Parigi alla seconda guerra di Libia
Transcript
Parigi alla seconda guerra di Libia
IL FOGLIO Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XIX NUMERO 214 Il discorso di Obama Cosa vuol dire “vincere” la terza guerra d’Iraq (e questa volta di Siria) Il piano d’attacco allo Stato islamico comprende strike e aiuti ai ribelli con un obiettivo limitato al singolo gruppo “Degradare e distruggere” New York. Tutti i dettagli della nuova strategia di Barack Obama per combattere lo Stato islamico sono subordinati a una vecchia domanda: come si definisce la vittoria? Detto altrimenti: raggiunti quali obiettivi l’Amministrazione sarà soddisfatta dell’operato e tornerà a occuparsi del “nation building at home”? Senza chiarezza intorno allo scopo dell’intervento e ai mezzi per raggiungerlo, gli annunci a cui il presidente dedica lo spazio grave della prima serata (alle 3 di mattina in Italia) anticipati da un’immensa nuvola di speculazioni, wishful thinking e sussurri più o meno informati rischiano di sciogliersi in una giustapposizione di mezzi tattici, uno sfoggio di strumentazione militare e diplomatica al servizio di un obiettivo non perimetrato. Autorizzare i bombarda- BARACK OBAMA menti contro le roccaforti del Califfato in Siria, selezionare, addestrare e armare – finalmente in modo serio – i ribelli siriani e mettere insieme una coalizione basata sull’idea sdrucciolevole della comune avversione al nemico fondamentalista sono decisioni che riguardano il modo di raggiungere la vittoria sul campo. Al commander in chief del mondo libero spetta il compito di descrivere che volto abbia la vittoria, specialmente in un contesto in cui l’allineamento contro lo Stato islamico comporterà (e comporta già) alleanze e convergenze tacite con forze anche più pericolose. E’ a questo concetto che allude Henry Kissinger nel suo ultimo libro, “World Order”, quando dice che l’Iran è una minaccia geostrategica enormemente più grande dello Stato islamico. Se alla fine della campagna militare il Califfato uscirà in macerie e Teheran rafforzata e legittimata, l’America potrà parlare di vittoria? Un funzionario della Casa Bianca dice che lo scopo della nuova strategia è “degradare e infine distruggere lo Stato islamico”, variazione sul trittico “disrupt, dismantle, defeat” che Obama ha ripetuto all’infinito a proposito di al Qaida, organizzazione che il presidente per anni ha dato per spacciata, squattrinata e in fuga sotto gli stormi di droni telecomandati dalla Cia. Al Qaida, si è scoperto poi, non era affatto “on the run”. (Ferraresi segue a pagina quattro) Ribelli allo specchio L’attentato in cui è stata sterminata la leadership di Ahrar al Sham spiega cos’è la Siria oggi Roma. Una fonte del Foglio è andata nella base segreta in Siria dove due giorni fa la leadership del gruppo islamista Ahrar al Sham è stata spazzata via da un’esplosione durante un incontro clandestino. “Era chiamata Base Zero, era una base sotterranea, con un deposito di armi accanto – spiega la fonte nel governatorato di Idlib, vicino al confine con la Turchia – c’è stato un primo scoppio, debole, e poi pochi secondi dopo un’esplosione forte, forse sono saltate in aria le armi che erano accumulate lì a fianco. Non è ancora chiaro. I cadaveri sono intatti, chi era sotto è morto per i fumi, o per qualche gas tossico che si è sprigionato. Almeno venti leader di Ahrar compreso il capo, Hassan Abboud, sono tutti andati”. Considerato che ormai c’è una semplificazione dominante “ribelli siriani uguale islamisti uguale Stato islamico uguale terroristi tutti e sempre”, non è facile spiegare cos’è il gruppo Ahrar al Sham oggi in Siria. Sono combattenti profondamente religiosi e indottrinati, sono stati tra i primi a cominciare la lotta armata nel 2011 e oggi portano il peso di una doppia guerra di resistenza contro l’esercito del presidente Bashar el Assad e simultaneamente contro lo Stato islamico, visto come un’aberrazione per ogni vero musulmano (sono ricambiati con altrettanto disprezzo dagli uomini di al Baghdadi, che li considerano un gruppo di traditori del vero islam). Ahrar al Sham è una fazione di equilibristi: da una parte tenta di conservare credibilità con i duri del jihad – come Jabhat al Nusra, sulla lista dei terroristi internazionali – e tra i suoi ranghi ha accettato anche combattenti di al Qaida; dall’altra vuole il rispetto dei gruppi nazionalisti che aspirano soltanto a uno stato siriano senza Assad (tanto da subire una pioggia di critiche perché nel suo manifesto non cita il Corano e in genere i testi religiosi). E’ per questo equilibrismo che a due giorni dalla strage non è ancora chiaro chi ha decapitato la leadership del gruppo. Un bombardamento aereo precisissimo del regime siriano, guidato da un informatore a terra? Oppure un infiltrato suicida mandato dal Califfato? (Raineri segue a pagina quattro) quotidiano Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO GIOVEDÌ 11 SETTEMBRE 2014 - € 1,50 DIRETTORE GIULIANO FERRARA CHATEAUBRIAND O CARNAGE? OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO L’EREDE Che succede nella scuola delle élite francesi, dove bulli, fasci e radical danarosi convivono e litigano come in (quasi) ogni altro istituto. Fra genitori assaliti dalla realtà (Roma nord) e parigini finiti in minoranza CASO OGM, DIETRO IL GURU C’E’ DI PEGGIO Non è una boutade ma una evidenza politica indiscutibile: Renzi è il miglior allievo del Cav. P ochi casi”, dice il preside Joel Lust. Ma “il caso” si è creato a prescindere. “Bullismo e razzismo allo Chateaubriand”, è stato il titolo sui giornali; “botte e insulDI MARIANNA RIZZINI ti a un ragazzo di colore, slogan fascisti”, è stato il tam tam su siti e cronache locali; “la scuola non ha reagito e l’ambasciata ha insabbiato”, è stato il sovrappiù di accuse della madre del dodicenne vittima dell’episodio di “intimidazione” accertato da una commissione interna alla scuola francese a Roma, episodio che ha dato il via ai titoli suddetti: ripetuti insulti tipo “sporco negro”, “calci e pugni” sferrati o minacciati da tre compagni italiani poco più grandi, ormai dieci mesi fa. E ieri una denuncia ai carabinieri di un’altra mamma, moglie di un francese: la figlia di nove anni è stata scaraventata violentemente a terra nel cortile della scuola da un “bambino italiano di due anni più grande”, rompendosi il polso nella caduta. E la madre, racconta il Messaggero, dice anche altro: che la scuola le ha proposto “uno sconto” sulla retta per il suo silenzio, e che lei, visti “gli altri casi” di bullismo “venuti alla luce”, non vuole “insabbiare”. “Ma perché la storia del ragazzino nero viene fuori solo ora?”, si sono intanto chiesti, attoniti, i genitori degli alunni di Chateaubriand, alcuni ignari, altri convinti che la vicenda fosse stata già risolta: “C’è stata la commissione, l’indagine”, dicono. I ragazzi erano stati sospesi per mezza giornata, la psicologa aveva consigliato un incontro tra aggressori e aggredito, la famiglia di quest’ultimo aveva rifiutato, il ragazzino aveva infine cambiato scuola. Punto (così pareva). Si sapeva che il ragazzino era figlio dell’ex console francese. Non si immaginava che la madre, ex dipendente del consolato, avrebbe chiamato in causa (ex post) anche i referenti dell’Istruzione a Parigi, che a suo dire hanno fatto finta di niente. E oggi l’ambasciata, che tre giorni fa aveva definito “adeguata” la reazione dello Chateaubriand all’epoca dei fatti, risponde “agli attacchi contro la presunta inerzia” delle autorità francesi in Italia definendo “intollerabile qualsiasi atto di bullismo a scuola, sia in Francia sia in Italia”. “Seguiamo da vicino ogni episodio segnalato perché si faccia il necessario”, dice un portavoce, parlando anche di “rafforzamento” del piano antibullismo pre-esistente allo Chateau. Ma dopo giorni di titoloni, con l’onta che aleggiava, l’allarmato e incuriosito passaparola telefonico tra genitori romani e francesi di alunni dello Chateaubriand (ma anche no) ha preso a correre, gonfiando e sgonfiando “il caso” a seconda dei punti di vista. “Razzismo nella scuola dei vip”, era la sentenza mediatica non del tutto esente da riflesso guardone anticasta (della serie: guarda che cosa succede nell’élite, pensavate di essere immuni, eh?). Che cosa fare e che cosa dire (anche a se stessi), era la questione allo Chateau. Ed era come quando al luna park ci si vede magrissimi e oblunghi oppure grassissimi e quadrangolari nello specchio deformante (non saremo mai così, ci si dice, sperando che sia vero). Alcuni perdevano una sicurezza illusoria: qui non succederà mai, mica siamo allo stadio dove quattro trogloditi insultano Mario Balotelli, siamo in una propaggine della Francia dei “diritti”, dell’égalité & fraternité, nella scuola dove si celebra ogni anno una giornata “multiculti”. E invece è successo. “Pochi casi”. Ma in qualche modo è abbastanza per doversi arrendere a quello che già si sapeva, in fondo, ma forse non ci si diceva: e perché non sarebbe dovuto succedere, qui? Si parla di genitori civilissimi e figli civilissimi che si comportano “in pochi casi” da incivili, in questa storia. Solo che nessun genitore, allo Chateau, in questi giorni, vuole essere descritto come un protagonista di “Carnage”, il film di Roman Polanski (da una pièce di Yasmina Reza) in cui due evolute ed educate coppie newyorchesi si ritrovano a combattere senza più orpello di correttezza politica in un salotto dove, in teoria, si doveva ancor più educatamente discutere dell’indicibile e inaccettabile bastonata data dal figlio undicenne degli uni al figlio degli altri (i genitori poi si massacreranno di cattiverie, l’esperta raffinata di finanza vomiterà nel salotto dell’ipocrita scrittrice, uno dei padri dirà che “sentir nominare” la politicamente correttissima Jane Fonda “fa venire voglia di aderire al Ku Klux Klan”, e mogli e mariti scopriranno il bestiale che è in loro, mentre i figli saranno di nuovo amici, comunque più sani di quei quattro adulti borghesi che si credevano protetti dalla presentabilità sociale). Né si pensa, in questi giorni, allo Chateau, che ci si ritroverà mai seduti a tavola in un bel ristorante a parlare amabilmente di gamberi di fiume in vinaigrette, sì, ma pure dei figli che hanno colpito e ucciso una clochard vicino a un bancomat, ripresi dalle videocamere di sicurezza, come nel romanzo “La cena” di Herman Koch (a cui è ispirato “I nostri ragazzi” di Ivano De Matteo, giunto sugli schermi dal Festival di Venezia), dove il dilemma è: punirli in nome dell’etica o difenderli contro ogni edificante convinzione? Si parla, allo Chateaubriand, del perché, “dall’esterno”, “pochi singoli casi di razzismo e bullismo vengano visti come il portato di una classe sociale, di un ambiente di ‘pariolini’”, dice una mamma, “e non di qualcosa di purtroppo comune a tutte le scuole e a tutti i censi da cui non si sa come salvarsi”, e nessuno vuol vedersi schiaffato dai giornali in uno scenario “da bande di ragazzini annoiati che per passare il tempo fanno qualche casino”, dice un papà (stavolta pare un film di Sofia Coppola, inve(segue a pagina quattro) ce siamo a Roma). Parigi alla seconda guerra di Libia La Francia prepara un intervento internazionale contro i jihadisti Roma. Tre anni dopo l’operazione “Harmattan” assieme ai britannici contro il colonnello Gheddafi, la Francia prepara un nuovo intervento militare in Libia, questa volta contro i gruppi del jihad (non si tratta però di un punto d’arrivo inevitabile) e per farlo sta tentando di mobilitare una coalizione internazionale di alleati. Lo scenario è quello della missione a guida francese in Mali, cominciata nel gennaio 2013 e dichiarata finita lo scorso luglio. In quel caso la diplomazia di Parigi si era mossa in anticipo, prendendo contatto con i partner potenziali nelle altre capitali europee a partire dal settembre 2012. Una fonte del Foglio dice che la Legione straniera si starebbe già preparando a un intervento nel paese africano. Ieri l’agenzia di stato turca, la Anadolu, ha detto che l’Algeria sta studiando una richiesta arrivata da Stati Uniti e Francia di “facilitare” le loro operazioni militari contro i gruppi jihadisti in Libia. Una fonte anonima algerina dice ai giornalisti turchi che Washington e Parigi “hanno entrambe chiesto di aprire lo spazio aereo a missioni di sorveglianza e ad altri aeroplani che trasporteranno unità di commando impegnate in ricognizione in alcune parti della Libia”. Il giornale algerino El Watan ieri spiegava che, secondo una fonte dei servizi di sicurezza nazionali, Washington ha presentato una “lista nera” di bersagli in Libia – tutti “capi di formazioni terroristiche” – basata su informazioni molto precise, un lavoro d’intelligence definito “impressionante”. Algeri è la visita diplomatica necessaria per i paesi che vogliono intervenire in Libia. Sabato ad Algeri arriva il capo di stato maggiore francese, il generale Pierre de Villiers, secondo il sito Tout sur l’Algérie. In questi giorni c’è Hakim Belhadj, ex capo del Consiglio delle milizie che garantiva la sicurezza nella capitale libica Tripoli (con un passato di militanza in gruppi jihadisti). Due giorni fa il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, ha preparato il terreno all’intervento con una intervista lunga in prima pagina sul quotidiano Figaro intitolata “Noi dobbiamo agire in Libia”, in cui spiega che il sud del paese africano è il nuovo “scalo dei terroristi”, che è necessario “dare l’allarme”, che è una zona di traffici che ospita “forze del male”. Il ministro ha menzionato anche la possibilità di spostare nel sud della Libia il cosiddetto dispositivo di sicurezza Berkhane, 3.000 soldati francesi rimasti nel Sahel dopo la fine dell’operazione in Mali a sorvegliare gli spostamenti dei jihadisti. A pagina tre del Figaro – a fronte dell’intervista con Le Drian – si cita esplicitamente lo scenario “à la malienne”, considerato necessario per un paese come la Libia “in via di frammentazione e sull’orlo dell’implosione”. A nord c’è la guerra civile fra le milizie islamiste e un generale free lance, Khalifa Haftar, che tenta con poco successo di ristabilire l’autorità (la sua, nel caso specifico) con l’aiuto degli Emirati arabi uniti e dell’Egitto. A sud c’è un’area di quasi totale impunità dove i gruppi jihadisti vengono a riorganizzarsi e a comprare armi. “Capi come l’emiro Drougdal o Mokhtar Belmokhtar transitano di lì regolarmente”, dice il ministro francese. Ieri Le Drian era a Milano per partecipare a una riunione dei ministri della Difesa europei e anche per persuadere gli italiani a diventare partner nella futura coalizione militare. Il sito libico Libya Herald dice che gli è andata male, gli italiani hanno risposto che daranno aiuti e soldi e nient’altro. Twitter @DanieleRaineri • VANDANA SHIVA ALL’EXPO, cioè quando l’ambasciator porta pena (articoli a pagina tre) Ottimismo di governo Perché Renzi non dispera sui risparmi da trovare Il pil floscio non frena le assunzioni. Tagli, tra zero spread e Parigi in rosso Roma. Il governo continua a manifestare un discreto ottimismo in vista della legge di stabilità da perfezionare e inviare a Bruxelles entro il 15 ottobre prossimo. Prova ne è l’assunzione a tempo indeterminato di 30 mila lavoratori della scuola (docenti e personale Ata) autorizzata ieri dal Consiglio dei ministri. L’unico fattore capace di smorzare la visione rosea sull’economia del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, rimane per ora la “crescita attorno allo zero” del pil per quest’anno, il terzo anno di recessione dal 2007 se le previsioni statistiche venissero confermate. Per il resto il presidente del Consiglio continua ad assicurare che i risparmi di spesa per il 2015 saranno almeno 20 miliardi di euro, perfino qualcosa in più dei 17 miliardi previsti nel Documento di economia e finanza (Def). E mentre il commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli, è sul punto di tornare a Washington al Fondo monetario internazionale, non è ancora del tutto definita la strategia grazie alla quale si raggiungerà tale obiettivo. Il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, intervistato da questo giornale, aveva ipotizzato che per raggiungerla sarà necessario comprendere “nel calcolo dei tagli anche i risparmi ricavati dalla modifica strutturale dei comportamenti della Pubblica amministrazione”, come si fa nei paesi scandinavi. Parte (consistente) dei tagli arriverà comunque dalla riduzione del budget dei ministeri del 3 per cento. Una cifra che rappresenta un “obiettivo minimo”, perché a volere essere fiscali con il “3 per cento” su una spesa aggredibile di 350 miliardi (che lascia intoccate le voci sensibili come previdenza e sanità) si totalizzano solo 7 miliardi di risparmi. Saranno i ministri stessi a proporre come snellire i loro bilanci in un rapporto da inviare a breve a Palazzo Chigi; cancellati i “faccia a faccia” col premier attesi per ieri, Renzi si è rivolto ai ministri di spesa direttamente in sede di Consiglio dei ministri. A dare sollievo alle casse pubbliche – fanno intendere i più ottimisti nel governo – arriverà poi la minore spesa per interessi sul debito, grazie a un calo dello spread (e dei rendimenti, soprattutto) più accentuato del previsto. Nel Def di aprile il governo stimava un risparmio del 5 per cento del pil se il differenziale tra titoli italiani e tedeschi fosse rimasto a 200 punti. Lo spread è più basso, viaggia attorno ai 140 punti dopo avere toccato il minimo storico (132 punti) la settimana scorsa. Renzi dunque per il momento non risente degli umori volatili dei mercati che condizionarono sia Letta sia Monti: è difficile che qualche banca d’affari pianti in asso i titoli italiani. Ieri la domanda di Bot a scadenza annuale ha tenuto (collocati 8,25 miliardi su 13,5 richiesti) nonostante un rendimento al minimo storico di 0,27 punti; pur sempre più generoso di quello offerto da Germania, Francia, Olanda, Spagna e Portogallo per titoli a medesima scadenza. Una “flessibilità” concessa dai mercati grazie alle mosse espansive dalla Banca centrale europea, mentre paesi come la Francia la “flessibilità” se la prendono per manifesta incapacità: il rapporto deficit/pil di Parigi arriverà al 4,4 per cento quest’anno, con la promessa di rientrare nei parametri (3 per cento) solo nel 2017, ha detto ieri il ministro delle Finanze, Michel Sapin. Parigi sarà il sorvegliato speciale d’Europa: Pierre Moscovici, ex ministro socialista dell’Economia, è stato nominato commissario agli Affari economici, ma sarà sorvegliato dal più rigorista Jyrki Katainen, nominato “vicepresidente per la crescita”. Ma se Parigi strattona Bruxelles, a Roma c’è chi spera di non essere l’osservato speciale per eccellenza da qui fino a metà ottobre. • LIBERISTI SU MARTE Prodi s’inventa un nemico economico che non c’è (D’Amico e Mingardi a pagina 2) E’ uscito, è uscito. Definirlo orologio è assai limitativo, è un personal device che segna il tempo, riceve la posta, la spedisce, naviga, approda, è un lettore mp3, un fitness tracker, monitora la corsa, il passo, i chilometri all’ora, il battito cardiaco, la pressione, scatta fotografie, le mostra, filma, funge da telefono, da sveglia, consulta mappe, scopa per te, frigge le uova e poi, nella versione “Toga”, avvisa i magistrati che i quarantacinque giorni di pacchia sono scaduti e possono tornare a far cazzate. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21 B asta vederlo dall’antico Vespa, in breve anteprima, non dico che manchi solo la scrivania di ciliegio, ma quasi. Il tortellino è una citazione di D’Alema col risotto, ma siamo su pianeti diversi, il segno gastronomico è esornativo e fuorviante. Quello di Renzi, di pianeta, è lo stesso del Cav. (e non solo del Berlusconi delle origini, sebbene per lo stato nascente del fenomeno l’analogia si faccia identità senza riserve). Basta chiacchiere, è il momento del fare, l’Italia è grande e grossa e si difende, basta che i professionisti delle tartine, o gufi, vengano messi a tacere, basta che si vada oltre i confini di destra e sinistra, che si unifichi intorno a una maggioranza che si vorrebbe assoluta, per decidere, il troncone buono e operoso del paese, l’alleanza sociale di sostegno al progetto, cambiando l’assetto istituzionale nel frattempo, e poi mettendo in esecuzione il patto sociale per il cambiamento contro burocrazie e pietrificate culture di classe e di establishment. Berlusconi ebbe i voti delle periferie e degli operai, devastò la bolsa sicurezza di sé del Pci-Pds-Ds, arrivò a un pelo dal capolavoro di governare da sinistra essendo titolare di un blocco originario conservatore, e Renzi simmetricamente si gloria del consenso ricevuto dal ceto medio moderato intorno alla sua percentuale europea, che non può essere fatta solo di seguaci della sinistra e del Pd, insomma è a un pelo dal capolavoro di governare in senso riformista e innovatore, economicamente e socialmente a destra, ma dando soddisfazione al blocco di riferimento (il nostro futuro sono gli insegnanti, che è il pendant di distinzione rispetto al nostro futuro lectio Cav. che sono gli imprenditori medi e piccoli). Come ha giustamente notato Alberto Asor Rosa, ma con implicazioni grottesche d’orrore ideologico, Renzi non ha nella sua coscienza politica nemici, e nemmeno avversari, la sua non è la retorica di una rivoluzione da sinistra contro la quale si muovono le forze della reazione in agguato, ha al massimo competitori, con i quali un bipolarismo sano intrattiene rapporti di consenso e dissenso, di comunanza e alterità, ma senza rotture o guerre guerreggiate. Renzi sta suscitando, et pour cause, le stesse antipatie feroci e ideotipiche evocate come spettri del passato dal Cav. Con la differenza che il suo punto di partenza non è la riunificazione di un blocco conservatore, ma la rivitalizzazione senza alternative palatabili del blocco di sinistra, nella sua versione mai sperimentata in Italia di una sinistra postideologica, generazionalmente connotata da un certo jemenfoutisme e dall’allegria, e volete che un vecchio e intemerato berlusconiano pop, come me, non si innamori del boy scout della provvidenza e non trovi mesta l’aura di spregio che circonda di nuovo il caro leader? Naturalmente, come è accaduto nel caso di Berlusconi, l’amore non è cieco. Può sempre far danni, ma può anche accompagnare una vecchiaia meno turpe di quella approntata per noi dai manettari delle procure tristi e dai comitati benecomunisti del Valle o dell’Ambra Jovinelli. Bisogna essere prudenti, cauti, procedere lentamente, non scoprirsi, ed è per questo che invece la facciamo sbrigativa, polemica, sapendo che nella rapidità e nel ritmo saremo fregati un’altra volta. Ma fregati, ho detto? Ho sbagliato. Renzi ha il divino tocco di chi legittimi per il solo fatto di esistere (grazie, scout) vent’anni di tormenti e di incertezze, tutti vissuti nella dignità di un buon servilismo professionale, così diverso dal servilismo procuratizio o establishmentario in voga nei circoli dell’Italia che piace. In più, per dirla con l’Avvocato compianto, se vince lui vinciamo tutti, se perde lui perde solo lui. No? Ma queste sono poi fanfaluche, escogitazioni per non morire di noia. Resta la presenza politica inquietante ma provvidenziale dell’anomalo al comando, ché se poi vogliamo dirla tutta non poteva essere altro l’esito della rivoluzione antipartito, dello sbrocco antipolitico dei ceti medi riflessivi e dei loro successori, i somari del dottor Gribbels. La democrazia italiana aveva una sua scuola, una sua storia, un suo consumato e corroso sistema di riferimenti, e tutto è scomparso insieme alla cortina di ferro che la proteggeva; sostituirla con l’alleanza di media e magistrati della pubblica accusa, più squattrinati e titolari di bellurie, non poteva che danneggiare fino al midollo l’osso della politica; e la grande fantasia del populazzo (sì, viene da Ludovico Ariosto anche questo) sta nella sua capacità di far rivivere il sogno, il dream e l’ice cream, di due Grandi Innocenti che si fanno signori nell’aura di delitto. Manette, riforme e Dna Giachetti ci spiega perché la sinistra non è a suo agio con i giudici che sbagliano Dal caso Emilia alla rivolta dell’Anm. La difficoltà a educare un elettorato, il garantismo e quel peccato originale “Tempismo sospetto, diciamo” Roma. L’inaspettato e prepotente ingresso del Partito democratico sul prestigioso palcoscenico dell’Isola dei perseguitati – prima la condanna del governatore dell’Emilia Romagna a due anni di reclusione, poi le dure lettere dell’Anm contro la riforma della giustizia, quindi l’uno-due improvviso delle indagini sui due principali candidati del Pd alle primarie per l’Emilia Romagna, e in pratica a Renzi ormai mancano solo i post-it gialli – ha messo il centrosinistra nella condizione insolita di chi, dopo aver per anni rotto gli zebedei al centrodestra sull’autonomia, l’indipendenza e l’impeccabilità quasi oracolare della magistratura, si ritrova oggi a recitare una parte anomala. I più ingenui direbbero semplicemente che la sinistra è diventata garantista, che un po’ è vero. Ma i sofisticati e i meno banalotti R. GIACHETTI direbbero invece che a sinistra sta succedendo una cosa che non era mai successa prima. Sostiene Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera, renziano di ferro: “Se metti insieme il casotto emiliano, con queste indagini che non mi sembrano proprio impeccabili, e alcuni punti della riforma della giustizia, vedi per esempio il dossier sulla responsabilità civile dei giudici, il punto è che il nostro partito per la prima volta sta facendo i conti con una dura realtà: dover spiegare agli elettori che qualche volta anche i magistrati possono sbagliare”. Giachetti lo dice con il sorriso amaro di chi per anni ha combattuto da posizioni solitarie battaglie in difesa del garantismo e oggi, di fronte ai lievi svenimenti di molti compagni che evidentemente non si trovano a loro agio a vestire un po’ berlusconianamente i panni di coloro che vogliono dare qualche sano buffetto alle procure, dice che lo smarrimento ha precise origini storiche. “Per molto tempo la nostra parte politica ha pensato che fosse necessario cavalcare le azioni giudiziarie per sconfiggere Berlusconi. Negli ultimi vent’anni il modo di ragionare dell’elettore di centrosinistra è stato viziato da questa genialata politica e non mi stupisce che ancora oggi sia complicato educare il nostro popolo a un concetto semplice come la presunzione di innocenza. Vi faccio un esempio. Dopo la notizia degli avvisi di garanzia a Richetti e Bonaccini ho sentito molti compagni e molti amici dire: oh, mi auguro che Stefano e Matteo possano dimostrare la loro innocenza. Capite? La presunzione di colpevolezza si trova ormai nel nostro Dna, a nessuno viene in mente, di fronte a un’indagine, che non è l’indagato a dover dimostrare la sua innocenza ma è il magistrato a dover dimostrare la colpevolezza dell’indagato, e anche per questo bisogna dare atto a Renzi di essere stato coraggioso e coerente su un punto importante: se sei indagato non sei condannato e dunque, se credi, puoi tranquillamente fare politica”. Attivismo sospetto? “Io dico solo che gli avvisi di garanzia sono arrivati con tempestiche sospette, e dubito che i magistrati non sapessero che avrebbe avuto un forte impatto politico concludere un’indagine nel giorno in cui i candidati avrebbero dovuto presentare le firme per partecipare alle primarie. Per utilizzare lo stesso metodo adottato negli ultimi anni dal partito trasversale delle manette direi: mi auguro che i magistrati possano dimostrare la loro innocenza…”. Il cronista chiede con malizia se valga la pena seguire la pista della persecuzione giudiziaria legata all’attività del governo sulla giustizia. Giachetti, sorridendo, la mette così. “Se, vabbe’, non ci casco! Ritorsione no. Resistenza incredibile però sì”. In che senso? “Mi fa ridere che ogni volta che tu sfiori la giustizia ci sia un sindacato dei magistrati pronto a urlare: ah, questo è un attentato alla nostra indipendenza; questo è un attentato alla Costituzione. Facciamo i seri… Sento Sabelli, segretario Anm, che dice: questa riforma si occupa solo di piccole cose, di cose minute. Gli risponderei così: hai ragione Sabelli, ora rivediamo la riforma e ci mettiamo anche le cose che non abbiamo ancora messo, ahimè”. Critico con Renzi? “Questa riforma affronta alcuni punti importanti, e la responsabilità civile è una norma di civiltà che nessun governo ha mai avuto il coraggio di inserire. Però bisogna essere onesti, alcune cose importanti sono rimaste fuori. E per fare una radicale riforma della giustizia non si può prescindere da temi come la separazione delle carriere; l’obbligatorietà dell’azione penale, ormai diventata una barzelletta; la riforma delle carceri. Purtroppo, più per problemi interni ai nostri gruppi parlamentari che per problemi interni alla maggioranza, non tutto si potrà fare. E ancora una volta mi chiedo: caro Matteo, ma se tu vuoi rivoluzionare l’Italia e non hai un partito che riesce a starti appresso, sei sicuro che convenga governare così e che invece, chessò, non valga la pena tornare a votare?”. Twitter @ClaudioCerasa • ER GOVERNO RUTELLI L’ex sindaco sfoglia la margherita del (suo) governo Leopolda Cerasa, inserto I