Un puntino nero

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Un puntino nero
Tempo Libero 11
Corriere di Bologna Giovedì 12 Agosto 2010
TRENTA SECONDI
Racconti d’estate
BO
«P
di FABIO BACCHINI
ortare un cane in chiesa!»
«Io non ci vedo nulla di male. Per lei il cane è come una
persona».
«Ma non lo è per gli altri».
«Mi passi gli occhiali da sole? Sono nella tasca interna della borsa».
Mi allungo sulla sinistra, e la sabbia mi
impana le costole. Un legnetto intacca la
spalla sopra l’ascella e crea un solco che
tra qualche minuto sparirà. Afferro un
manico con un guizzo dell’indice, ruoto il
braccio in alto con una eleganza di danzatore ritmico, compenso il sovrappeso tendendo le gambe e mi getto la borsa sulla
pancia. Si sente un rumore di oggetti femminili che sbattono.
«E fai piano, no!...»
«Faccio piano».
La bellezza del mio gesto è passata
inosservata. Le porgo gli occhiali. Una mano decolla dalla portaerei del suo corpo,
prende, vira e torna alla base. Il sole è a
picco.
«Che facciamo?»
«Perché non vai a farti una bella nuotata?»
Pizzico il laccio del bikini come se fosse una corda di contrabbasso. Nessuna reazione. Forse un fastidio silenzioso.
«Vado».
Nuoto per un po’. Le piante dei piedi
Un puntino nero
Il tema
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continuano a scottare anche nell’acqua viscosa e gelida. C’è una secca e con la mano dello stile libero aro il fondo. Mi allontano ancora di più. Ora nuoto a dorso.
Stringo gli occhi ma entrano quantità velenose di sale e di luce. So di essere un
puntolino nero. Smetto di muovermi, mi
compatto come un missile e fendo l’acqua. Spero che sia preoccupata per me. Riprendo a nuotare. Spero che mi stia cercando, andare troppo al largo è pericoloso, sarà lui quello? Mi fermo di nuovo.
Svuoto i polmoni, affondo e scalcio finché riconquisto la verticalità. Uso la testa
come un periscopio. Ombrellone giallo,
no. Ombrellone Algida, no. Ombrellone
nostro. Asciugamano bianco vuoto, il
mio. Piccolo grumo di chiappe lucenti e
scure, l’incertezza triangolare e rossa del
costume: è lei. Abbandonata nel sole, addormentata, morta. Smontata a pezzi dalla luce.
Nuoto ancora. Immagino che lei mi
guardi e mi ammiri. Freno all’improvviso
piantando le mani nell’acqua per non darle il tempo di rimettersi giù. Ma non si è
mossa. Sulla cima di quel monte di ossa
ovali sventola una bandierina rossa. Cinquanta metri più a destra, una famiglia
va avanti e indietro fra la riva e il mosaico
dell’accampamento. Portano secchi d’ac-
qua, come apprendisti stregoni. Un uomo si alza da una sdraio. Si piega, si raddrizza. Scruta verso sinistra. Il calore immette benzina evaporata nell’aria e le
gambe dell’uomo diventano onde di gas
vacillanti. L’uomo guarda verso il mare.
Faccio qualche finta bracciata, non so perché. L’uomo si allontana dal suo ombrel-
Pizzico il laccio del bikini come
se fosse una corda di contrabbasso
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lone, e a grandi falcate procede verso sinistra lungo il bagnasciuga. È alto quattro
millimetri. Vedo il rumore del nylon dei
suoi boxer floreali. L’uomo deve evitare
un bambino con un secchio e per un momento si rinserra sulle punte per schivare, come un torero. Mi sono messo di profilo e di tanto in tanto schizzo sull’acqua
una finta sequenza di bracciate, non so
perché.
L’uomo è a dieci metri dal nostro ombrellone. Non c’è nessun suono. Lei riprende vita. L’uomo ha fretta e i suoi alluci sono grandi polene che sollevano troppa sabbia. L’anca di lei smette di svettare
e torna in basso, al servizio della schiena
inarcata e delle ginocchia raccolte. L’uomo fa un salto e si getta in terra sotto
l’ombrellone. Lei ora è tra lui e me. Le sue
scapole cinguettano. Lui non si vede più.
I minuti passano. I miei polpastrelli
cuociono. Nulla cambia. Il sole è fortissimo. La luce è bianca. Niente è sospetto.
Dietro di lei, però, l’altalena della macchina fotografica appesa alle stecche dell’ombrellone è ritmica e potente. Non si vedono mani che la spingono. Un metronomo
nero, quasi invisibile, che spunta dietro
di lei. Niente altro.
Resta tutto così. Il sole si sposta sempre più in alto. I miei capelli sono quasi
asciutti. Vado sotto il pelo dell’acqua.
L’acqua è viola e freddissima. Riapro gli
occhi. Sale. La sua schiena, la sua testa. Il
mio asciugamano vuoto. Indovino le sue
vertebre. Il tempo passa. Le cose sono immobili.
Lei non si gira. Tutto è normale. La
macchina fotografica oscilla. Il vento
non c’è.
Mi getto in acqua e nuoto più veloce
che posso. Mi basta l’aria che ho, piego la
testa e sono un’ogiva che fila verso la riva, le orecchie si fondono alle clavicole e
i talloni scompaiono dentro la distensione lineare dei piedi. Dopo trenta secondi
sconvolgo la mia rapidità per guardare.
L’uomo si sta allontanando verso destra,
più lento di prima. Lei dorme da ore. L’uomo guarda verso il mare, poi di nuovo di
fronte a sé. Cammina lungo la riva. Nuoto, più lento di prima.
Sgocciolo. Le giro intorno, e ora il suo
costume è un pezzo di stoffa con una trama. Non si muove. Mi butto sull’asciugamano passando attraverso una flessione
ammortizzata.
«Dormi?»
«Mhh… Mhh… Stavo sognando…».
«Hai dormito tutto il tempo»
«Mhh…».
«Non ti fa male dormire sotto il sole?»
«Mhh noo… Che bello dormire così…»
(10 - continua)
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