioni al verificarsi delle quali il giudice, su domanda della parte interessata, potrà
procedere a dichiarare la cessazione dell’obbligo, una volta accertato il non perdurare dei
requisiti soggettivi ed oggettivi, o la riduzione dell’obbligo o per i motivi opposti, l’aumento.
Si esamineranno in sede di qualificazione del “mantenimento”le differenze esistenti tra i due
istituti sia in termini soggettivi che oggettivi.
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Bibliografia
• Il diritto patrimoniale della famiglia trattato g.bonilini e g.cattaneo
• I quaderni dell’aiaf 2005
• Il regime patrimoniale della famiglia trattato cicu-messineo
• Diritto civile trabucchi ediz.2008
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