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RASSEGNA STAMPA
lunedì 5 maggio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 05/05/14 (Palermo)
Messina, fuga dalla tendopoli dei migranti
allagata
Il centro d'accoglienza nella mega tendopoli allagata. Da sette mesi i migranti che
sbarcano a Messina sono ospitati al Pala Nebiolo, struttura che comprende una palestra e
un campo da baseball dove evidentemente il sistema di drenaggio non funziona. Ogni
volta che piove si verificano gli stessi allagamenti. L'ultimo ieri pomeriggio. I migranti,
anche minori come si vede dalle immagini, cercano in tutti i modi di coprirsi e mettersi al
riparo dalla pioggia. Il circolo Arci di Messina Thomas Sankara è stato tra le prime
associazioni a chiederne la chiusura ed ha presentato un esposto alla Procura della
Repubblica: "Vivono in condizioni disumane - spiega la presidente Patrizia Majorana soprattutto dal punto di vista igienico sanitario e il sistema di drenaggio del campo da
baseball non funziona". In meno di due giorni dal Palanebiolo sono scappati oltre 260 tra
siriani e palestinesi. Erano arrivati a Messina con lo sbarco del primo maggio. Ieri gli
uomini della squadra mobile hanno arrestato lo scafista, il ventiseienne tunisino Moem
Grhouda (testo e foto di Alessandro Puglia)
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2014/05/05/foto/messina_fuga_dalla_tendopoli_dei_mi
granti_allagata-85256523/1/#1
Da TmNews del 05/05/14
Messina, il centro d'accoglienza è una
tendopoli allagata
Ecco il Palanebiolo, il campo da baseball dove vivono i migranti
Messina, (TMNews) - Questa tendopoli allagata, allestita su un campo da baseball, è un
centro d'accoglienza per migranti. Il Palanebiolo di Messina già da ottobre ospita le
persone che da un paio di anni sbarcano nella città jonica. Ogni volta che piove lo
scenario è questo. Il circolo Arci Thomas Sankara di Messina è stato tra i primi a
chiederne la chiusura, come spiega il presidente Patrizia Maiorana: "Abbiamo fatto un
esposto alla Procura dove chiediamo che venga accertato lo stato delle cose e venga
chiusa la tendopoli, inoltre abbiamo chiesto al sindaco di chiudere questo luogo per
questioni igienico sanitarie. La prima richiesta è stata fatta a ottobre, siamo a maggio e
ancora aspettiamo".In una notte il numero di migranti presenti nella struttura si è
dimezzato, i 266 siriani e palestinesi arrivati nell'ultimo sbarco sono infatti quasi tutti
scappati: "Possiamo dire che tutte le persone provenienti dalla Siria sono scappate, le
famiglie sono tutte scappate".Un'emergenza continua quella dell'accoglienza in Sicilia
dove le strutture sono tutte al collasso. E dove quelle che ci sono, come il Palanebiolo di
Messina, sembrano non avere i requisiti minimi per ospitare delle persone.
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Da Repubblica Tv del 30/04/14
Il resort confiscato al boss ai diplomati
dell'Alberghiero
Le immagini del ristorante e resort di lusso "La dimora dei templari", ad Altamura, chiuso
da un anno e mezzo per il sequestro, poi diventato confisca, al boss della Murgia, Saverio
Sorangelo. La struttura, dotata di sala ricevimenti, grandi cucine, eleganti camere da letto
e un'intera spa con percorso benessere scavato nelle grotte sotterranee, ha un valore di
circa 20 milioni di euro. Appena entrato in funzione, un paio d'anni fa, è stato sequestrato,
affidato all'amministrazione giudiziaria e, subito dopo, sono arrivate le disdette di tutte le
prenotazioni fino ad allora fatte. Abbandonato da allora, ieri è stato tappa nazionale della
carovana antimafia. Sarà gestito dai ragazzi dell'Istituto Alberghiero "Majorana" del
quartiere san Paolo di Bari.
LE INTERVISTE
Annarita Gualberto, studentessa del Majorana, tra i soci della cooperativa che gestirà La
Dimora dei Templari.
Francesca La Malfa, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Bari.
Alessandro Cobianchi, coordinatore regionale di Libera e coordinatore nazionale della
carovana antimafia.
Link al video di RepubblicaTv http://video.repubblica.it/cronaca/il-resort-confiscato-al-bossai-diplomati-dell-alberghiero/164405?video
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ESTERI
del 05/05/14, pag. 1/16
Battaglia a Odessa l’ira della Nato Parla
Rasmussen: l’Europa si difenda
RENATO CAPRILE
KRAMATORSK (Est Ucraina)
NUOVA giornata di battaglia ieri a Odessa. A Kramatorsk l’esercito di Kiev riconquista la
città. Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen: «Basta tagli alle spese
militari, l’Europa deve difendersi ».
Dopo il rogo che ha provocato più di 40 vittime, una nuova giornata di battaglia ieri a
Odessa, la storica città del Mar Nero, dove la tragedia della Casa del sindacato continua
ad essere terreno di tensione e accuse tra Mosca e Kiev. Nel secondo giorno di lutto
nazionale, una folla di oltre mille separatisti si è radunata davanti alla sede della polizia
reclamando il rilascio dei 160 arrestati per i tafferugli, in gran parte filo Mosca. Gli agenti,
in assetto anti sommossa, si sono schierati davanti all’edificio ma sono stati presi ad
ombrellate da alcune “babushke” (anziane). «Fascisti», «Libertà», «Russia», gridava la
gente. La protesta si è presto trasformata in un assalto, con lanci di pietre contro le
finestre e il portone d’ingresso divelto, mentre i poliziotti si barricavano all’interno,
preferendo alla fine liberare una settantina di arrestati. E’ la riprova che Kiev non ha il
pieno controllo della situazione nel sud-est. Lo ha ammesso anche il premier ucraino
Yatseniuk, volato a Odessa per parlare con le autorità locali.
IL cielo che appena fuori città è di una azzurro intenso qui ha il colore del piombo, annerito
dal fumo dei tanti incendi ancora in corso. Copertoni, carcasse d’auto e di bus, vecchi
mobili, bidoni e sacchetti di sabbia che non sono riusciti a fermare l’avanzata dei blindo e
che ora giacciono qua e là ancora fumanti per le strade di Kramatorsk. La Guardia
nazionale di Kiev ieri notte ci ha dato dentro di brutto. Decine di mezzi corazzati e
centinaia di uomini penetrati con un solo obiettivo: liberare una volta e per tutte una delle
due roccaforti, l’altra è Sloviansk, dove tutto è cominciato.
La resistenza dei separatisti filorussi, che Kiev bolla come terroristi, non è stata spazzata
via. Gli assediati avrebbero risposto colpo su colpo ai “fascisti” e inflitto loro numerose
perdite. Forse non sarà andata proprio così, ma di soldati ucraini in questa strana mattina
non se vedono in giro, si sono ritirati qualche chilometri più in là. E così Viktor, uno dei
capi della rivolta, può dire con malcelato orgoglio: «Siamo riusciti a riprenderci la nostra
città. E non solo, anche il villaggio di Andreievka, Konstantinovka e Horlivka siamo riusciti
a strappare al nemico». Possibile mai? Ieri Kramatorsk sembrava sotto il pieno controllo
dei governativi e a distanza di 24 ore la situazione sembra essersi ribaltata. Distinguere il
vero dal falso in tutte le guerre è un’impresa. E la guerra del Donbass, perché ormai di
guerra si tratta, non fa eccezione.
Come siano riusciti poi dei semplici cittadini male armati ad opporsi, e a sentir loro
addirittura ad imporsi, su un esercito vero, non è poi un mistero. Qualcuno li aiuta. E quel
qualcuno non può che essere Mosca. Kramatorsk, duecentomila abitanti circa, rispetto al
resto del paese non se la passa poi così male, legata com’è a filo doppio proprio alla
madre Russia per la quale prevalentemente lavora tutta la sua industria pesante. Legami
economici, dunque, ma non solo “Russia, Mosca”, sono le parole d’ordine che senti urlare
ad ogni angolo. Non sarà facile, e non è nemmeno detto che ci si riesca, normalizzare
questo pezzo di Ucraina.
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A Kostantinovka, “riconquistata” secondo Viktor, vari miliziani sarebbero rimasti feriti nel
tentativo di assaltare la torre della televisione per interrompere l’emissione di programmi
ucraini e ristabilire i canali russi. Sloviansk, invece, l’epicentro della rivolta e che è stata la
prima città presa d’assalto dalle truppe di Kiev, vive un momento di relativa calma. Aspetta
il nemico arroccata all’interno delle proprie mura. Ma, assediata com’è, inizia ad avere
difficoltà nell’approvvigionamento di generi di prima necessità, cibo soprattutto.
Il governo di Kiev, responsabile secondo Mosca di una carneficina nei confronti della
propria gente, però non molla. E ripete in tutte le occasioni che proseguirà l’offensiva
contro le roccaforti ribelli nell’est del paese. «Quando si concluderà l’operazione a
Sloviansk e Kramatorsk — fa sapere il segretario del Consiglio di Difesa e Sicurezza
Nazionale, Andriy Parubiy — ci concentreremo su altre città dove gli estremisti e i terroristi
ignorano la legge ucraina e minacciano la vita dei cittadini ». Presto nuovi elicotteri e tank
corazzati saranno impiegati nell’operazione antiterrorismo dal nome in codice “Ritorno a
casa”, annuncia il ministro dell’Interno ucraino, Arsen Avakov.
Intanto l’offensiva sferrata dalle truppe ucraine in varie roccaforti del bacino minerario del
Don sta mettendo a dura prova i nervi dei miliziani filorussi che controllano vari edifici
pubblici nel capoluogo regionale Donetsk. Di fronte all’avanzata della Guardia Nazionale, i
ribelli hanno dichiarato la mobilitazione generale. In segno di lutto per le oltre 40 vittime di
Odessa, in gran parte pro Mosca, le bandiere che ondeggiano dinanzi al palazzo del
municipio di Donetsk sono listate a lutto. Nella prime ore della mattinata di ieri i separatisti
hanno anche occupato la sede dei Servizi di sicurezza (Sbu) ma l’hanno subito dopo
abbandonata. Solo dimostrazione di forza. Nel tentativo poi di impedire che le spie di Kiev
entrino in città, i giornalisti d’ora in avanti dovranno ottenere un accredito speciale per
attraversare i numerosi posti di blocco disseminate lungo strade.
del 05/05/14, pag. 1/13
Ucraina, i fili da riannodare
SILVIO PONS
La crisi nell’Ucraina orientale rischia ormai di oltrepassare il punto di non ritorno. La
violenza endemica che pervade la regione da alcune settimane sta conoscendo una
pericolosa escalation. Il governo di Kiev e le forze filorusse non appaiono propensi alla
ricerca di compromessi e sinora solo minoranze attive si sono mobilitate da una parte e
dall’altra.
Ma il moltiplicarsi degli atti violenti può facilmente coinvolgere fasce molto più ampie di
popolazione. L’Ucraina non è la Jugoslavia, ma i filorussi nelle sue regioni orientali
possono ricordare i serbi di Bosnia, come ha scritto il Financial Times. La principale
differenza con la situazione della Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta, semmai, è
l’incombere di una potenza globale come la Russia, che in caso di guerra civile molto
probabilmente non esiterebbe a intervenire con esiti disastrosi sul piano internazionale. La
velocità della crisi ucraina ha certamente spiazzato tutti gli attori principali. La cruenta
repressione di piazza Maidan contro i dimostranti che chiedevano la firma di un trattato di
associazione con l’Unione Europea, annunciato da tempo, risale al dicembre dello scorso
anno. Da allora una rapida successione di eventi ha prodotto la caduta del regime di
Yanukovich alla fine di febbraio e il coinvolgimento di fatto della Russia, con la secessione
della Crimea avvenuta alla fine di marzo. Questa è stata il prologo all’estensione
immediata della mobilitazione filorussa nella città di Donetsk e nel resto dell’Ucraina
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orientale. Il controllo del governo di Kiev sulle regioni orientali è evaporato in pochi giorni e
i tentativi di recuperarlo con azioni militari alimentano la spirale violenta.
Tuttavia l’aspetto che più colpisce della crisi non è la velocità ma l’incomunicabilità
dimostrata da tutti gli attori. Gli accordi di Ginevra siglati il 17 aprile tra Stati Uniti, Ue,
Russia e Ucraina, che stabilivano l’inammissibilità di azioni violente sul territorio, sono
apparsi presto inconsistenti non soltanto perché subito violati ma perché frutto di un
dialogo tra sordi. L’assenza di un canale tra Mosca e Kiev non è stata mediata dagli
occidentali. In Occidente si sprecano i paralleli più superficiali con la guerra fredda, mentre
latita un’autentica capacità di comprendere le logiche globali seguite da Putin. Non ci si
rende conto che si è verificato un salto di qualità negativo nella rappresentazione
dell’Unione Europea e dell’occidente in Russia. L’idea che l’Ucraina sia parte di un
disegno rivolto a destabilizzare la Russia e impedirle di essere un global player non è
soltanto propaganda volta a creare pretesti e consenso nazionalista, che comunque si è
ben visto nella manifestazione filoputiniana tenuta a Mosca il primo maggio. Si tratta certo
di una visione deformata, ma questo non è un buon motivo per ignorarla. Nella crisi
ucraina ci sono due verità. Primo, la maggior parte dei cittadini ucraini vede il futuro del
proprio Paese nel rapporto con l’Unione Europea, non con la Federazione Russa.
Secondo, la Russia ha un ovvio interesse strategico in Ucraina e la popolazione russa non
è minoranza nell’Est del Paese. Nessuno è stato sinora capace di indicare un
compromesso che possa salvaguardare entrambi gli aspetti. Obama ha ragione quando
afferma che la preoccupazione di Mosca di tutelare la popolazione russa e gli interessi
della Federazione non può giustificare la violazione della sovranità di un altro Stato. Ma
questa non è ancora una traccia di soluzione. Di certo non lo è il credito del Fondo
monetario internazionale aKiev, che serve solo a tamponare una situazione economica
sull’orlo del collasso. Putin ha le sue ragioni quando dichiara inaccettabile che l’Ucraina
segua la medesima strada dei paesi baltici entrando a far parte della Nato. Ma l’idea di
un’Ucraina federale appare tardiva e strumentale, volta a tenere il paese sotto una specie
di sovranità limitata. L’Unione Europea ha fatto perdere le sue tracce. Oltre un certo limite,
la politica delle sanzioni rischia di colpire gli interessi di molti paesi europei, a cominciare
dalla Germania, e non solo quelli del regime di Putin. Ma ad oggi non si registrano
autentiche iniziative da Bruxelles o da Berlino. Si sta profilando la scenario più
pessimistico che era possibile immaginare due mesi fa. Gli accordi di Ginevra non hanno
funzionato, come dimostrano gli scambi di accuse di queste ultime ore tra Mosca e Kiev.
In queste condizioni, le elezioni previste nel mese di maggio rischiano soltanto di
accendere l’ultima miccia e far degenerare il conflitto. È urgente una nuova iniziativa
politica internazionale, che parta da un presupposto elementare: una guerra civile in
Ucraina sarebbe una sconfitta per tutti.
del 05/05/14, pag. 17
“Basta con i tagli alle spese militari adesso
l’Europa deve difendersi”
THOMAS GUTSCHKER
BRUXELLES
SEGRETARIO generale Rasmussen, ha paura della Russia?
«Naturalmente il comportamento della Russia mi preoccupa molto. È intervenuta
militarmente in Crimea violando il diritto internazionale. E ha chiaramente intenzione di
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destabilizzare l’Ucraina orientale. E molti membri orientali della Nato si preoccupano per la
loro stessa sicurezza».
Secondo lei che piani ha la Russia verso l’Ucraina?
«È in gioco più della Crimea o dell’Ucraina. Il loro obiettivo è costruire una sfera
d’influenza nell’ex area sovietica. La Russia destabilizza i vicini, anche Transnistria,
Moldavia, Abkazia e Sud-Ossezia in Georgia. Vuole impedire ai vicini di unirsi allo spazio
geopolitico atlantico, e portarli invece in una Unione euroasiatica guidata da lei».
Nella guerra fredda i paesi Nato avevano dieci volte più carri armati di oggi, i russi
ne hanno ancora migliaia e spendono molto per le forze armate. C’è da riflettere?
«Assolutamente, è motivo d’inquietudine. La Russia ha aumentato del 30 per cento il
bilancio della Difesa mentre alcuni paesi Nato europei lo hanno ridotto del 40 per cento.
Gli eventi in Ucraina devono essere un campanello d’allarme. Lancio l’appello agli alleati
europei: non tagliate sempre le vostre spese per la difesa, invertite la tendenza e passo
dopo passo investite più denaro nella Difesa. Non possiamo più andare avanti come ora».
Crede davvero che questa inversione di tendenza sia possibile?
«Non è solo questione di quanto spendere ma come. Però i politici in tutta Europa
dovrebbero ripensare le loro priorità di bilancio. Dopo quanto abbiamo sperimentato in
Ucraina, sicuramente la difesa territoriale avrà un ruolo maggiore».
E la porta della Nato resta aperta per i vicini della Russia?
«La porta della Nato resta aperta per le democrazie europee che vogliono entrarvi e sono
in grado di rafforzare la sicurezza euroatlantica e applicare i nostri principi».
Secondo lei Mosca vuole invadere l’est dell’Ucraina, oppure controllarne risorse
naturali e industrie militari, o crearsi un corridoio con la Transnistria?
«Tutte queste ipotesi ci preoccupano. L’Ucraina è stata molto indebolita. Se la Russia
compirà altri passi e interverrà più profondamente, farà un errore storico. Che avrebbe
conseguenze davvero pesanti per i rapporti tra Russia e Occidente: dure sanzioni
colpiranno sensibilmente l’economia russa».
Cioè sanzioni, ma risposta militare esclusa?
«Noi non parliamo di opzioni militari. Nessuno vuole nemmeno immaginarsi un conflitto
militare tra Russia e Occidente. Tanto più è importante, con sanzioni efficaci, alzare il
prezzo del comportamento russo rendendolo totalmente inaccettabile ».
Mosca sa che la Nato non reagirà militarmente, non è un vantaggio per lei?
«La differenza è se uno Stato appartiene alla Nato o no. Abbiamo preso misure concrete
per rafforzare la sicurezza di tutti gli Stati membri: pattuglie di caccia e aereiradar su
Polonia e Romania, presenza navale rafforzata in Baltico e Mar nero. Sono risposte
militari, fungono da deterrente».
Ma Varsavia chiede di più, almeno due brigate corazzate, è giusto o no?
«Non voglio entrare nei dettagli, ma credo che dobbiamo rendere la Nato più visibile in
tutto il suo territorio».
Per sempre?
“Dipende dalla situazione. Non esiteremo a fare di più se necessario per la nostra
sicurezza comune”.
Con i sorvoli di bombardieri nei cieli Nato Mosca vuole testare l’Alleanza?
«I russi non hanno bisogno di testare la nostra decisione. Non possono avere il minimo
dubbio che consideriamo un attacco a un paese Nato come attacco a tutti».
Ma se entrassero in Estonia, via, crede davvero che quei 16 jet e quella compagnia
ora là schierati li dissuaderanno?
«Non sottovalutiamo la nostra capacità di difendere i paesi membri! In quel caso ipotetico
prenderemo tutte le misure necessarie per difendere l’Estonia».
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Nel 1997 Nato e Russia s’impegnarono, rispettivamente, la prima a non stazionare in
permanenza truppe in Europa orientale, la seconda a moderare lo schieramento
delle sue forze convenzionali.
L’impegno reciproco vale ancora?
«La Russia ha violato gli impegni in modo flagrante. E abbiamo sempre detto chiaramente
che in caso di minaccia rafforzeremo le nostre truppe ».
Nato e Russia si dichiarano non più nemiche. È ancora vero?
«Nel 2010 decidemmo persino una partnership strategica. Ma al momento la Russia si
comporta più da avversario che da partner. È una svolta. Per la prima volta dalla guerra
fredda un paese europeo si è impossessato di territorio altrui con la violenza. Pensavamo
fossero episodi del passato. Dobbiamo reagire ».
del 05/05/14, pag. 1/35
La Libia sprofonda (e pagheremo anche noi)
Franco Venturini
ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno, lunedì 5 maggio 2014, “La
Libia sprofonda (e pagheremo anche noi)” di Franco Venturini sul Corriere della Sera:
All’indomani del 20 ottobre 2011, sebbene turbato dall’orribile linciaggio di Gheddafi,
l’Occidente che aveva contribuito ad abbatterlo a colpi di missili e di bombe era
marcatamente ottimista sul futuro della Libia. Dopotutto una dittatura crudele era caduta, si
erano create le condizioni per una marcia verso la democrazia, e non sembrava troppo
difficile mettere d’accordo sei milioni di libici quasi tutti sunniti e con poche minoranze non
arabe.
Due anni e mezzo dopo, quell’incauto e miope ottimismo si è trasformato in un sentimento
di frustrazione e di paura. Per tutti gli occidentali, ma soprattutto per chi, come l’Italia, ha
una dipendenza importante dalle forniture energetiche libiche ed è l’approdo naturale delle
correnti migratorie che partono dalle coste libiche. Eppure, per motivi che è difficile
comprendere salvo che si voglia evitare di riaccendere polemiche e dubbi sulla guerra del
2011, in Italia si parla poco di Libia. Non si ha la consapevolezza della posta in gioco, si
fatica a individuare nelle vicende libiche un interesse nazionale primario dell’Italia. Invece
la Libia merita di più, perché la Libia è oggi una minaccia che pesa in primo luogo su di
noi.
Non era certo incoraggiante l’evoluzione dell’era post-Gheddafi prima dell’uccisione
dell’ambasciatore americano Chris Stevens. Ma dopo quel tragico 11 settembre 2012 è
stato come se una potente scarica elettrica avesse attraversato tutto il Paese distruggendo
sul suo cammino ogni speranza di riconciliazione interna. Da allora attentati, uccisioni,
intimidazioni armate l’ultima delle quali nei giorni scorsi in pieno Parlamento per impedirne
il voto, si susseguono a ritmo crescente. Il Paese è controllato da una miriade di milizie
armate fino ai denti che non sempre coincidono con la mappa tribale e che possono
contare su cinquantamila uomini (per avere un riferimento, contro Gheddafi combatterono
in diecimila). Le milizie, quando non si scontrano tra di loro, esercitano una pesante
influenza su governi che nulla possono e su forze regolari ridotte all’impotenza. All’interno
di una cornice tanto poco rassicurante si scontrano «liberali» (il termine si applica
soprattutto all’economia) e islamisti di molteplici tendenze, una volta alleati tra loro, quella
successiva pronti a spararsi addosso. E poi ci sono i «federalisti» della Cirenaica, che
spaziano dai veri autonomisti agli ultrà scissionisti con vari livelli di estremismo fino alla
presenza di un nucleo di al Qaeda, del tutto inesistente nell’ Ancien Régime gheddafiano.
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Questa premessa sul caos libico è schematica e parziale, ma è anche indispensabile per
capire quali macigni pesino sul capo di noi italiani. Perché — e questo è soltanto il primo
aspetto — nel gran calderone della nostra ex colonia si è ormai affermato, da parte delle
milizie che controllano il territorio, un riflesso automatico: il mezzo migliore per farsi valere
è bloccare la produzione o l’esportazione di gas e di petrolio. Tattica senza dubbio
efficace. Ma il risultato è cheil milione e mezzo di barili di greggio al giorno prodotti
malgrado tutto nel 2012 è passato negli ultimi mesi a una quantità variabile (dipende dalle
scorribande delle milizie) tra i 170.000 e i 250.000 barili al giorno. E qualcosa di simile è
successocon la produzione di gas. Non ne risultano danneggiati soltanto i Paesi
importatori come il nostro (l’Italia riceveva dalla Libia
il ventitré per cento del suo fabbisogno di petrolio sceso ora al dodici, e sulle importazioni
di gas c’è stato un taglio del quaranta per cento), ma inevitabilmente vanno in crisi anche
le finanze dello Stato abituate a ricavare dalle esportazioni di greggio e di gas la quasi
totalità dei suoi introiti. In altre parole si creano le premesse per nuove proteste armate e
nuove destabilizzazioni, che davanti all’emergenza finanziaria potrebbero sfociare in un
crollo totale e definitivo delle istituzioni ancora esistenti (teniamolo presente, questo
spauracchio, per quando parleremo di immigrazione).
L’Eni, tra tulle le compagnie internazionali che erano e che in minor numero sono ancora
presenti in Libia, pur avendo subìto aggressioni e blocchi operativi, nel complesso è stata
l’unica a proseguire nella sua attività. Ma le incognite valgono che per lei, quando non si
riesce a varare un meccanismo di salvaguardia per il futuro della Libia. E quando la crisi
ucraina, ancora aperta a tutti gli sviluppi, potrebbe comportare già da fine maggio (la data
indicata da Mosca per ricevere i pagamenti dovuti dal governo di Kiev) un rallentamento
se non un blocco delle forniture energetiche russe. E ancora, possiamo davvero
considerare stabile l’Algeria, la nostra più grande fornitrice di gas dopo la Russia, ora che
l’infermo Bouteflika è stato rieletto alla presidenza tra molte polemiche? La risposta alle
sfide energetico-geopolitiche, beninteso, è nella diversificazione delle fonti. Stiamo già
compiendo questa operazione in attesa di vedere se importeremo lo shale gas
statunitense, ma i costi aumentano e le difficoltà tecniche pure.
E poi, se la Libia sprofondasse fino in fondo nel suo caos, cosa dovremmo aspettarci di
veder arrivare sulle nostre coste o a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum? Nel
2014 sono arrivati in Italia 25 mila disperati, con un ritmo simile soltanto a quello, giudicato
abnorme, del 2011. Il sistema di accoglienza è al collasso malgrado i piani di emergenza.
Il 93 per cento di questi immigrati viene dalla Libia. Dovremmo stupircene? No di certo. La
Libia è diventata una sorta di corridoio aperto verso il Mediterraneo, e molte migliaia di
migranti che fuggono dalle miserie e dalle guerre dell’Africa nera, di eritrei, di etiopici, di
somali, persino di siriani che credono questa via preferibile a quella terrestre, tentano di
arrivare vivi sulla costa libica sognando l’Italia porta dell’Europa. Quanti sono quelli già in
attesa? È verosimile che siano alcune decine di migliaia. Ma se la Libia portasse a
compimento il suo suicidio, se lo Stato sparisse del tutto e le condizioni di vita si facessero
insopportabili, dovremmo aspettarci cifre molto superiori. E questo mentre l’Europa non
modifica le sue regole (a cominciare da quella decisa a Dublino, secondo cui il primo
Paese di accoglienza è responsabile in toto verso l’immigrato) e contribuisce poco e male
a un fenomeno che dovrebbe riguardare tutta la UE.
In verità ai tempi di Gheddafi l’Italia qualcosa aveva escogitato, sapendo che l’unico modo
civile di frenare le ondate migratorie è quello di bloccarle vicino alle coste di partenza. Con
Tripoli avevamo concordato, malgrado le bizze del colonnello, un sistema di
pattugliamento congiunto delle acque libiche con motovedette fornite dall’Italia che
avrebbero avuto a bordo anche personale italiano. L’esperimento ebbe appena il tempo di
partire. Prima i pescatori di Mazara del Vallo denunciarono di essere stati mitragliati “dagli
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italiani” per aver violato le acque libiche. Poi arrivò una sentenza europea che vietava quel
metodo di respingimento perché non distingueva tra emigranti economici e richiedenti di
asilo. Oggi non sarebbe nemmeno pensabile tornare a formule simili: il nazionalismo di
qualche milizia costiera affonderebbe all’istante le motovedette «vendute allo straniero»,
anche se proprio questo straniero le avesse regalate. Ma le conseguenze di quel
fallimento restano, e sono tremende: a fronte dei pochi campi di accoglienza organizzati
dallo Stato libico e malamente controllati dall’Onu, ve ne sono tantissimi gestiti dalle
milizie, dove si stupra sistematicamente, dove si tortura sistematicamente, dove vengono
stabilite le tariffe per essere imbarcati verso l’ignoto, dove nessun controllo può essere
effettuato da alcuno. Sarebbero purtroppo questi campi a gestire il crollo generale se si
verificasse, non certo quelli «ufficiali». E se volessimo dire la nostra, se immaginassimo
qualche proposta, se anche volessimo offrire aiuto, a chi potrebbe rivolgersi l’Italia? A un
governo inesistente o privo di poteri effettivi? Oppure dovremmo andare a caccia dei capi
di ogni milizia, rischiando di essere attaccati da quella vicina?
Siamo giunti al nocciolo della questione, la mancanza di interlocutori. E anche alla più
fondamentale delle domande: la Libia può ancora essere salvata, gli interessi dell’Italia (e
di altri, si pensi alle basi nel sud dei qaedisti del Sahel) possono ancora essere tutelati?
Nessuno dispone di risposte certe. Ma faticosamente, e senza poterne prevedere l’esito,
un piano si è fatto strada nelle capitali occidentali a cominciare da Roma. Bisogna ricreare
un esercito nazionale libico capace di contenere le milizie. L’Italia sta addestrando a
Cassino (ma qualcuno lo sa?) i primi quattrocento militari libici che saranno poi sostituiti da
altri. L’Onu è in una posizione favorevole perché non possono esserle rivolte accuse di
partigianeria nazionale: dovrà nominare un rappresentante di alto livello incaricato di
andare a lavorare sul campo in Libia e di coordinare l’azione della comunità
internazionale. Si dovrà convincere il governo centrale che alla Cirenaica una vera
autonomia va concessa. Si dovrà trovare un metodo per dividere tra le varie regioni, tribù
e milizie i proventi dalla vendita di idrocarburi in cambio della riconsegna delle armi. Si
dovrà, a quel punto perché prima non si potrebbe, affrontare la questione migratoria.
Ottimismo? Purtroppo mi torna in mente quello del 20 ottobre 2011.
del 05/05/14, pag. 26
Sudafrica
Il paese va alle urne 20 anni dopo il primo voto post apartheid L’Anc
vincerà le elezioni ma ha già perso il futuro
La generazione nata libera archivia le lotte di
Mandela
PIETRO VERONESE
SOWETO
NELLO stadio più grande del continente, nella città nera più grande del Sudafrica, l’African
National Congress, il partito che fu di Nelson Mandela, ha tolto ieri ogni dubbio a chi
ancora ne avesse. Dopodomani, per la quinta volta consecutiva in vent’anni, vincerà le
elezioni mantenendo la maggioranza assoluta. Riempiendo gli spalti fino alle file più alte,
in una festa di magliette gialle, di inni e di balli, l’Anc si è confermato anche in questo
secondo decennio del secolo il partito—nazione, il partito—Stato verrebbe ormai da dire,
che dal 1994 monopolizza la democrazia sudafricana ma al tempo stesso continua ad
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incarnarne la volontà profonda. Secondo tutti i sondaggi, per bene che gli vada — e gli
andrà molto bene — il partito capofila dell’opposizione, la Democratic Alliance, non
arriverà alla metà dei suoi voti.
Allontanandosi dallo FNB Stadium (che sta per le iniziali della First National Bank) con
l’eco di mille voci nelle orecchie, verrebbe da pensare che il risultato delle elezioni
sudafricane 2014 sia già archiviato; ma non è così. Esso è in realtà pieno di incognite e se
ne scrutano gli indicatori che riveleranno di quanto il potere dell’And si stia erodendo.
Perché il partito che fu di Mandela ma oggi è di Jacob Zuma è in declino: anche su questo
i sondaggi sono univoci. L’unico dubbio è il quanto. Scenderà sotto il 65,9 per cento del
2009, che è stato il suo risultato peggiore di sempre? Forse addirittura sotto il 60?
Conserverà o perderà la provincia del Gauteng, la più ricca del Paese, quella che
comprende Johannesburg e la capitale Pretoria, dove l’opposizione spera che precipiti
addirittura sotto il 50 per cento?
Comunque vada, una battaglia è già stata persa collettivamente da tutti i contendenti:
quella per il voto giovanile. Queste elezioni sono infatti speciali da più punti di vista: non
solo celebrano il ventennale della democrazia sudafricana; non solo sono le prime da
quando non c’è più Nelson Mandela, scomparso nel dicembre dello scorso anno. Sono
anche le prime nelle quali ha diritto di voto la generazione dei born free , coloro che non
hanno conosciuto i tempi della lotta né le durezze dell’apartheid. Due milioni, questi «nati
liberi» venuti al mondo dopo la fine della segregazione razziale e il primo voto a suffragio
universale del 1994, oggi hanno 18—19 anni. Sono la Mandela generation, che per la
prima volta può esprimere la propria scelta sulla scheda. Ebbene di questi due milioni se
ne sono iscritti ai ruoli elettorali appena 648.524. Il 30 per cento. Un fallimento amarissimo.
Due terzi dei born free che hanno raggiunto la maggiore età non sono interessati a
mangiare il frutto per cogliere il quale Nelson Mandela aveva detto,
nel suo discorso più celebre: «Sono pronto anche a morire».
È un venerdì pomeriggio, alla fine delle lezioni, quando incontriamo a Johannesburg un
gruppetto di born free nel campus dell’università del Witwatersrand, universalmente nota
come Wits University. L’appuntamento è su un bellissimo prato, dove i ragazzi si
incontrano a chiacchierare e occasionalmente sfumacchiare all’ombra delle jacarande,
chiamato nel loro gergo Jamaica (lasciamo al lettore immaginare il perché). Sono in sei, e
il nostro sondaggio è presto fatto. In cinque si sono iscritti per votare, ma va tenuto conto
che siamo davanti a un campione di studenti universitari.
Dei cinque però soltanto uno, iscritto a Giurisprudenza, sa già dove metterà la croce («Un
partito di minoranza», dice). Gli altri si dichiarano incerti, indecisi, quando mancano
appena cinque giorni all’ Election Day.
«I programmi sono tutti buoni, sono i leader che non vanno», dice uno di loro, che
frequenta Lettere. «Di sicuro non voterò Anc», rincara un terzo, studente di Economia e
Commercio, «il partito è una cosa, ma Zuma è troppo corrotto». «Questo non lo puoi dire»,
obietta l’avvocato, «non è dimostrato. E poi dei 16 milioni e mezzo di euro di soldi pubblici
spesi per ristrutturare la sua casa di Nkandla magari lui non sapeva nulla».
«Se non è corrotto, di certo è indifferente alla sorte della maggioranza dei sudafricani, o
non accetterebbe di vivere in quel lusso», ribatte l’economista.
Lo «Nkandlagate», la faraonica ristrutturazione a spese pubbliche della casa privata del
presidente, è uno dei grandi temi della campagna elettorale, cavallo di battaglia
dell’opposizione. «A Nkandla le mucche di Zuma vivono in maggiore sicurezza degli
abitanti della provincia, i suoi polli godono di un lusso che i suoi elettori si sognano! », ha
tuonato per esempio nel comizio di chiusura della Da la capogruppo parlamentare Lindiwe
Mazibuko, originaria delle stesse parti.
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Ma sull’erba verde di Jamaica la passione politica del nostro gruppetto di born free si è già
esaurita. Delle elezioni hanno parlato pochissimo tra amici, rivelano. Non c’è grande
interesse. Vogliamo chiamarla apatia? Non vi sembra di tradire la generazione che ha
lottato per darvi questa libertà? No, risponde il letterato, «oggi il fatto di votare dev’essere
considerato un cosa normale, come nella maggior parte del mondo, non chissà quale
privilegio». E l’eredità del grande Mandela? Vi sentite più soli adesso che non c’è più? No,
dice ancora lo stesso, «che sia vivo o morto non importa, importa che siano vivi gli ideali».
Dove siano vivi gli ideali di Mandela in questo Sudafrica elettorale è difficile a dirsi.
Probabilmente ovunque e in nessun luogo. Un po’ sull’erba di Jamaica e un po’ nel grande
stadio dove rimbombano gli slogan dell’African National Congress. Ma non più di tanto. Il
presidente sta concludendo il suo stanco discorso — un piatto elenco delle realizzazioni
del governo nell’ultimo quinquennio — e la signora accanto a me dice con fare
confidenziale: «Tanto il secondo mandato non lo finirà. Faranno a lui quello che lui fece al
suo predecessore Thabo Mbeki» (fu messo in minoranza da una congiura di partito
guidata da Zuma e costretto a dimettersi anzitempo).
E un pochino aleggiano anche nelle file della Democratic Alliance, che sente di avere il
vento in poppa pur restando lontanissima dalla maggioranza. Sedie piene anche nel
grande Coca Cola Dome, il «palaCocaCola» dove ha tenuto il suo ultimo comizio, solo che
lì i posti sono 15mila e non 90 mila come nello stadio. Una festa di palloncini blu, che si
contrappongono al giallo dell’Anc. Sondaggi che danno il partito al 23,7, sette punti in più
del suo massimo storico del 2009. La speranza non infondata di strappare il Gauteng
all’Anc grazie anche all’astro nascente Mmusi Maimane, candidato premier della provincia.
Ma quando a fine comizio chiediamo a Helen Zille, la leader del partito, che ne è del voto
dei born free, il sorriso le scompare dal volto e dice solo: «Non ce l’abbiamo fatta».
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INTERNI
del 05/05/14, pag. 1/12
Tutti i ritardi sui tagli alla spesa e i pagamenti
alle imprese
Lavoro, percorso a ostacoli I ritardi sui tagli alle spese
di Enrico Marro
Bilanci Primi 70 giorni del governo: sicuri gli 80 euro solo per il 2014 Tutti i ritardi sui tagli
alla spesa e i pagamenti alle imprese di ENRICO MARRO Iritardi sui tagli alla spesa e i
pagamenti alle imprese. Approvati dieci decreti legge e quattro disegni di legge, mentre
sono già cinque le volte in cui il governo ha posto la fiducia (oltre alle due d'obbligo sulle
dichiarazioni programmatiche): sul decreto legge per prolungare le missioni militari
all'estero, sul disegno di legge Delrio sul disegno di legge Delrio che elimina le province
elettive, sul decreto enti locali (il cosiddetto salva Roma), sul decreto Poletti appunto, e sul
decreto sulle tossicodipendenze. I primi settanta giorni del governo Renzi mettono in conto
gli 8o euro in busta paga ma solo per il 2014. E sono l'esempio di un percorso di
provvedimenti annunciati che faticano ad arrivare in porto.
Ieri il governo Renzi ha compiuto 7o giorni. Insediatosi il 22 febbraio, in io settimane ha
riunito per 15 volte il consiglio dei ministri. Ha approvato finora 10 decreti legge e 4 disegni
di legge, a riprova della difficoltà anche per questo esecutivo di limitare il ricorso alla
decretazione. Che spesso si giustifica non, come dovrebbe essere, con l'urgenza del
provvedimento, ma con la necessità di assicurare una maggiore efficacia allo stesso, dato
che il decreto va convertito iit legge entro 6o giorni e con ridotti margini di modifica in
Parlamento. Necessità forte anche per l'esecutivo Renzi, tanto più che il presidente del
Consiglio si ritrova con gruppi parlamentari del suo stesso partito, il Pd, spesso critici se
non ostili, come si è visto al Senato sul disegno di legge costituzionale che abolisce il
bicameralismo perfetto e alla Camera sul decreto legge Poletti che liberalizza i contratti a
termine. Tanto è vero che, in questo secondo caso, anche per superare l'ostruzionismo
dei grillini, Renzi è dovuto ricorrere al voto di fiducia. Sono già 5 le fiducie che il governo
ha chiesto (oltre le 2 d'obbligo sulle dichiarazioni programmatiche): sul decreto legge per
prolungare le missioni militari all'estero, sul disegno di legge Delrio che elimina le province
elettive, sul decreto enti locali (il cosiddetto Salva Roma), sul decreto Poletti appunto, e sul
decreto sulle tossicodipendenze. Fin dall'inizio Renzi ha utilizzato il metodo
dell'annunciare provvedimenti che solo dopo alcune settimane vengono approvati dal
Consiglio dei ministri. Un modo per costringere la squadra a correre, secondo i suoi
collaboratori. Un modo per far propaganda, tenendo a lungo sulle prime pagine dei giornali
le sue decisioni, secondo le opposizioni. Vediamo, più semplicemente, a che punto è
l'azione di governo, osservando le principali cose fatte, quelle in itinere e quelle solo
annunciate.
II bonus
È la decisione più importante presa da Renzi. Ottanta euro in più al mese, che dallo
stipendio di maggio andranno nelle tasche di io milioni di lavoratori dipendenti con redditi
compresi tra 8 mila e 24 mila euro lordi l'anno (tra 24 e 26 mila il bonus decresce
rapidamente fino ad azzerarsi). Annunciata con la discussa conferenza stampa delle slide
il 12 marzo, la decisione è stata trasformata in legge con un decreto approvato dal
Consiglio dei *** ministri il 18 aprile. Obiettivo della manovra: spingere i consumi e per
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questa via la crescita dell'economia. Per capire se avrà funzionato bisognerà aspettare
alcuni mesi. Molto dipenderà dalla capacità del governo di convincere le famiglie che il
bonus non è una tantum, cioè solo per il 2014, ma permanente. Questo potrà avvenire
solo con la legge di Stabilità per il 2015 che il governo presenterà entro il 15 ottobre. Solo
in questo caso, infatti, sarà più facile che il bonus verrà speso anziché risparmiato. E
importante ricordare, infatti, che il decreto legge del 18 aprile copre il bonus solo per 2014.
Fatto.
L'occupazione
Sul tema il governo è intervenuto con due provvedimenti. Un decreto legge che allunga da
un anno a tre anni la durata massima dei contratti a termine senza causale e che elimina
una serie di vincoli per le aziende sui contratti di apprendistato. II provvedimento deve
essere convertito entro il 19 maggio, pena la decadenza E passato alla Camera col voto di
fiducia, è stato modificato in commissione al Senato, dove dovrebbe essere approvato
questa settimana per poi tomare alla Camera. Salvo sorprese sarà convertito in tempo. II
secondo provvedimento è un disegno di legge delega che prevede, tra l'altro, la riforma
degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità, ecc...) e l'introduzione del
contratto di inserimento a tutele progressive. Dopo l'approvazione del Parlamento il
governo avrà circa un anno per emanare i decreti di attuazione della delega. Molto prima,
invece, l'esecutivo dovrebbe risolvere il problema delle risorse in più che servono nel 2014
per finanziare la cassa integrazione in deroga. Secondo le Regioni i soldi stanno finendo e
serve con urgenza almeno un miliardo. I sindacati dicono un miliardo e mezzo. Il governo
non sa dove trovarli. In itinere (fatto al 50%).
La pubblica amministrazione
Nel suo cronoprogramma Renzi aveva annunciato la riforma per aprile. È stata presentata
il 30, ma solo come un elenco di 44 proposte sottoposte a una consultazione pubblica
online fino al 3o maggio. Poi, il 13 giugno, il consiglio dei ministri approverà i
provvedimenti di legge. Renzi ha detto che sicuramente ci sarà un disegno di legge delega
mentre vorrebbe evitare il decreto. Su alcune proposte c'è già un largo consenso,
indipendentemente dalla consultazione, e il governo avrebbe potuto provvedere. Per
esempio, sull'introduzione del pin, il codice personale col quale sbrigare online tutte le
pratiche con gli uffici pubblici, tanto più che lo stesso Renzi ha ammesso che ci vorrà un
anno, dal momento dell'approvazione della legge, per darlo a tutti i cittadini. Ma si poteva
senz'altro decidere anche sulla standardizzazione della modulistica; sull'incrocio delle 128
banche dati, che non dialogano tra loro e potrebbero risultare decisive per combattere
l'evasione fiscale; sulla messa online di tutte le spese di tutte le amministrazioni;
sull'accorpamento di Aci, Pubblico registro automobilistico e Motorizzazione civile; sulla
fusione in una delle 5 scuole per i dirigenti; sul censimento di tutti gli enti pubblici. E invece
anche per conoscere la sorte di queste proposte bisognerà aspettare i113 giugno. Quando
si vedrà anche che fine avranno fatto le proposte più controverse. Alcune sembrano di
difficile realizzazione pratica, visto che nessun governo ci è riuscito: dalla mobilità
obbligatoria per i dipendenti alla licenziabilità dei dirigenti, dal demansionamento per
evitare di finire tra gli esuberi agli aumenti di retribuzione legati al merito. Annunciato.
La spending review
La revisione della spesa pubblica è uno dei capisaldi della politica economica del governo.
Alcuni tagli sono stati realizzati, per lo più di natura simbolica, come i 371.400 euro
incassati con la vendita all'asta online delle prime 52 auto blu dei ministeri. Una seconda
asta è in corso e si concluderà il 16 maggio. Obiettivo: cedere in tutto 151 auto blu. Un
piccolo segnale anche la decisione, presa il 4 aprile, di chiudere 4 ambasciate (Honduras,
Islanda, Santo Domingo, Mauritania) e la rappresentanza presso l'Unesco a Parigi, che
verrà assorbita dalla rappresentanza italiana all'Ocse, sempre nella capitale francese. Il
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governo, con il voto di fiducia, ha portato a casa anche la legge Delrio (presentata sotto il
governo Letta) che abolisce le province elettive: una riforma importante dal punto di vista
politico, molto meno per i risparmi che potrà generare (i 6o mila dipendenti delle Province
passeranno infatti agli altri enti locali). Più consistenti i tagli per 3,1 miliardi di spesa
pubblica nel 2014 messi tra le coperture del decreto bonus: 2,1 dovrebbero venire da tagli
a carico di ministeri, regioni ed enti locali (zoo milioni ciascuno), ma questi ultimi hanno già
detto che non sanno come fare. E nessuno ha capito dove il governo troverà i 14 miliardi
di euro di tagli di spesa annunciati per il 2015 e da decidere con la prossima legge di
Stabilità per confermare anche nei prossimi anni il bonus di 8o euro. In itinere (fatto al
25%).
Le riforme istituzionali
Ruotano intorno a due provvedimenti, il cui cammino si è fatto molto più difficile di quanto il
presidente del Consiglio immaginasse: la riforma elettorale e l'abolizione del Senato
elettivo. Su entrambi Renzi, ancor prima di entrare a Palazzo Chigi, aveva raggiunto, da
segretario del Pd, un accordo con il leader dell'opposizione Silvio Berlusconi (il cosiddetto
patto del Nazareno). La tabella di marcia iniziale prevedeva l'approvazione entro aprile
dell' dtalicum», la nuova legge elettorale che introdurrebbe per la prima volta nelle elezioni
politiche la possibilità del ballottaggio tra le prime due liste o coalizioni se nessuna supera
il 37%. Sempre entro il mese appena passato, era ipotizzata l'approvazione in almeno uno
dei due rami del Parlamento del disegno di legge costituzionale per l'abolizione del Senato
elettivo. Le cose sono andate diversamente. I provvedimenti procedono con ritardo.
L7talicum, frutto dell'integrazione e correzione di progetti di legge già in discussione in
Parlamento, approvato alla Camera, è ora all'esame delle commissioni in Senato. B
disegno di legge costituzionale, che oltre al bicameralismo perfetto corregge anche il Titolo
V della Costituzione (federalismo), è stato varato dal Consiglio dei ministri il 31 marzo.
Attualmente è fermo alla commissione Affari costituzionali del Senato. Renzi ha spostato
l'obiettivo della prima approvazione al io giugno. W ricordato che i disegni di legge
costituzionali richiedono 4 voti, cioè la doppia approvazione in Camera e Senato. Sia in
Forza Italia sia nel Pd sono in corso importanti ripensamenti sull'intero pacchetto. La
prospettiva che il secondo partito possa essere non quello di Berlusconi ma quello di
Beppe Grillo, ipotesi che andrà verificata alle elezioni europee del 25 maggio, genera
ripensamenti sull'opportunità di introdurre una legge elettorale col ballottaggio, mentre
Forza Italia fa marcia indietro rispetto al Senato delle Regioni (darebbe un vantaggio al
Pd) e rilancia il presidenzialismo. In itinere (fatto al 20%).
I pagamenti alle imprese
«Entro luglio pagheremo 68 miliardi di euro di debiti arretrati con le imprese», aveva
annunciato Renzi il 12 marzo presentando il disegno di legge approvato in Consiglio dei
ministri che, attraverso la garanzia della Cassa depositi e prestiti, favorisce la cessione
alle banche dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione.
Nei 68 miliardi erano compresi i 22 già pagati nel 2013 sui 47 miliardi messi a disposizione
dai provvedimenti del governo Letta per il biennio 20132014. A questi 47 miliardi Renzi ne
ha aggiunti 13 con il decreto bonus, che ha fatto propria anche la garanzia della Cdp. II
totale sale così a 6i miliardi, un po' meno dei 68 annunciati. Ma il pagamento effettivo è
fermo a 23,5 miliardi, secondo l'ultimo monitoraggio del ministero dell'Economia fermo al
28 marzo. Anche ipotizzando un'accelerazione nell'ultimo mese, l'obiettivo di pagare 6i
miliardi resta molto lontano.
In itinere (fatto al 40%).
Il riassetto di Palazzo Chigi
Sarà la presidenza del Consiglio a dare l'esempio, ha più volte spiegato Renzi, riferendosi
alla necessità di ruotare gli incarichi dei dirigenti pubblici, di fissare un tetto alle
15
retribuzioni, di legare la parte variabile dello stipendio ai risultati. II tetto di 24o mila euro
lordi annui, pari a quanto prende il presidente della Repubblica, è stato deciso per tutti i
dirigenti pubblici e per i manager delle società pubbliche non quotate (escluse Poste,
Ferrovie e Cdp perché emettono obbligazioni) con il decreto bonus. A buon punto è anche
la riorganizzazione di Palazzo Chigi, con la rotazione dei capi dipartimento. Sono in via di
costituzione le due unità di missione, una per l'edilizia scolastica e l'altra per la difesa del
suolo. Quanto alla cabina di regia per l'eco -nomia con a capo Yoram Gutgeld niente è
stato ufficializzato, né il previsto trasloco del commissario per la spending review, Carlo
Cottarelli, dal ministero dell'Economia a Palazzo Chigi risulta avvenuto. Infine, sulla
trasparenza, bisognerà attendere fino al 24 maggio, quando scade il termine di legge per
la pubblicazione dei redditi e della situazione patrimoniale del presidente del Consiglio e
dei ministri. La casella di Renzi sul sito di Palazzo Chigi è ancora vuota. In itinere (fatto al
70%).
del 05/05/14, pag. 1/8
Presidenzialismo
Apertura del premier
di Martirano Dino
Il premier Matteo Renzi apre al presidenzialismo dopo le sollecitazioni innescate dalla
lettera inviata da Silvio Berlusconi al Corriere della Sera. «Non ora, le priorità sono altre,
ma dopo l'approvazione della riforma del Senato e del Titolo V si può anche ragionare...».
E questa la linea dettata da Renzi al suo staff. L'orizzonte temporale per affrontare il nodo
della forma di governo si sposterebbe comunque a settembre del 2015.
E se adesso la sinistra rompesse lo storico tabù che le ha fatto sempre dire di no al
presidenzialismo? «Non ora, le priorità sono altre, ma dopo l'approvazione della riforma
del Senato e del Titolo V si può anche ragionare...» sull'elezione diretta del capo dello
Stato: è questa la linea dettata da Matteo Renzi al suo staff dopo le forti sollecitazioni
innescate dalla lettera inviata da Silvio Berlusconi al Corriere della Sera. Il ping pong tra
l'ex Cavaliere e il premier continua il primo (ieri anche in tv) sostiene che l'unica riforma
seria sarebbe quella di mettere in condizione gli italiani di votare direttamente per il
presidente della Repubblica e il secondo ora fa sapere ai suoi fedelissimi collaboratori che
l'apertura è possibile: si, si può «ragionare», ma solo dopo avere intascato la riforma del
Senato e del Titolo V. E visto che ci sono ancora quattro passaggi parlamentari da
superare, l'orizzonte temporale per affrontare il nodo della forma di governo si
sposterebbe (nella migliore delle ipotesi) a settembre del 2015. Comunque ieri —
sollecitato per tutta la giornata dalle dichiarazioni dei colonnelli di Forza Italia -- Renzi ha
dato la sua risposta sul presidenzialismo invocato dal leader di Forza Italia: «Tirare fuori
ora questo argomento sa molto di trovata eletto - rale». Tuttavia, e qui prende corpo
l'apertura del presidente del Consiglio sull'elezione diretta del capo dello Stato, «in via di
principio possiamo essere anche d'accordo ma ora le priorità sono altre». Dunque, chiude
il suo ragionamento Renzi, «si approvi intanto la riforma del Senato e del Titolo V e dopo,
solo dopo, si può anche ragionare di presi-denzialismo. Non adesso, però». Ecco, ora
resta da vedere se davanti a questo scambio di opinioni tra leader, formalmente
contrapposti in materia di governo ma alleati sulle riforme, i senatori di Forza Italia si corriporteranno di conseguenza sulla legge costituzionale (Senato e Titolo V, appunto) che
domani arriva al primo giro di boa in Parlamento. Oggi Renzi è impegnato con il fronte
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interno (riunisce la direzione del Pd e chiude il seminario del partito sul Senato con i
costituzionalisti) ma già domani a Palazzo Madama i suoi ambasciatori (Luigi Zanda e
Lorenzo Guerini) dovranno trattare seriamente con i capigruppo di FI, Paolo Romani e
Donato Bruno. Forza Italia — come la minoranza del Pd, Sel e il Ncd — vuole adottare in
corri-missione come testo base un articolato diverso da quello confezionato a Palazzo
Chigi. Renzi invece resiste. Fa molte aperture sul fatto che «dopo» si potrà modificare il
testo e spera di fare passare, almeno in prima battuta, l'articolato del ministro Boschi, per
piantare una bandierina elettorale prima del 25 maggio. Ecco allora che, a Palazzo
Madama, si fanno avanti i mediatori che dispongono di sole 24 ore per tro *** vare una
soluzione. Domani si vota in commissione. ll lodo che ha in mente lo sintetizza bene
Roberto Calderoli (Lega) tirato in ballo da Berlusconi («Sono in contatto con lui»). Spiega,
con il suo stile, Calderoli: «Prima vedere moneta, poi dare cammello...». Insomma, sulla
scia di quanto ipotizzato da Gaetano Quagliariello (Ncd), che però non è più alleato di
Berlusconi, la commissione si appresterebbe a un doppio voto: prima un ordine del giorno
(la moneta) in cui vengono perime - trati gli emendamenti concordati tra commissione e
governo e in particolare l'elezioni dei senatori alle Regionali ma in un listino a parte. E
dopo, solo dopo, si vota il testo base del governo (il cammello) cui tanto tiene Renzi. Resta
da vedere come i relatori, Anna Finocchiaro (Pd) e lo stesso Calderoli, riusciranno a
coniugare la doppia capriola con la prassi parlamentare.
del 05/05/14, pag. 8
Nel partito una fronda contro un affidamento automatico della
leadership alla figlia dell’ex premier. Verdini: deciderà tutto Silvio, ma
anche noi dobbiamo dire la nostra
“Primarie per Marina Berlusconi”
CARMELO LOPAPA
ROMA .
Occorre una “legittimazione” popolare per Marina. «Del resto lo ha detto anche il padre»,
mettono le mani avanti adesso tutti coloro che dentro Forza Italia hanno accolto come una
doccia gelata l’accelerazione del leader sulla successione dinastica. Terzo suggello in
pochi giorni ieri, nell’intervista all’Annunziata da Villa Gernetto. Sarebbe un leader
perfetto? «Penso di sì, ma spero proprio che non accada. È una decisione che non
riguarda me, ma mia figlia e soprattutto gli elettori perché il leader lo scelgono loro».
Saranno loro davvero a scegliere? E quando? Primarie già nei prossimi mesi?
Tutto in realtà è già deciso, conferma chi frequenta Arcore. Silvio Berlusconi soffre di
conclamata orticaria alle consultazioni di base, roba «da comunisti ». Marina tra le figlie è
colei che detiene il maggior pacchetto azionario nell’impero, la successione nella logica di
Villa San Martino è naturale. Quel che è allo studio, piuttosto, è come aggirare subito dopo
il lancio il macigno del conflitto di interessi, che si riproporrà intatto. Tuttavia la strada delle
primarie è quella che sotto traccia portano avanti i dirigenti delle vecchia guardia. Molto
dipenderà dall’esito delle Europee, l’idea sarebbe quella di proporle per l’autunno.
«Deciderà tutto Berlusconi, ma dirà la sua anche il partito, perché siamo un partito »
ricorda e non da ora ai suoi Denis Verdini. Di certo, sponsor dell’opzione primarie —
quanto meno nei conciliaboli privati — è il capogruppo Renato Brunetta, avversario delle
«dinastie» come si è più volte definito.
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Il braccio di ferro, sotto traccia, è già in corso tra due anime del partito. Le stesse che si
sono ritrovate ieri pomeriggio sul palco della kermesse di apertura della campagna
elettorale per le Europee a Bari di fronte a oltre tremila supporter di Raffaele Fitto. Da una
parte proprio il big pugliese capolista al Sud, dall’altra l’espressione dell’azienda (e della
famiglia) Giovanni Toti, capolista nel Nordovest. I due si sono abbracciati dopo mesi di
scintille. Ma Fitto su Marina ha già detto come la pensi, «donna in gamba, bravissima, il
nostro leader però è Berlusconi e come dice lui decideranno gli elettori». L’opposto di
quanto sostenuto da Toti a Genova tre giorni fa: «Marina ha tutta la mia stima e qualora
volesse scendere in campo sono sicuro che farà bene, la scelta spetta a lei». Il confronto è
aperto.
Stefania Prestigiacomo, in squadra dalla prima ora, fa notare come «Marina giustamente
dice che le leadership non si ereditano ma si conquistano in campo e in questo rivela
capacità di lettura del difficile momento politico, se ci sarà, saranno guai per Renzi». Non
ha riserve, anzi, un politico navigato di scuola dc come Gianfranco Rotondi, «piace, innova
l’offerta politica, ma vedrete che alla fine sarà Berlusconi a decidere tra la soluzione
carismatica dell’investitura o quella democratica delle primarie». Anche fuori dal partito
nelle consultazioni ci sperano. «Perché le primarie — dice Giorgia Meloni — saranno
comunque imprescindibili se si vorrà ricostruire la coalizione ».
del 05/05/14, pag. 14
La sfida della sinistra deve essere alternativa
all’austerity
LAURA PENNACCHI
LE ELEZIONI EUROPEE DEL 25 MAGGIO SARANNO CRUCIALI PER IL FUTURO
DELL’EUROPA E IL DESTINO DELL’EURO. Due libri recenti di Colin Crouch (Making
Capitalism fit for Society in traduzione da Laterza) e di Wolfgang Streeck (Tempo
guadagnato La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli) sono esemplari di
questa crucialità, sostenendo due tesi diametralmente opposte sulle ragioni per cui
bisogna preoccuparsi dei populismi antieuropei. Per Crouch è fondamentale evitare il
ritorno ai nazionalismi e al protezionismo economico. Nella costruzione di network globali
alternativi a quelli basati sul signoraggio del dollaro e sul potere delle grandi corporation,
l’Europa è il «miglior candidato » per muovere verso una globalizzazione «equa» e la
moneta unica - pur mal concepita e ancora peggio congegnata - è stato, e rimane, un
passaggio importante per andare in questa direzione. L’Europa, infatti, se negli ultimi anni
ha visto prevalere le componenti politiche di centro-destra che la vogliono configurare
come aggressiva «forza di mercatizzazione », ha però sempre coltivato nel suo seno una
pluralità di ispirazioni e anche componenti animate dall’identificare un «distinto ruolo» per
politiche sociali di profonda correzione delle tendenze distruttive intrinseche ai mercati. Il
che ha portato a realizzazioni «impressionanti » per esempio all’epoca delle presidenze
Delors e Prodi e con la Carta dei diritti. L’Europa unita, dunque, per Crouch rimane un
orizzonte fondamentale e il neoliberismo - fin qui sconfitto, con la crisi scoppiata nel
2007/2008, sul piano culturale, ma tutt’altro che vinto sul piano pratico - sia profondamente
combattuto e piegato. L’alternativa a questo percorso non sarebbe un’impossibile ritorno
all’autonomia degli stati nazionali,ma la subordinazione al potere delle corporation globali,
degli stock markets, delle agenzie di rating. La sinistra - specie quella socialdemocratica,
in congiunzione con il sindacato che ha bisogno di cambiamenti nelle strategie e nei
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modelli organizzativi ma rimane un’istituzione estremamente vitale - ha un compito
decisivo da svolgere, a patto di uscire dall’assetto odierno, prevalentemente «difensivo»,
assumendo un orientamento nettamente «assertivo» e di allearsi con le istanze
ambientaliste,con i movimenti femministi, con altri movimenti che animano il variegato
scenario della società civile. Al contrario, secondo Streeck, di fronte agli esiti recessivi e
stagnazionistici generati in tutti i paesi europei dai tentativi di salvare l’Euro e dalle
politiche di «deflazionistica disciplina fiscale» imposte dalla Germania della Merkel, è
arrivato il momento di riconoscere che il processo dell’Europa unita, basato sulla cessione
di sovranità da parte degli stati nazionali, è stato segnato fin dall’inizio dalla volontà di
trasformare l’Unione in un «catalizzatore della liberalizzazione del capitalismo», volontà a
cui hanno finito con l’aderire anche personaggi come Delors e Prodi i quali, anzi, hanno il
demerito di essersi eretti a paladini della necessità che l’Europa riconquistasse
primariamente competitività nei confronti degli Usa. Così si è dato vita a una struttura
istituzionale malata, «progettata per garantire che gli stati nazionali un tempo sovrani si
conformino alle richieste del mercato». L’Euro è stato un tassello decisivo di questo
processo,componente centrale dell’applicazione all’Europa del progetto neoliberista. È
tutto ciò che torna a dare grande valore alla questione della sovranità nazionale: sarebbe
esiziale procedere con «fughe in avanti» verso l’Europa unificata anche sul piano politico e
invece bisogna ripristinare le sovranità nazionali, consentendo a ogni paese di coltivare la
propria diversità, senza inseguire feroci convergenze. Per Streeck un Piano Marshall per
l’Europa - che è proprio la richiesta della DGB tedesca e di altri sindacati europei, tra cui la
Cgil che avanza anche la proposta di un Piano del lavoro interno - oggi «sarebbe
impensabile». È interessante notare che una componente fondamentale delle opposte
argomentazioni di Crouch e di Streeck è la questione della «riformabilità» o «irriformabilità
» del capitalismo. Streeck pensa che sia in atto un processo inarrestabile di
«convergenza» delle economie sviluppate verso un modello unico, quello neoliberistico
anglosassone, il che toglie validità all’approccio della variety of capitalism e, soprattutto,
rende difficile al limite dell’impossibile ogni opzione di riformabilità del capitalismo. Crouch,
invece, crede nella riformabilità del capitalismo e nella persistente pluralità dei «tipi di
capitalismo». Su questa base rilancia alla grande l’obiettivo ambizioso della «riforma del
capitalismo», con accenti che richiamano Keynes che negli anni ’30 individua al centro del
nuovo liberalismo le azioni umane non determinate dal profitto e dunque il lavoro fonte di
un nuovo umanesimo. Per questo è sbagliato non vedere le differenze che ci sono state e
ci sono tra destra e sinistra. Le timidezze, le reticenze le vere e proprie subalternità che le
sinistre hanno avuto nei confronti del neoliberismo sono indubbie, soprattutto nella Terza
Via di Tony Blair.Ma è la sinistra la «maggiore sorgente di alternative all’interno della
società capitalistica», alternative che rischiano di essere marginalizzate se l’«austerità » e
la «precarietà» falsamente «espansive» procedono stritolando ogni cosa lungo il suo
cammino. Oggi l’alternativa di sinistra per un’eguaglianza non derubricata a semplice
equità richiede per l’Europa l’abbandono delle politiche di austerità e il lancio di strategie di
investimenti e di generazione diretta di occupazione: non basta il semplice incremento
della occupabilità presupposto dalla «youth guarantee » e dal Jobs Act di Renzi. Non si
può non vedere che, dopo la profonda depressione di questi anni l’apparente ripresa in
Irlanda e in Spagna è dovuta a un recupero di produttività generato da una fortissima
espulsione di forza, il che spinge la disoccupazione a livelli stratosferici, i quali, a loro volta
comprimono i salari verso il basso. Va invertita la rotta. Si tratta di procedere a un
aggiustamento di reddito e spesa, prendendo atto che in assenza di domandaè
semplicemente folle insistere nel rendere i paesi debitori maggiormente competitivi; a una
ristrutturazione e mutualizzazione del debito; e a un aggiustamento finanziario, cambiando
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i Trattati e spingendo la Bce a un maggior sostegno dell’economia reale, dandole anche la
possibilità di finanziare i governi direttamente.
del 05/05/14, pag. 11
Salvini contro tutti La sua prima Pontida tra i
figli dei venetisti
di Marco Cremonesi
Matteo Salvini indica i palloncini verdi che volano verso un cielo azzurro smalto. «Quelli
sono i nostri sogni. Quello è il futuro, la libertà che nessuno ci potrà mai rubare». I
palloncini sono stati «liberati» dai bambini che poco prima lui aveva fatto salire sul palco,
figli degli indipendentisti arrestati su iniziativa della procura di Brescia, ma anche congiunti
di militanti leghisti scomparsi. Tutti riuniti ai piedi di un «albero della vita» appena piantato
per ricordare i militanti scomparsi. Due baghèt, le cornamuse bergamasche, suonano una
commossa Amazing grace , inno alla ritrovata grazia.
È la prima Pontida con Salvini
segretario, a 20 giorni dalle Europee. Occorre un raduno che suoni la carica. La gente c’è,
il prato è pieno. E il tema è: ne abbiamo passate tante, ma siamo ancora in piedi. Umberto
Bossi, il vecchio capo, unico destinatario delle ovazioni oltre a Salvini, lo dice in forma
compiuta: «Una cosa in tanti anni l’abbiamo fatta. Abbiamo dato ai nostri popoli una
coscienza. Quello, almeno, non potranno togliercelo».
La prima carica è di Giancarlo
Giorgetti, capogruppo alla Camera: «Non ci lasciano fare un referendum contro l’euro,
dicono che la Costituzione non lo permette. E allora, il 25 maggio andiamo a votare, il
nostro referendum sarà quello». Gianluca Buonanno, deputato eccentrico, si agita con una
canna da pesca a cui è appesa una sagoma di pesce con la testa di Laura Boldrini. Ma
intanto tocca a «Berto» Calderoli, unico a toccare l’argomento difficile della legge
elettorale: «Ma quando mai un Senato fatto di sindaci, governatori e presidenti di
Provincia? Quelli hanno da lavorare duro». E poi: «I senatori non si nominano, li elegge il
popolo». Con un’aggiunta da sottolineare: «Se Renzi ci prova con il semipresidenzialismo,
davvero salta tutto». L’ex ministro parla con in mano una mezza banana: «Ciascuno
mangi la banana a casa sua» .
Tocca a un Roberto Maroni d’opposizione: «Renzi aveva
parlato del patto di stabilità come del patto di stupidità. Ora che è al governo, un governo
carosello fatto solo di spot, se ne è dimenticato». Il governatore lombardo nomina
Angelino Alfano, ed esplode una bordata di fischi. Salvini rincarerà: «Se non è in grado di
fare il ministro dell’Interno, meglio che si dimetta» .
Ecco Bossi, che tocca il pratone
parlando della storia recente del Carroccio: «Siamo abbastanza umili da sapere quando
abbiamo sbagliato, e siamo abbastanza forti da saper recuperare». E ancora: «Ci sono
state cose sbagliate, persone scelte superficialmente e persone messe fuori dal partito. Io
penso che tutto rientrerà».
Il finale è tutto del segretario, il «Matteo giusto». La novità
politica è l’accordo con Marine Le Pen e gli altri partiti anti euro: «Grazie a quell’accordo,
in Europa non saremo più in trenta ma in duecento». Perché, è «meglio essere chiamati
populisti che fessi». Salvini cita Bobby Sands, l’indipendentista irlandese morto il 5 maggio
1981 per uno sciopero della fame in carcere: «Sono quelle le nostre radici». Poi, a testa
bassa sul lavoro. Con una tirata gridata contro la riforma Fornero: «Maledetta. Ladra di
lavoro, ladra di stipendi, ladra di futuro. Vada a fanc... Fornero e chi ce l’ha messa». La
svolta Salvini include la discesa al Sud: «Contro l’euro, noi siamo pronti a liberare la gente
per bene che vive al Sud. Perché l’euro, la moneta della fame, ci sta ammazzando tutti».
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Infine Grillo: «Mi chiedono perché non facciamo battaglie insieme a loro. Semplice: è
impossibile. Su uscita dall’euro e immigrazione clandestina, Grillo prende per il c... gli
italiani».
Dopo la fine del raduno, Salvini viene chiamato da Lucia Annunziata, che ha per
ospite Berlusconi: «Salvini ha molte ragioni ma è un fatto avventuristico uscire dall’euro».
Il segretario leghista taglia duro: «Spiace che Berlusconi dia una mano a Renzi ».
del 05/05/14, pag. 1/23
Lo Stato nel pallone salvato da Gomorra
ROBERTO SAVIANO
LE VICENDE accadute allo Stadio Olimpico — dentro e fuori — hanno dell’incredibile, e
non semplicemente per il grado di violenza raggiunto. Genny ‘a carogna è diventato il
simbolo mediatico di Napoli-Fiorentina per il suo soprannome buffo e feroce, per le foto
che lo ritraggono cavalcioni sulle transenne dello stadio, che ricordano le immagini di Ivan
Bogdanov, detto “Ivan il Terribile”, l’ultrà serbo che a Marassi il 12 ottobre 2010 guidò gli
scontri che portarono all’interruzione di Italia-Serbia. Ma la fama di Genny ‘a carogna
dipende da altro: è lui che ha evitato una vera e propria rivolta dopo la sparatoria fuori
dall’Olimpico. C’è tutta una parte di società civile e di istituzioni che è stata letteralmente
salvata dalle decisioni di Genny ‘a carogna. Perché la diffusione delle notizie avrebbe
potuto far insorgere la tifoseria mettendo a ferro e fuoco una Roma impreparata. Il
questore di Roma, Massimo Mazza, dice che non c’è stata trattativa.
È OVVIO che formalmente non è stato chiesto a Genny ’a carogna se svolgere o meno la
partita ma che semplicemente è stato accordato a Marek Hamsik il permesso di informare
la curva del Napoli sulla situazione del tifoso ferito, visto che giravano voci che fosse
morto. E dover avvertire un capo ultras del calibro di Genny ‘a carogna non è trattare?
Come se ciò non bastasse, Genny ‘a carogna non sarebbe solo un uomo che ha
precedenti per droga e un Daspo, ma è segnalato più volte dai pentiti come una sorta di
anello di congiunzione tra camorra e tifoseria. Emiliano Zapata Misso, che è nipote di
Giuseppe Misso, capo storico della camorra napoletana, parla di una tifoseria eterodiretta
dai clan e fa riferimento proprio a Genny, che è figlio di Ciro De Tommaso, ritenuto affiliato
al clan Misso. E in passato Genny aveva fatto parte dei Mastifss, i mastini, storico gruppo
napoletano. D’improvviso ora ci si accorge che nelle tifoserie organizzate la camorra ha un
ruolo importante. Eppure basta leggere le inchieste degli ultimi anni, le dichiarazioni dei
pentiti. Testimonianze che parlano di un altro gruppo ultrà chiamato Rione Sanità,
comandato da Gianluca De Marino, non un tifoso qualsiasi, ma il fratello di un membro
dell’ala militare del clan Misso. E potremmo raccontare ancora dei rapporti tra il gruppo
Masseria Cardone e il clan Licciardi, o dell’infiltrazione dei Mazzarella nei Fedayn o nelle
Teste matte.
Secondo le forze dell’ordine, a sparare a Ciro Esposito, il trentenne di Scampia ora in
pericolo di vita, sarebbe stato un ultrà della Roma, Daniele De Santis, detto Gastone. Le
tifoserie romane e laziali non sono libere da pressioni criminali, tutt’altro. Non esiste curva
che non raccolga
un tifo organizzato in continua dialettica con la criminalità. Ricordate la scena del nipote di
Giuseppe Morabito “U Tiradrittu”, Giuseppe Sculli, durante la partita Genoa-Siena del 22
aprile 2012? Quando gli ultras del Genoa, per protesta, chiesero ai giocatori di levarsi le
magliette, fu Sculli in persona ad andare a mediare con loro. Giuseppe Sculli viene spesso
considerato vittima del nonno, capo ‘ndranghetista indiscusso, ma in realtà non ha mai
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preso le distanza dalle ‘ndrine di San Luca, anzi, ha ribadito in diverse occasioni la fedeltà
a suo nonno e al suo sangue.
Due anni prima fece discutere la fotografia che ritraeva Antonio Lo Russo, figlio di
Salvatore, capo dell’omonimo clan camorristico, a bordo campo al San Paolo di Napoli nel
corso della partita Napoli-Fiorentina del 13 marzo 2010. Lo Russo è appena stato
arrestato a Nizza, era latitante e ora attende l’estradizione. Quindi non stupiamoci se si è
scelto di andare a parlare (o a trattare, la sostanza cambia poco) con chi ha più potere
delle istituzioni in quel contesto, perché ha una struttura organizzata. Lo Stato c’era, ma
era nascosto dietro le spalle di Hamsik. Il calcio è intoccabile, ogni critica genera tifo, non
analisi. Qualsiasi riferimento sembra essere contro una squadra o a favore di un’altra. Ma
gli ultras sono molto più che persone talvolta violente: hanno un ruolo di consenso e di
business. Una parte della tifoseria organizzata fa sacrifici e si svena per seguire i propri
idoli, ma i vertici cosa fanno? Chi vende hashish, erba e coca? Ogni domenica gli stadi
diventano mercati di droga, teatri di guerra non controllati in cui gli ultras portano bombe
carta e bengala. Eppure questo non si può dire, per la solita, ingenua storia che
continuiamo a raccontarci sul calcio che unisce. Al calcio tutto
è concesso e tutto è permesso e in un Paese dove la corruzione ha travolto tutto.
L’inchiesta partita da Napoli di Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice cercò proprio di
individuare i punti di contatto tra calcio corrotto e potere dei clan. Poi tutto si fermò.
Ora, gli ultras dello sport sono i primi ad agire: ma cosa succederà quando gli ultras della
rabbia politica si riverseranno nelle strade? Ci si rivolgerà al Genny ‘a carogna della
situazione per non far accadere il peggio? Il presidente del Senato Pietro Grasso che
consegnava le medaglie ha suggellato il senso della serata. Una sparatoria, feriti, bombe
carta su calciatori e forze dell’ordine. E le istituzioni consegnano medaglie. Sapete come si
chiama, ad esempio, il presidente della Figc, quell’organo che un ruolo nella riforma del
calcio pure avrebbe dovuto averlo? Forse non ne conoscete il nome, ma il volto sì, poiché
predilige essere intervistato al termine delle partite della nazionale: nei momenti fatui.
Giancarlo Abete, nominato presidente della Figc il 2 aprile 2007, due mesi dopo la morte
di Filippo Raciti a Catania. Da allora sono passati sette anni, un’eternità. Nulla è cambiato
e ciò che è accaduto descrive lo stato comatoso dello sport più importante in Italia. Perché
c’è bisogno di un presidente della Figc se il risultato è questo? Perché, come sempre in
Italia, i vertici non hanno alcuna responsabilità dei fallimenti? Chiedetevi chi è Giancarlo
Abete e quali sono stati i risultati del suo lavoro. Altrimenti De Andrè avrà per sempre
ragione e continueremo ad assisteremo inermi all’ennesima occasione in cui lo “Stato si
costerna, si indigna e si impegna, poi getta la spugna con gran dignità”.
del 05/05/14, pag. 1/4
L’INCHIESTA
Quei 10 padroni delle curve d’Italia
PAOLO BERIZZI FABIO TONACCI
QUANTI “Genny ‘a carogna” e “Gastone” ci sono nel calcio italiano? Di quante piccole
“tigri Arkan” — il nome di battaglia di Zeljko Raznatovic, capo ultrà della Stella Rossa
Belgrado e criminale di guerra — sono ostaggio le curve e i club e, a volte, come si è visto
nella bolgia dell’Olimpico, lo Stato?
DANAPOLIa Torino, da Roma a Milano e poi Catania, Brescia, Verona. Ogni curva il suo
capo. Ogni capo il suo territorio. Ogni territorio le sue regole scritte a suon di botte e
minacce. Un uomo solo (o quasi) al comando. Uno che decide, fa e disfa per tutti. Nelle
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curve metropolitane «tutti» vuol dire anche 10 o 15mila persone. Che ti obbediscono e ti
seguono. Pure all’inferno, se occorre.
‘A CAROGNA E IL CLAN
Gennaro De Tommaso non è un tifoso come gli altri. Non solo per quel nomignolo “a
carogna” che da solo vale più di qualsiasi biografia. Ma per la sua famiglia,
la cui storia di criminalità di strada si intreccia con due clan di camorra: i Misso del Rione
Sanità e i Giugliano di Forcella. C’è lo zio, Giuseppe de Tommaso, detto “l’assassino”. E
c’è il padre di Gennaro, Ciro, detto “Ciccione a Carogna”, condannato per associazione
camorristica e per fatti di droga, per i quali si è beccato in primo grado 24 anni. «È stabile
fornitore di stupefacenti dei Giugliano», si legge nella sentenza. Genny cresce in
quell’ambiente lì. Ha un bar nel cuore di Forcella ed ha scalato i Mastiffs, diventandone il
capo. Per chi non conosce i mastini del Napoli, basti sapere che sono considerati i tifosi
più violenti, teste calde, dalla coltellata facile.
Si fa conoscere subito, Genny. Si guadagna “sul campo” due Daspo, uno nel 2001, un
altro nel 2011, poi revocato. Nel suo passato accuse di rapina e spaccio, ma sulla fedina
nessun precedente che lo leghi direttamente alla camorra. «È lui il capo di tutta la curva
del Napoli», indicò nel 2008 il pentito Emilio Zapata Misso, disegnando ai magistrati la
geografia ultrà del San Paolo, con i nomi degli infiltrati mafiosi in curva.
L’ASSE MILANO-TORINO
Milan, Inter e Juventus rivali giurate? Sul campo, forse. In curva, un tempo. Poi sono
arrivati i nuovi capibastone e con loro l’amore per gli affari, lo spaccio di coca, il business
delle trasferte e del merchandising, la politica «nera». Si chiamano Giancarlo Lombardi
detto “Sandokan”, Loris Grancini, e Franco Caravita, per tutti ”Franchino”. Dietro di loro
pesa da tempo l’ombra della criminalità organizzata. Grancini è a capo dei Viking della
Juventus. Campione di poker, è considerato uomo vicino a Cosa nostra e alla cosca
calabrese dei Rappocciolo. Gli investigatori della Squadra Mobile milanese lo ritengono
«abilissimo a far perdere le proprie tracce soprattutto per il suo inserimento in circuiti
criminali di elevato spessore». Grancini e i suoi Viking hanno sede a Milano, dove, nel
2011, sostiene la candidatura in consiglio comunale del pidiellino Marco Clemente.
Sandokan gira in Ferrari e va poco in curva sud a San Siro. Però la controlla. Il secondo
anello milanista è roba sua. Nel 2007 finisce dentro dopo l’agguato a colpi di arma da
fuoco ai danni di un ultrà del gruppo Commandos Tigre capeggiato da Ricky Cardona: è
l’atto più eclatante di una violenta faida interna alla curva sud. Oggi sono tutti lì e
comandano più di prima. Pestaggi. Lotte per il potere. Quella che ha visto protagonisti in
questi anni, sponda Inter, il “teppista” Nino Ciccarelli, fondatore dei Viking neroazzurri, e
“Franchino” Caravita, storico capo dei Boys. Una scia di precedenti Ciccarelli e Caravita.
Violenze. Agguati. Sprangate.
LA PIAZZA DI ROMA
Come “’a carogna”, anche Daniele “Gastone” De Santis, il romanista arrestato sabato,
gestisce un bar al circolo sportivo Boreale, ritrovo dei fascisti di tutta la città. Ma non è più
lui a comandare dentro l’Olimpico. Al centro della Sud, dagli anni Settanta, nessuno
smuove i Fedayn, capeggiati da Fabio Catalano. Alle sue spalle, ogni domenica, una
fauna di pregiudicati. C’è poi Nicola Follo, leader dei Padroni di Casa. È un gruppo più
piccolo, un centinaio di ragazzi o poco più, tutti estremisti di destra di Casa-Pound. I neri
hanno il controllo dello stadio, ormai. Sulla sponda laziale, settore Irriducibili, il gerarca è
ancora Fabrizio “Diabolik” Piscitelli: 47 anni, in prigione per traffico di stupefacenti tra
l’Italia e la Spagna.
Per trovare i rossi bisogna salire a Livorno, terra delle ex Brigate autonome livornesi,
oppure nella piccola Teramo. Qui si scopre la storia di Davide Rosci, 31 anni, comunista,
guida del “Teramo Zezza”, ribattezzata la curva più a sinistra d’Italia. È stato condannato a
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6 anni di carcere per l’assalto al blindato dei carabinieri del 2011, durante una
manifestazione degli Indignati.
DA VERONA A CATANIA
«Il salto di qualità, che è anche un salto nel buio, alcune curve lo hanno fatto quando si
sono consegnate alla criminalità organizzata», spiega Maurizio Marinelli, direttore del
Centro studi sicurezza pubblica della Polizia. Mafia e pallone, dunque. C’erano i boss di
Brancaccio dietro l’esposizione dello striscione “Uniti contro il 41 bis” durante PalermoAscoli nel 2002. Ora in Sicilia il tifo più pericoloso è quello di Catania. La curva è in mano
a Michele Spampinato. È lui che, a 31 anni, subisce una “puncicata” durante una trasferta
a Roma il 21 gennaio del 2008. Ed è lui, a marzo di quest’anno, a firmare una lettera
contro il presidente del Catania Pulvirenti, a nome di tutti i tifosi rossoblù. È daspato, ma lo
stesso un capopopolo.
C’è anche chi dalla curva è scappato e oggi fa il latitante in Costa Rica. Come Andrea
Fantacci, ras storico delle disciolte Brigate Gialloblù dell’Hellas Verona. Oggi la curva
veronese si autogestisce, tifo spontaneo “all’inglese”: basta gruppi e basta capi. Troppo
riconoscibili. Troppe grane con la giustizia, quando i magistrati mettono sotto torchio le
tifoserie turbolente. È il caso di Bergamo e Brescia. La curva nord atalantina, guidata dal
“Bocia” Claudio Galimberti, è stata messa alla sbarra dal pm Carmen Pugliese per anni di
violenze, in particolare per l’assalto a colpi di molotov all’ex ministro Maroni reo di aver
introdotto l’odiata tessera del tifoso. I cugini bresciani, tra daspo e divisioni interne, non se
la passano meglio. «Ma di farci schedare dallo Stato — ripete Diego Piccinelli del gruppo
Brescia 1911 — non ci pensiamo nemmeno».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 05/05/14, pag. 20
Il rapporto: 351 atti intimidatori contro gli amministratori pubblici
nell’ultimo anno Più 66 per cento dal 2010. Il primato è della Puglia,
seguita da Sicilia e Calabria. E molti finiscono sotto scorta
“Noi, tutti i giorni una minaccia” Sul fronte
dei sindaci eroi normali d’Italia
ALESSANDRA ZINITI
PALERMO .
Rosario Rocca, sindaco di Benestare, piccolo centro in provincia di Reggio Calabria, si è
dimesso sette mesi fa via facebook dopo l’incendio della sua auto e di quella della sorella:
«Lo stato di abbandono in cui versa il nostro territorio, dimenticato volutamente e
tragicamente da uno Stato sordo e assenteista non mi consente più di rappresentare
dignitosamente la mia gente. Né ritengo di averne più la forza dopo anni di resistenza
isolata e inascoltata al malaffare, alla criminalità e alla burocrazia autoreferenziale ».
Alvise Stracci, sindaco di Alimena, piccolo centro sulle Madonie in Sicilia, ha deciso invece
di restare al suo posto: «Da quando hanno bruciato l’auto a mia moglie ogni notte mi
sveglio alle quattro del mattino e non riesco più a dormire. Sto solo portando avanti
un’amministrazione imparziale, improntata su legalità e trasparenza con un taglio deciso
contro il malaffare e la mafia. La mia porta è sempre aperta».
Così come sempre aperta era la porta di Laura Prati, la “sindaca” di Cardano al Campo
(Varese) uccisa a luglio nella sua stanza in Comune dalla pistola di un vigile urbano che
aveva sospeso dal servizio dopo una condanna per truffa e peculato. A Laura è dedicato il
report 2013 “Amministratori sotto tiro” redatto da Avviso pubblico, l’associazione che da
Nord a Sud dà voce alle centinaia di sindaci, assessori, funzionari comunali che provano
ad amministrare la “cosa pubblica” in contesti spesso territorialmente difficili dove la
situazione è aggravata dal profondo disagio sociale creato dalla crisi economica.
È un vero e proprio bollettino di guerra quello che si scorre tra auto incendiate, lettere di
minacce, proiettili, ordigni più o meno rudimentali, spari contro macchine e abitazioni, teste
mozzate di animali, fino alle aggressioni fisiche e verbali. E se, quando nel mirino finiscono
governatori di regioni o sindaci di grandi città si accendono sempre i riflettori, nella
maggior parte dei casi gli amministratori di piccoli centri, quasi sempre professionisti
prestati alla politica, sempre più spesso donne e giovani, espressioni di liste civiche, si
sentono estremamente esposti.
Trecentocinquantuno atti intimidatori, quasi uno al giorno con un aumento del 66 per cento
negli ultimi tre anni. Alla Puglia, con il 21 per cento dei casi, seguita a ruota da Sicilia e
Calabria, il triste primato. Ma se le regioni del Sud, dove certamente è ancora molto forte il
condizionamento della criminalità organizzata, fanno registrare l’80 per cento dei casi, le
cronache raccontano di un aumento esponenziale del rischio di amministrare che deriva
dalle difficilissime condizioni economiche. «Nel 2013 la vita e la sicurezza di tante donne e
tanti uomini che amministrano le loro comunità è stata messa in pericolo anche da gesti
compiuti da persone disperate che, a causa della perdita del lavoro e di un reddito certo,
hanno pensato di sfogare la loro rabbia sui rappresentanti politici a loro più vicini — dice
Roberto Montà, sindaco di Grugliasco e presidente di Avviso pubblico — Diversi sindaci,
assessori, consiglieri comunali sono stati identificati come soggetti appartenenti alla
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“casta”, una categoria sociale composta da privilegiati che godono di lauti stipendi,
lavorano poco e non rispondono mai concretamente dei loro atti».
Alcuni sindaci, anche del Nord, come quello di Bologna Virginio Merola, o quello di
Livorno, Alessandro Cosimi, sono stati costretti a vivere sotto scorta, altri si sono dimessi
come Pino Veneziani, primo cittadino di Rodi Garganico, in provincia di Foggia: prima le
aggressioni verbali, poi lo stabilimento balneare di famiglia imbrattato di olio esausto, fino
all’incendio dell’auto.
Mogli, figli, sorelle, le intimidazioni non risparmiano nessuno: «Se a Gioia Tauro
costruiranno il rigassificatore ammazzeremo te e la tua famiglia», è il messaggio inviato ad
Antonella Stasi, vicepresidente della Calabria. A Ernesto Sica, sindaco di Pontecagnano,
Salerno, le minacce arrivano via facebook: «Ti devi dimettere, altrimenti ti spariamo ».
Persino l’emergenza immigrazione genera rischi: a settembre una busta con una
polvere bianca e la scritta “pericolo antrace” viene recapitata al sindaco di Lampedusa
Giusi Nicolini. Assegnazioni di case popolari, abusi edilizi, licenze commerciali, sussidi di
disoccupazione, atti di ordinaria amministrazione che diventano rischio. «Stai attenta. Ti
farò male con l’acido», ed Elisa Trombin, sindaco di Jolanda di Savoia, Ferrara, finisce
sotto scorta.
E il presidente di Avviso pubblico lancia il suo appello: «Questi amministratori non
possono e non devono essere lasciati soli, vanno protetti e tutelati, rappresentano un
presidio di legalità concreto sui territori».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 05/05/14, pag. 12
Emergenza migranti
Sicilia vicina al collasso
A Messina, dopo la pioggia, intere famiglie di immigrati hanno lasciato
la tendopoli allagata. Situazione critica anche a Pozzallo e Modica
MANUELA MODICA
Più di duemila migranti sbarcano in pochi giorni nelle coste siciliane e nell’isola è
emergenza. Una situazione di accoglienza al collasso da Pozzallo a Messina mentre si fa
altissima la tensione a Modica. Nella città del ragusano, infatti, sabato sessanta genitori
hanno addirittura annunciato che non manderanno i loro figli in gita a Siracusa per evitare
che possano contrarre infezioni, sedendo negli stessi pullman utilizzati per il trasferimento
dei migranti da Pozzallo alla masseria San Pietro di Comiso. Salterà, dunque,
probabilmente il tour organizzato della scuola statale Giacomo Albo perché i genitori dei
ragazzi temono che gli autobus non possano essere disinfettati in tempo. «Ci troviamo di
fronte a un’emergenza sanitaria e i governi regionale e nazionale devono intervenire
immediatamente - ì ha commentato il sindaco di Modica Ignazio Abbate -. Nell’ospedale
Maggiore di Modica, già in difficoltà per la carenza di posti letto e di personale, si
aggiungono anche le problematiche sanitarie inerenti la presenza di numerosi casi di
tubercolosi scabbia e Aids, segnalati durante i ricoveri degli immigrati provenienti dai
recenti sbarchi. Il presidio non è in grado, attualmente di supportare ulteriori ricoveri, tra
l’altro particolarmente impegnativi e gravosi nell’ambito infettivologico ».
Si aggrava, invece, la situazione a Messina, dove i migranti sono ospitati in una tendopoli
allagata, per questo interi nuclei familiari hanno abbandonato i loro alloggi e sono fuggiti.
Sono drammatiche le condizioni dei profughi sbarcati lo scorso giovedì sullo Stretto, dopo
che una forte grandinata ha aggravato le già precarie condizioni di accoglienza al Pala
Nebiolo, il campo da Baseball dell’Università di Messina dove la Prefettura ha allestito
l’accoglienza dei profughi: 250 posti in tenda, più 180 nella struttura interna del campo
sportivo. Era già successo lo scorso autunno, quando i migranti ospitati erano stati
trasferiti d’emergenza dalle associazioni di volontariato in istituti religiosi. Nessuna
alternativa alle tende del campo da baseball è stata trovata nel frattempo, nonostante le
denunce dei parlamentari Erasmo Palazzotto di Sel, e Francesco D’Uva del M5S. «Questo
è un campo profughi in piena regola - aveva dichiarato Palazzotto, lo scorso febbraio a
seguito di una visita a sorpresa - qui vengono violate tante normative vigenti e quindi
questa struttura va chiusa: infiltrazioni d'acqua e d'umidità che ci sono specialmente
durante la notte, è assurdo fare una tendopoli in questo tipo in pieno inverno». Nella tarda
sera di giovedì notte dal mercantile Robur di Bari erano sbarcate 266 persone di cui 6
donne in stato di gravidanza e 80 bambini circa di età compresa dai pochi mesi agli 8 anni.
Interi nuclei familiari con bambini piccolissimi al seguito, partiti dalla Siria e poi imbarcati in
Libia verso le coste italiane. La Robur ha soccorso il barcone a 35 miglia dalla costa libica.
Una volta sbarcati, la squadra mobile di Messina a seguito delle testimonianze ha posto in
arresto un tunisino di 25 anni, Moem Grhouda, ritenuto uno degli scafisti. Il barcone era
stato infatti trascinato da un rimorchiatore fino alle acque internazionali, il ragazzo tunisino,
stando alle testimonianze, si trovava al timone dell’imbarcazione rimorchiata. Appena
avvistata la nave italiana gli altri scafisti nel rimorchiatore sono fuggiti mentre Ghrouda è
rimasto nel barcone soccorso dalla nave italiana. Sui morti di Lampedusa qualcuno ci ha
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guadagnato – ha detto il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, riferendosi al business
gestito dal racket dell' immigrazione e dagli scafisti -. Con i 4 «scafisti» arrestati abbiamo
superato quota 210: quindi noi contrastiamo il traffico di essere umani, arrestiamo scafisti
e mercanti di morte. Non daremo loro tregua e li lasceremo in cella».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 05/05/14, pag. 14
Infrazioni, Italia maglia nera 250mila euro di
multa al giorno per le discariche irregolari
Ambiente, appalti, giustizia: ben 114 le procedure Ue Un’emergenza che
ci costa centinaia di milioni
ALBERTO D’ARGENIO FABIO TONACCI
L’INCHIESTA
ROMA
È UN fatto di credibilità oltre che di soldi, di tanti soldi. Con la bellezza di 114 procedure di
infrazione pendenti di fronte a Bruxelles l’Italia è maglia nera assoluta per il livello di
illegalità nel rispetto delle regole comuni ai 28 paesi dell’Unione. A contribuire alla
Waterloo italica ci sono un po’ tutti: ministeri, regioni e burocrazie varie che non adottano
le direttive europee o che proprio non riescono a rispettarle.
Un’emergenza che ci può costare centinaia di milioni di sanzioni che, in periodo di crisi,
fanno gridare allo scandalo. Basti contare che la multa minima che Bruxelles può adottare
contro l’Italia al termine dei contenziosi è di 8 milioni ai quali si aggiungono penalità da 10
mila a 642 mila euro per ogni giorno in cui il Paese non rientra nella legalità dopo una
sentenza definitiva. Cifre da capogiro. E poi come chiedere all’Europa di cambiare, come
si propone Matteo Renzi, se oltre ad avere il secondo debito pubblico dell’eurozona ogni
anno si buttano via miliardi di fondi strutturali e oltretutto si è il Paese con più infrazioni del
Continente? Se lo chiedono a Palazzo Chigi, dove stanno preparando un pacchetto
d’emergenza per arrivare al semestre italiano di presidenza dell’Unione con le carte in
regola per ridiscutere le regole base della moneta unica.
Già, perché non è facile pretendere dall’Europa più solidarietà (si parli di debiti sovrani, di
lotta alla disoccupazione o di immigrazione) e più flessibilità sui conti pubblici quando si
buttano via i soldi. E per giunta per inettitudine. Basti pensare che delle 114 procedure di
infrazione a carico dell’Italia, 34 sono provocate dalla mancata trasposizione
nel nostro ordinamento delle direttive comunitarie, leggi Ue che i nostri governi hanno
approvato insieme agli altri partner al Consiglio europeo. Nulla di imposto o sgradito,
dunque. E poi ci sono le 80 procedure per violazione delle regole comunitarie.
Scorrendo le tabelle si capisce subito che il problema più grave le nostre amministrazioni
ce l’hanno con l’ambiente, che con 21 procedure pendenti è il settore più colpito da
Bruxelles (14% del totale). E quasi sempre quando si parla di ambiente la colpa è delle
regioni. Seguono i trasporti con 16 procedure aperte, ma ce n’è per tutti: dagli appalti al
lavoro passando per salute, tutela dei consumatori, economia e giustizia.
A far paura sono le sedici infrazioni che a breve possono trasformarsi in multe. In cima alla
lista c’è la procedura aperta nel 2003 per il mancato rispetto delle direttive Ue sulle
discariche. La Commissione di Bruxelles ha chiesto 61 milioni di multa e una penalità di
256mila euro per ogni giorno in cui l’Italia non si è conformata ai richiami. A breve arriverà
la sentenza finale della Corte di giustizia del Lussemburgo e la condanna definitiva potrà
essere evitata solo chiudendo prima del giudizio, ovvero in tempi rapidissimi, le discariche fuori norma. L’altra stangata dietro l’angolo nasce dall’emergenza rifiuti in Campania,
quella che il governo Berlusconi prometteva di risolvere con la bacchetta magica: la
Commissione chiede alla Corte il via libera a 34 milioni di multa più una penalità di mora di
94 milioni all’anno a partire dal 2014. E ci sono altre due procedure in fase finale: quella
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per gli aiuti illegali ai servizi pubblici del 2006 e quella per gli aiuti alle imprese di Venezia
e Chioggia: Bruxelles a breve proporrà ai giudici del Lussemburgo le multe da comminare
all’Italia. Lo stesso potrebbe avvenire per le altre infrazioni in fase finale che riguardano
l’uso delle reti a strascico nei nostri mari (vietate), i mancati controlli sugli impianti
industriali inquinanti, la responsabilità civile dei magistrati (contenzioso che dovrebbe
essere chiuso a breve con la legge comunitaria) e il mancato recupero dei fondi illegali alle
municipalizzate della “Tremonti bis”. C’è poi la bomba ad orologeria delle quote latte, con
Bruxelles che a breve potrebbe andare all’escalation visti i ritardi del recupero degli aiuti
concessi agli allevatori del Nord dalla coppia Bossi-Tremonti, gentile regalo che all’Italia
potrebbe costare carissimo.
C’è infine la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, tribunale non dell’Unione bensì del
Consiglio d’Europa, organismo al quale aderiscono 47 paesi compresi tra il Portogallo e la
Russia. Tristemente nota la condanna all’Italia per il sovraffollamento delle carceri. La
sentenza è sospesa fino al 28 maggio, data entro la quale Roma dovrà convincere
Strasburgo di avere messo fine ai trattamenti «inumani e degradanti» dei detenuti. Ci
proverà argomentando che ora ogni carcerato ha a disposizione più di tre metri in cella e
che il sovraffollamento sta diminuendo grazie all’eliminazione del reato di clandestinità,
alle misure alternative e all’abrogazione della Fini-Giovanardi. Se non ci riuscirà verrà
condannata a 100mila euro per ogni ricorso: al momento sono già 800. Senza dimenticare
che il Belpaese ha già pagato centinaia di milioni di multe per l’eccessiva durata dei
processi, problema ben lungi dall’essere risolto e che ogni anno ci “regala” nuove sanzioni.
A Palazzo Chigi stanno studiando un piano d’emergenza per la riduzione del danno. Se ne
occupa il sottosegretario alle Politiche europee Sandro Gozi che ha ideato un «pacchetto
speciale » per l’abbattimento del numero di procedure Ue. Gozi, oltre a pressare ministeri
e amministrazioni ad agire, vuole usare gli strumenti messi a disposizione dalla legge 234
(che ha scritto con Buttiglione e Pescante nel 2012) approvando una legge comunitaria bis
(prima se ne poteva fare solo una all’anno) per chiudere parte delle infrazioni dovute alla
mancata applicazione delle direttive e due nuovi leggi di delegazione europea (prima non
esistevano) per il recepimento delle direttive ignorate. Una lotta non facile visto che i
funzionari di Bruxelles quando la Commissione è a fine mandato tendono a “svuotare i
cassetti”, con nuove infrazioni che a breve potrebbero planare su Roma vanificando parte
degli sforzi del governo per ridurne il numero.
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INFORMAZIONE
del 05/05/14, pag. 1/23
Nostra Signora Televisione
ILVO DIAMANTI
NOSTRA Signora Televisione. Guardata con sospetto e con distacco. Un old medium . In
altri termini: vecchio.
SE NON superato, in declino. Vuoi mettere internet? I social media? Twitter e Facebook?
Vuoi mettere Beppe Grillo e il suo blog? Capace, con la regia di Casaleggio, di sbancare,
alle elezioni del 2013? E di continuare la corsa anche in seguito? Fino a lasciar pensare a
una replica, almeno, alle Europee del prossimo 25 maggio? La televisione. Una signora.
Ma irrimediabilmente vecchia. Soprattutto i canali generalisti di Rai e Mediaset, con La7 a
traino. Il duopolio imperfetto degli ultimi trent’anni. A reti unificate. Eppure… Tutti
scalpitano, impazienti, per irrompere nei programmi tivù di RaiSet — e della 7. Tutti i
leader politici che contano. E, a maggior ragione, quelli che contano di meno. Perché per
contare occorre ricorrere a Nostra Signora Televisione.
Per questo motivo Berlusconi, nell’ultima settimana, ha fatto irruzione in tutte le reti. E in
molti programmi di informazione di prima serata. Dal Tg4 a Studio Aperto, al Tg2. E
ancora: da “Porta a Porta” a “Piazza Pulita”, da “Virus” a “In ½ ora”… Una presenza tanto
costante e intensa da sollevare l’attenzione dell’Agcom (come ha documentato, ieri, un
ampio servizio su Repubblica ). D’altronde, la ripresa (per quanto relativa) di Berlusconi,
alle elezioni di un anno fa, era trainata dalla partecipazione a uno spazio ostile: “Servizio
Pubblico”. Il talk guidato da Santoro insieme a Travaglio. Icone, più che portabandiera,
dell’anti-berlusconismo. L’irruzione di Berlusconi, il Nemico Pubblico, aveva fatto salire gli
ascolti fino a livelli mai raggiunti — né prima né dopo. Dal programma e dalla rete. Ma
aveva anche permesso al Cavaliere di contrastare la sconfitta annunciata. Di esibire la
propria determinazione a “resistere, resistere, resistere”… Per echeggiare una frase
famosa, usata dal magistrato Francesco Saverio Borrelli, nel gennaio 2002, con un fine
opposto. Cioè, contro Berlusconi. All’epoca, Presidente del Consiglio.
In questi giorni, però, anche Beppe Grillo ha ripreso a frequentare la tivù. Ieri sera ha
concesso una lunga intervista a SkyTg24. Ma, soprattutto, sembra stia negoziando la
partecipazione al programma che, più di ogni altro, simboleggia il legame fra informazione
televisiva e sistema politico. “Porta a porta”. Il talk presentato — e diretto — da Bruno
Vespa. Trent’anni dopo, visto il precedente del 1983. In occasione, non a caso, della
serata dedicata da Rai Uno alle elezioni (politiche, in quell’occasione). Grillo, che tratta
televisioni, giornali e giornalisti come “nemici”. Come i partiti. In quanto “mediatori” della
comunicazione e della democrazia. Che egli concepisce in forma “diretta” e “im-mediata”.
Oltre ogni rappresentanza. Grillo che, sul proprio blog, esibisce alla pubblica riprovazione i
giornalisti infedeli — al loro compito. E, dunque, a suo avviso, pre-venuti: contro il M5s.
Proprio lui, Beppe Grillo: da Vespa. Dopo aver polemizzato contro lo spazio riservato a
Renzi e agli uomini del Pd e del governo. Nelle reti televisive nazionali. Mentre altri
soggetti politici, meno accreditati, dal punto di vista elettorale, protestano contro la propria
marginalità (esclusione?) mediatica. In particolare, la sinistra dell’Altra Europa.
Dunque: la televisione, nonostante tutto. Impossibile farne a meno, se si ha l’ambizione di
“vincere”, o almeno di “esistere”, alle elezioni. Perché le scelte degli elettori si definiscono
proprio lì. E perché, soprattutto lì, si risolve l’incertezza. Maturano le decisioni degli
indecisi. Che sono ancora molti. Oltre un terzo, secondo i sondaggi. D’altronde, alle
Europee la partecipazione elettorale è, strutturalmente, più bassa. Nel 2009, in Italia, votò
31
il 66% degli aventi diritto. Peraltro, livello fra i più alti in Europa. Ma è facile immaginare
che, in questa occasione, l’affluenza alle urne scenda ulteriormente. Così diventa
essenziale andare in tivù. D’altra parte, se facciamo riferimento alle elezioni politiche del
2013, quando l’attenzione appariva molto maggiore di oggi, possiamo osservare come
quasi un quarto degli elettori abbia deciso se e per chi votare nel corso dell’ultima
settimana (come mostrano le indagini di LaPolis, presentate nel volume Un salto nel voto ,
pubblicato da Laterza). La maggioranza, il 13% dei votanti, nei giorni
delle elezioni. Il 90% degli elettori, peraltro, afferma di aver seguito la campagna elettorale
(guarda caso…) proprio in televisione. Meno della metà, il 40%, attraverso internet.
Secondo Ipsos, circa il 55% utilizza la tivù per informarsi sulle elezioni anche in questa
fase. Il che significa la maggioranza di tutti gli elettori e di tutti gli elettorati. Compreso il
M5s. Il soggetto politico, peraltro, che, alle elezioni del 2013, ha allargato maggiormente la
propria base elettorale proprio nell’ultima settimana. Nel corso della quale ha conquistato
circa il 30% dei suoi elettori.
Per questo la televisione resta il vero “campo” della campagna elettorale. Il più conteso e il
più combattuto. Perché il più influente. D’altronde, secondo l’Osservatorio di Demos-Coop
del dicembre 2013, l’80% degli italiani si informa ogni giorno attraverso la tivù. Circa il 47%
su internet. Il “mezzo” di informazione che ha registrato il maggior grado di crescita, negli
ultimi anni. Dal 2007, infatti, è quasi raddoppiato. Tuttavia, resta ancora un medium molto
delimitato, dal punto di vista degli utenti. Ne restano, infatti, largamente escluse le persone
più anziane e meno istruite. Cioè, le più incerte. Le più difficili da contattare e, quindi da
convincere. Anche perché, nel corso degli anni, hanno perduto fiducia nella politica, nei
politici e nelle istituzioni. (E uno spettacolo osceno, come quello messo in scena prima
della finale di Coppa Italia, a Roma, in diretta tivù, non può che aver moltiplicato questo
sentimento.) Ebbene, per raggiungere e spingere gli elettori indecisi a votare — magari
contro, per rabbia e delusione — ci vorrebbero contatti diretti. Personali. Con amici,
conoscenti, familiari. Per sfidare la sfiducia ci vorrebbero persone di cui ci si fida. Ci
vorrebbe la politica sul territorio. Come un tempo. Quando i partiti erano dentro la società,
confusi nella vita quotidiana. Quando la campagna elettorale veniva condotta porta a porta
. Mentre ora, per parlare con gli indecisi e gli incazzati, non resta che andare in tivù. A
“Porta a porta”.
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CULTURA E SCUOLA
Da Left del 05/05/14, pag. 20
Volontari della cultura. Un nocivo malinteso
di Manlio Lilli
Privati cittadini impiegati nei beni comuni per tenere aperti musei e
biblioteche. Mentre i professionisti del settore stentano a trovare lavoro.
Era il 1966 quando Firenze fu travolta dall’alluvione dell’Arno. Tra novembre e dicembre la
città divenne il centro del mondo. Una straordinaria mobilitazione generale assicurò la
salvezza di libri e quadri, opere d’arte e semplici testimonianze di un passato anche
antico. Le file di giovani e meno giovani, autentici volontari della cultura, rimbalzano nelle
foto dei quotidiani, nei servizi giornalistici. Un bianco e nero colorato di nomi ignoti
restituisce a Firenze e all’intero Paese la sua storia. Il volontariato della cultura scrive
allora una delle pagine più alte.
Da allora è stato istituito il ministero dei Beni e delle attività culturali, lo Stato si è dotato di
un’organizzazione specifica a tutela e valorizzazione del suo patrimonio. Ma la speranza
che quella summa di competenze potesse riuscire nella mission si è progressivamente
affievolita. Soffocata da una marginalità crescente. Da criticità che l’esiguità delle risorse a
disposizione ha sclerotizzato. Contribuendo ad una più che evidente fragilità diffusa. Dalla
quale nessun settore può dirsi risparmiato. Non le antichità e neppure le belle arti,
l’architettura e le arti contemporanee. Non gli Archivi e neppure le Biblioteche e gli Istituti
culturali. Certamente non il cinema e il teatro. Manco a parlarne del turismo. Mondi
differenti che, almeno nell’ultimo decennio, hanno sofferto più di altri di precarietà
economica e professionale. Quasi paradossalmente. Considerando il numero
impressionante di siti archeologici, di musei di ogni tipo, di una produzione artistica
comunque di qualità. Eppure s’infittisce la schiera degli inoccupati. Archeologi, storici
dell’arte, restauratori, perfino architetti. Insieme ad archivisti e bibliotecari, artisti ed attori.
Nonostante i crolli alle strutture antiche e l’impossibilità di garantire l’apertura, non
occasionale, di complessi archeologici, spazi museali, palazzi e chiese. Nonostante le
esigenze di quei tanti spazi della cultura suggeriscano, da tempo, l’ingresso di nuove
competenze. Nonostante il numero dei luoghi d’arte, variamente inaccessibili anche in
occasione di aperture straordinarie a causa di insufficienti misure di sicurezza, cresca
senza un adeguato contrasto. In un Paese che dà sempre più l’impressione di essere
bloccato, del quale il Censis nei suoi rapporti annuali fotografa il declino, che il patrimonio
culturale per così dire, “materiale” ed i suoi custodi, nelle differenti specializzazioni,
patiscono più di altri. Invischiato in un presente tanto incerto da impedire di pensare al
futuro.
Per questo motivo ha suscitato grandi perplessità la recente intesa tra Comune, prefettura
e soprintendenza ai Beni architettonici, che ha affidato agli Amici dei musei e dei
monumenti di Pisa il compito di creare una squadra specializzata di volontari per la tutela
del patrimonio artistico. Come si legge nel documento, «di volontari di pronto intervento,
manutenzione del patrimonio monumentale e artistico», da affiancarsi a quella già
esistente, preposta alle guardianie e alle visite guidate. Dal punto di vista normativo la tesk
force pisana ha tutta l'aria di costituire un ulteriore passo avanti rispetto alla legge-quadro
sul volontariato, la n. 266 del'11.08.1991, della quale l'art. 3 della legge n. 4 del
14.01.1993, meglio nota come legge Ronchey, ha definito nell'ambito dei beni culturali il
ruolo delle associazioni. L'utilizzo dei volontari per assicurare l'apertura quotidiana
prolungata di musei, biblioteche e archivi di Stato. Insemina la strada scelta a Pisa per
contrastare il collasso del sistema beni culturali sembra tracciata su solide premesse.
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L'intenzione di rispondere come possibile alle inefficienze dell'organizzazione statale,
meritoria. Tanto più perché coniugata al tentativo di dare risposta a quella parte di
cosiddetta società civile desiderosa di impegnarsi anche nella cura del nostro Patrimonio
storico-artistico e archeologico. Una soluzione quella dei volontari "specializzati" che,
osservato il guasto, cerca di risolverlo come può. Ma il problema è un altro, più complesso.
Proprio perché il drammatico stato di monumenti e Chiese, palazzi e musei non può
essere separato da quello dei professionisti che se ne dovrebbero occupare. Rispondere
alle esigenze dei luoghi non può far dimenticare le aspettative di quanti hanno deciso di
specializzarsi attraverso specifici corsi di studi sulla loro storia e le tecniche necessarie per
provvedére alla loro cura. Così le modalità che si sono scelte nell'accordo di Pisa
sembrano una risposta parziale a un duplice problema. Una soluzione temporanea, legata
all'emergenza. Proprio per questo incapace di costruire un sistema efficace. Quel che è
certo è che l'esperimento di Pisa ha «reato un precedente. Seguito alla fine dello scorso
marzo anche dalla Sicilia, dove l'Assessorato regionale ai beni culturali e alcune
associazioni culturali regionali e nazionali hanno sottoscritto un'intesa. Un altro "esercito"
di migliaia di volontari, impegnati nell'opera di valorizzazione del patrimonio culturale e
archeologico dell'isola. Il terzo settore, che in tanti ambiti costituisce un insostituibile
supporto all'opera di specialisti, nei beni culturali rischia di sostituirvisi. Probabilmente
senza volerlo. In una confusione di ruoli e competenze che rischia di produrre risultati
inferiori alle aspettative. Forse, l'ingiusto sacrificio di tanti professionisti,
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ECONOMIA E LAVORO
del 05/05/14, pag. 4
Poletti in casa Cgil: dialogo sulla delega
Il ministro criticato dal sindacato a Rimini apre al confronto: «Ma niente
stop, va data una scossa all’economia» ● Padoan e gli 80 euro:
«Osservazioni dei tecnici del Senato non solide la politica economica
favorirà la crescita»
Bianca Di Giovanni
Il decreto lavoro non favorisce la precarietà, anzi combatte le forme improprie come le
finte partite Iva. «Non vogliamo liberalizzare i contratti a termine. Lo abbiamo fatto per
dare una scossa all’economia e indicazioni chiare alle aziende». Così Giuliano Poletti va in
trincea e difende all’arma bianca i suoi provvedimenti. Ospite di un dibattito alle «Giornate
del lavoro» di Rimini organizzate dalla Cgil, affronta una platea difficile mantenendo fermi i
suoi punti. Non lo smontano gli attacchi frontali di Serena Sorrentino , segretario
confederale della Cgil («c’è un messaggio devastante, si cancellano i diritti di chi lavora»),
né le argomentazioni di Tito Boeri («perché fate un decreto in conflitto con la delega?»). E
non solo: il ministro resiste anche a una breve contestazione che all’inizio irrompe nella
sala. D’altro canto non poteva esserci data più «complicata» per un incontro ravvicinato
con il sindacato. Bruciano quei messaggi per nulla dialoganti di Matteo Renzi. «Non credo
che i sindacati debbano porsi l'obiettivo di fermare chissà che - commenta Poletti in
proposito - Credo sia giusto lavorare per avere delle opportunità in più, non degli stop».
Ma pesano ancora di più gli ultimi emendamenti al decreto lavoro, che saranno esaminati
oggi in commissione Lavoro in Senato. Il ministro non si tira indietro. E incalzato sempre
da Boeri annuncia che entro l’estate si invieranno a tutti i lavoratori l’estratto conto
previdenziale. Quanto al salario minimo - già introdotto in altri Paesi europei - è inserito
nella delega e si affronterà dopo un confronto con il sindacato «per evitare che si
abbassino i livelli già decisi nei contratti». La partita economica del governo oggi si gioca
tutta attorno al decreto lavoro e al provvedimento sugli 80 euro, ambedue «sbarcati» in
parlamento». Sul decreto Irpef è Pier Carlo Padoan a sgombrare il campo dai dubbi
avanzati dai tecnici del Senato. «Li stiamo valutando - dichiara il titolare dell’Economia a
Fabio Fazio - Francamente mi sembrano non molto solidi, le coperture ci sono.
Probabilmente avremo più risorse di quelle che scriviamo». E per chiarire il concetto
Padoan aggiunge: «Penso che nella seconda metà dell' anno avremo sorprese positive».
In altre parole, con una ripresa più robusta, puntando sulla crescita si riuscirà a mantenere
in ordine il bilancio senza troppi sacrifici. «Saranno quasi 11 milioni di persone che
prenderanno gli 80 euro», aggiunge ilministro. Non preoccupa neanche l’Europa, che
secondo Padoan approverà la richiesta italiana di posticipare di un anno il pareggio di
bilancio. In dirittura d’arrivo anche il provvedimento che sblocca i pagamenti della Pa con
l’intervento della Cassa depositi e prestiti. Secondo i sondaggi al centro delle
preoccupazioni degli italiani c’è il tema lavoro. Quel lavoro che per molti anni in Italia si è
basato sul «modello Sacconi: precarietà e bassa formazione», osserva Boeri,
guadagnandosi un applauso della platea. Ora ci si sarebbe aspettata una svolta, continua
il professore. «Si parlava di contratto a tempi indeterminato a tutele crescenti - spiega
Boeri - invece si fanno i contratti a termine senza causale, rendendo vanificando le ipotesi
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di stabilizzazione. Il contratto a tempo indeterminato oggi non è più conveniente». Quanto
alla’apprendistato, «le penalizzazioni pecuniarie sono un’ipocrisia», insiste Boeri.
LA DIFESA
Poletti naturalmente non la pensa così. «Il contratto a termine c’era già prima e
precarizzava di più - controbatte - Si faceva per poco tempo e poi si cambiava persona.
Oggi si dà uno sviluppo di 36 mesi». Sull’apprendistato le rigidità della Fornero avevano
«ammazzato» lo strumento. «Poletti farà una norma meno elegante - dichiara il ministro ma che almeno funziona». Il governo ha varato la delega per avviare un processo verso
un mercato del lavoro più semplice e con regole certe. In cantiere c’è anche l’allargamento
delle tutele in senso universale. A sostenere le posizioni del governo interviene anche
Filippo Taddei, responsabile economico del Pd. «Credo che le convergenze con i sindacati
siano maggiori rispetto alle divergenze, che in questo momento politico vengono
maggiormente enfatizzate - dichiara - La politica di questo governo ha tre obiettivi:
affrontare la penalizzazione del lavoro dipendente, far diventare il lavoro che si crea
stabile e di qualità e affrontare l'ostacolo alla creazione di lavoro, che in Italia non è dato, o
solo in minima parte, dalla mancanza di investimenti pubblici, ma privati». Taddei parla
della politica dei redditi avviata dall’esecutivo. «Il nostro altro obiettivo – aggiunge – è
quello di operare la più grande redistribuzione fiscale verso i lavoratori dipendenti degli
ultimi 15 anni. In questa direzione va il decreto fiscale: 10 miliardi di riduzione Irpef tutto
sul lavoro dipendente. Chiedo ai sindacati di incalzarci e giudicarci sul raggiungimento di
questi obiettivi».
del 05/05/14, pag. 11
Disoccupazione record: colpa anche dei
salari bassi
COME SOSTIENE STIGLITZ IL MINOR REDDITO DANNEGGIA I
CONSUMI E LA STESSA OCCUPAZIONE
CARLO BUTTARONI
Nei quarant’anni che hanno preceduto la crisi, il Pil in Italia è più che raddoppiato ma il
numero degli occupati è rimasto sostanzialmente stabile. Un risultato che dipende,
prevalentemente, dalle innovazioni che hanno reso più efficienti i processi e hanno
permesso alle aziende di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero
sempre minore di lavoratori. Ma le trasformazioni che hanno riguardato il mondo della
produzione e del lavoro sono state molteplici. L’innovazione più significativa è venuta da
un nuovo paradigma che ha capovolto la tipica logica del flusso produttivo: la produzione,
anziché essere spinta dall’alto, è tirata dal basso. Trasformazione, questa, che ha
determinato profonde ripercussioni nell’organizzazione del mondo del lavoro, ribaltando la
logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale. Progressivamente, è quindi
diminuita la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, è aumentata la quota
degli occupati nelle imprese minori sul totale e il sistema delle imprese si è andato
disponendo e articolando in orizzontale.
LA LISTA DELLE PROFESSIONI
La conseguenza sul mercato del lavoro è che, a livello macro, la lista delle professioni si è
allungata e frazionata, senza che si rendesse necessaria una netta ascesa della
professionalità media, quanto piuttosto una gamma più estesa di «capacità», in grado di
rispondere all’intreccio fra domande vecchie e nuove. Nel complesso, i contenuti sono
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diventati meno manipolativi e più cognitivi e si è imposto un modo di lavorare scandito da
un ritmo serrato e da una tensione continua. Altrettanto profondi sono i movimenti che
hanno trasformato i rapporti di lavoro: innanzitutto, meno subordinati e più autonomi,
perfino nel lavoro dipendente; meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo
determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato; meno uniformi, giacché l’ambito dei
contratti di lavoro è diventato, allo stesso tempo, più circoscritto e più articolato, essendo
disposto su orari più corti, durate d’impiego più brevi, o entrambe le cose. Basti citare il
lavoro autonomo di seconda e terza generazione, che genera gruppi di lavoratori
eterogenei, disciplinati soltanto in modo generico e al cui interno, a parità di mansioni,
posso esserci forti differenze retributive. Questo nuovo modo di produrre e lavorare ha,
inevitabilmente, indebolito i profili di tutela dei lavoratori, e in tutte le economie occidentali
(compresa l’Italia) le quote di lavoro flessibile è cresciuta, mentre quella di lavoro stabile è
diminuita e i salari reali sono cresciuti assai meno della produttività. Secondo il premio
Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, la crisi attuale trova origine anche nei salari troppo
bassi che non hanno potuto far crescere, insieme alla produttività, la domanda aggregata
nella sua componente principale che sono i consumi. In sostanza, i lavoratori hanno avuto
progressivamente meno reddito per acquistare ciò che, invece, erano in grado di produrre
in quantità sempre maggiore. Un processo ben noto agli economisti. Se i salari reali
diminuiscono e i prezzi rimangono stabili (o addirittura crescono), infatti, si verifica una
caduta del potere d’acquisto dei lavoratori che genera, a sua volta, una contrazione dei
consumi. E se si riduce la domanda, le imprese sono costrette a ridurre la produzione e,
quindi, a utilizzare meno lavoratori nei cicli produttivi. Col risultato che l’occupazione cala
in virtù dell’efficienza della produzione ma anche dei salari troppo bassi. Dagli anni 70, la
leva per rispondere allo squilibrio determinato dal fatto che le famiglie non hanno redditi
sufficienti per acquistare ciò che viene prodotto, è stato il crescente ricorso al credito che
ha fatto crescere, però, il debito privato. A un certo punto, la massa di debiti è stata tale
che una parte di essi non potevano essere più ripagati e nel tentativo di rientrare
dell’indebitamento, le famiglie hanno ridotto i consumi e svenduto gli asset acquisiti (ad
esempio le abitazioni) che così si sono svalutati. Nel frattempo, le sofferenze bancarie
sono aumentate e ciò ha causato la crisi di molte banche con conseguente razionamento
del credito. È questo avvitamento che ha dato avvio alla crisi finanziaria, la cui causa
scatenante, infatti, non è nell’indebitamento pubblico come molti credono, bensì in quello
privato. La diminuzione di salari e prezzi rappresenta il nuovo spettro di questa difficile
fase di uscita dal tunnel della crisi. Infatti, se da un lato i costi possono rimanere fermi
tagliando sulla produzione o sul lavoro, dall’altro, le imprese, prevedendo prezzi futuri
troppo bassi, non hanno alcun interesse a investire e assumere. In sintesi, poiché la
produzione è tirata dal lato della domanda, i salari dovrebbero crescere insieme alla
produttività, perché solo questo assicura la capacità di acquisto da parte delle famiglie dei
lavoratori di ciò che viene prodotto e immesso sul mercato. La crescita dei salari evita,
inoltre, l’eccessivo indebitamento, mantiene la distribuzione del reddito e i prezzi costanti,
proteggendo il sistema da crisi debitorie da deflazione.
LA DOMANDA
Su quale lato si ponga la crisi dell’Italia lo si deduce dal grado di utilizzo degli impianti delle
imprese manifatturiere italiane, che sono al 71,8% del loro potenziale. Se la domanda
stimolasse un utilizzo del 100% degli impianti, l’effetto si tradurrebbe in oltre unmilione di
nuovi occupati che, stimolando a loro volta la domanda, alimenterebbero nuova
occupazione. Oggi, se anche il costo di un lavoratore fosse pari a zero, le imprese non
avrebbero comunque alcun interesse ad assumerlo, perché le merci che quel lavoratore
sarebbe in grado di produrre non sarebbero comunque acquistate. L’interesse dell’impresa
sarebbe, invece, di sostituire un lavoratore che costa di più con uno che, invece, costa
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meno, ricevendo un vantaggio immediato in termini di costi di produzione, maun danno sul
lungo termine come capacità di crescita della domanda aggregata. E, soprattutto, non ci
sarebbe alcun vantaggio in termini di occupazione, in quello, cioè, che rappresenta il vero
ostacolo e, nel contempo, l’unica ricetta per una reale ripresa.
del 05/05/14, pag. 1/21
La rivoluzione delle botteghe Aperte 24 ore su
24 grazie agli immigrati
MAURIZIO RICCI
GLI orari sono da ipermercato, 8-20.30, domeniche e festivi compresi. La superficie
espositiva, però, non supera i 4 metri per 6, le strutture si riducono a due scaffalature alle
pareti e a dieci cassette appoggiate su trespoli. Passa di qui la nuova frontiera della
distribuzione alimentare.
Gli orari sono da ipermercato, le gigantesche cattedrali dei consumi ante crisi: 8-20.30,
tutti i giorni, domeniche e festivi compresi, senza pausa per il pranzo. La superficie
espositiva, però, non supera i 4 metri per 6, le strutture si riducono a due scaffalature da
magazzino ricambi alle pareti e a dieci cassette appoggiate su trespoli di metallo in mezzo,
per un valore totale della merce in vendita che, a occhio, non supera i 300 euro. Crederci
è difficile, ma, forse, passa di qui la nuova frontiera della distribuzione alimentare. Nel
quartiere, a ridosso del Gianicolo, a Roma, hanno chiuso a stretto giro due supermercati e
Elio ha colto l’occasione al volo. Albanese, da 25 anni in Italia, un impiego sicuro da
cuoco, ha deciso di raddoppiare, con l’aiuto della moglie le occasioni di guadagno,
mettendosi in proprio. La sera tardi va da un grossista alla Magliana a rifornirsi di frutta e,
poi, a Maccarese per la verdura. Il risultato è esposto, la mattina dopo, nel negozietto.
Nell’ordine, una cassetta di arance da spremere, una di arance da mangiare, una cassetta
di mandarini, poi mele, pere, finocchi, sedano, carciofi, lattuga, pomodori. Più qualche
cestino di fragole. Niente patate e neanche banane, perché lo spazio è quello che è.
In questi giorni, Elio gira il primo mese di attività e si dichiara soddisfatto. Tanto da aver
voglia di allargarsi. «Avevo pensato al pane - dice - ma ho lasciato perdere perché lo
vende già Dagan, il serbo della pizza a taglio, due porte più in su. Così, sto facendo delle
prove ». Sul banchetto della cassa c’è un cestello con due mozzarelle in busta. Sugli
scaffali appoggiati alle pareti bianche sono in mostra: una bottiglia di vino rosso, due di
aceto, tre birre, due bottiglie di passata di pomodoro, due pacchi di biscotti. E’ soltanto un
campione di merce che gli ha lasciato un distributore, ma che, a Elio, serve per sondare il
mercato. Tenendo ferma quella che è la sua strategia economica fin dall’inizio. Il momento
chiave della giornata è, infatti, il giro dei supermercati vicini per verificare i prezzi. Elio, con
il suo stipendio alle spalle, può permettersi di rasare il listino all’osso. «La gente — dice —
ci sta attenta. Viene anche per dieci centesimi di meno».
Cinquecento metri più su, la filosofia aziendale di Mohammed è diversa. Anche lui è
arrivato dopo la chiusura del Carrefour e del Pam. Ha aperto un mese e mezzo fa, fra
l’elettrauto e l’agenzia immobiliare, al posto dell’orologiaio e a venti metri da dove, per
mezzo secolo e fino ad un anno fa, si sono affacciate le vetrine della salumeria coetanea
delle prime case della via. Rispetto a Elio, Mohammed, che viene dal Bangladesh, ha
investito qualcosa di più. Il negozio è un po’ più grande e stipato di merce. Oltre a frutta e
verdura, prodotti per la casa, biscotti e confezioni, anche di marche pregiate. Anche
Mohammed cura il prezzo (le arance costano meno che da Elio), ma quello su cui punta è
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il servizio. L’orario è quasi notturno, 7-22.30, ma si toccano, spesso, le 23. Tutti i giorni,
naturalmente. «L’idea - dice - è che se ti manca qualcosa, in qualsiasi momento, puoi
scendere da me. O anche restare a casa». La consegna a domicilio, infatti, è gratuita.
Elio e Mohammed sono in affari solo da poche settimane ed è troppo presto per dire se il
fenomeno ha gambe, ad esempio al di fuori delle grandi città. I dati nazionali dell’Istat
ancora incrociano il lungo declino dei negozi tradizionali, a conduzione familiare, con la
decennale espansione della grande distribuzione: a febbraio, la diminuzione delle vendite
nei piccoli esercizi è stata il triplo della riduzione registrata dalle grandi catene. Tuttavia,
si può già escludere che la rivincita del negozietto sia soltanto lo sfruttamento di nicchie
lasciate scoperte dai supermercati. Quei mininegozi spartani sono il segnale della fine di
un’epoca. «La vediamo già da un paio d’anni » spiega Mariano Bella, capo dell’ufficio studi
di Confcommercio: «Non si parte più per le grandi spedizioni, magari con tutta la famiglia,
in cui si metteva insieme la spesa per due settimane. Lo stesso costo della benzina incide
troppo. E nessuno si sogna più di stipare ogni angolo del frigo. Si fanno meno scorte,
perché non ci si può più permettere di sprecare, di finire per buttare roba che non si
utilizza».
In generale, secondo Bella, si torna a fare la spesa vicino casa, in esercizi più piccoli. Le
stesse grandi catene puntano sempre più su supermercati a dimensione ridotta. Superfici
più piccole significano meno capitale da investire, rispetto ai grandi centri commerciali, ma
anche costi di gestione inferiori, perché ferma sugli scaffali c’è meno merce e meno
varietà, come la crisi comanda. I consumi, in particolare quelli alimentari, stanno infatti
colando a picco. A gennaio, le vendite sono diminuite ancora dell’1 per cento, rispetto ad
un anno fa e febbraio è andato anche peggio. Ma, mentre per gli ipermercati il calo,
dall’inizio del 2014 è stato del 2,8 per cento, discount
e supermercati lo hanno contenuto allo 0,5 per cento. E, dentro la crisi, si moltiplicano
piccole opportunità per stranieri, come Elio e Mohammad, o anche, osserva Bella, italiani
che rinunciano all’inutile ricerca di una busta paga e un posto da lavoro dipendente, per
tentare in proprio.
I dati della stessa Confcommercio consentono di fiutare una tendenza. Fra il 2012 e il
2013 la mattanza degli esercizi commerciali è continuata e si è aggravata. Gli esercizi che
chiudono continuano ad essere oltre il doppio di quelli che aprono. Ma la tendenza non è
tutta uguale. In tutti i settori e in tutte le tipologie il saldo fra chi tira giù per sempre la
saracinesca e chi la tira su per la prima volta continua ad essere negativo. Se si guarda,
tuttavia, solo alle iscrizioni, ai negozi che aprono, si respira un’aria diversa. Fra il 2012 e il
2013 il numero di nuovi supermercati che hanno aperto i battenti è sceso, da 1.959 a
1.875. Ma il numero di quelli che tentano l’avventura di un piccolo frutta e verdura è
aumentato. E così, in generale, in tutti i settori dell’alimentare: in totale, 2.633 nuovi negozi
nel 2012, 3.341 nel 2013. La scommessa del piccolo, spesso piccolissimo, insomma il mini
mini market, è l’altra faccia della crisi. E anche il segno che, dopo un lungo giro, la ruota è
paradossalmente tornata al punto di partenza.
La distribuzione alimentare è cambiata radicalmente, in Italia, negli anni ‘50, quando i
contadini lasciavano le campagne e, con i soldi della terra venduta, si trasformavano in
salumieri e fruttivendoli nelle grandi periferie urbane, spesso con i prodotti ancora del
paese di provenienza. Quei negozi sono cresciuti con il miracolo economico e
l’urbanizzazione, ma hanno finito per scontrarsi con i limiti delle aziende familiari. Entra in
scena la grande distribuzione, capace di abbattere costi e prezzi, grazie ad enormi volumi
di vendita. La crisi ha azzoppato anche questo modello, riducendo i volumi e, soprattutto,
rallentando il ritmo di smaltimento della merce, trasformatasi in zavorra economica sugli
scaffali. E riemerge il negozietto spartano, quasi da dopoguerra. Bentornati agli
anni ‘50.
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