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“ALLA RICERCA DELL’EFFICACIA
EDUCATIVA”
PROF. BARBARA DE CANALE
Alla ricerca dell’efficacia educativa
Università Telematica Pegaso
Indice
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Il Programma Head Start.......................................................................................................... 3
2
Approcci educativi ..................................................................................................................... 7
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Il Programma Head Start
Ideato negli Stati Uniti nel 1964, il programma Head Start aveva l’intento di offrire un
insieme di stimolazioni e di opportunità ai bambini di età compresa tra i tre ed i sei anni,
provenienti dalle classi meno abbienti e dalle minoranze etniche. Tale programma portò alla
creazione su scala nazionale di tutta una serie di centri prescolastici operanti dapprincipio nel solo
periodo estivo, ed estesi successivamente a tutto l’anno scolastico. Gli obiettivi dei programmi
erano quelli di incrementare le capacità cognitive dei bambini, di promuovere il loro sviluppo
emotivo e sociale, di accrescere il senso di autostima, di favorire la relazione famiglia-bambino.
Si cercava perciò di promuovere una crescita dell’intelligenza offrendo molteplici e
variegate esperienze; si tentava di incoraggiare lo sviluppo linguistico sollecitando la
verbalizzazione di sentimenti ed idee e favorendo il dialogo con adulti e tra pari; si provava a far
comprendere e a far acquisire modalità comportamentali dissimili da quelle degli ambienti di
provenienza.
Nel 1969, il Governo americano incaricò l’Università dell’Ohio di intraprendere, assieme ad
un istituto privato, una ricerca valutativa su di un campione di 104 centri Head Start distribuiti nel
Paese.
Emerse anzitutto una difformità in merito agli obiettivi dichiarati dai direttori dei centri.
C’era chi puntava ad un miglioramento del senso di autostima, di confidenza e di accettazione di sé,
chi perseguiva un aumento delle capacità linguistiche e grammaticali, chi individuava altri target
come risultato della propria prassi operativa. Mancava sostanzialmente un singolo e generale
obiettivo prioritario a livello nazionale.
I centri differivano anche in relazione alle fasce di età accolte. Alcuni ospitavano bambini di
età compresa tra i 42 e 46 mesi, altri addirittura ammettevano utenza sino ad un’età di 83-85 mesi.
La maggior parte dei bambini proveniva da minoranze etniche (in particolare neri) e da famiglie con
un reddito inferiore a 4000 dollari l’anno.
La validità e l’efficacia effettiva dei programmi venne valutata selezionando 2000 bambini
che ne avevano usufruito e che si trovavano, al momento della ricerca, nelle prime tre classi delle
scuole elementari. Furono presi in considerazione aspetti quali il rendimento scolastico, l’abilità
linguistica, il concetto di sé, gli atteggiamenti in rapporto alla famiglia, alla scuola, al gruppo dei
pari, alla società in generale. I bambini Head Start non erano significativamente superiori in termini
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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di sviluppo cognitivo o affettivo rispetto ai bambini del gruppo di controllo e questo mise in dubbio
la opportunità di continuare a finanziare questo tipo di programma.
La ricerca venne criticata ed i suoi risultati furono ritenuti discutibili o comunque alterati da
una non adeguata selezione del campione e da non valide analisi statistiche; altre ricerche furono
condotte e portarono a risultati talvolta dissimili, ma tutte sostanzialmente evidenziavano come il
miglioramento registrato dai bambini nell’immediato, in termini di incremento del QI, andasse
scomparendo nel giro di pochi anni (Francescato, 1977) .
I genetisti interpretarono il fallimento dei programmi come la conseguenza delle differenze
esistenti tra i bambini in termini di dotazioni genetiche.
Gli ambientalisti conclusero che le differenze prodotte dall’ambiente nella strutturazione dei
processi di sviluppo non potevano essere eliminate se non attraverso una radicale riforma della
struttura sociale che eliminasse la povertà, la scarsa istruzione, l’emarginazione sociale.
Tra gli studi longitudinali riportati in letteratura, è la ricerca realizzata da L. J. Schweinhart,
H. V. Barnes e D. P. Weikart ad essere considerata la valutazione più approfondita condotta per il
suo rigore, il suo carattere sperimentale, la sua durata.
Il campione era composto da 123 Afro-Americani provenienti da ambienti poveri e ad alto
rischio di insuccesso scolastico. Il gruppo sperimentale seguiva un programma di apprendimento
prescolare, il gruppo di controllo no. I soggetti furono seguiti nel corso del tempo e vennero
intervistati all’età di 27 anni. Furono parallelamente consultati i dossier scolastici, i dossier dei
servizi sociali e gli archivi pubblici.
La ricerca evidenziò i seguenti risultati in relazione alle sotto riportate categorie:
a) Comportamento in società: i membri del gruppo sperimentale avevano avuto più di
rado problemi con la giustizia (il 7% tra di essi era stato arrestato per 5 volte o più rispetto al
35% dei membri del gruppo di controllo).
b) Reddito e situazione economica: il 29% dei membri del gruppo sperimentale
guadagnava 2000 dollari o più al mese contro il 7% dei membri del gruppo di controllo; il 36%
tra essi era proprietario di una casa (contro il 13% del gruppo di controllo); il 30% aveva una
seconda auto (condizione che si verificava solo nel 13% dei membri del gruppo di controllo).
c) Riuscita scolastica: un terzo in più dei membri del gruppo sperimentale, rispetto ai
membri del gruppo di controllo, aveva ottenuto il diploma di scuola secondaria (71% contro
54%). Nel primo gruppo, inoltre, erano stati riportati migliori risultati ai test di valutazione
scolastica (all’età di 14 anni) e ai test di alfabetizzazione (all’età di 19 anni).
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d) Situazione coniugale: la durata media del matrimonio era due volte più lunga per il
gruppo sperimentale che per il gruppo di controllo; il 40% delle donne del gruppo sperimentale
era sposata all’età di 27 anni contro il l’8% delle donne del gruppo di controllo; i casi di
gravidanza al di fuori del matrimonio differivano notevolmente in numero tra i due gruppi (57%
del gruppo sperimentale contro l’83% del gruppo di controllo).
e) Rendimento dell’investimento statale: l’analisi costi-vantaggi evidenziava che i
programmi rappresentavano un investimento economico soddisfacente, in quanto le spese
destinate al finanziamento erano notevolmente inferiori alle perdite economiche derivanti dalla
disoccupazione, dai costi carcerari e dai costi assistenziali.
La conclusione che se ne potè trarre metteva in luce che:
-
i bambini poveri che seguono dei programmi di educazione prescolare sono
intellettualmente e socialmente meglio preparati alla vita scolastica;
-
è probabile che tale preparazione li aiuti nella possibilità di riuscita scolastica. Essi,
infatti, rispetto al gruppo di controllo, hanno più di rado bisogno di corsi di recupero speciali,
ripetono l’anno meno frequentemente, raramente sono segnalati per problemi di comportamento;
-
di questo intervento precoce pare beneficiare pure la qualità della loro vita adulta: si
riscontrano, infatti, tassi più bassi di delinquenza, di gravidanza in adolescenza, di ricorso ai
servizi sociali. Rispetto al gruppo di controllo, sono più numerosi coloro che completano gli
studi secondari e si inseriscono a livello professionale. Le loro prestazioni, sia economiche che
sociali, risultano ampiamente migliorate1.
Il programma Head Start registrava, dunque, degli effetti positivi in relazione al
proseguimento della carriera scolastica ed alla qualità della vita adulta dei bambini dei ceti
svantaggiati. A parere di Jerome Bruner, esso rappresentò sicuramente un grosso passo avanti
nell’approccio ad una questione sino ad allora rimasta non trattata, ma non affrontava con
franchezza il fulcro del problema, ossia la discriminazione.
Alla base del programma, infatti, vi era l’intento di superare la “deprivazione culturale”, la
quale
“Veniva giudicata a fronte di uno standard di ‘cultura’ derivato da una idealizzazione della cultura della
classe media americana. In questa versione della vita familiare, l’educazione dei bambini consisteva
nell’interazione armoniosa di una madre casalinga a tempo pieno con il suo bambino ben nutrito, a cui venivano
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Cfr. D. P. WEIKART, L’education de la petite enfance: l’offre et la demande, UNESCO, Parigi 2000.
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offerte ampie opportunità di prendere iniziative proprie. Non essere all’altezza di questo modello idealizzato era
‘deprivazione culturale’” (Bruner,
1996, p. 86).
Secondo l’Autore, ciò che si perseguiva era, pertanto, una maggiore conformità al modo di
essere della classe media; messaggio implicito, seppur non intenzionale, dell’intero programma era
che le culture differenti da quelle della classe media (ed in particolare le culture delle madri nere o
ispano-americane, i cui figli erano i destinatari dell’intervento) fossero carenti. La categoria della
“deprivazione culturale” era frutto di una valutazione che si può definire etnocentrica e non teneva
in considerazione i bisogni identitari, le specificità culturali, le tradizioni dei bambini provenienti da
classi sociali inferiori o da etnie differenti.
Accadeva, così, che la scuola legittimasse le disuguaglianze che il sistema sociale generava
tra le varie classi sociali; facendo, infatti, leva sul principio di uguaglianza delle opportunità,
trattava gli allievi, per disuguali che fossero, come uguali, in quanto chiedeva loro di adattarsi a
modelli culturali e a modalità cognitive e comunicative estranee, per molti di loro, alla cultura di
provenienza. Non teneva, inoltre, in considerazione la capacità delle culture di autoriprodursi. Lo
svantaggio, pertanto, anziché ridursi, tendeva ad accrescersi.
Dalle argomentazioni condotte, risulta evidente come per Bruner, i programmi prescolari del
recente passato, avessero trattato come carenze culturali quelle che al contrario erano differenze
culturali le quali, anziché nell’ottica della riparazione, andavano trattate nell’ottica della
valorizzazione, della problematizzazione e del confronto.
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2 Approcci educativi
Con gli studi sopra menzionati, si è cercato anche di capire quali sono gli approcci educativi
più opportuni al fine della promozione di una crescita armoniosa del bambino.
È possibile anzitutto distinguere preliminarmente tra:
1. Approccio programmato2.
Sono chiaramente definiti gli obiettivi da perseguire; le sequenze di apprendimento sono
rigorosamente programmate e destinate a motivare gli allievi verso la realizzazione degli obiettivi;
all’insegnante sono perciò fornite delle istruzioni esplicite per mettere in atto le suddette sequenze.
Il ruolo del bambino è di assimilare quanto proposto dall’insegnante e di trarne profitto, raramente
gli è chiesto di prendere l’iniziativa e di riflettere sui propri processi di apprendimento.
I contenuti mettono l’accento su apprendimenti prescolari specifici.
Il processo di apprendimento è inteso quale acquisizione di risposte “corrette” in rapporto
agli obiettivi didattici programmati3.
2. Approccio orientato all’accoglienza4.
Il ruolo dell’insegnante è unicamente di sorvegliare i bambini nel mentre questi ultimi sono
impegnati nelle proprie attività.
Al di fuori dei momenti dedicati all’igiene personale ed ai pasti, ben poche interazioni hanno
luogo tra l’adulto ed il bambino.
3. Approccio aperto5.
Sia l’insegnante che il bambino prendono l’iniziativa nelle attività di apprendimento.
Contrariamente all’approccio programmato, il processo di apprendimento non è volto
all’acquisizione di nozioni specifiche, è bensì orientato allo sviluppo di processi e concetti cognitivi
fondamentali. All’insegnante sono fornite delle indicazioni metodologiche generali senza che siano
rigorosamente specificati i contenuti del programma.
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È evidente come tale approccio si ispiri alle teorie e alle tecniche del comportamentismo.
In particolare H. Gardner ha denunciato le insufficienze di una scuola che si accontenti dell’acquisizione, da parte dei
suoi allievi, di un sapere nozionistico, privo di significato e difficilmente trasferibile (il compromesso delle risposte
corrette) a scapito di una comprensione vera in cui gli allievi colgano le ragioni dell’apprendere e sappiano applicare le
proprie conoscenze anche al di fuori del contesto scolastico. Cfr.: H. GARDNER, Educare al comprendere, op. cit..
4
Molti interventi realizzati nei Paesi in via sviluppo che si qualificano come “centrati sul bambino” ricadono in questa
categoria.
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Alcuni dei programmi che ricadono in tale categoria si ispirano alle teorie di Jean Piaget.
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Grande importanza è attribuita all’esperienza diretta ed intenzionale del contesto, all’azione
esercitata su tale contesto ed alla riflessione comune sulle esperienze vissute.
I bambini scelgono i contenuti ed i centri di interesse per loro maggiormente significativi tra
quelli disponibili e sviluppano i loro apprendimenti partecipando, attivamente e sulla base di
motivazioni intrinseche, ad un contesto strutturato e supervisionato dall’insegnante6.
4. Approccio centrato sul bambino.
Il bambino è il protagonista principale dell’apprendimento laddove il ruolo dell’insegnante è
di reagire ai suoi interessi ed alle sue attività.
I programmi sono orientati allo sviluppo del bambino nella sua integralità; grande
importanza, perciò, è accordata all’espressione libera e alla crescita sociale ed emotiva piuttosto che
all’acquisizione di competenze prescolari specifiche ed allo sviluppo cognitivo in maniera
esclusiva.
I contenuti sono scelti sulla base della loro capacità di stimolare l’interesse e la curiosità del
bambino e di promuoverne la socializzazione e l’acculturazione. È incoraggiato lo stabilirsi di
relazioni armoniose tra pari7.
6
Per l’importanza accordata all’esperienza diretta, alla partecipazione, alla motivazione intrinseca, alla strutturazione di
centri di interesse, tale approccio ricorda quello utilizzato nel Progetto Spectrum. Si veda: H. GARDNER, Educare al
comprendere, op. cit., pp. 215-220; per approfondimenti in merito: J. CHEN, M. KRECHEVSKY, J. VIENS, E. ISBERG,
Cominciare a costruire dalle potenzialità dei bambini. L’esperienza del Progetto Spectrum. Vol. 1, Junior, Bergamo
2001; J. CHEN, M.KRECHEVSKY, E. ISBERG, Prime attività di apprendimento. L’esperienza del Progetto Spectrum . Vol.
2, Junior, Bergamo 2002; M. KRECHEVSKY, H. GARDNER, D. H. FELDMAN, Manuale di valutazione prescolare, Vol. 3,
Junior, Bergamo 2002.
7
Cfr. D. P. WEIKART, Relationship of curriculum, teaching, and learning in pre-school education, in J. C. STANLEY
(eds.), Pre-school programmes for disadvantaged, John Hopkins University Press, Baltimore (MD) 1972.
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