Joseph Paxton - Crystal Palace, 1851 – Londra (distrutto)

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Joseph Paxton - Crystal Palace, 1851 – Londra (distrutto)
L’ARTE “VOLGARE”
Gustave Courbet (1819 Ornans - 1877 Vevey, Svizzera)
L’Atelier del Pittore, 1854-55, Parigi, Museo d’Orsay
“Io avevo già all’età di quindici anni lo spirito di indipendenza che ho oggi: avevo il medesimo
disprezzo per le ricompense e per qualsiasi specie di titolo che dovrebbero tener luogo del talento agli
occhi del pubblico.”
Dati e titolo:
Il dipinto misura 359 x 598 cm, è un olio su tela e fu esposto per la prima volta nel famoso Padillion du
Reallisme eretto da Courbet, a poca distanza dal Padiglione dell’Expo Universale di Parigi del 1855,
contenente le sue opere dal 1848 fino ad allora.
Il titolo completo è : “L’atelier ► che cosa significa ? del pittore: una vera allegoria che riassume
sette anni della mia vita come artista”, quindi un dipinto con un programma allegorico (► che cosa
significa ? argomentare con immagini diverse ) e un soggetto realistico. C’è in questa ambivalenza una
certa contraddizione, tant’è vero che venne rifiutato dalla giuria del Salon e criticato anche per questo,
oltre che per la spregiudicatezza del grande formato, usualmente usato solo per dipinti di soggetto
storico, e per il ritrarsi al centro della composizione, quasi il pittore si considerasse una figura mitologica,
creatrice dell’universo. Per Courbet in effetti, vi era la volontà di conferire al pittore un ruolo primario,
centrale e attivo nella società, nonché ribadire il valore e dignità del proprio “fare” artistico.
Descrizione:
Il dipinto, che apparentemente sembra composto casualmente, ha invece una struttura tripartita, in cui
ogni personaggio ed elemento ha un suo preciso ruolo e valore simbolico: al centro il pittore stesso alle
prese con un dipinto di paesaggio, un bambino rapito dall’immagine e una modella nuda, forse in attesa
del suo momento di “servizio” (figura derivante da una immagine fotografica), a sinistra personaggi
della vita quotidiana e umili lavoratori, quali un bracconiere (guarda caso assomigliante a Napoleone
III) che osserva gli oggetti a terra, simbolo di una pittura di costume ormai superata. Appoggiata al
cavalletto, una donna irlandese che allatta il suo bimbo (allusione alla miseria che colpì l’irlanda gli anni
precedenti), poi all’estrema sinistra un rabbino, un mercante di stoffe, il nonno dell’artista, un
saltimbanco, un prete cattolico, uno sterratore, un falciatore, un operaio, un becchino, una prostituta.
A destra invece suoi amici e letterati. Baudelaire che legge, una coppia di collezionisti (simbolo del
mercato dell’arte) lo scrittore Champfleury, sostenitore del Realismo (la critica d’arte), un bambino che
disegna liberamente (simbolo di un approccio all’arte innocente e libero da insegnamenti) il filosofo
anarchico Proudhon * (suo ispiratore concettuale) e Bruyas (suo mecenate) a cui scrive poi proprio sul
quadro: “E’ il quadro più soprendente che si possa immaginare...E’ la storia morale e fisica del mio
Atelier. Sono tutte persone che mi servono e partecipano al mio lavoro.”
* la sua filosofia del Progresso ha molto influenzato Courbet: niente è immutabile, il vero e il reale
sono ciò che cambia, il che significa la negazione di tutte le certezze assolute e dogmatiche, e quindi
l’impossiblità per qualcuno di dare lezioni, insegnare regole.
Analisi:
Il quadro è un riassunto dei vari generi in cui Courbet si è cimentato fino ad allora: paesaggio, ritratti,
autoritratti, nudo, natura morta, animali, colti nel momento dell’azione, del fare pittorico.
Le figure e gli oggetti sono tutti a grandezza naturale, reale, ma la stesura è alterna, ovvero sommaria
per alcune parti e dettagliata (pareti e ellementi in sfondo), precisa per altre (vestiti e oggetti), i colori
cupi e la luce polverosa, presumibilmente verosimile per un ambiente dell’epoca di quel genere.
L’atmosfera risulta quindi indefinita e quasi misteriosa (sensazione che ad esempio la parete di sfondo
amplifica), come di qualcosa, un evento a cui tutti i presenti sono chiamati a partecipare.
L’elemento a ben vedere più definito, chiaro, oggettivo è proprio l’unico ad essere riprodotto, non reale,
ovvero il paesaggio sul cavalletto, segno del valore che Courbet assegna alla pittura, quasi a voler dire
che la pittura può rendere reale qualcosa più della stessa realtà. Questo apre tutta una serie di riflessioni
sul rapporto tra il reale, il rappresentato, e l’immaginato, e di seguito la relazione tra realtà pittorica e
sociale, il ruolo e grado di intervento volontario o meno dell’artista, e la sua responsabilità nel rendere
reale, attraverso il fermare con la sua opera qualcosa che invece sarebbe fugace, e a volte invisibile
(quindi come non esistito) agli occhi dei più.
Il realismo rivela qui la sua lontananza dalla imitazione bieca della natura, anche perché solo il concetto
di natura è di per sé stesso soggettivo e idealistico, determinato da una nostra coscienza e selezione nello
sterminato mondo del reale. Il Realismo è invece affrontare di petto la realtà, senza preconcetti di
morale,estetica, religione e politica.
La realtà non è quindi il modello ammirato dall’artista, ma la sua materia prima.
Dipingere qualcosa rende quella cosa vera essenza, in quanto presente agli occhi, e questo solo grazie
alla fattura manuale dell’artista, che diventa il paradigma del vero lavoro umano, libero e indipendente
come dovrebbe essere (e non schiavo della nuova tecnica industriale che imprigiona e abbrutisce i
lavoratori). Ed infatti Courbet si dipinge al centro quasi quale il creatore di un universo sociale che a lui
e alla sua opera in corso converge e assiste.
Bisogna però fare attenzione a non considerare Courbet come un pittore di temi sociali, o politici. Egli è
si impegnato, ma non assoggetta il proprio lavoro a cause politiche o soggetti di propaganda delle
proprie idee, proprio perché è NEL suo lavoro, nel come lavora e concepisce tale attività, che è il
manifesto del suo pensiero e politica.
Anche perché un realismo ideologicamente orientato non sarebbe più un realismo, non rifletterebbe più
la realtà così come è.
Anche i sette anni del titolo fanno tornare al 1848, anno in cui guarda caso coincidentemente con i moti
rivoluzionari, elabora anche il suo manifesto pittorico. A riguardo dice lui stesso: “Senza la rivoluzione
di febbraio, forse non si sarebbe mai vista la mia pittura. Io ho incominciato la rivolta: ora si guardano
anche i giovani del primo anno. Un accademico è posto dall’organizzazione sociale in una posizione
falsa. Come volete che quest’uomo esalti dei talenti che nascono in pericolosa concorrenza al suo
proprio valore. Per aiutare un movimento bisogna dare libero corso al genio popolare, sopprimere gli
intendenti, i protettori, le accademie e soprattutto gli accademici. Si potranno lasciare delle libere
accademie, dove i giovani senza mezzi andranno a lavorare. Aprire i musei, ecco quanto bisogna fare
per l’arte.”
E proprio Courbet arriverà ad aprire una scuola realista, una specie di provocazione se si legge
l’insegna che appare all’ingresso: 1° - Non fare quello che faccio io, 2° - Non fare quello che fanno gli
altri, 3° Anche se tu facessi quello che fece Raffaello, non esisteresti, è un suicidio, 4° - Fai quello che
vedi, che senti, che vuoi. E’ in effetti la negazione della scuola, e quindi anche della sua.
La fedeltà ai propri principi di negazione dell’istituzione è confermata anche dal suo rifiuto della più alta
onorificienza francese, la Legion d’Onore con la seguente motivazione: “L’onore non sta in un titolo o in
un nastrino, ma negli atti e nei moventi delle azioni…Ho cinquant’anni e sono sempre vissuto libero,
lasci che io termini la mia esistenza in libertà. Bisogna che alla mia morte si dica di me: non ha mai
fatto parte di nessuna scuola, di nessuna chiesa, di nessuna accademia, ma soprattutto di nessun regime,
tranne quello della libertà.”
E dopo tali parole non ci potè essere epitaffio più degno di quello che egli volle per la sua tomba:
“Courbet sans courbette” (courbet senza inchini).
Courbet si impegnò poi quando i parigini insorsero nel 1870 contro il governo, proclamando la Comune
che repressa dopo due mesi, vide la sua condanna quale istigatore del movimento a sei mesi di carcere e
il pagamento dei danni per l’abbattimento della Colonna di Piazza Vendome, per sfuggire ai quali
Courbet espatriò in Svizzera, continuando peraltro a dipingere, ma mai più con l’impeto e l’impegno
sociale che lo contraddistinse finora < L’onda, 1869.

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