Gli scheletri e l`armadio a 4 ante
Transcript
Gli scheletri e l`armadio a 4 ante
Gli scheletri e l'armadio a 4 ante E’ notizia di ieri che verrà tolto il segreto di Stato da alcune delle vicende più dolorose che hanno segnato la storia italiana degli ultimi 40 anni, ovvero piazza Fontana, Ustica, Italicus, piazza della Loggia, stazione di Bologna, solo per citare le più note e vive nella memoria di ognuno di noi. Da parte di tutti i principali commentatori c’è stato un generale plauso verso il governo che ha compiuto un atto che va a favore della trasparenza e della condivisione. Spero che qualcuno non rimanga deluso, aspettando di trovare dentro quelle carte chissà quale verità. Io personalmente, non mi aspetto niente di nuovo: di quelle stragi conosciamo, dopo quarant’anni, molte cose: sappiamo del ruolo attivo avuto dai servizi segreti, dello stretto legame fra neofascisti e pezzi deviati dello Stato, di invasive influenze di tanti, troppi paesi stranieri sulle questioni di politica interna. Sappiamo i nomi di molti di quelli che hanno messo le bombe e soprattutto ne conosciamo i motivi ed il disegno politico che stava dietro. Insomma, c’è veramente poco da scoprire, non aspettiamoci colpi di scena o disvelamenti sorprendenti. Piuttosto, invece che andare a leggere ogni singolo atto o relazione, concentriamoci sul tutto, sull’intero insieme degli eventi, guardiamo quel periodo nella sua complessa stratificazione: potremmo, stavolta per la prima volta, capire realmente chi e cosa eravamo, renderci conto in che razza di paese abbiamo vissuto, su quali menzogne e falsità ci è stata contrabbandata per decenni una falsa Ragion di Stato. Riusciremmo a comprendere meglio quegli anni, non tanto per conoscere la verità di allora, ma per renderci conto che tutto sommato siamo ancora una nazione giovane, acerba, priva di quella spina dorsale chiamata coscienza civile, che si radica negli anni e che permea l’intera società fin dalle sue fondamenta. Quella coscienza civile che proprio in quegli anni ha iniziato a formarsi in Italia, pagando però un prezzo pesantissimo, sia personale (i morti di allora, come ricorda Benedetta Tobagi, sono solo lutti privati) sia come nazione, alla quale sono state precluse tante strade in nome di una non meglio precisata ragion comune. E’ questo il valore positivo che riconosco nell’atto di ieri: una presa di coscienza del Paese con il proprio passato, il riconoscimento di una colpa o quantomeno di un concorso in essa, il tentativo di chiudere i conti definitivamente con quella che Sergio Zavoli chiamò “La notte della Repubblica”. Ma non basta. Mi aspetto ben altro, nel 2014. Se è vero che questa azione va a favore della trasparenza, mi aspetto ben altre aperture sui rapporti fra Stato e Mafia in Sicilia e fra Stato e Camorra in Campania, per esempio. Oppure sulle dismissioni delle aziende dello Stato e sui rapporti fra certa imprenditoria e uomini di Stato, per esempio. Oppure sui rapporti fra finanza e Stato e fra banche private e Stato, per esempio. Questo mi aspetto da un governo di centrosinistra, innovativo, trasparente, che guarda avanti. Se così non sarà, ieri è stata fatta l’ennesima operazione di facciata, a costo zero (tanto, dopo 30 anni, a chi nuoce?), buona per lanciare uno spot e per vivere mezza giornata sui blog, per tacitare la coscienza, ma priva di alcuna sostanza reale. A questo punto, sarebbe stato meglio lasciare in pace almeno i morti. Gianfranco Fancello …. e se vent'anni vi sembran pochi … Fiori, Villa, Pusceddu, Herrera, Napoli, Firicano, Moriero, Sanna, Marcolin, Matteoli, Oliveira. Sembra la preistoria, forse era davvero la preistoria. 27 marzo 1994 (20 anni fa!!), formazione del Cagliari che, nel Sant’Elia da pochi anni rimesso a nuovo, incontra la Juventus pochi giorni dopo una clamorosa eliminazione dei bianconeri dalla Coppa Uefa proprio ad opera dei cagliaritani; stavolta, da copione, vincono i gobbi, rigore a 7 minuti dalla fine di Ravanelli (diranno i detrattori “…il solito rigore!!”)…. Quel giorno però rimane scolpito nella memoria di tutti gli italiani non per l’ennesimo favore arbitrale alla Signora del campionato (allora non avevamo idea di cosa sarebbe arrivato 10 anni dopo), ma semplicemente per il fatto che Berlusconi vince le elezioni e si prende, oltre all’Italia, il suo futuro. Raccontare cosa siano stati questi vent’anni non è semplice, o forse è ancora prematuro: siamo ancora nelle pagine di cronaca, non in quelle della storia, siamo ancora permeati delle nostre appartenenze per guardarci indietro con distacco. La sensazione nuova, di questi giorni, è che però forse sia veramente finita quella stagione: lo si deriva non tanto dalla vicenda processuale di Berlusconi (ormai nota da tempo), nè dalla cattura di Dell’Utri (anch’essa scontata), quanto da un fatto assolutamente nuovo, ovvero dalle dimissioni di Paolo Bonaiuti da Forza Italia. Si, si, proprio lui, il fedelissimo, il portavoce, sempre a fianco, sempre disposto a metterci la faccia per salvare al capo ben altra parte del corpo. Ha incarnato per 20 anni il verbo forzista, anzi, è stato lui l’unico vero verbo forzista, un continuo filo diretto con Arcore (sempre a senso unico), con una fedeltà alla ca(u)sa assoluta, priva di dubbi o smagliature. Sempre a fianco, sempre un passo indietro, ma mai due, pronto a proteggere il capo, ad immolarsi in nome e per conto del Cavaliere, con una fedeltà da soldato giapponese in guerra …. lui, proprio lui, giornalista dai buoni trascorsi al Giorno ed al Messaggero. Ecco perchè le sue dimissioni fanno rumore: non va via solo un senatore vicinissimo al Cavaliere, va via un pezzo della sua storia, del suo progetto, della sua vita politica: è il divorzio che testimonia il fallimento di un matrimonio, che ne certifica lo scioglimento. E’ la dichiarazione di resa, il game over politico, è il triplice fischio finale di una partita che a tanti non è piaciuta fin dalla prima azione, ma che comunque, come tutte le partite, dopo due tempi, qualche volta anche supplementari, poi finisce. E se 20 anni fa perse il Cagliari, oggi esce sconfitta, spero definivamente, l’idea del “nuovo miracolo italiano”, anche se, quasi a tempo scaduto, ci siamo solo salvati in corner… Gianfranco Fancello E’ il marketing, bellezze. “L’italia è il paese che amo”. Come dimenticare il famigerato incipit che segnò nel ‘94 l’ingresso trionfale del marketing nella politica? Sondaggi, focus group, direct marketing, riprese televisive con effetti flou, campagne pubblicitarie 6×3: il tutto mixato da Pubblitalia per creare un prodotto nuovo di zecca, chiamato non a caso, Forza Italia. “Chi si occupa di marketing, racconta storie”, diceva, del resto, Seth Godin. La politica – che di storie ne aveva sempre raccontate tante – non aveva dubbi: negli anni perse quell’aura di superiorità morale per accettare e forgiare a proprio uso le più sofisticate logiche del vile commercio. In quegli stessi anni, al contrario, i prodotti degli altri partiti, tipo Matteo Renzi, avevano un marketing mix oldstyle. Seppure il profilo politico fosse valido e le qualità costruttive intrinseche solide (boy scout, base cattolica, Liceo Classico, Laurea in Giurisprudenza, militanza nel Partito Popolare, nella Margherita e alla Ruota della Fortuna) ed il packaging, rispetto alla concorrenza persino superiore alla media (caruccio, capelluto, buona parlantina, a tratti persino poco noioso) nel complesso Renzi appariva ancora un “articolo product-oriented”. Il mercato politico degli anni ‘90, peraltro, dopo lo scompiglio creato da Berlusconi, era piuttosto asfittico per un giovane e rampante post-yuppy. I tempi medi di sviluppo dei leader del centro-sinistra in Italia erano – come è noto – biblici. Bisognava perciò accontentarsi di completare tutta la trafila del sottogoverno locale e farsi le ossa. Perciò, nonostante il “prodotto Renzi” presentasse elementi di vendibilità potenzialmente interessanti, il Direttore Vendite, detto anche affettuosamente Segretario di Partito, lo considerava comunque un prodottino di nicchia, spendibile a livello regionale, ma improponibile sul mercato nazionale. Il primo restyling 2.0 del prodotto quando vinse le primarie contro il partito, diventando successivamente prima qualità aggiuntiva del “nuovo Matteo Renzi è del 2008, candidato ufficiale del sindaco di Firenze. La Renzi” era quella di non parlare mai di problemi, ma di “soluzioni”. E’ interessante a questo proposito la nota sul sito di DOTMEDIA, l’agenzia incaricata di curare la campagna pubblicitaria: “sono state progettate e effettuate azioni di guerrilla marketing …un modo di comunicare innovativo, dallo stile fresco e dinamico, che ha contribuito a fornire un’immagine positiva e moderna del candidato sindaco”. Il secondo restyling 3.0 del prodotto Matteo Renzi è invece del 2010. Il prodotto prendeva polvere sugli scaffali Toscani e aveva disperatamente bisogno di un mercato più ampio. Per scuotere l’immobilismo della sinistra, arrivò la cosiddetta “strategia del numero 2”: se non puoi essere il numero 1 nel tuo campo, crea un nuovo campo dove puoi essere il numero 1. Ciò avvenne con una campagna pubblicitaria di lancio molto aggressiva che minacciava uno scontro generazionale e che pareva riprendere l’accusa di Nanni Moretti di qualche anno prima: “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Il primo obiettivo da abbattere era un’icona intoccabile e potentissima della sinistra: Massimo D’Alema. Matteo era diventato il numero uno di un nuovo mercato nascente e molto innovativo: quello della rottamazione. Un prototipo davvero rivoluzionario, ma come tutti i prototipi, aveva dei problemi ad accrescere la sua quota di mercato, a causa delle potenti barriere d’ingresso tirate su dalla vecchia classe politica. Il time to market fu forse troppo anticipato: era antipatico ed il PD provò ad emarginarlo, l’Unità lo strapazzava sovente, ed il pranzo ad Arcore, che avrebbe ben fruttato in futuro, al tempo, fu un mezzo passo falso. Ma Matteo era un tipo tosto: à la guerre comme à la guerre, via con la lunga corsa alle primarie, il camper, gli slogan, la voglia di cambiare, tutto inutile. Nonostante questo hard-restyling ispirato alle lezioni Berlusconiane fosse veramente ben riuscito, arrivò secondo alle primarie e se ne tornò a Firenze mesto mesto. Il terzo restyling, il Renzi 4.0 è roba recente. E’ la nuova cultura del boom-boom marketing che rischia di iniziare dove quella umana finisce. E’ la rivoluzione meta-Kotleriana: il turbomarketing politico, che cambia drasticamente la velocità di risposta ai mutamenti del mercato. La rapidità è il nuovo affascinante mantra. Con un catalizzatore non trascurabile comune a tutte le operazioni di marketing di successo: il fattore c, dove “c” sta inequivocabilmente per culo. La lezione di Andreotti è completamente condivisa: il potere logora chi non ce l’ha. Quindi, ne ha dedotto Matteo, va preso alla svelta. E non importa se bisogna rinunciare ad alcune funzionalità della release 3.0, come “arriveremo al potere solo attraverso regolari elezioni”. E’ il nuovo strabiliante e scoppiettante marketing just-intime. Insomma, dal ’94 la dottrina del marketing politico ne ha fatta di strada, ottimizzando il processo di indirizzamento delle proprie azioni – puntate oramai senza remore – dritte nel retto degli elettori. Nessuno scandalo, però. Ha imparato a fare esattamente quello che i consumatori-elettori si aspettano: dipingere con immagini evocative e rassicuranti i contorni del loro agognato sogno. Non svegliateli, il presente è un concetto troppo poco strategico. Meglio concentrarsi sul futuro. Adiosu Lucio Quanta fretta, ma dove corri… Qualcuno ricorda di essere andato a votare a maggio di due anni fa per l’abolizione delle province? Ce n’erano ben 8 e quattro vennero cassate senza appello con percentuali bulgare; sulle altre – quelle storiche – arrivò una valanga di voti affinché venissero eliminate, ma lì il referendum era solo consultivo. Si sa, però, che questo pericolosissimo strumento di democrazia popolare è una vera scocciatura per i politici. Figuratevi che con analoga procedura avevamo votato persino l’eliminazione – tempo addietro – del finanziamento pubblico ai partiti. Ma niente paura, come sapete, non è successo proprio niente. Invece, riguardo alle Province, pare che, se va bene, cambieremo solo il nome. E stessa sorte toccherà al Senato. E’ la rottamazione Renziana 2.0. detta anche Riformismo De Minimis e, più volgarmente, Riformismo del Linguaggio. Parrebbe dunque per il nostro frettolosissimo premier e per la sua fila di aspiranti velociraptor, che sia sufficiente cambiare nome alle cose per cambiarne magicamente la natura. L’ex rottamatore, incurante degli insegnamenti di Platone che faceva dire a Socrate “la conoscenza è vera solo se è conoscenza delle cose e non dei nomi che le indicano”, continua a battere il tempo perché le riforme avvengano prima di subito. A prescindere. E la gente – dicono i sondaggi – sembra apprezzare il sedicente cambio di passo. Anche perché uscito di scena Berlusconi, pensionato Bersani, silenziato Grillo, messo in ferie forzate Letta, non pervenuto Alfano, Renzi ha riempito un palco desolatamente vuoto con quella sua energia da raduno dei boy scout che Monti ha chiamato allegramente “l’impazienza è la virtù dei forti”. E l’uomo freme anche fuori dai confini nazionali. “L’Italia deve tornare a correre” ha detto a Cameron. Poi, la rapidità celebrata da Calvino si è impossessata completamente e – pare – definitivamente del neo-premier: “Correre per le riforme”, “Dobbiamo correre, ce lo chiede il paese”; rinunciando alla cena con i reali d’Olanda: “riparto di corsa, ho molto da fare a Palazzo Chigi”. La stampa è in delirio: “Renzi accelera”, “Turbopremier”, “Renzi va veloce”, “Veloce e deciso”, “Renzi il piè veloce”, solo per citare alcuni titoli recenti. Il “figlio buono di Berlusconi”, come lo ha chiamato Scalfari, smonta – ovviamente alla velocità della luce – i tabù della sinistra, demolisce i padri nobili (ed anziani) come Rodotà, riesce a contrapporsi al sindacato e a Confindustria e, in poche ma efficaci mosse, si ritaglia un ruolo da problem solver, da insostituibile “uomo del fare”. Anzi, come dice Crozza, del fare, del saper fare, del saper far fare e del far sapere. E minaccia stizzosamente pure di andarsene, se non otterrà quel che vuole. Dall’altra sponda, Forza Italia, versa in stato di narcolessia avanzata. Brunetta liquida Renzi come uno “sbruffoncello di provincia”, ma Berlusconi – dice Toti nel fuorionda con Gelmini – non sa che fare per liberarsi “dall’abbraccio mortale”. Sembra acclarato infatti che il non trascurabile consenso che Renzi perde nel PD, ritorni con cospicui interessi dall’area del centro-destra. Forrest Renzi, come lo chiama Padellaro, è cordialmente antipatico agli intellettuali, specie di sinistra, ma piace alla gente perché trotta, galoppa forse addirittura vola. Ha preso il meglio dell’ipercinetismo di Grillo e la dinamicità del primo Berlusconi per rifarsi una verginità politica: è un politico del passato (dal 1999 segretario provinciale del PPI) ma si propone come politico del futuro. E’ dal 1994, quando vinceva 48 milioni (di lire) alla Ruota della Fortuna, che corre per qualcosa. A Repubblica qualche giorno fa ha detto “quel che conta adesso non è il programma; è il crono-programma”. Questo Gulliver dei tempi moderni, pare essere ossessionato dal tempo; non avrebbe difficoltà a confessare a noi neoLillipuziani che adora il Dio orologio, il quale sembra guidarlo in tutte le sue azioni. Ecco spiegato perché deve fare in fretta: la sua è una audace e dissacrante corsa contro il tempo. Ci auguriamo tutti che sappia in quale direzione sta andando e rammenti che soprattutto deve correre contro la disoccupazione, contro l’economia stagnante, contro l’evasione fiscale, contro le false riforme, o che – in difetto – faccia come Alice nel Paese delle Meraviglie. Nell’incertezza, almeno chieda informazioni. Alice: Would you tell me, please, which way I ought to go from here? The Cheshire Cat: That depends a good deal on where you want to get to. Adiosu Lucio