IL ROMANTICISMO E LA PITTURA DI C. D. FRIEDRICH
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IL ROMANTICISMO E LA PITTURA DI C. D. FRIEDRICH
IL ROMANTICISMO E LA PITTURA DI C. D. FRIEDRICH L'estetica del romanticismo L’estetica romantica con la nuova concezione delle arti e la nuova definizione dello statuto del discorso sulle arti è strettamente connessa con la visione del mondo elaborata da questo movimento, una visione del mondo che coinvolge tutti campi del sapere e dell’agire. Questo carattere fa della rivoluzione romantica il luogo di nascita di tutte le estetiche della modernità. Inoltre la natura ‘mista’ del movimento romantico a un tempo filosofica e artistica è la matrice dei successivi movimenti artistici, ed in particolare delle avanguardie dell’inizio del secolo. Uno dei punti nodali dell’estetica che romantica è la concezione totalizzante dell’arte. «L’arte per i Romantici è un’esperienza di verità più autentica e comprensiva e profonda della ordinaria esperienza che compiamo attraverso la scienza o la filosofia, è accesso diretto al cuore della realtà, all’essenza del mondo […]. Proprio agli inizi del Romanticismo tedesco si trova una nettissima formulazione del primato della bellezza e dell’attività estetica sulle altre, primato che non consiste semplicemente in una supremazia ma nella capacità di risolvere nella bellezza le altre attività dello spirito, conferendo loro al tempo stesso un significato superiore e la vera realizzazione»1 A questo punto, però, è necessario chiarire, quando parliamo di estetica del Romanticismo, di quale Romanticismo si tratta. In altre parole occorre definire e circoscrivere la nozione di Romanticismo. L’impresa non è facile, dato che il fenomeno del Romanticismo è così complesso che, diffuso in tutta Europa, in ogni paese ha assunto forme e connotati diversi. Per questo motivo nella storiografia letteraria si parla di “Romanticismo tedesco”, “Romanticismo francese” ecc. In questi casi si assiste ad un uso molto esteso e dilatato del concetto di Romanticismo, tanto che è apparsa impresa impossibile ogni tentativo di stabilire un nucleo comune per le varie definizioni. Inoltre ricordiamo che il termine ‘romantico’ è stato usato (ed è ancora così inteso nel significato corrente) in senso metastorico, per indicare cioè un certo modo di espressione artistica non legato ad un determinato periodo, ma comprensivo di fenomeni artistici (indipendentemente dal periodo storico in cui sono sorti) che entrano nei territori del fantastico e dell’oscuro, che danno spazio alla sfera del sentimentale e delle forti passioni amorose. Si tratta in questo caso di Romanticismo inteso come categoria psicologica, in contrapposizione ad un Romanticismo storico. È molto difficile stabilire dei limiti precisi ed una periodizzazione soddisfacente per il Romanticismo storico. Spesso le periodizzazioni proposte dipendono dal punto di vista assunto proprio perché il Romanticismo non è stato solo un fenomeno limitato alla sfera della letteratura, delle arti, del gusto e quindi dell’estetica, ma anche una tendenza che ha coinvolto tutta la cultura europea ed ha inciso profondamente sulla religione, sulla filosofia, sulla politica e sulla scienza, tanto che, come si è visto, si usa spesso l’espressione “rivoluzione romantica”. Ma, rispetto all’ampiezza del termine “romantico” nella storiografa letteraria, è possibile e metodologicamente corretto indicare confini cronologici più ristretti «Altro infatti è la presenza di tendenze romantiche nelle letterature e nelle arti, altro è l’elaborazione filosofica sull’arte e la poesia» (D’Angelo). Le considerazioni che faremo si riferiscono alle idee elaborate nell’ambiente culturale tedesco tra la fine del Settecento e i primissimi anni dell’Ottocento. IL CIRCOLO DI JENA E IL PRIMO ROMANTICISMO 1 P. D’ANGELO, Estetismo, il Mulino, Bologna 2003, pag. 49. Il nucleo generatore delle idee romantiche è individuabile nel gruppo di studiosi che si riunisce a Jena, a partire dal 1796, attorno ai fratelli Schlegel: August Wilhelm (1767 – 1845) e Friedrich (1772 – 1829) August Wilhelm è un fine letterato, poco incline alla speculazione filosofica ma abile divulgatore delle idee del gruppo. Friedrich invece ha una spiccata attitudine per l’approfondimento filosofico dei temi trattati ma meno capace di intessere rapporti con il mondo culturale. Tra i due, dunque, il vero teorico è Friedrich ed a lui appartengono molte delle intuizioni decisive elaborate nel circolo romantico. Nel 1796 ha già completato uno scritto che contiene gli elementi essenziali delle teorie del primo gruppo romantico. È il saggio Sullo studio della poesia Greca. L’impostazione non si discosta dalla concezione dell’arte greca vista come il punto più alto e non superabile raggiunto dall’uomo nell’espressione artistica, ma nello scritto di Friedrich sono fissati alcuni caratteri peculiari dell’arte moderna, che costituiranno in seguito l’immagine dell’arte romantica. Attorno ai fratelli Schlegel si trovano Friedrich Schleiermacher (1768-1834) teologo e filosofo, il poeta Ludwig Tieck (1773-1853), Fiedrich von Hardenberg (1772-801), più noto con lo pseudonimo di Novalis e il filosofo Friedrich Schelling (1775-1854). Nell’estate del ´98 a Dresda si incontrano tutti i protagonisti del gruppo ad eccezione di Schleiermacher. A loro si unisce il filosofo Schelling. I fratelli Schlegel decidono di fondare una rivista propria, l’Athenaeum (1798-1800) alla quale collaborano tutti i membri del gruppo. IL SIGNIFICATO DEL TERMINE ROMANTICO La storia del termine ‘romantico’ ha inizio verso la metà del XVIII secolo in Inghilterra, dove troviamo l’aggettivo romantik che ha il significato di “al modo dei vecchi romanzi”. Romanzo è quello che gli inglesi chiamano romance, cioè narrazione fantastica, prevalentemente “narrazioni di argomento cavalleresco”. Novel, invece, è la parola usata per indicare il romanzo realistico che tratta avvenimenti contemporanei dello scrittore. Secondo questa distinzione, è evidente che la parola romantico si riferisce a un testo “immaginato, inventato come in un romanzo”. Inizialmente la parola romantico ha un significato peggiorativo, poi però si impone un valore positivo nel corso del Settecento, e il termine è usato a proposito di certi paesaggi o edifici. I luoghi selvaggi e solitari, le rovine di antichi monumenti sono spesso definiti romantici. Il giardino inglese che riproduce la natura nella sua spontaneità e nei suoi aspetti esotici (il pittoresco) è detto anche romantico2. In Germania, nella seconda metà del Settecento, a questi significati se ne aggiunge un altro che avrà un ruolo determinante nelle teorie dei primi romantici raccolti attorno ai fratelli Schlegel. Romantico è assimilabile a Romanico, termine usato per indicare le lingue e le letterature neolatine, quelle appunto che appartengono all’area romanza. Quando si parla di ‘romantico’ si indicano non solo le letterature ‘romanze’ ma anche le forme proprie di quelle letterature (ad esempio il poema cavalleresco, il Don Chisciotte di Cervantes). Inevitabilmente la forma richiama il contenuto, e così romantico passerà ad indicare tutto ciò che appartiene al “meraviglioso”, al “fantastico”, al mondo delle storie di cavalleria e d’amore.3 Presso il gruppo dei primi romantici di Jena il termine romantico non è usato «come autodesignazione di scuola, ma come nome di una poesia che da un lato s’identifica con un referente storico preciso, la poesia cristiana medievale-rinascimentale, dall’altro è l’autentica poesia ancora a venire»4. 2 3 4 Leblanc nelle sue Lettres sur l’Angleterre del 1745 scriveva: «Molti inglesi cercano di dare ai loro giardini un’aria che essi chiamano ‘romantic’ cioè ‘pittoresca’» P. D’ANGELO, L’estetica del Romanticismo, Il Mulino, Bologna., pag. 21. Ibid., pag. 20. Tra le principali novità dell'estetica del romanticismo ricordiamo: 1. l’arte come la forma di conoscenza più alta. 2. L’arte è la via privilegiata per cogliere la verità e l’assoluto 3. la coscienza storica dell’evento estetico, 4. il superamento del principio di imitazione e la valorizzazione del soggetto creatore. 5. Il rapporto arte – natura su nuove basi ARTE E VERITÀ. LA TENSIONE VERSO L’ASSOLUTO Agli inizi del Romanticismo tedesco si trova una nettissima formulazione del primato della bellezza e dell’attività estetica sulle altre, primato che non consiste semplicemente in una supremazia, ma nella capacità di risolvere nella bellezza le altre attività dello spirito, conferendo loro al tempo stesso un significato superiore. L’arte non è più circoscritta all’ambito dell’illusorio e dell’apparenza, distinta dal campo della verità che sarebbe prerogativa della scienza, della filosofia e della religione. In particolare l’arte è l’organo della filosofia, rappresenta ciò che la filosofia non può rappresentare «Si può dire infatti dire che con la filosofia si apre l’accesso all’“assoluto” per il filosofo, mentre l’arte offre questo accesso a tutti gli uomini; è come se la prima portasse alla somma verità solo “un frammento dell’uomo”, laddove la seconda porta l’uomo intero così come egli è, alla conoscenza del sommo vero [....] L’arte è sempre alla sua meta mentre la scienza e la filosofia sono in perenne approssimazione alla verità » (D’Angelo). Nel Romanticismo l’arte non solo è conoscenza, ma è la più alta delle conoscenze. L’arte è rappresentazione dell’infinito nel finito. In altre parole i romantici sacralizzano l’arte. L’arte, dunque, per i Romantici, non è un’attività dello spirito allo stesso livello delle altre, ma una forma di espressione e di conoscenza che assorbe in sé tutte le altre esperienze dell’uomo. È un’esperienza di verità più autentica e comprensiva e profonda della ordinaria esperienza che compiamo attraverso la scienza o la filosofia: è accesso diretto al cuore della realtà, all’essenza del mondo e a Dio. Ma accanto a questa tensione entusiastica ed utopistica verso l’infinito (e anche verso un’età dell’oro che deve ancora venire) e all’anima religiosa, convive anche il sentimento dello scacco, l’angoscia di uno slancio destinato ad essere frustrato, la convinzione che per noi non sia possibile conquistare alcuna verità, alcun punto fermo e che si dissolva ogni differenza tra verità e apparenza e ogni scopo serio della vita. «Non meno caratteristici sono anche atteggiamenti antitetici, nei quali l’oscurità e la notte prendono il posto della luce, la disperazione quello della speranza, l’incredulità quello della fede, e invece di annunciare la pienezza di senso della storia si dà espressione alla pura insensatezza del mondo» (D’Angelo) Anche da questo rapporto finito-infinito si avranno diversi esiti: 1) una forte caratterizzazione in senso religioso dell’ispirazione artistica. 2) l’esito nichilisitico nel momento in cui sorge il dubbio che la tensione verso l’infinito sia priva di senso in un universo orfano di Dio 3) Venuto meno l’afflato religioso l’arte è desacralizzata: suo compito diventa l’impegno a cogliere la vita e la realtà nella sua essenza più profonda. In ogni caso il denominatore comune di queste tendenze è l’impostazione di un discorso nuovo del romanticismo sul rapporto arte-vita. L’arte coinvolge tutta l’esistenza dell’uomo, non è una ‘domenica della vita’. Questa concezione avrà conseguenze notevoli sul successivo modo di guardare all’arte: 1) identificazione dell’arte con la “grande arte”.2) separazione marcata dalle altre attività “ordinarie” 3) l’artista è considerato dotato di capacità straordinarie del tutto diverse da quelle dell’uomo comune STORICITÀ DELL’ARTE È ancora abbastanza diffusa l’idea che “romantico” sia strettamente collegato con il termine antitetico “classico”. In altre parole, si presuppone che “romantico” sia un concetto di relazione definibile solo se riferito al concetto d classico. In verità questa convinzione, che vede i termini classico – romantico in netta contrapposizione, è priva di fondamento se riferita al gruppo dei Romantici tedeschi dell’Athenaeum5. Infatti, è vero che i teorici concentrarono la loro riflessione sulla coppia classico-romantico, ma lo fecero con l’intento di definire e fissare, nel confronto, i caratteri dell’arte romantica. Non si può parlare di opposizione, perché i romantici non intesero in alcun modo svalutare il classico a favore del romantico6. Verso il mondo classico dell’antichità i romantici ebbero sempre un atteggiamento di ammirazione e la loro ricerca fu volta piuttosto a capire le differenze che caratterizzava la loro idea di arte rispetto a quella dei classici. Essi non intesero certo svalutare l’arte classica a favore del romantico, ma si sforzarono di capire la loro diversità. Anzi i primi romantici elaborarono la loro nozione di arte romantica proprio riflettendo sui rapporti con l’arte classica dell’antichità e questo comportò la necessità di approfondire la relazione tra antico e moderno. Il confronto tra arte classica e arte romantica era un modo per impostare il problema del rapporto tra antico e moderno in una prospettiva del tutto nuova. E capire la diversità significa rinunciare ad ogni modello metastorico cui far riferimento, bensì assumere un nuovo punto di vista, un punto di vista storico. Possiamo affermare che la novità sostanziale dei Romantici, destinata ad avere esiti di straordinaria portata, è la storicizzazione dei fenomeni artistici studiati. I romantici analizzavano il processo evolutivo che dall’antichità aveva condotto agli sviluppi dell’arte moderna. Anche il problema estetico veniva visto in una dimensione storica, e non più in astratto secondo un modello di riferimento ideale e svincolato da ogni rapporto con il suo contesto storico. Friedrich Schlegel all’inizio del suo Dialogo sulla poesia afferma che «l’arte si fonda sul sapere, e la scienza dell’arte è la sua storia». In questa prospettiva si rende necessaria l’emancipazione dal classico, e dunque subentra la consapevolezza e l’autocoscienza storica del fare artistico. «Attraverso la diade di classico e romantico la storia dell’arte si poneva al centro stesso della teoria estetica, e comprendere l’arte veniva a significare soprattutto comprenderne la storia, ossia l’evoluzione e la diversità radicale delle forme da essa successivamente assunte. Le conseguenze per il nostro modo di intendere il fenomeno artistico erano di tale portata che è difficile esagerarne l’importanza. [....] . Cadeva la possibilità di considerare compito dell’estetica la fissazione di canoni, regole e modelli: se l’arte è storica, ciò che vale come modello in un’epoca non può valere come modello in un’altra»7. Quando affermiamo che uno dei più notevoli risultati dell’estetica romantica è il riconoscimento del carattere storico dell’arte, non dobbiamo dimenticare che esistono antecedenti di questo modo di guardare l’arte. Per non parlare di Vico e della Querelle des anciens e des modernes, basta citare il grande esempio di Winckelmann con la sua Storia dell’arte dell’antichità (1764). La specificità della posizione dei romantici va individuata nel fatto che essi inseriscono l’evoluzione delle forme artistiche in un disegno che le valuta nel loro sviluppo storico, abbandonando il paradigma della perfezione greca. 5 L’opposizione classico – romantico sarà un fenomeno che interesserà in anni più tardi l’Italia e la Francia dove infuriò a lungo una polemica tra classicisti e romantici. 6 In Germania, negli anni del primo Romanticismo, quando si parla di Klassik ci si riferisce alla produzione letteraria di Goethe e di Schiller. «Anche senza sposare la tesi che non vedono distinzione, in Germania, tra classicismo e Romanticismo, o pongono il secondo come naturale sviluppo e quasi inveramento del primo, certo fra i due c’è continuo scambio e stimolo al di là dei rapporti personali non sempre facili tra i romantici e Goethe e soprattutto Schiller». (D’Angelo).. 7 P. D’ANGELO, L’estetica del Romanticismo, cit. pag. 36 Solo con i Romantici il modo di mettersi in rapporto con l’opera d’arte diventa un modo essenzialmente mediato dalla storia. «Per quanto riguarda l’arte – osserva Friedrich Schlegel parlando dei Romani – questo deve rimanere il punto di vista per apprezzare le loro opere, giacché chi ben comprende considera ogni forma nel suo ambito, giudicandola secondo l’ideale ad essa proprio». (Dialogo sulla poesia). A questo proposito, ricordiamo che il modello di storia letteraria e artistica che si è imposto in questi due secoli è nato con il Romanticismo. Per comprendere meglio questa fondamentale svolta nella considerazione dell’arte, basta considerare gli scritti di estetica di autori settecenteschi come Batteaux, Baumagarten i quali indagano i fenomeni dell’arte e del bello senza che sia preso in considerazione il problema della loro variabilità storica8. Questi studiosi hanno sempre come termine di riferimento un ideale di bellezza astratto, posto al di fuori, per così dire, della storia. L’arte antica, idealizzata, è sempre considerata un modello per l’arte moderna. Basti pensare alla concezione dell’arte di Winckelmann. La svolta dei romantici ha una rilevanza eccezionale per la teoria estetica. L’arte moderna svincolata da un rapporto di stretta dipendenza con l’arte antica, con la quale ad ogni buon conto si confronta sempre, deve ricercare un nuovo fondamento estetico. Questa autocoscienza storica del fare artistico comporta l’abbandono della concezione per la quale all’arte è strettamente connessa l’idea di bellezza. L’arte antica, per i romantici, si basava su un’implicita e non riflessa concezione del bello e dell’armonia «il principio dell’arte antica era la bellezza, laddove il bello, la quieta contemplazione, è ben lungi dal rappresentare l’ideale delle opere moderne, le quali sono spesso rappresentazioni del brutto: non dell’equilibrio, ma dell’eccesso, non dell’armonia ma del dissidio. L’arte antica cerca la forma ideale, quella moderna il caratteristico e l’individuale»9 Schlegel analizzando lo status dell’arte nel presente, ritiene che difficilmente all’arte possa essere attribuito l’attributo di bello nel senso classico: piuttosto le si addice il brutto, o, semmai, l’interessante e, come si è detto, il caratteristico e l’individuale. In altre parole questa caratterizzazione dell’arte moderna comporta, come si è detto, l’inserimento del “brutto” nella sfera dell’estetico che ingloberà così i nuovi territori della deformazione e dell’informe, della contraddizione e della disarmonia. Si tratta di categorie che rinviano a un «nuovo status dell’arte, la quale si è staccata dal paradigma della bellezza senza per questo fuoriuscire dall’orizzonte di una considerazione estetica di alto significato. Si dischiude così la traiettoria delle “arti non più belle”, un lungo percorso che conduce dal Romanticismo all’avanguardia»10. IL SUPERAMENTO DEL PRINCIPIO DI IMITAZIONE La storicizzazione dell’opera d’arte comporta anche come naturale conseguenza il superamento del principio di imitazione, inteso soprattutto come imitazione di modelli riconosciuti come perfetti, realizzati in opere considerate al di fuori della loro realtà storica. L’emancipazione da canoni cui far riferimento libera anche la facoltà creatrice dell’artista e la sua immaginazione: l’arte viene pensata come libera produzione del soggetto. L’interesse non è più 8 9 10 Il merito di una storicizzazione dei fenomeni artistici è comunemente attribuito a Hegel, ma, come afferma P. D’Angelo, «È vero che il modello hegeliano agirà profondamente sul costituirsi della storia delle arti in senso moderno, ma sostenere, come ancora accade di leggere, che egli sia il padre della storia della cultura o di quella dell’arte si può solo se si ignora quanto egli debba, da questo punto di vista, ai non amati romantici: le sezioni sulla storia dell’architettura, della pittura, della musica nell’Estetica hegeliana sono costruite, si può dire quasi interamente, con i materiali attinti agli autori della Romantik» (D’Angelo, op. cit. pag. 40) D’Angelo, op. cit., pag. 42. F. VERCELLONE, L’estetica dell’Ottocento, cit. pag. 104. rivolto all’opera in sé indipendentemente da chi l’ha prodotta. Il centro di gravità dell’atto estetico si sposta anche sul processo creativo, sul processo interiore del soggetto che si traduce nella composizione dell’opera. E questa disposizione esclude di per sé ogni compromesso con la teoria dell’imitazione, che sarebbe un ostacolo alla libertà inventiva. Si può quindi comprendere come «la crisi dell’idea che l’arte sia legata alla riproduzione di un dato esterno sia strettamente connessa con l’emergere di un paradigma che non pensa più l’arte come un riflesso esterno nella mente dell’autore, ma la pensa come proiezione a partire dalla sua soggettività. L’arte non è imitazione ma espressione» (D’Angelo) L’affermazione della storicità dell’arte e la liberazione del principio di imitazione determinano nell’artista una presa di coscienza del proprio ruolo. L’artista è portato a riflettere sulle condizioni soggettive e fantastiche del suo operare nella società di fronte alla quale può assumere due atteggiamenti diversi: 1) avverte un insanabile contrasto tra le alte idealità della sua arte e il mondo e si chiude in un drammatico isolamento. È il caso del musicista il protagonista di un’opera di Wackenroder (Vita di Joseph Berglinger): [Berglinger] si sentiva abbandonato e solo in mezzo al cicalìo di molte anime che non armonizzavano con la sua; la sua arte ne era profondamente avvilita, perché non produceva su nessuno, per quanto egli sapesse, una forte impressione, mentre a lui sembrava che l’arte fosse fatta solamente per toccare il cuore. In qualche ora oscura cadeva proprio in disperazione, e pensava “Che strana e curiosa cosa è l’arte! È possibile che abbia solo per me una forza misteriosa e per gli altri uomini sia solo un divertimento dei sensi, un piacevole passatempo? Che cosa è l’arte, in realtà, se per tutti gli altri è niente, e solo per me ha importanza? [...]Gli capitò allora di pensare che un artista dev’essere tale solo per sé, per l’elevazione del proprio cuore o per una o al più per un paio di persone che lo capiscano. La vicenda di Berglinger (e successivamente quella del musicista Kreisler di Hoffmann) , chiuso in un universo separato da un presente che non accetta e dal quale si sente ignorato o respinto, può essere considerata ( una volta che venuto meno lo slancio ideale che anima ancora Berlinger) il supporto di certi atteggiamenti degli artisti del Novecento che sottolineeranno il loro contrasto con la società chiudendosi nell’aristocratico culto dell’arte fine a se stessa. Si pensi al fenomeno dell’estetismo per il quale l’arte è un valore superiore a tutte le altre realtà, ma, a differenza della concezione romantica, è privata di ogni idealità e di valore conoscitivo tanto da risolversi in puro piacere estetico. «L’estetismo riduce la verità ad apparenza estetica, ma esclude dall’apparenza estetica la verità» (Givone) 2) Si sente attivamente inserito nella realtà del suo tempo e testimonia la sua partecipazione alle spinte innovatrici attraverso la propria attività creatrice. Il rapporto arte – natura La critica del principio di imitazione non equivale a una negazione della bellezza o della poeticità della natura. Il rapporto con la natura è invece posto su basi nuove. I Romantici, infatti, ritengono che tanto l’arte quanto la natura siano autonome forze creatrici. La natura è vista come una realtà organica e animata: A questo proposito D’Angelo osserva che i Romanticismo può essere considerato un grande tentativo di opporsi all’immagine della natura scaturita dalla rivoluzione scientifica nel Sei Settecento. In luogo, quindi di una natura matematizzabile, retta da rapporti meccanici e causali, esso ha mantenuto o cercato di far nuovamente rivivere l’idea di una natura animata, organica, irriducibile alla pura quantità» A.W. Schlegel sostiene che si può parlare di arte che imita la natura solo se si intende che arte e natura sono forze produttrici e generatrici e non che l’arte riproduca la natura: «La natura – dice Schelling - è la sacra forza primordiale, eternamente creatrice, che da se stessa genera e attivamente produce tutte le cose [….] La natura non è un puro e semplice prodotto e le cose (non sono) come qualcosa di semplicemente presente e privo di vita »11. Per Schelling la natura è «vivente e creatrice». Per comprendere questa affermazione è utile ricordare che ci si può riferire alla “natura” in due sensi: la natura può essere intesa come natura naturata (ad esempio un paesaggio) e la natura naturans (il principio generativo delle cose). un protagonista del primo romanticismp. Wackenroder esprime nell’opera Sfoghi del cuore di un monaco amante dell’arte, il parallelismo tra la natura e l’arte intese come due lingue meravigliose che ci consentono con strumenti diversi di comprendere le cose celesti. L’arte non è opposta alla natura né l’una è subordinata all’altra, ma entrambe, arte e natura, sono forze che ci rivelano le realtà divine. Pertanto non ha senso una teoria che vede la natura come modello da imitare. In questo caso, infatti, l’artista si porrebbe in una condizione puramente passiva, mentre, al contrario, l’arte è forza autonoma creativa al pari della natura. Anche per Wackenroder, (per il quale va sottolineata la concezione dell’arte direttamente connessa con l’ispirazione religiosa) il legame tra arte e natura non è costituito dal principio di imitazione, ma dal fatto che entrambe sono forze attive, generatrici. La lingua delle parole è un gran dono del cielo, e un beneficio eterno che concesse a noi il creatore quando disciolse la lingua al primo uomo, affinché potesse chiamare per nome tutte le cose che l’Altissimo gli aveva posto intorno e anche tutte le immagini spirituali da Lui messe nella sua anima, e insieme potesse esercitare la mente nei giuochi più svariati con questa grande ricchezza di nomi. Per mezzo delle parole noi dominiamo tutto il mondo; per mezzo di esse ci procuriamo, con leggera fatica, tutti i tesori della terra. Soltanto l'invisibile, che aleggia sopra di noi, le parole non sono capaci di tirarlo giù, nell'animo nostro. Le cose terrestri le abbiamo in mano se ne pronunziamo il nome; ma quando sentiamo nominare la bontà infinita di Dio e le virtù dei santi, che pure dovrebbero colpire tutto il nostro essere, ecco che l'orecchio è riempito di un rumore vuoto e lo spirito non è così alto come sarebbe necessario. Ma io conosco due lingue meravigliose, con le quali il Creatore ha dato all'uomo di afferrare e comprendere in tutta la loro potenza le cose celesti, comprenderle, cioè (per non parlare da temerari) nei limiti concessi a creature mortali. Queste due lingue arrivano alla nostra anima per un cammino completamente diverso da quello delle parole; esse mettono in movimento, a un tratto e in una maniera meravigliosa, tutto il nostro essere, sicché penetrano in ogni nervo e in ogni goccia di sangue che ci appartiene. Una di queste due meravigliose lingue la parla soltanto Dio; l'altra la parlano solo pochi uomini privilegiati, che egli ha consacrato come suoi prediletti. Intendo dire: la natura e l'arte. [….] L'arte rappresenta per noi la più alta perfezione umana. La natura, e cioè quanto di essa vede un occhio mortale, somiglia ai responsi frammentari che, come da un oracolo, sono usciti dalla bocca di Dio. E se non fosse temerario parlare di simili cose, si potrebbe forse dire che Dio guarda alla natura o all'intero mondo in una maniera uguale a quella con cui noi guardiamo un'opera d'arte. Sul piano della concreta attuazione artistica «Il compito dell’artista non consiste nella fedele 11 F.W.J. SCHELLING, Le arti figurative e la natura, Aesthetica, Palermo 2003, pag. 34-35. rappresentazione del cielo, dell’acqua, delle rocce, degli alberi; sono la sua anima e la sua sensibilità a doversi rispecchiare nella natura» (S. Hinze). Come si vede, l’artista agisce in stretto rapporto con la natura, ma se la sua anima si deve rispecchiare nella natura si potrebbe pensare che in qualche modo agisca ancora il principio di imitazione, in particolare quando Schelling afferma che l’artista deve prendere a modello «lo spirito della natura che opera all’interno delle cose». Ma i Romantici, nella loro avversione al principio dell’imitazione, fanno leva sul fatto che il legame con la natura non è più un rapporto di dipendenza, dal momento che l’artista deve essere attivo e creativo come la natura stessa. Il distacco da un rapporto di dipendenza è già evidente quando si insiste sul fatto che la natura, non la natura naturata ma la natura naturans, è caratterizzata da una attività creatrice come quella dell’attività artistica e che l’arte è autonomamente creatrice come la natura. Caspar David Friedrich. C.D. Friedrich (1770-1840) incarna compiutamente lo spirito delle teorie estetiche dei primi romantici. Egli cerca di rappresentare nelle sue opere la dialettica del determinato e dell’indeterminato, del visibile e dell’invisibile, dell’assenza e della presenza. In questa dinamica del confronto eterno – contingente, l’uomo vive un insanabile dissidio. In quanto spirito l’uomo è vicino a Dio e per questo dovrebbe rivelarne la presenza nella natura muta, ma «l’uomo è anche materia, corpo, buia opacità in cui tutto può affondare: la voce della natura e la voce di Dio» (F. Rella). F. inoltre realizza nella pittura quello spostamento dell’atto estetico che è uno dei capisaldi fondamenti dell’estetica romantica. il pittore – afferma F. – non deve soltanto dipingere ciò che vede davanti a sé, ma anche ciò che vede in sé».E ancora Friedrich invita ad ascoltare «la voce della natura che è in noi». I paesaggi dei dipinti di Friedrich sono contemplazioni della vita interiore, espressione di una tensione del soggetto verso una dimensione che va oltre il visibile. «Nella su arte la vista dell’infinito, dell’aria o del mare, provoca una senso di profonda malinconia. I limiti segnati dalle montagne, dagli alberi, dalle rocce e dagli oggetti vicini hanno la capacità di risvegliare nell’animo desideri occulti di trascendenza» (A. de Paz). La sua pittura è caratterizzata da una forte componente mistica e religiosa. Friedrich cerca di varcare la soglia del visibile esaltando il mistero che promana dalle cose vicine e comuni. «Solo un’impercettibile forzatura prospettica, nell’estensione eccessiva del campo visivo, avverte che la leggibilità e la chiarezza sono connotazioni illusorie e apparenti» 12 (A. Ottavi Carina). Friedrich è romantico nel senso indicato da Novalis: «Nel conferire al comune un alto significato - al quotidiano un aspetto misterioso, a ciò che è conosciuto l’attrazione dell’ignoto, al finito la parvenza dell’infinito – lo rendo romantico». In questa tensione verso l’infinito, come abbiamo accennato, emerge però anche il contrasto tra i limiti dell’umano e un infinito che sembra inaccessibile o che tende a identificarsi con il Nulla. È forse questo dualismo e questa minaccia del Nulla la fonte di quel senso di malinconia o addirittura di angoscia che suscitano certi dipinti. Da una parte Dio o l’infinito, dall’altra l’uomo che nonostante i suoi sforzi di penetrare l’enigma del mondo è condizionato dai suoi limiti ad esaurire il suo slancio mistico in una inappagata nostalgia dell’eterno13. 12 13 A. Ottavi Carina, Paesaggio come stato d’animo. Pittura europea fra Sette e Ottocento, cit. pag. 55. Queste considerazioni non mettono comunque in discussione il convinto spirito religioso di Friedrich. Si pensi alla Croce in montagna. Anche qui, tuttavia, l’incontro divino-umano è è pervaso da una tensione drammatica. «Il quadro appare come uno “sguardo fisso” proprio come voleva l’autore. Esso è un istante raggelato e ricolmo di senso: quell’istante singolare che precede la caduta della notte e dove si rappresenta il “dramma” del determinato e indeterminato, il momento in cui la natura, il mondo stesso è di fronte all’inaccessibile divinità, nascosta e tuttavia presente e dove l’antinomia, fonte di ogni nostalgia, è sovrastata dalla presenza simbolica della croce» (A. De Paz). «Fu in particolare nella costruzione dei paesaggi caratterizzati da uno stile ricco di contrasti, dipinti tra fra il 1806 e il 1816, che si espresse un dualismo corrispondente alla sua visione religiosa del mondo. Questo dualismo si manifestò tramite l’evidente antagonismo fra un primo piano spesso oscuro, disegnato con esattezza e un piano lontano, impossibile da raggiungere. […]. A una zona in primo piano spesso animata da figure e in cui l’osservatore può agevolmente figurarsi l’ingresso, fa immediatamente seguito lo sfondo, per lo più nettamente separato da quella, sì da apparire lontano e irraggiungibile. In esso chi voglia stabilire delle misure non riesce a orientare lo sguardo, per cui questa zona si presenta come una visione, come la meta di un anelito nostalgico o anche l’oggetto di una recondita paura. Tale suddivisione dello spazio in due settori qualitativamente diversi, cui corrispondono due diversi modi di intendere e di vedere il paesaggio, appare chiaramente nel Monaco sulla spiaggia…»14. In questo quadro il monaco solitario che si tiene la testa, in muta contemplazione, sembra quasi schiacciato dagli elementi della natura. «La linea d’orizzonte continua posta al di sotto del personaggio, evoca, con forza accresciuta l’infinità della natura e i limiti della piccolezza dell’uomo nel suo ambito. Nella contrapposizione tra la minuscola figura umana e lo sconfinato paesaggio marino si esprime una sorta di dialettica degli estremi, caratteristica di una singolare ed embrionale esperienza del sublime. […] l’acuto contrasto fra vicinanza e lontananza, fra dimensione terrena e spirituale è reso soprattutto attraverso un drastico rifiuto dei sistemi prospettici tradizionali e pone l’osservatore al limite di un mondo nebbioso e sconfinato che sembra, al contempo, altrettanto chiuso dalla superficie del quadro stesso e altrettanto distante dalle regioni dell’aldilà. «Nello spazio senza confini “osservato da un occhio cui siano state asportate le palpebre “ (la frase famosa è di Heinrich Von Kleist), l’immagine si carica di tensione e di attesa, invitando a un viaggio oltre la solgia del vero. La natura splancata e frontale come si presenta nei dipinti di Friedrich, diventa il punto di irradiazione di significti ad altissimo potenziale emotivo, che la ragione non può più intercettare».15 Nella sua rigorosa struttura formale Il monaco sulla spiaggia sembra essere omologo, filosoficamente, all’esperienza esistenziale dell’alienazione e a quello stato di sospensione tra “essere” e “non essere”; da un punto di vista strettamente artistico può essere avvicinato, anche se non identificato, alla ricerca di molti artisti moderni – in una linea che da Turner arriva fino a Rohtko (nel XX secolo) – i quali oltrepassando i confini del mondo materiale, tentarono (secondo prospettive nel contempo analoghe e differenti) di tematizzare i misteri naturali e spirituali attraverso l’intermediazione strutturale del colore atmosferico. Nel Monaco sulla spiaggia le dimensioni spaziali, non limitate dai contorni del quadro si estendono all’infinito: [….]. Il monaco, la cui figura determina le relazioni di grandezza, vive in una sorta di irraggiungibile lontananza, cosicché tra lui e noi (che guardiamo il quadro) non esiste alcuna possibilità di avvicinamento e lo sguardo rivolto verso di lui passa sopra un abisso invisibile. Tutti gli elementi contribuiscono così a fare di questo dipinto una sorta d’immagine da monologo, un possente simbolo della solitudine dell’essere umano, dell’ “uomo abbandonato” che non vuole più affermarsi in una relazione di dominio nei confronti della natura e che non partecipa più al suo divenire, ma ne resta soltanto ai margini come spettatore».16 L’impressione suscitata dal quadro è quella di un vuoto impressionante e inquietante. L’uomo appare come un minuscolo essere perso nell’incommensurabile immensità del cosmo. «Tuttavia – afferma De Paz – per quanto piccolo, è presente e contempla e divide i fremiti dell’anima e del mondo; e quest’uomo è assorto in una specie di sogno profondo nel quale gli giungono, colmi di profezie, i messaggi provenienti dalla natura». Questo personaggio quasi annientato dall’infinità del cosmo può essere inteso come un santo o un nichilista. De Paz a questo proposito cita le parole del filosofo Karl Jaspers: da un lato è un essere che «vive in vera disperazione, senza speranza. Nulla esiste più, tutto è pura illusione, tutto è 14 15 16 A.De Paz, Il Romanticismo e la pittura. Natura, simbolo, storia, Liguori, Napoli 1992, pagg. 96- 97. A. Ottani Cavina, Paaesaggio come stato d’animo. Pittura europea fra Sette e Ottocento, in Romanticismo A.De Paz, Il Romanticismo e la pittura, cit. pagg. 104 – 105. pura mistificazione. Tutti gli uomini sono morti. Il mondo non è più»; dall’altro come un santo che mantiene il punto d’appoggio «nell’infinito come assoluto, assoluto che ha nome Dio». Questa ambiguità si manifesta anche nel Mattino sul Riesengebirge in cui in un paesaggio sconfinato privo di segni di vita su un picco scosceso e frastagliato si erge in lontananza la croce di Cristo17. La croce è simbolo della divinità che prende dimora tra gli uomini e che li salva, eppure è sperduta e isolata in una natura sconfinata e vuota, non è posta in primo piano a testimoniare la centralità di un evento che riscatta l’uomo e dà un senso alla sua storia: essa sovrasta una desolata distesa di alture che sembrano alludere ad un cosmo deserto. Per usare le parole di Leopardi nel finale del Cantico del gallo silvestre, «un silenzio nudo e una quiete altissima» empiono «lo spazio immenso». Si è quasi tentati, di fronte a questo quadro, di richiamare l’immagine di un universo senza Dio evocata nel testo di Jean Paul Richter Dall’alto dell’edificio del mondo, il Cristo morto proclama che Dio non esiste. La croce di Cristo è immersa in un paesaggio che sembra quello di una morte cosmica, in quell’universo in cui Cristo scopre che Non c’è alcun Dio. Il seguente passo di Carus allievo di Friedrich, che si può dire che tematizzi il sentimento dal quale era animato il suo maestro, sembra escludere però l’interpretazione in senso nichilistico: «Quali sentimenti si impadroniscono di te quando, salendo in cima delle montagne, contempli dall’alto la lunga serie delle colline, il corso dei fiumi e lo spettacolo glorioso che si apre davanti a te? Ti raccogli nel silenzio, ti perdi nell’infinito dello spazio, senti la limpida calma e la purezza invadere il tuo essere e dimentichi il tuo Io. Tu non sei nulla, Dio è tutto». Ma, come abbiamo detto, il quadro insinua il dubbio che il confine tra Dio è tutto e Dio è il nulla non è in realtà netto. Il simbolo della finestra Nei quadri di Friedrich merita particolare attenzione un «elemento che non appartiene al paesaggio, ma è essenziale per comprendere il rapporto tra il mondo interiore e il mondo esterno, tra la soggettività e la natura, tra lo spazio umano e lo spazio che sta fuori del soggetto. Si tratta della finestra18 «Le finestre romantiche si delineano così come l’occhio dell’anima umana, richiamo all’apertura infinita, ma, nello stesso tempo, frontiera generatrice di una singolare nostalgia delle lontananze irraggiungibili. Le finestre che ossessionano l’opera di Friedrich, costituiscono le metafore della vita umana limitata, di un Io vuoto e separato dalla natura» (A. De Paz). Ne La donna alla finestra (1818) la donna di spalle affacciata a una finestra socchiusa pare non guardare, come osserva Givone, in nessun luogo. «Propriamente oggetto della rappresentazione non è ciò che si vede, bensì ciò che non si vede: è un guardare puntato nel vuoto e simultaneamente introflesso fino al grado zero (o macchia o punto cieco) della visibilità. Vale a dire: oggetto della rappresentazione è l’irrappresentabile. Ed è precisamente la rappresentazione di questa impossibilità di rappresentare che diffonde sul quadro un’aria di profonda malinconia. Dalla rappresentazione dell’irrappresentabile alla fine della rappresentazione il passo è breve – e sarebbe tutt’altro che 17 18 Leggiamo la descrizione che ne Flavio, Caroli: «Quando sorge il Mattino sul Riesengebirge (1810-1811), i cucuzzoli delle montagne sono increspati e folti come il mare. Una luce gialla extraterrestre proviene da regioni siderali, rendendo fosforescenti le nebbie, pettinando i dorsi di roccia, squamando un paesaggio bruciato di umidità, e disegnando, isolato, il costone roccioso con il simbolo della passione di Cristo. Nella storia della pittura questo è un quadro nuovissimo, sconvolgente. Un artista antico avrebbe scelto un motivo equilibrato e scenografico […] per delimitare lo spazio e le convergenti pareti prospettiche. Friedrich ritaglia la scena (“fotograficamente”, perché no?) cos’ com’è. Non si sforza di vincere le regole prospettiche perché lo spazio così com’è non ha prospettiva, la prospettiva essendo una convenzione, mentre lo spazio ha tre, quattro, o più dimensioni. Non deve neppure ricorrere ai gorghi di materia turneriani […]. L’infinito, il senso dell’infinità, è già squadernato davanti al suo occhio incredibilmente moderno. Non c’è che rappresentarlo con metodica esaltazione. La rappresentazione è di per sé illimitata e spaventosa. E quanto al Cristo crocefisso, un pittore antico non l’avrebbe visto sperduto tra i monti: l’avrebbe avuto alle spalle come portatore di certezza e verità. Questo disperato simbolo, intercessore fra il cielo e la terra, è un wishful thinking [un pio desiderio], come direbbero gli inglesi, e un’invocazione. È il punto di distacco fra le garantite protezioni dell’uomo moderno e la solitudine dell’uomo contemporaneo» F, Carioli, La pittura contemporanea. Dal Romanticismo alla pop art, Electa, Milano 2001, pagg. 18-19. «La finestra, dall’inizio, nella storia delle rappresentazioni visive, fino a Hopper, fino ai giorni nostri, è sempre stata il simbolo di una scissione tra il fuori e il dentro: del doppio sguardo, il nostro, che guarda il mondo, e quello delle cose che ci riguardano, che restituiscono il nostro sguardo. E lo sguardo della natura è uno sguardo terribile, perché la “natura ama nascondersi”, perché mai potremo penetrare a fondo i suoi segreti» (F. Rella). ingiustificabile tracciare la parabola della pittura contemporanea verso l’astrattismo muovendo dai romantici (e non solo da Turner, come ormai sembra ovvio, ma anche da Friedrich)»19 Anche Un uomo e una donna davanti alla luna (1830-1835) contiene la forma della finestra. La cornice è costituita dai contorni di una quercia e di un pino (la quercia è simbolo del mondo pagano destinato alla morte mentre il pino è il simbolo del cristianesimo che porta la vita eterna) Il naufragio Ne Il mare di ghiaccio - 1824 - (col sottotitolo Il naufragio della speranza) Friedrich tratta uno dei temi di maggior rilievo nella pittura dell’età romantica, il naufragio che è il simbolo della condizione dell’uomo in balia di un destino avverso. Il quadro rappresenta una un iceberg spezzato che ha inghiottito una nave, di cui si intravedono soltanto i resti. Sullo sfondo si vede, in una lontananza irraggiungibile, un’alta montagna di ghiaccio. Il “paesaggio glaciale” del dipinto – dice A. De Paz – può essere interpretato secondo tre direzioni simboliche: 1) nella prospettiva della “psicologia archetipica” è possibile considerare il ghiaccio come elemento fondamentale di una regione del “mondo infero”, simbolo di psicopatia, di paranoia, di catatonia e quindi come simbolo del frantumarsi di un armonico rapporto intersoggettivo, in stretta connessione con una crisi individuale e storica, epocale. 2) in una direzione religiosa, i blocchi di ghiaccio che si ergono possono simboleggiare la divinità, mentre i resti della nave la fragilità dell’uomo e l’impossibilità di raggiungere l’essenza divina. Il dipinto – “una grande e terribile tragedia” secondo le parole dello scultore David d’Angers – rappresenterebbe così l’ultima tappa della “navigatio vitae” [navigazione della vita]; da un punto di vista storico-sociologico il “mare di ghiaccio” può alludere al torpore glaciale che caratterizzava la situazione tedesca all’epoca di Metternich. La nave simbolizzerebbe così il feretro dell’idea di libertà» (A. De Paz). - A, De Paz osserva che se accostiamo quest’opera a quelle in cui è trattato il medesimo tema da altri due artisti dell’epoca (Turner e Gericault), si notano sostanziali differenze. Ne Il naufragio (1805) Turner mostra una scena di estrema drammaticità: i naufraghi sulle barche di salvataggio cercano di salvarsi dalla violenza delle onde, Friedrich invece dipinge la conclusione immobile in cui alcuni resti della nave sono stretti tra enormi lastroni di ghiaccio. In Turner il “paesaggio” ha la funzione che ha avuto tradizionalmente nella pittura, è lo sfondo lo scenario di un dramma in cui i protagonisti sono gli uomini. Il vortice formato dalle onde e dalle barche serve a mettere in risalto la condizione disperata dei naufraghi. «In Friedrich è lo strato di ghiaccio piramidale – massiccio e inflessibile – ad essere il centro del quadro. Per trovare qualcosa di strutturalmente simile è, per così dire, necessario riferirsi ad un’altra contemporanea rappresentazione di naufragio, questa volta francese, La zattera della Medusa (1819) di Gericault, dipinto in cui il senso di monumentalità risulta analogo a quello del quadro di Friedrich. Il dipinto di Friedrich ha in comune, mutatis mutandis, con La zattera della Medusa, un’affine prospettiva eticopolitica e, cioè, la rovina dell’uomo a contatto con la potenza superiore e ostile delle forze della natura e della società, Tuttavia, queste analogie non possono far sottacere le differenze nel senso che mentre Gericault trasforma, all’ultimo momento, il dramma in parziale salvezza, Friedrich giunge alla catastrofe estrema» . De Paz confronta la struttura dei quadri di Gericault e di Friedrich. Ambedue hanno una struttura piramidale: «Gericault fa culminare la propria composizione piramidale con il braccio proteso verso l’alto (il braccio di un uomo di colore la cui presenza ha indubbiamente un significato simbolico – sociale) indicante l’imbarcazione della presunta salvezza appena scorta in lontananza, Friedrich rappresenta l’estremità della piramide compositiva con una punta di ghiaccio come elemento cardine dell’opera. Essa è eretta come fosse un monumento alla forza della natura a cui stanno di fronte, nella parte destra, i resti della nave distrutta e sepolta dal ghiaccio. Attraverso quest’opera 19 S. Givone, Rappresentazione della fine e fine della rappresentazione, ibid. pag. 314. l’artista ha voluto così esprimere non un’astratta allegoria del pensiero, bensì rappresentare una catastrofe in cui la natura viene caratterizzata come simbolo di un’inevitabile forza destinale. Nel quadro di Friedrich la morsa soffocante degli elementi tiene prigioniero l’essere umano ineluttabilmente». Si potrebbe tuttavia osservare che nel quadro la forza della natura si presenta con un aspetto particolare e che contiene in sé i segni di un autoannientamento. È indubbio il motivo dell’onnipotenza della natura causa della catastrofe che ha annientato l’uomo, scomparso dalla scena e inghiottito dal mare insieme a tutta la nave, vittima della forza della natura. Ma, come s’è detto, questa onnipotenza è rappresentata con dei tratti che fanno pensare ad una natura che ha perso la sua vitalità, una natura che a sua volta è prossima a disgregarsi, a crollare su stessa e ad essere inghiottita nel nulla. Perché non si potrebbe interpretare quella struttura piramidale come l’equivalente di un’imbarcazione in sfacelo e in una prospettiva ancora più drammatica di ciò che resta delle guglie gotiche quando all’uomo si presenta lo spettro del nulla?. Per comprendere meglio questa ipotesi di interpretazione torniamo ai quadri di Tarner e Gericault. Qui, come si è visto, la natura ha il volto della violenza distruttiva, ma questa forza testimonia anche la sua vitalità e la sua energia. Da una parte quindi l’energia che si sprigiona dalle forze della natura, dall’altra il ghiaccio (o lastre rocciose frastagliate che spuntano dal ghiaccio), massa immobile in un mondo privo di vita. A ciò si aggiunga anche la valenza simbolica di quelle lastre informi, quasi lastre tombali, disordinatamente ammucchiate, che richiamano una sorta di caos primordiale non però aperto alla vita. Il quadro, quindi, non è solo espressione dell’annientamento dell’uomo ma anche del suo mondo, ridotto ad un ammasso di blocchi e lastre, fissato in una gelida immobilità senza tempo. «Il Naufragio della speranza (Il mare di ghiaccio) di Friedrich, la Tempesta, o La zattera della Medusa di Géricault, le remote apocalissi nei cieli di Turner rappresentano forse il naufragio del Romanticismo? – si chiede Rella – Rappresentano un volgersi, nuovamente, verso il regno tenebroso della notte, degli incubi, della solitudine senza speranza di El perro di Goya? E Vigny non ha visto, ancora una volta, nella natura il diavolo? E Delacroix non ha trasformato il “tocco dell’amore” che doveva suscitare il mondo dal caos, nell’orrido baccanale di Sardanapalo sull’orlo della morte?» Concludiamo questo excursus nella pittura di Friedrich con una considerazione di carattere generale di A. De Paz nella quale si indicano le direttive si sviluppo nel 900 della pittura romantica tedesca.: «La riabilitazione del sentimento e dell’immaginazione creatrice, nonché il risveglio di una nuova religiosità alleata all’intuizione dell’infinito, non sono forse separabili da quella “perdita” dell’equilibrio che Hans Sedlmayr (1948) chiamò Verlust der mitte, “perdita del centro”, incarnata dalla Rivoluzione francese dal punto di vista politico e religioso e dalla rivoluzione kantiana e fichtiana dal punto di vista filosofico. L’arte romantica non è stata solo l’arte dell’infinito, dell’esperienza metafisica, della solitudine tragica dell’essere e della ricerca nostalgica di un ideale inaccessibile; è stata altresì, un’arte che ha spostato il senso stesso dell’arte. La pittura romantica tedesca può essere considerata come la prima manifestazione teologica dell’arte moderna, un’arte che da Runge a Friedrich a Van Gogh, da Kandinskij a Klee, e da Mondrian a Rothko, ci pone in contatto con un pensiero e una sensibilità teologico-filosofici che da Schleiermacher giungono fino a Karl Barth. Dal Romanticismo all’arte contemporanea troviamo così una sorta di filiazione spirituale per molti aspetti identica in una ricerca fatta di angoscia e dello stesso sentimento mistico e che fa della pittura un luogo di un’autentica e profonda esperienza spirituale» (De Paz,). IL REALISMO E LA PITTURA DI G. COURBET La svolta romantica ha messo in crisi il principio dell’imitazione come adeguamento ai canoni della classicità. Liquidato questo principio, in seguito il problema della mimesis si è ripresentato (ma con problematiche diverse rispetto al passato) nel “realismo” ottocentesco, le cui premesse si possono rintracciare nella rivoluzione romantica. In altre parole «la nascita di una coscienza storicista e la lotta contro le regole stilistiche del classicismo hanno posto le premesse indispensabili per la maturazione del moderno realismo ottocentesco» (Bertoni) Prima di analizzare le basi teoriche del realismo ottocentesco soffermiamoci sulla nozione di realismo in generale. Il termine “realismo” deriva da reale ‘che esiste in sé e per sé, quindi realismo è strettamente legato al concetto di realtà. Nel suo significato proprio e specifico il termine designa il modo d’essere delle cose in quanto esistono fuori dalla mente umana e indipendentemente da essa. La parola realitas (da cui realtà) risale al latino res “cosa” e fu coniata nella tarda filosofia scolastica da Duns Scoto (che la usò però per definire l’individualità). Nella filosofia più recente il problema della realtà ha cessato quasi del tutto di essere il problema dell’ “esistenza” delle cose per diventare, sempre più esclusivamente, il problema del modo d’essere delle cose (Abbagnano). Nella critica e nella storiografia sia artistica sia letteraria “realismo” è usato in due sensi: 1) in senso generale o inteso come un a caratteristica universale di certa produzione artistica che può essere presente dagli esordi della letteratura occidentale fino al postmoderno. È un modo universale di espressione artistica, che si caratterizza per un’assoluta fedeltà, veridicità, crudezza e lucidità nell’espressione che possiamo rintracciare da Omero su su fino ai nostri giorni e nella quale prevalgono gli aspetti più sgradevoli . 2) in senso storico riferito a un movimento artistico nel campo delle arti figurative e della letteratura circoscritto per lo più all’Ottocento. 1)In senso generale ‘realismo’ è una categoria storico-critica utilizzata per indicare la tendenza a fare dell’opera d’arte una rappresentazione oggettiva, imparziale, più o meno fedele della “realtà”. Questa sembrerebbe una definizione esauriente; invece è estremamente aleatoria proprio per i problemi che sorgono, quando si tratta di definire che cosa si intende per realtà. Federico Bertoni nella premessa a un recente fondamentale saggio intitolato “Realismo e letteratura. Una storia possibile” (Einaudi 2007) mette ben in luce l’ambiguità del termine: «Credo sia difficile trovare un concetto altrettanto noto e sfuggente, diffuso e frainteso, una di quelle tipiche cose che riconosciamo automaticamente ma di cui non sapremmo mai fornire una definizione univoca e condivisa». Il concetto di realtà (che può declinarsi in altre parole tipo, mondo, esperienza, verità, natura) è connesso con fondamentali problemi filosofici e può acquistare diversi significati secondo le diverse concezioni che si hanno di ciò che noi identifichiamo con questo termine. Realismo è da considerarsi pertanto «uno degli ‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla varietà dei fenomeni che pretende rubricare». Proprio per questa ambiguità e indefinitezza di contenuto della parola si dovrebbe rinunciare ad usare il termine “realismo”. Eppure, nonostante tutto, “realismo” sembra un termine al quale né la critica né l’uso corrente possono fare a meno. Tuttavia, malgrado le riserve, i sottili ‘distinguo’ e le precisazioni circa la sua inadeguatezza, il termine continua ad essere usato. Ricompare sempre riadattato e riconvertito in funzione di svariate espressioni artistiche e letterarie per indicare manifestazioni artistiche di vario genere. Bertoni cita il parere di alcuni critici: «il realismo, come la realtà, è multiplo ed evanescente» (N: Goodman),. Condizionato dal «sistema di rappresentazione corrente in una data cultura o persona, in un dato tempo»., è una nozione che «varia da cultura a cultura» (H. White) e che ha prodotto, nella critica moderna, una «enorme varietà di opinioni, spesso contraddittorie». Il problema riguarda non solo la produzione ma anche la ricezione delle opere. Spesso noi, con i nostri parametri culturali ed ideologici, interpretiamo come fantastica un’opera nata con intenti c’realistici’, Così una rappresentazione drammatica medievale in cui comparivano sulla scena diavoli e angeli era per gli spettatori del tempo ‘realistica’. Nel sistema di rappresentazioni della cultura del tempo i diavoli e gli angeli appartenevano a pieno diritto al mondo reale. Al contrario, nella nostra cultura diavoli angeli fanno parte dell’immaginario, perciò in base alle nostre distinzioni di reale e fantastico siamo portati a considerare un testo del genere tra le opere di fantasia. Leggiamo la definizione che apre la trattazione di questa voce dell’ “Enciclopedia filosofica” edita dall’Istituto per la collaborazione culturale di Venezia (vol.III s.v.): realtà designa in senso stretto ogni oggetto di esperienza; in senso lato, tutto ciò che esiste o può esistere. [...] Nel linguaggio comune il termine realtà può conservare il significato ristretto, ma può estendere il suo significato al punto di abbracciare qualsiasi oggetto che si possa comunque pensare e sia quindi intrinsecamente intelligibile, a cui si possa attribuire in significato esistenziale, o anche soltanto logico, il predicato “è”, e coincide sostanzialmente con i concetto di essere o ente È quella che percepiamo con nostri sensi, quella che di cui facciamo esperienza quotidiana dotata di una consistenza oggettiva (ossia che esiste indipendentemente dalle alle percezione che ne abbiamo)? Oppure riteniamo che ciò che noi percepiamo sia solo un aspetto di un mondo più complesso? Il concetto di realtà (e di conseguenza di realismo) è soggetto a continui assestamenti e ridefinizioni. Si può parlare di una realtà fisica, biologica, ambientale, sociale, ma anche di una realtà interiore. Detto questo, si può cercare di delineare i confini del “concetto” di realtà istituendo delle opposizioni: realtà – apparenza /illusione; realtà – fantasia; realtà – idealità, realtà – possibilità. . Ma anche qui ci si trova a dover definire che cosa si intende per i termini ai quali è contrapposta, ad esempio apparenza e idealità. Per avere un’idea di questa possibile estensione di significato, può essere illuminante l’esempio citato da Linda Noclin in un saggio sul realismo nella pittura europea del XIX secolo scritto nel 197020 e tradotto in Italiano nel 1979 dalla casa editrice Einaudi. «Una causa primaria della confusione che circonda la nozione di realismo è il suo ambiguo rapporto con un concetto quanto mai problematico di realtà. Ad esempio, presso il Museum of Moderne Art di New York e la Tate Gallery di Londra si è tenuta qualche anno fa una mostra intitolata L’arte del reale, in cui non erano esposte – come un profano si sarebbe potuto aspettare – raffigurazioni ben riconoscibili di persone, oggetti e luoghi, ma grandi tele dipinte a strisce o a macchie e gigantesche strutture d compensato, plastica o metallo. Tuttavia il titolo scelto dagli organizzatori della mostra non era né capriccioso né volutamente mistificatorio: si trattava di una manifestazione attuale di quell’antica tradizione filosofica – appartenente fin dal tempo di Platone alla linea maestra del 20 L. NOCHLIN , Il realismo nella pittura europea del XIX secolo, Einaudi Torino 20033 , pag. 3-4. pensiero occidentale – che contrappone la “vera realtà” alla “mera apparenza”. “Tutte le cose hanno due aspetti, - affermava il teologo cinquecentesco Sebastiam Frank, - perché Dio volle contrapporre se stesso al mondo, lasciando a quest’ultimo le apparenze e riservando a sé la verità e l’essenza delle cose”. Abbiamo qui la formulazione al limite di un concetto che riappare di continuo nell’estetica del XVIII e XIX secolo. “La vera realtà trascende la sensazione immediata e gli oggetti che vediamo ogni giorno, - scrive Hegel. – Solo ciò che esiste in sé è reale. L’arte scava un abisso tra le parvenze e le illusioni di questo mondo basso ed effimero e il contenuto reale degli eventi, rivestendo questi eventi e fenomeni di una realtà superiore, generata dallo spirito....Lungi dall’essere semplici apparenze e illustrazioni della realtà ordinaria, le manifestazioni dell’arte hanno una realtà più elevata e un’esistenza più vera”». Il caso della mostra intitolata l’”arte del reale” documenta molto bene quanto sia difficile dare una risposta univoca a domande che «rimangono sostanzialmente aperte: che cos è il realismo? Qual è la sua natura? Quali sono i suoi tratti distintivi, le sue radici epistemologiche, i suoi presupposti teorici? Qual è il suo ruolo nella complessa interazione tra strategia autoriale, poetica, dato testuale, contesto, ricezione, giudizio critico ed estetico e i suoi presupposti teorici? Su quali criteri ci basiamo per stabilire se un testo è (o non è) realista, o addirittura per misurare il suo “grado di realismo”? Di fatto, sembra che l’unica via praticabile sia parafrasare un po’ goffamente Wittgenstein: “tutto dipende da ciò che tu intendi per ‘realismo’, che peraltro non è una risposta ma solo un modo per eludere la domanda» (Bertoni). Su una posizione antitetica a questa è l’idea che il realismo debba coincidere con l’imitazione perfetta della realtà Portata alle estreme conseguenze questa concezione finisce per essere la negazione dell’arte «Il paradosso supremo del realismo è che la sua perfetta realizzazione coincide con la negazione dell’opera d’arte» (Bertoni, pag. 96) Ne Il capolavoro sconosciuto di Balzac, Frenhofer sogna di far vivere l’immagine dipinta (un corpo femminile) come se fosse una cosa reale, calarla nella profondità dello spazio, avvolta nell’aria, staccata dalla superficie piatta della tela, come una statua attorno alla quale si può girare. «Quando Frenhofer pensa di aver concluso il suo capolavoro, si dibatte nel classico paradosso dell’imitazione perfetta, di un’arte talmente simile al vero da risolvere la somiglianza in identità, negandosi in quanto tale, sopprimendo il supporto e la materia stessa di cui è intessuta: “non è una tela, è una donna”» (Bertoni). IL REALISMO OTTOCENTESCO Passiamo ora ad esaminare il movimento artistico nel campo delle arti figurative e della letteratura in un circoscritto periodo storico, manifestatosi nella prima metà dell’Ottocento in Francia. Il termine realismo, che aveva già fatto la sua comparsa alla fine del Settecento usato in un senso piuttosto vago e fluido «tende lentamente a cristallizzarsi, giungendo a definire un periodo storico, una poetica e una precisa tendenza artistica. In questo contesto culturale, la poetica del realismo si basa su un presupposto che non è messo in discussione: la realtà è un fatto oggettivo al quale i soggetti si accostano in modo diverso. La realtà è un “dato” che gli uomini sperimentano nella loro vita individuale e sociale. Nel 1826, un giornalista del “Mercure français” osserva che questa dottrina letteraria, che guadagna terreno ogni giorno e che tende alla fedele imitazione non dei capolavori artistici ma degli originali offerti dalla natura, potrebbe benissimo essere chiamata realismo; sarà [...] la letteratura del XIX secolo, la letteratura del vero Bisogna però aspettare la metà del secolo perché l’uso si consolidi, incominciando ad alimentare la vis polemica, quella tendenza al dibattito e alla battaglia culturale che diventerà uno dei tratti tipici del realismo. Tra il 1845 e il 1850, il termine passò a significare la descrizione minuta degli usi e costumi contemporanei: nel 1846 Hippolyte Castille associa Balzac ad una “scuola realista”, e nello stesso tempo “realismo” viene usato diffusamente da Arsène Houssaye in un suo libro sulla storia della pittura fiamminga e olandese (Welleck) Non è un caso, ma è anzi altamente sintomatico che il primo assestamento del significato coincida con una sua espansione, con la biforcazione sul doppio versante della letteratura e della pittura, che d’ora in poi, e proprio sotto la bandiera del realismo, vedranno moltiplicarsi le occasioni di incontro, interferenza, contaminazione reciproca. I primi anni Cinquanta in Francia, sono gli anni dello scandalo e della polemica scatenata dai quadri di Gustave Courbet, il pittore del reale, il rivoluzionario, l’eversore dei canoni accademici che tuttavia si lamentava – come avrebbe fatto Flaubert –di un appellativo di “realista” che gli era stato “imposto, come quello di ‘romantici’ agli artisti del 1830”(Wellek). Qui, in effetti, le date tendono a ravvicinarsi, a riprova della crescente fortuna di un termine ormai d’uso comune. Nel 1855, all’ingresso di una mostra di Courbet, campeggia l’insegna “Pavillon du Réalisme”. Nel dicembre dello stesso anno, sulla rivista “L’Artiste”, esce il manifesto di Fernand Desnoyers intitolato Du Rèalisme, che celebra l’avvento di una nuova poetica del reale contro le falsificazioni del romanticismo. Un sostenitore entusiasta di Courbet, il romanziere Champfleury, pubblica nel 1857 una raccolta di saggi intitolata Le Rèalisme, mentre il suo amico Edmond Duranty fonda la rivista “Rèalisme”, destinata a una breve vita tra il novembre 1856 e il maggio 1857. E sempre nel 1857, in un’aula del Tribunale di Parigi, si celebra il processo contro uno dei massimi capolavori del realismo europeo, Madame Bovary, accusato, perfino nella sentenza di assoluzione, di mirare a un “realismo che sarebbe la negazione del bello e del buono” Il realismo si pone in antitesi agli esiti di un filone romantico in cui predominano l’immaginazione, il sogno, il patetismo e il sentimentalismo lacrimoso, le astratte fantasie. Scrittori francesi attivi negli anni Cinquanta (Champfleury, Duranty, Thulié, Desnoyers) pur rifiutandosi di considerarsi una scuola o un movimento utilizzano «consapevolmente il termine réalisme come marcatore estetico, come tratto distintivo di una poetica che proclama “l’inferiorità della forma e la potenza dell’idea”, che mira alla “riproduzione esatta, completa, sincera dell’ambiente sociale, dell’epoca in cui viviamo” (Bertoni). Essi riconoscono il loro nume tutelare in Balzac che nei suoi romanzi è un formidabile osservatore della storia e della società francese. Balzac dimostra di avere «la consapevolezza di chi ha maturato un nuovo senso della storia alla luce dello storicismo romantico e che ora ne fa la base metodologica per “comporre lo sterminato quadro “ del XIX secolo, per “tratteggiare l’immensa fisionomia di un secolo ritraendone i personaggi principali”» (Bertoni). Nella Commedia umana Balzac si propone di descrivere la società per intero, una società vista sotto tutti i suoi aspetti, colta in tutte le sue fasi.» (Bertone). Bisogna però precisare che se da una parte il realismo identificava il romanticismo con la componente sentimentale e patetica, di fatto però non faceva che accogliere e sviluppare motivi e tematiche nate nel movimento romantico, come la storicizzazione dell’arte e il superamento del principio di imitazione che vincolava l’autore all’obbedienza di canoni prefissati. In particolare, come abbiamo già detto a proposito del ruolo dell’artista, il processo di storicizzazione dei romantici ha determinato sviluppi su due versanti: quello oggettivo e quello soggettivo, che coinvolge l’autore dell’opera. Sul versante oggettivo, l’ormai acquisita consapevolezza della stretta interrelazione tra prodotto artistico e condizioni storiche, favorirà il sorgere di orientamenti di poetica e di estetica volti a privilegiare un’arte calata nella realtà del presente e, con il diffondersi della sensibilità per le tematiche sociali, di un’arte di denuncia sociale con l’intento di dare un contributo sostanziale a processi di riscatto e progresso sociale. Sul versante soggettivo, la storicizzazione dell’arte e l’emancipazione dalle regole del classicismo aprono per l’artista il campo per nuove esperienze a partire dalla riflessione sulle condizioni individuali e fantastiche del suo operare ,che lo inducono a considerare sotto una luce nuova da una parte il rapporto tra invenzione soggettiva e opera, dall’altra il ruolo del soggetto creatore, nella realtà storica e sociale. . Inoltre, ad esempio in Francia, «il rilievo assegnato alla soggettività, vista non solo nella sua inquietudine e nei suoi tormenti, ma nei suoi slanci e nei suoi ardori, si adatta bene allo spirito degli innovatori; e la soggettività, quando è intesa nei suoi termini collettivi, converge facilmente con il senso di appartenenza, che ha fatto le sue prove durante la Rivoluzione, e con l’idea di popolo sovrano» (Ceccuti). I realisti affermano decisamente l’esigenza di contemporaneità: il giovane Manet sosteneva che «Bisogna appartenere al proprio tempo». Fu questo «il motto dei militanti realisti che si raccolsero attorno a Courbet, un presupposto di base per la corrente innovatrice di Manet e del gruppo di Batignolles negli anni sessanta settanta, uno stimolo per alcuni preraffaelliti e per molti sostenitori del realismo in Germania, in Italia, negli Stati uniti e altrove, e infine un punto di riferimento per i romanzieri francesi d’avanguardia come i Goncourt, Zola, Flaubert e Maupassant» (L. Nochlin) L’articolo citato del Mercure aveva come bersaglio polemico una nozione di arte (l’art pour l’art) svincolata da ogni rapporto con la società contemporanea.. Se da una parte il realismo propugnato nel Mercure reintroduce il concetto di imitazione, (imitazione della realtà e non di modelli) dall’altro ridefinisce nel rifiuto dell’art pour l’art il principio della storicità dell’arte, dell’artistica che si sente partecipe del mondo in cui storicamente vive . Per comprendere a fondo la natura del fenomeno del realismo, focalizzeremo l’attenzione sulla figura del pittore Courbet e al suo ruolo nel contesto storico e sociale della Francia tra il 1830 e il 1872. Nel 1830, Carlo X (il successore di Luigi XVIII dopo la Restaurazione) viene cacciato da un’insurrezione popolare. È nominato re di Francesi Luigi Filippo, uomo di idee liberali, che instaura una monarchia borghese. Sotto il suo regno la Francia conosce un periodo di considerevole sviluppo economico, ma le condizioni di vita delle classi subalterne si aggravano. La piccola borghesia e le masse popolari si alleano, e partecipano unite alla rivoluzione del 1848.Luigi Filippo fugge. I primi provvidenti in senso democratico del governo provvisorio, suscitano la reazione dei ceti moderati e conservatori. La paura del socialismo si diffonde per tutto il paese. I tentativi di rivolta organizzati dai rivoluzionari socialisti sono soffocati Si approva una nuova costituzione che prevede l’elezione a suffragio universale un presidente che dovrà durare in carica quattro anni. Nelle elezioni prevale sui candidati repubblicani Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone I, un personaggio che garantirà la restaurazione dell’ordine sociale. Luigi Bonaparte il 2 dicembre 1851con un colpo di stato, dopo la soppressione della libertà di stampa, l’arresto degli oppositori e lo scioglimento della guardia nazionale, si fa proclamare imperatore col nome di Napoleone III. L’imperatore si avvale senza scrupoli della fedeltà della polizia e ddell’esercito per soffocare ogni voce di opposizione e specialmente per proibire le associazioni operaie, colpevoli della rivoluzione del 1848. Il crollo del suo regime autoritario è segnato dalla sconfitta nella guerra contro la Prussia. Dopo la disfatta di Sedan (2 Settembre 1870) e l’occupazione della Francia delle truppe prussiane, un’insurrezione popolare a Parigi conduce alla proclamazione della Repubblica e a un governo di difesa nazionale. Prima della stipulazione di un trattato di capitolazione con la Prussia, un grande sommovimento rivoluzionario scuote il paese in una violenta esplosione nella quale sentimento patriottico e confuse aspirazioni socialistiche si fondono nella Comune (la municipalità) proclamata nel marzo 1871 a Parigi. Si tratta del primo governo operaio della storia: nel comitato centrale che assume la guida della lotta prevale il proletariato, diretto dai socialisti, che sembra voler porre in atto alcuni dei principi di Marx. Il governo della Comune deve saldare due obbiettivi antitetici diversi: la liberazione della Francia e l’instaurazione di uno stato a carattere socialistico. Il governo che risiede a Versailles organizza l’attacco a Parigi. Dopo due mesi d’assedio la città è presa. La repressione che segue la sconfitta della Comune è estremamente dura: circa 4000 condanne a morte e più di 7500 deportati in Nuova Caledonia. Gli anni attorno al 1848 decidono la sorte di artista di Courbet: «senza la rivoluzione di febbraio dichiara - forse non si sarebbe mai vista la mia pittura». In quel periodo matura in lui l’esigenza di essere un pittore del suo tempo. «Reputo gli artisti di un secolo radicalmente incompetenti a riprodurre le cose di un secolo precedente o futuro [...] L’arte storica è nella sua essenza contemporanea». In questo suo impegno l’artista persegue un realismo che elimina ogni diaframma tra la sua pittura e la realtà. Courbet si libera di ogni soggezione a modelli o canoni precostituiti. Egli si ritiene «figlio della natura» e afferma di aver avuto solo se stesso come maestro. «Courbet “partì come una bomba” attraverso le tendenze artistiche del suo tempo, attraverso il classicismo e il romanticismo e le varie teorie dell’arte. [....] «Sua regola fondamentale era il legame diretto con tutti gli aspetti della vita quotidiana. Volendo fare un elogio di Courbet, Castagnary dirà che già a venticinque anni “tra le cose e lui” non c’erano più “intermediari”. Quindi via la mitologia, via il quadro di storia, via l’esotismo, via i canoni convenzionali della bellezza [....] I suoi soggetti e il suo modo di rappresentarli erano fatti apposta per urtare i gusti della borghesia dell’Impero: la sua pittura era veramente un’arte laica, attuale e spregiudicata [.....] La qualità dell'artista sta tutta nella forza di percezione di una simile verità. Perché aggiungervi tanti sublimati idealismi, perché disporre le cose e i personaggi secondo una fantasia arbitraria, sovrapponendovi sogni, evocazioni, fantasmi? La sostanza del realismo courbettiano è proprio qui: in questo modo nuovo, “profano” di concepire l'arte: un modo senza trascendenze, senza risonanze mistiche o letterarie, senza allusioni a "altro”21. Inoltre Courbet lavorò per essere un uomo piuttosto che un pittore e combatté la battaglia del realismo convinto che il “realismo” fosse democrazia» (De Micheli). Courbet afferma, di essere «non solo socialista, ma prima ancora democratico e repubblicano, insomma sostenitore di tutta la rivoluzione e, soprattutto, un vero realista». In altre parole il vero realista non può non essere un democratico, oppure, visto in un altro modo, un democratico in arte non può che essere realista,un interprete delle istanze del popolo22. . Queste idee sull’arte rivelano un legame di fondo con alcuni capisaldi dell’estetica romantica: il rapporto arte – storia e arte – verità. Inoltre possiamo chiamare l’estetica romantica in causa per un altro carattere di Courbet, quando afferma di essere il maestro di se stesso. Egli esalta il ruolo del soggetto creatore che non tollera vincoli di sorta. Questa libertà espressiva si manifesta in un 21 «Per lui, insomma, la verità dell'oggetto è nell'oggetto, non altrove, come per i romantici e poi per i simbolisti. Ma per realizzare una simile pittura era necessario non cedere a alcuna divagazione, a nessuna "civetteria”, era necessaria una particolare potenza, quelle qualità che Baudelaire, parlando di lui, chiamava “solidità positiva”, “selvaggia e paziente volontà”, “amoroso cinismo”. Ma è proprio per tali qualità ch’era invece oltraggiata l'arte di Courbet, sia dagli epigoni del neoclassicismo sia dai difensori del romanticismo» (Micheli) 22 Nel 1850 scrive a Francis Wey: «il popolo gode le mie simpatie, devo rivolgermi a lui direttamente, ricavarne il mio sapere e deve essere lui a farmi vivere». E qualche anno dopo: «Per aiutare un movimento artistico, bisogna dare libero corso al genio popolare...» vitalismo istintivo che caratterizza molti suoi dipinti. Nessun artista ebbe più nemici di Courbet, anche perché le sue scelte democratiche e rivoluzionarie gli attirarono l'odio dei benpensanti, di ogni specie di filistei. Delle accuse e delle critiche malevole a Courbet dà testimonianza persino Zola, che essendosi recato, prima del '66, al suo studio, si trova davanti a dei quadri che non sono per nulla quelle “mostruosità” di cui si faceva tanto scrivere e parlare in giro. La pagina di Zola, caposcuola del romanzo naturalista, in polemica col libro che Proudhon, l’eloquente apostolo del socialismo, aveva dedicato a Courbet, è senz'altro da citare come una convincente interpretazione della sua concretezza espressiva. Di fronte alle tele di Courbet “fui stupito - scrive - e non trovai il più piccolo pretesto di riso nei suoi quadri così forti e severi, che mi avevano invece descritto come mostruosità. Mi aspettavo delle caricature, una fantasia dissennata e grottesca, ed ero al contrario dinanzi a una pittura larga e compatta, d'una esattezza e d'una freschezza estreme. I personaggi erano veri senza essere volgari; le carni, sode e modulate ad un tempo, vivevano potentemente; gli sfondi ariosi davano un sorprendente vigore alle figure. Il colore, un po’ sordo, aveva un'armonia quasi dolce, mentre la giustezza dei toni e l'ampiezza del mestiere stabilivano i piani e facevano sì che ogni particolare acquistasse uno strano rilievo. Chiudendo gli occhi, rivedo quelle tele energiche, di un sol blocco, costruite a calce e sabbia, reali come la vita e belle come la verità. Courbet è il solo pittore della nostra epoca, che appartiene alla famiglia dei modellatori di carne, e ha per fratelli, ch’egli lo voglia o no, Rembrandt e Tiziano” .» Questa citazione di Zola ci avvicina anche ad un altro protagonista dell’arte moderna, a Paul Cézanne, di cui Zola fu compagno d’infanzia e di giovinezza e col quale mantenne per anni una fitta corrispondenza. Siamo dunque alle soglie dell’impressionismo. Quanto l’impressionismo debba a Courbet non è difficile capire. Se si pensa che l’impressionismo ne continuò la disposizione al rapporto diretto con la natura e con la vita, rifiutando di mescolare alla pittura qualsiasi contaminazione letteraria e accettando le premesse di una “visione positivista” che in Courbet erano vivamente presenti e che i neoimpressionisti spingeranno addirittura fino verso forme di rigoroso scientismo(De Micheli) Leggiamo ora direttamente alcuni scritti dai quali possiamo ricavare la concezione dell’arte di Courbet. Signori e cari colleghi, Voi avete creduto bene di aprire uno studio di pittura allo scopo di potere liberamente continuare la vostra educazione artistica e vi è piaciuto di offrire a me la direzione. Prima di ogni altra risposta, bisogna che mi spieghi con voi su questa parola: direzione. Io non posso accettare che si discorra fra noi di professori e alunni. Devo spiegarvi ciò che ho avuto recentemente occasione di dire al congresso di Anversa: io non ho e non posso avere allievi. Siccome io credo che ogni artista debba essere il maestro di se stesso, così non posso pensare a fare il professore. Non posso insegnare la mia arte, né l'arte di una scuola qualsiasi, perché nego l'insegnamento dell'arte, o in altri termini sostengo che l'arte è tutta individuale e che, per ciascun artista, non è altro che il risultato della propria ispirazione e dei propri studi sulla tradizione. Aggiungo,che l'arte o il talento, secondo me, non dovrebbero essere per un artista che il mezzo per applicare le sue facoltà personali alle idee e alle cose dell'epoca in cui vive. In particolare, l'arte della pittura può consistere soltanto nella rappresentazione delle cose che l'artista può vedere e toccare. Ogni epoca può essere rappresentata solo dai propri artisti, voglio dire dagli artisti che in questa epoca sono vissuti. Ritengo gli artisti di un'epoca assolutamente incompetenti a rappresentare le cose di un secolo passato o futuro e cioè a dipingere il passato e l'avvenire. t in questo senso che nego la pittura di avvenimenti storici applicata al passato. La pittura storica è essenzialmente contemporanea. Ogni epoca deve avere i suoi artisti che la esprimono e la rappresentano per i posteri. Un'epoca che non ha saputo esprimersi per mezzo dei suoi artisti, non ha il diritto di essere espressa dagli artisti che vengono dopo. Sarebbe falsificare la storia. La storia di un'epoca finisce con l'epoca stessa e con quanti dei suoi rappresentanti l'hanno espressa. I tempi nuovi non possono aggiungere nulla all'espressione dei tempi più antichi né ingrandire o abbellire il passato. Ciò che è stato è stato. Lo spirito umano ha il dovere di lavorare sempre sul nuovo, sempre nel presente, partendo dai risultati acquisiti. Non bisogna mai ricominciare, ma procedere di sintesi in sintesi, di conclusione in conclusione. I veri artisti sono quelli che riprendono un'epoca giusto al punto in cui essa era stata condotta dai tempi precedenti. Andare indietro, è come non fare nulla, è agire in pura perdita: vuol dire non avere né compreso, né messo a profitto l'insegnamento del passato. Così si spiega che le scuole arcaiche di ogni specie si riducono sempre alle più inutili complicazioni. Sono anche del parere che la pittura è un'arte essenzialmente concreta e che può consistere soltanto nella rappresentazione delle cose reali e esistenti. È un linguaggio tutto fisico che ha per parole tutti gli oggetti visibili; un oggetto astratto, invisibile, che non esiste, non è di dominio della pittura. L'immaginazione in arte consiste nel sapere trovare l'espressione più completa di una cosa esistente, ma mai nel supporre questa cosa o nel crearla. Il bello è nella natura e si riscontra nella realtà sotto le forme più svariate. Tosto che lo si scopre in essa, il bello appartiene all'arte o piuttosto all'artista che sa vederlo. Dacché esso è reale e visibile ha in se stesso la sua espressione artistica. Ma i nostri accorgimenti figurativi non hanno il diritto di deformare questa espressione. Non possiamo modificarla che a rischio di snaturarla e quindi di indebolirla. Il bello dato dalla natura è superiore a tutte le convenzioni dell'artista. Il bello, come la verità, è legato al tempo in cui si vive e all'individuo che è in grado di percepirlo. L'espressione del bello è in ragione diretta della forza di percezione acquisita dall'artista. Ecco la sostanza delle mie idee in arte. Con delle simili idee, concepire il progetto di aprire una scuola per insegnarvi dei princípi convenzionali, vorrebbe dire ricadere nelle formule incomplete e banali che hanno ovunque diretto fin qui l'arte moderna. Non ci possono essere scuole: non ci sono che dei pittori. Le scuole servono soltanto a ricercare i procedimenti analitici dell'arte. Nessuna scuola può da, sola avviare alla sintesi. La pittura, se non vuole cadere –nell’astrazione, non deve concedere il predominio a un mezzo particolare dell'arte, sia esso il disegno, o il colore, o la composizione, o qualunque altro dei mezzi molteplici che soltanto nel loro insieme costituiscono questa arte. Io non posso quindi avere la pretesa di aprire una scuola, di formare allievi, d'insegnare questa o quella tradizione particolare. Io non posso che spiegare a degli artisti, che sarebbero i miei collaboratori e non i miei allievi, il metodo col quale, secondo il mio modo di vedere, si diventa pittori, e con il quale io stesso fin dall'inizio ho cercato di diventarlo; lasciando a ognuno, nell'applicare tale metodo, l'intera direzione della sua individualità e la piena libertà dell’espressione che gli è propria. A questo scopo la costituzione di uno studio in comune, che ricordi le collaborazioni così feconde delle botteghe del Rinascimento, può certamente essere utile e contribuire all’inizio dell’epoca moderna alla pittura; e perciò mi dedicherò con premura a tutto ciò che chiederete per raggiungere questo fine. Esaminiamo i punti fondamentali di questo ‘manifesto’ 1.L’arte è il prodotto dell’ispirazione individuale dell’artista. 2. L’artista è veramente tale se è un uomo del suo tempo. 3.L’artista rappresenta cose reali e esistenti, rappresenta cioè solo cose di cui si può concretamente fare esperienza. 4. «Il bello è nella natura o si riscontra nella realtà sotto le forme più svariate». Affermando in modo categorico che l’arte non si può insegnare, Courbet riconosce il principio dell’estetica romantica, che valorizza la soggettività dell’ispirazione artistica. Per Courbet, però, il talento dell’artista si esprime non in un libero abbandono alla fantasia, ma, come vedremo, nella rappresentazione delle cose che può vedere e toccare. Inoltre, l’individualità non è puro arbitrio: l’artista non parte da una tabula rasa, ma si confronta con la tradizione. L’opera d’arte nasce dall’ispirazione individuale e dallo studio della tradizione, ossia dal confronto con ciò che altri artisti hanno prodotto nel passato. Il talento individuale si sviluppa su una coscienza storica del fare artistico di chiara ascendenza romantica, che trova conferma nella dichiarazione che l’artista deve essere un uomo del suo tempo. L’autenticità della sua arte si misura nella capacità di rappresentare la storia della propria epoca. «la pittura storica è essenzialmente contemporanea». Non è possibile rappresentare qualcosa che è passato, che appartiene perciò ad un’altra realtà di cui l’artista non ha alcuna esperienza diretta. La rappresentazione del passato è una falsificazione della storia ed è priva di alcun valore: «i tempi nuovi non possono aggiungere nulla all’espressione di tempi più antichi né ingrandire o abbellire il passato». I veri artisti sono quelli capaci di riprendere un’epoca dal punto in cui era stata condotta dai tempi precedenti. Questa osservazione si ricollega a quella che riguarda il rapporto con la tradizione alla quale abbiamo già accennato: l’artista si inserisce così in un processo storico restando però saldamente ancorato alla propria epoca. Questa fedeltà al proprio tempo nasce sempre dall’esigenza di dare concretezza al fare artistico. “Concretezza”significa rappresentazione di cose reali ed esistenti. Per Courbet la realtà si identifica con tutto ciò di cui possiamo fare esperienza sensibile, con tutto ciò che cade sotto il dominio dei nostri sensi. Di conseguenza, significa rifiuto di tutto ciò che è astratto o immaginario. Per Courbet l’immaginazione non si confonde con la pura libertà fantastica. «L’immaginazione in arte consiste nel sapere trovare l’espressione più completa di una cosa esistente, ma mai nel supporre questa cosa o nel crearla». Courbet riconduce anche la nozione di bello entro questo orizzonte di assoluta fedeltà all’esperienza concreta. Non si deve andare a ricercare il bello nell’ideale, perché la fonte del bello è nella natura. «Il bello è nella natura e si riscontra nella realtà sotto diverse forme». Sostanzialmente, Courbet per natura non intende solo quello che diremmo lo spettacolo naturale, il paesaggio, ma anche la realtà in tutte le sue manifestazioni e i suoi aspetti. La precisazione ‘forme più svariate’ sottintende una concezione diversa da quella di un bello concepito secondo i canoni classici. Viene in mente l’osservazione di Aristotele a proposito dell’effetto delle cose cosiddette brutte. Tutto può essere bello estetico per l’artista che sa coglierlo. Courbet intende il rapporto con la natura come la capacità dell’artista di rappresentare il bello della natura, senza idealizzarla. È lontano dalla concezione dell’artista che va alla ricerca di una natura ideale, perché la natura non è in se perfetta. La natura nella sua immediatezza è contrapposta alle convenzioni che tendono ad abbellirla secondo criteri predefiniti. Aprirsi alla realtà per il socialista Courbet significava in particolare concentrare l’attenzione sulla realtà sociale, rappresentare un’umanità ignorata dalla Parigi artistica ufficiale, Ecco cosa scrive a M. Se Stael l’amico Champfleury: [....] Courbet è un fazioso per il fatto di aver presentato in buona fede borghesi, contadini, donne di paese a grandezza naturale. Questo è il primo punto. Non si vuole ammettere che uno spaccapietre conti quanto un principe: la nobiltà si arrabbia nel vedere accordati tanti metri di tela a gente del popolo; solo i sovrani hanno diritto di essere dipinti in piedi, con le loro decorazioni, i loro ricami e le loro fisionomie ufficiali. Ma come! Un uomo di Ornans, un contadino chiuso nella sua bara, si permette di far riunire al suo funerale una folla considerevole, fattori, gente di basso livello e si dà a questa rappresentazione lo sviluppo che Largillière, aveva, lui sì il diritto di dare ai magistrati che vanno alla messa dello Spirito Santo (Vedi le curiose pitture nella chiesa di Saint-Ètienne du Mont)! Se Velasquez ha dipinto in grande, erano dei signori di Spagna, infanti e infante; lì almeno c’è della seta, dell’oro sugli abiti, ci sono decorazioni e piumaggi [....] La gamma di Courbet è tranquilla, imponente e calma; così non mi sono sorpreso di trovare, consacrato ora in me e per sempre, il famoso Funerale a Ornans, che fu il primo colpo di cannone tirato dal pittore visto come un sobillatore dell’arte [...] Ora, di tutti questi scandali, preferisco il Funerale a tutte le altre tele, a causa del pensiero che vi è chiuso, a causa del dramma completo e umano in cui il grottesco, le lacrime, l’egoismo, l’indifferenza , sono trattati da grande maestro. Il Funerale a Ornans è un capolavoro: dopo Marat assassinato di David, niente, in quest’ordine di idee, è stato dipinto di più coinvolgente in Francia. Courbet e Proudhon Courbet si legò di un rapporto di grande amicizia con Proudhon, che non solo era suo compatriota della Franca Contea, ma che si dimostrò sensibile alle sue prese di posizione ideologiche. Proudhon apprezza il fatto che questo pittore «non usa il proprio talento per dipingere gli dei dell’Olimpo o i principi che ci governano. Certo Proudhon si entusiasma per il fatto Courbet abbia dipinto I contadini di Flagey (1850), Le battitrici di grano (1855), Gli spaccapietre (1849) o la Zingara e i suoi bambini (1854), perché è uno sguardo affettuoso rivolto agli umili,» ma è ancora più colpito dal dipinto Ritorno dalla conferenza, soprattutto quando questo viene rifiutato al Salon del 1863 e addirittura proibito al Salon des Refusés. «Dal 1855, il filosofo è nella rete di Courbet e figura nel gruppo di amici rappresentato ne L’atelier, benché non abbia posato, perché, a Parigi come a Besançon, era solitario e riservato e non frequentava mai quell’artista così volubile e più giovane di dieci anni. Ma costui lo voleva nel suo quadro perché “lui ha” – diceva – “la nostra stessa maniera di vedere”. Dopo lo scandalo del Ritorno dalla conferenza, l’immagine di quei curati di campagna ubriachi fradici lo rallegra e lo spinge a uscire dalla sua riserva e a scrivere il saggio filosofico Sul principio dell’arte e sulla sua Destinazione Sociale, avendo Courbet, suo compatriota, come grande esempio illustrativo delle sue prese di posizione filosofiche e anche nella difesa dei temi che Courbet lega alla sua arte. Di ritorno da un esilio volontario nel 1858, a Proudhon piace questo pittore così vicino alla realtà che lui chiama “l’artista dai violenti paradossi”, perché ha, egli dice, una lettura dell’esposizione delle cose, dei costumi e della gente, che sfugge a ogni convenzione ordinaria,. Pierre-Joseph Proudon (1809 – 1865) nasce a Besançon nella Franca Contea (alla Franca Contea appartiene anche Ornans il paese natale di Courbet). Studioso appassionato di problemi economici, filosofici e politici, Proudhon è sostenitore di una concezione socialista umanitaria e giuridica, contraria ad ogni forma di statalismo oppressore come ad ogni atteggiamento collettivistico. Partecipò alla rivoluzione del 1848 di cui ha lasciato la storia in un libro mirabile, Le confessioni di un rivoluzionario. Nella sua prima memoria Che cos’è la proprietà, elogiata da Marx, critica gli aspetti degeneri e oppressivi della proprietà contraria all’idea di giustizia, perché esalta il potere di produrre senza lavorare e consacra lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e lo sfruttamento della società da parte dei capitalisti. Egli prospetta l’uguaglianza delle condizioni come principio nuovo della società che deve eliminare le forme degenerative del potere, della proprietà e della ricchezza. In opposizione a Marx portato alla lotta di casse, di P. è portato al principio dell’integrazione dei diritti sociali e alla concezione dell’idea egualitaria e della giustizia, sotto l’influsso cristiano. Proudhon propone un nuovo ordinamento sociale fondato sulla giustizia che definisce «il rispetto, spontaneamente provato e reciprocamente garantito, della dignità umana, in qualsiasi persona e in qualsiasi circostanza essa si trovi compromessa, e a qualsiasi rischio ci esponga la sua difesa». La giustizia è la legge del progresso: essa non può essere solo un’idea, ma deve essere forza attiva del singolo e della vita associata. Decisamente avverso al comunismo in cui lo Stato diventa padrone non solo dei beni materiali, ma anche dei cittadini, Proudhon pensa ad un’organizzazione sociale nella quale i lavoratori diventino proprietari dei mezzi di produzione e che, pertanto,abbiano la possibilità autogestire il processo produttivo. Il pensiero di Proudhon è caratterizzato da un’acuta sensibilità per la giustizia sociale, da un’analisi seria dell’economia capitalistica e da una fede incrollabile nella libertà del singolo e nella forza di questa libertà. Proudhon concepisce un trattato sull’arte fondato sull’interpretazione dell’opera di Courbet,. L’interpretazione si fonda sull’analisi dei contenuti. Proudhon ravvisa nei soggetti umili o conturbanti resi con accentuazioni drammatiche, cari all’immaginazione del pittore la denuncia di un disagio sociale messo finalmente in evidenza. Per Proudhon il primo compito dell’arte era, infatti, morale: una missione che in epoca moderna essa era in grado di assolvere rappresentando gli uomini nella sincerità della loro natura e della loro abitudini. L’arte ha una destinazione sociale.