Vedi prefazione - Circolo Proudhon

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Vedi prefazione - Circolo Proudhon
Prefazione
di Fulvio Scaglione
Caro signore, non ci sono più i politici di una volta!
Può darsi. Ma anche il cittadino che, per dire, non si senta di appaiare Matteo Salvini a Enrico Berlinguer o Matteo Renzi ad Amintore Fanfani, dovrà riconoscere che le
questioni politiche, invece, sono sempre quelle. Soprattutto le questioni che tracciano il rapporto dell’Italia con
il resto del mondo e, in primo luogo, con il sistema di
alleanze in cui essa è inserita.
Se allo scopo non bastasse l’attualità, quella di pronto
consumo che esce dai titoli del Tg e dalle prime pagine,
ecco che arriva questo libro, scritto da giovani studiosi
che in gran parte non erano ancora nati al tempo delle
vicende che raccontano e analizzano e che, proprio per
questo, si pone come un ponte ideale tra il passato recente e il futuro prossimo.
È sufficiente correre l’indice, volendo. Ma non perdetevi il piacere di una lettura di testi non paludati, agili il
giusto, precisi sempre, vivace e capace di giudizi sbarazzini, sottratti alle accademie. Non è obbligatorio essere
sempre d’accordo, state tranquilli. Ma sarà facile apprezzare un lavoro fatto bene e con passione. Un lavoro che,
finalmente, rende onore a una grande storia e al ruolo di
un Paese protagonista: il nostro, appunto.
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La polemica politica e il legittimo schieramento di
parte (qui parla uno più anziano, si capisce) ci hanno
tolto in corso d’operala lucidità per apprezzare lo spessore di certi personaggi nazionali. Pensate alla sfilata che
da De Gasperi arriva a Berlusconi passando per Fanfani, La Pira, Mattei, Moro, Berlinguer, Craxi, Andreotti.
Ne abbiamo citati solo alcuni, quelli che più ricorrono
in questo libro, e già non sono pochi per cinquant’anni
di una storia repubblicana che ora si appresta a pesare i
Renzi e i Grillo. E sono nomi, a ricordarli, e a ritrovarne
le personalità, che già trasmettono tutta la fatica dell’Italia a stare nei recinti cui i limiti economici e demografici
sembravano, e tuttora sembrano, destinarla.
L’Italia, infatti, vive di una schizofrenia di fondo che
la esalta e la deprime allo stesso tempo. Godiamo e patiamo di una posizione geografica decisiva nel Mediterraneo, il mare dov’è cominciato tutto e dove quasi tutto
continua a svolgersi. Siamo esaltati e frustrati da una fantasia politica che vorrebbe mettere a frutto quel patrimonio e, quando trovo il modo per farlo, deve poi render
conto a potentati maggiori e a vincoli ineludibili.
Il Mediterraneo è il nostro grande richiamo e la nostra grande maledizione. Siamo stati sempre avanti, quasi sempre più avanti degli altri. Possiamo ricordare, per
esempio, che nello stesso 1962 in cui Enrico Mattei bruciava nell’aereo distrutto in volo da 150 chili di tritolo
dopo aver stretto accordi commerciali con mezzo Medio
Oriente in un modo che sarebbe rivoluzionario anche
per i tempi nostri, la Francia chiudeva una ignominiosa
guerra coloniale in Algeria? E la storia non si è ripetuta
nel 2011, quando l’infausto Nicolas Sarkozy, Presidente
di Francia perso nella giungla post-coloniale come il soldato giapponese che non si era accorto della fine della
guerra, ha bombardato la Libia del Colonnello Gheddafi
pr efa z ion e
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con il quale l’Italia di Berlusconi aveva stretto un accordo tanto criticato ai tempi e tanto rimpianto, come il Colonnello, dopo?
Enrico Mattei non era del tutto libero ma non era
nemmeno solo. Perché nell’Italia dei primi anni Sessanta
la proiezione mediterranea era vissuta anche come l’occasione per dare in fine all’Italia un ruolo proprio e la
dignità politica che meritava. Parte importante del primo
partito di Governo, la Democrazia Cristiana, discuteva
di “neoatlantismo”, termine usato con spregio dagli avversari interni (al partito, al Paese) ed esterni ma rivendicato infine quale richiesta di una maggiore libertà d’azione dentro una buona fede e una fedeltà atlantica che
nessuno poteva mettere in discussione. Sicché fa un po’
ridere che paia sovversivo ancora oggi discutere di una
Nato che ancora si atteggia a paladina dell’Occidente e
intanto si affanna a proteggere il confine da cui Recep
Erdogan faceva affluire combattenti, armi e denari allo
Stato islamico di Al Baghdadi e che ha contribuito a distruggere la Libia lasciando poi sola l’Italia e la stessa
Europa a gestire il pericolo islamista e i flussi migratori.
Che avrebbero detto La Pira, di questa Nato? E Fanfani,
che aveva contribuito a cavare le castagne dal fuoco agli
americani nel 1956 dopo la perversa spedizione di Suez
di Francia, Gran Bretagna e Israele?
E che avrebbero fatto Aldo Moro prima, Bettino Craxi
e Giulio Andreotti dopo, di fronte alla disgregazione della Libia e all’ostinato rifiuto delle potenze come gli Usa,
delle ex potenze come il Regno Unito e delle potenze immaginarie come la Francia, di fronte all’offerta del nostro
Paese di assumersi un ruolo guida nel tentativo di pacificare e riordinare la Libia, Paese che conosciamo meglio
di chiunque altro al mondo? Come avrebbero manovrato,
loro che sapevano manovrare? Quali relazioni avrebbero
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tessuto, senza chiedere troppi permessi in giro?
Alle stesse categorie di pensiero e a identici stati d’animo appartiene anche il rapporto privilegiato, anch’esso
risalente al volgere degli anni Cinquanta nei Sessanta, tra
l’Italia e l’Unione Sovietica. Rapporto che si è riprodotto
coi Governi Berlusconi e, tuttora, nella palese insofferenza dell’Italia di Renzi di fronte alle sanzioni economiche
e alla rottura di quel dialogo tra Bruxelles e Mosca, tra
l’Unione Europea e la Russia, così inviso a certi ambienti
americani ma per decenni così proficuo per l’Europa.
Per cui Lei forse ha ragione, signore mio: non ci sono
più i politici di una volta. Ma la politica sempre quella è,
e sempre quella sarà per noi finché l’Italia starà lì, sdraiata nel Mediterraneo, amica degli Usa ma poco disposta a
farsi dettare la linea. Non fino in fondo, perbacco.
Il che dà a me e a Lei un’ottima ragione per leggere questo libro. Che rievoca, analizza e proietta verso il
futuro (si parla anche di Renzi, di Grillo…) quella che
è, insieme, una vocazione e un destino. Essere l’Italia,
appunto, senza avere paura del mondo.