I INCONTRO - Diocesi di Ugento
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I INCONTRO - Diocesi di Ugento
La trasmissione educativa dinanzi al problema della libertà e dell'autorità: antologia di testi 1/ La questione dalla Lettera del Santo Padre Benedetto XVI alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008 Dobbiamo dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare? E' forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un'atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all'altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita. Già in un piccolo bambino c'è un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Arriviamo così, cari amici di Roma, al punto forse più delicato dell'opera educativa: trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano. 2/ La libertà è la condizione dell’amore dalla Lettera del Santo Padre Benedetto XVI alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008 Non temete! Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l'accompagna. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale. da Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, Editrice La scuola, Brescia, 1987, pp. 5-7, nn. 132r-v dell’edizione in folio del 1496; la traduzione è stata leggermente ritoccata Perciò (Dio) accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel centro dell’universo così gli parlò: "Né un determinata posto, né un aspetto tuo peculiare, né alcuna prerogativa tua propria ti diedi, o Adamo, affinché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu stesso avrai desiderato, secondo il tuo volere e la tua libera persuasione tu abbia e possieda. La definita natura degli altri esseri è costretta entro leggi da me stabilite. Tu, non costretto da nessun limitato confine, definirai la tua stessa natura secondo la tua libera volontà, alla cui potestà ti consegnai. Ti ho collocato al centro dell’universo affinché più comodamente, guardandoti attorno, tu veda ciò che esiste in esso. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu, quasi libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi secondo la forma 1 che preferirai. Potrai degenerare verso gli esseri inferiori, che sono i bruti, potrai, seguendo l’impulso dell’anima tua, rigenerarti nelle cose superiori, cioè in quelle divine". 3/ La libertà non può fondare se stessa; essa è donata; il ruolo della auctoritas dalla Lectio magistralis Gesù educatore della fede, del cardinale Angelo Bagnasco, del 15/6/2010 La fede non può nascere e svilupparsi semplicemente come auto-maturazione o autoformazione dell’uomo: è in Cristo che viene offerta e donata all’uomo. Non è sufficiente la libertà per raggiungere la fede, anzi è piuttosto l’incontro con la fede a generare la libertà, come dice il Signore: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). La dipendenza della libertà dal dono che la precede deve essere posta nuovamente in risalto se si vuole che cresca una nuova passione educativa. Non vi è vera educazione, né vera libertà, senza un dono che le preceda. Benedetto XVI non ha paura di utilizzare per questo dono che precede la libertà e la fonda il termine “autorità”. Recentemente anzi, rivolgendosi all’Assemblea della CEI, ha ricordato che proprio nella maturazione delle relazioni più importanti l’uomo ha bisogno dell’“autorità”: «[Una delle radici profonde dell’attuale emergenza educativa la vedo] in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’“io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione». Queste affermazioni ricordano giustamente che il rapporto educativo è caratterizzato da una asimmetria, anche se questo nulla toglie al fatto che sia una vera relazione di amore, poiché a coloro che sono più maturi spetta il compito di donare ciò che i piccoli, da soli, non potrebbero raggiungere. Gesù offre originariamente la vita per l’uomo, perché l’uomo diventi capace di portare la propria croce. E ciò che è vero per la fede, tocca trasversalmente ogni ambito educativo. Si pensi innanzitutto al semplicissimo fatto che i genitori sono gli stessi auctores dei loro figli. Essi sono autorevoli presso la loro discendenza, poiché senza i genitori essa neanche esisterebbero. Inoltre essi non li hanno semplicemente generati, ma sono all’origine della loro maturazione, avendoli accompagnati nella loro crescita. Se essi rinunciassero ad insegnare ai loro piccoli non solo il bene, il rispetto, la responsabilità, la fede, ma anche la stessa lingua con tutti i riferimenti culturali connessi, i loro bambini non si svilupperebbero. Si pensi similmente ai docenti in ambito scolastico. Essi, attraverso anni di studio, divengono appassionati e competenti di letteratura o scienza fino ad essere in grado di far amare alle nuove generazioni Dante e Leopardi o Newton e Galilei. Agirebbero non correttamente se pretendessero dagli studenti una passione per quelle materie previa al loro insegnamento. Ogni rapporto educativo, insomma, implica una generazione. Questo fatto è espresso dalla stessa etimologia del vocabolo “autorità”, derivante dal latino augere, far crescere. L’auctoritas è così ben diversa dalla potestas, dal potere, poiché non si impone dall’esterno con la forza, ma si manifesta nella capacità di generare vita. La società italiana nel suo insieme ha bisogno di figure autorevoli di genitori, di docenti, di catechisti, di laici, capaci di porsi come punti di riferimento nel difficile compito educativo. È palpabile l’attesa di persone preparate ed appassionate che svolgano con grande senso di responsabilità la loro missione. da San Francesco d’Assisi, di G. K. Chesterton, Mursia, 2007, pp. 157-159 [Francesco d’Assisi] fu soprattutto un grande donatore, che ideò il miglior modo di donare, detto ringraziamento. Se un altro grande uomo [il cardinale Newman] scrisse una grammatica del consenso, di Francesco si può dire che scrisse una grammatica della gratitudine, perché comprese, in tutta la sua 2 profondità, la teoria del ringraziare; e quella profondità è un abisso senza fondo. Egli seppe che la gloria di Dio è posata sul suolo più forte quando appoggia sul nulla. E seppe anche che noi possiamo valutare meglio il grande miracolo della nostra semplice esistenza, se riusciamo a comprendere che è solo una straordinaria grazia, che ci ha fatto esistere. E qualche cosa di quella più grande verità è ripetuta, in forma più piccola, nei nostri rapporti [...] E chiunque riconosca il valore della sua ispirazione e ricordi, della sua storia, anche solo qualche aneddoto incompleto, sentirà dentro di sé almeno un poco di quel senso di impotenza che costituì gran parte del suo potere; e capirà, almeno in parte, ciò che San Francesco capì di quel debito, grande e buono, che non può essere mai pagato. Avvertirà il desiderio di voler fare infinitamente di più e, al tempo stesso, il vuoto di non aver fatto nulla. Saprà cosa significa essere inondati da un tale diluvio di meraviglie e non avere nulla con cui ricambiarlo; nulla da appendere alle immense volte di un tempio così ampio, che è stato eretto nel tempo e nell'eternità, tranne questa piccola candela consumata tanto rapidamente al suo altare. da Solo l’amore è credibile, di Hans Urs von Balthasar Due accostamenti si offrono, che finiscono poi per convergere in unità: uno è quello personalistico menzionato da ultimo, perché nessun io ha la possibilità ed il diritto di violentare concettualmente la libertà del tu che gli si fa incontro, di dedurre a priori e di comprendere a priori il suo comportamento. Un amore che mi è donato, posso “intenderlo” sempre e solo come un miracolo, non posso manipolarlo empiricamente o trascendentalmente, neppur conoscendo il carattere comune della natura umana: perché il tu resta sempre l’alterità a me contrapposta... Nell’istante in cui io affermo di avere capito l’amore di un’altra persona per me, cioè lo spiego o con le leggi della sua natura umana o lo giustifico con motivi esistenti in me, questo amore è definitivamente perduto e fallito e la via per il contraccambio è tagliata. Il vero amore è sempre incomprensibile e solo in quanto tale è dono. La seconda concezione consiste nello stato estetico, che rappresenta accanto alla sfera del pensiero ed a quella dell’azione una terza sfera non riconducibile ad una delle precedenti. Nell’esperienza che si fa di una superiore bellezza – nella natura o nell’arte – il fenomeno, che altrimenti si presenta più occulto, più mascherato, può essere colto nella sua differenziazione: ciò che ci sta dinanzi è di una grandiosità schiacciante come un miracolo e in quanto tale non può essere mai colto, raggiunto da colui che ne fa l’esperienza, ma possiede, proprio in quanto miracolo, la facoltà di essere compreso: esso vincola e libera al contempo, giacché si mostra in forma inequivocabile come “libertà manifesta” (Schiller) di una necessità interiore indimostrabile. Se esiste il finale della sinfonia Jupiter – cosa che non posso supporre, dedurre e spiegare attraverso nulla che sia intrinseco a me – essa non può essere che così com’è: in questa forma sta la sua necessità, nella quale nessuna nota può essere spostata salvo che dallo stesso Mozart. Una simile coincidenza d’incomprensibilità da parte mia con la più convincente plausibilità per me si dà soltanto nel campo del bello puro, disinteressato. [...] Nei confronti di questa maestà dell’amore assoluto, che è il fenomeno originario e fondamentale della Rivelazione, ogni autorità che funge da mediatrice verso l’uomo presenta carattere derivato. L’autorità originaria non la possiedono né la Bibbia (in quanto “Parola di Dio” scritta) né il kerigma (in quanto proclamazione viva della “Parola di Dio”) né il ministero ecclesiastico (in quanto rappresentazione ufficiale della “Parola di Dio”); tutti e tre sono esclusivamente Parola e non ancora carne, e in tal senso anche l’Antico Testamento come “Parola” rappresenta soltanto uno stadio sulla via che conduce all’autorità definitiva. Questa autorità originaria la possiede soltanto il Figlio, che interpreta il Padre nello Spirito Santo come l’amore divino. 4/ La libertà chiede di essere riempita del dono; la libertà serve per amare e senza l’amore è vuota dalle parole di Benedetto XVI prima dell'Angelus dell'1/7/2007, sulle letture della XIII domenica dell'anno C della liturgia Le Letture bibliche della Messa di questa Domenica ci invitano a meditare su un tema affascinante, che si può riassumere così: libertà e sequela di Cristo. L’evangelista Luca narra che Gesù, "mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme" (Lc 9,51). Nell’espressione "decisamente" possiamo intravedere la libertà di Cristo. Egli infatti sa che a Gerusalemme lo attende la morte di croce, ma in obbedienza alla volontà del Padre offre se stesso per 3 amore. E’ in questa sua obbedienza al Padre che Gesù realizza la propria libertà come consapevole scelta motivata dall’amore. Chi è libero più di Lui che è l’Onnipotente? Egli però non ha vissuto la sua libertà come arbitrio o come dominio. L’ha vissuta come servizio. In questo modo ha "riempito" di contenuto la libertà, che altrimenti rimarrebbe "vuota" possibilità di fare o di non fare qualcosa. Come la vita stessa dell’uomo, la libertà trae senso dall’amore. Chi infatti è più libero? Chi si riserva tutte le possibilità per paura di perderle, oppure chi si spende "decisamente" nel servizio e così si ritrova pieno di vita per l’amore che ha donato e ricevuto? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani della Galazia, nell’attuale Turchia, dice: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri" (Gal 5,13). Vivere secondo la carne significa seguire la tendenza egoistica della natura umana. Vivere secondo lo Spirito invece è lasciarsi guidare nelle intenzioni e nelle opere dall’amore di Dio, che Cristo ci ha donato. La libertà cristiana è dunque tutt’altro che arbitrarietà; è sequela di Cristo nel dono di sé sino al sacrificio della Croce. Può sembrare un paradosso, ma il culmine della sua libertà il Signore l’ha vissuto sulla croce, come vertice dell’amore. Quando sul Calvario gli gridavano: "Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce!", egli dimostrò la sua libertà di Figlio proprio rimanendo su quel patibolo per compiere fino in fondo la volontà misericordiosa del Padre. Questa esperienza l’hanno condivisa tanti altri testimoni della verità: uomini e donne che hanno dimostrato di rimanere liberi anche in una cella di prigione e sotto le minacce della tortura. "La verità vi farà liberi". Chi appartiene alla verità, non sarà mai schiavo di nessun potere, ma saprà sempre liberamente farsi servo dei fratelli. Guardiamo a Maria Santissima. Umile ancella del Signore, la Vergine è modello di persona spirituale, pienamente libera perché immacolata, immune dal peccato e tutta santa, dedita al servizio di Dio e del prossimo. Con la sua materna premura ci aiuti a seguire Gesù, per conoscere la verità e vivere la libertà nell’amore. da Christian Bobin, Il mestiere di scrittore L'amore funziona solo con la libertà. La libertà funziona solo con l'amore. da A. de Saint-Exupéry, Cittadella , Borla, Torino, 1965 Così alla sera io cammino a passi lenti tra il mio popolo e tacitamente lo circondo del mio amore. Sono soltanto inquieto per coloro che ardono di una vana luce, per il poeta pieno d'amore per la poesia ma che non scrive il suo poema, per la donna innamorata dell'amore ma che, non sapendo scegliere, non può divenire; tutti pieni di angoscia, poiché sanno che io li potrei guarire di questa angoscia se permettessi loro di fare quell'offerta che esige sacrificio, scelta e dimenticanza dell'universo. Perché il tal fiore esclude innanzi tutto ogni altro fiore. E tuttavia solo a questa condizione esso è bello. Così avviene per l'oggetto dello scambio. E lo stolto che va a rimproverare a quella vecchia il suo ricamo col pretesto che avrebbe potuto tessere qualcos'altro, preferisce dunque il nulla alla creazione. Così cammino e sento salire la preghiera nell'odore dell'accampamento nel quale tutto matura e si forma in silenzio, lentamente, senza quasi che ci si pensi. Il frutto, il ricamo o il fiore, per divenire, è nel tempo che sono immersi. Durante le mie lunghe passeggiate ho capito che il valore della civiltà del mio impero non riposa sulla qualità dei cibi ma sulla qualità delle esigenze e sul fervore del lavoro. Questo valore non è dato dal possesso, ma dal dono di sé. E' civilizzato innanzi tutto quell'artigiano che si ricrea nell'oggetto; in compenso egli diviene eterno, in quanto non teme più di morire. Ma quest'altro che si circonda di oggetti di lusso comperati dai mercanti, non ne trae alcun vantaggio se non ha creato nulla, anche se nutre il suo sguardo di cose perfette. Conosco quelle razze imbastardite che non scrivono più i loro poemi ma li leggono, che non coltivano più la loro terra ma si fondano anzitutto sugli schiavi. Contro di loro le sabbie del Sud preparano incessantemente nella loro miseria creatrice le tribù vive che saliranno alla conquista delle loro provviste morte. Non amo chi è sedentario nel cuore. Quelli che non offrono nulla non divengono nulla. La vita non servirà a maturarli, e il tempo per loro fluisce come una manciata di sabbia disperdendoli. Che cosa offrirò a Dio in loro nome? da Quando scopriamo di essere mortali, un articolo di Adriano Sofri scritto a commento della notizia di un uomo che, saputo di avere un tumore incurabile, alcuni giorni dopo aveva ucciso un tassista Diventa tanto più prezioso, oggi, ogni pensiero, ogni gesto che miri lontano, che coltivi la vita oltre la nostra vita. La sonda Cassini ha superato gli anelli e ha raggiunto Saturno, dopo un viaggio di sette anni. E' bello che si sia progettata pagata e varata un'impresa che aveva bisogno di sette anni di traversata, di quattro altri anni di raccolta di dati, e poi chi sa. Tempi che eccedono di gran lunga quelli 4 di un sondaggio di opinione, e anche di un'elezione presidenziale americana. Ieri ho visto in televisione una bella faccia di uomo dai capelli e la barba candidi, un missionario in Amazzonia, anziano come me se non più. Raccontava della fatica meticolosa di ripiantare sul suolo della foresta devastata una varietà di arbusti e alberi, e diceva: "La foresta primigenia non potrà tornare più, e tuttavia fra cinquant'anni vedremo ricrescere una foresta ricca di una grande varietà biologica..." Diceva proprio così: "Vedremo". Né lui né io "vedremo" niente fra cinquant'anni, e lui lo sapeva quanto me. Quel plurale, vedremo, convoca una solidarietà che va oltre il futuro personale suo e mio, e riguarda gli altri, i nostri simili a venire. Le vite vissute e le cose che ci sopravvivano possono renderci insopportabile il cattivo annuncio del nostro oncologo, del nostro astronomo: ma, più probabilmente, possono consolarcene, e farci guardare all'improvviso più lontano, oltre il nostro sipario imminente. Farci traballare dapprima sulle ginocchia, ma farci poi provare una più forte simpatia. Per le nostre nipoti, per gli alberi del prossimo secolo, per i bravi tassisti di tutto il mondo. 5/ La libertà deve crescere; la coscienza deve essere educata da J. Ratzinger, La coscienza nel tempo, Conferenza alla Reinhold-Schneider-Gesellschaft, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Torino, 1987, p. 159 e 163 E’ certamente possibile che sotto il concetto di coscienza si insinui come la canonizzazione di un superio, che blocca l’uomo nella sua realizzazione. Il richiamo assoluto rivolto alla persona nella sua responsabilità è allora coperto e sopraffatto da un sistema di convenzioni che viene esibito falsamente come voce di Dio, mentre non è in verità che la voce del passato, la cui paura impedisce il presente. La coscienza può diventare anche un alibi per la propria ostinazione e indocilità, quando una caparbia incapacità alla correzione di sé viene giustificata con la fedeltà alla voce interiore. La coscienza diventa allora il principio di un egoismo soggettivo che si pone come assoluto, allo stesso modo in cui, viceversa, può diventare il principio del passaggio dall’io a un “sì” impersonale o a un io estraneo. In questo senso il concetto di coscienza ha bisogno di costante purificazione, e la pretesa della coscienza come pure il richiamo ad essa hanno bisogno di lealtà e di prudenza, consapevole dei possibili abusi di grandi valori quando la si chiama in gioco troppo in fretta. Chi ha in bocca con troppa facilità la parola “coscienza” si rende sospetto in modo simile a coloro che pronunciano banalmente e a ripetizione il santo nome di Dio, dunque da idolatri e non da veri adoratori. Ma la vulnerabilità della coscienza, la possibilità dell’abuso non possono cancellarne la grandezza, Reinhold Schneider ha detto: “Che cosa è la coscienza se non la consapevolezza della nostra responsabilità davanti alla totalità della creazione e davanti a chi l’ha creata?”. Coscienza significa, detto molto semplicemente, riconoscere l’uomo, se stesso e l’altro da sé come creazione e rispettare in quest’uomo il suo creatore. Ciò definisce il confine di ogni potere e gli indica a un tempo la direzione. da J. Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette, 2005 Qual'è allora la posizione reale della coscienza? Vorrei fare mie le parole di Robert Spaemann sull'argomento: la coscienza è un organo, non un oracolo. È un organo perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essenza, e non una cosa fatta fuori di noi. Ma essendo un organo ha bisogno di crescere, di essere formata, di esercitarsi. Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola. Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure la lingua non è un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall'esterno, ma questa formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, che cioè possiamo esprimerci con il linguaggio. L'uomo come tale è un essere-che-parla, ma lo diventa soltanto a condizione che impari a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere un uomo: l'uomo è «un essere che ha bisogno dell'aiuto di altri per diventare ciò che è in sé stesso» (R. Spaemann). La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal punto da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà. Incontriamo di tanto in tanto, 5 nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l'uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza. Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è una malattia l'assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo, dovrebbe vedere. In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di aver cura di essa, di formarla e di educarla. La coscienza ha diritto al rispetto e all’obbedienza, nella misura in cui la persona la rispetta e ha per essa la cura che la sua dignità merita. Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza. Sarebbe quindi semplicistico porre una affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo. Che cosa c'è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazione? O è una alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole? È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può essere esercitata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa un'apertura in maniera consona alla gravita della questione. da J. Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette, 2005 La morale richiede quindi non lo specialista ma il testimone. Non ne consegue, naturalmente, che l'opera scientifica riguardante i criteri della morale e la conoscenza specializzata in questo campo siano superflue. Poiché la coscienza esige esercizio, poiché la tradizione deve essere vissuta e deve svilupparsi in epoche di cambiamenti culturali, e poiché il comportamento morale è una risposta alla realtà e quindi richiede una conoscenza della realtà, per tutti questi motivi l'osservazione e lo studio del reale e delle tradizioni della morale sono anch'essi importanti. In altre parole, cercare una conoscenza approfondita della realtà è un comandamento morale basilare. Non senza ragione gli antichi ponevano la «prudenza» al primo posto tra le virtù cardinali, interpretandola come volontà e capacità di percepire la realtà e di rispondervi in maniera adeguata. Il compito generale della Chiesa e di ogni credente quanto alle questioni morali potrebbe alla fine, tutto sommato, essere così brevemente caratterizzato: il credente non insegna ciò che ha scoperto da sé stesso, ma testimonia la vivente saggezza della fede, nella quale la saggezza primitiva dell'umanità viene purificata, mantenuta e approfondita. Attraverso il rapporto con Dio, nella misura in cui la coscienza sia percettiva, quella sapienza umana primitiva diventa un veicolo concreto di comunicazione con la verità attraverso la comunione cui partecipa con la coscienza dei santi, e con la conoscenza di Gesù Cristo. Così il cristiano esprime e vive non una ideologia chiusa, e neppure una teoria limitata all'interno della Chiesa, ma riapre il messaggio dell'essere e da così una risposta autentica alla questione decisiva dell'umanità di oggi e di ogni tempo: alla questione di come si può essere uomo, di come si può vivere una vita veramente umana. 5.1/ Piacere e gioia dal Testamento del 1226 di Francesco d’Assisi Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo. E il Signore mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo. Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. 6 E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri. E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. E dovunque troverò i nomi santissimi e le sue parole scritte in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in un luogo decoroso. E dobbiamo onorare e rispettare tutti i teologi e coloro che annunciano la divina parola, così come coloro che ci danno lo spirito e la vita. 5.2 Lo spazio della libertà che si restringe o si allarga da Psicoanalisi dell'amore, di E. Fromm La libertà di scelta non è una facoltà formale astratta che o si "ha" o "non si ha"; è, piuttosto, una funzione della struttura del carattere di una persona. Alcuni non hanno la libertà di scegliere il bene perché la struttura del loro carattere non è più in grado di agire in armonia con il bene. Alcuni hanno perduto la capacità di scegliere il male, proprio perché la struttura del loro carattere ha perduto la spinta al male. In questi due casi estremi, possiamo dire che ambedue sono determinati ad agire come fanno, perché l'equilibrio di forze nel loro carattere non lascia loro alcuna scelta. Nella maggior parte degli uomini, comunque, abbiamo a che fare con inclinazioni contraddittorie che vengono bilanciate in modo tale che si possa fare una scelta. L'atto è il risultato dei rispettivi sforzi delle inclinazioni in conflitto nella persona. Deve essere chiaro per ora che si può usare il concetto di "libertà" in due sensi diversi: nell'uno, la libertà è un atteggiamento, un orientamento, una parte della struttura del carattere maturo, completamente evoluto, e produttivo; in questo senso io posso parlare di una persona "libera" come posso parlare di una persona affettuosa, produttiva, indipendente; in realtà una persona libera in questo senso è una persona affettuosa, produttiva, indipendente; in questo senso la libertà non si riferisce ad una particolare scelta tra due possibili azioni, ma alla struttura del carattere in questione; e in questo senso la persona che "non è libera di scegliere il male" è la persona completamente libera. Il secondo significato di libertà è quello che... prevalentemente (usiamo), cioè la facoltà di fare una scelta tra alternative opposte; alternative che, comunque, implicano sempre la scelta tra l'interesse razionale e quello irrazionale alla vita e alla crescita contro il ristagno e la morte; in questo senso, l'uomo migliore e il peggiore non sono liberi di scegliere, mentre è precisamente per l'uomo con inclinazioni contraddittorie, che esiste il problema della libertà di scelta. Se parliamo di libertà in questo secondo senso sorge la domanda: da quali fattori dipende questa libertà di scegliere tra inclinazioni contraddittorie? Evidentemente il fattore più importante sta nelle rispettive forze delle inclinazioni contrastanti, in particolare nella forza degli aspetti inconsci di queste inclinazioni. Ma se ci chiediamo quali fattori sostengano la libertà di scelta anche quando l'inclinazione irrazionale sia più forte, troviamo che il fattore decisivo nello scegliere il migliore piuttosto che il peggiore sta nella consapevolezza... La consapevolezza di ciò che è buono e cattivo è diversa dalla conoscenza teorica di ciò che si chiama bene e male nella maggior parte dei sistemi morali. Per sapere in base all'autorità della tradizione che amore, indipendenza e coraggio sono bene, e che odio, soggezione e codardia sono male, significa poco, poiché la conoscenza è conoscenza esterna, estranea, appresa da autorità, da insegnamenti convenzionali, ecc., e la si ritiene vera solo perché proviene da queste fonti. Consapevolezza significa che la persona fa quel che impara da sé, sperimentandolo, provando da sé, osservando gli altri e, alla fine, conquistando una convinzione piuttosto che avere una "opinione" irresponsabile. Ma non basta decidere sui principi generali. Al di là di questa consapevolezza si deve essere coscienti dell'equilibrio di forze dentro di sé, e delle razionalizzazioni che occultano le forze inconsce. Facciamo un esempio specifico: un uomo è vivamente attratto da una donna e prova un forte desiderio di avere rapporti sessuali con lei. Egli pensa coscientemente di avere questo desiderio perché lei è così bella, o così comprensiva, o così bisognosa di essere amata, oppure di essere così sollecitato sessualmente, e così bisognoso di affetto, così solo, oppure... Egli può essere consapevole che, avendo una vicenda con lei, potrebbe mettere disordine nelle loro due vite; che lei ha paura e cerca una forza protettiva, e quindi non lo lascerà andare facilmente. Nonostante egli sappia tutto questo, va avanti e ha una vicenda con lei. Perché? Perché egli è consapevole del suo desiderio, ma non delle forze che gli sottostanno. Quali potrebbero essere 7 queste forze? Ne citerò soltanto una fra le molte, sebbene sia quella che spesso entra in azione: la vanità e il narcisismo di lui. Se egli ha rivolto l'attenzione alla conquista di questa ragazza come prova del proprio potere di attrazione e del proprio valore, non sarà conscio, di solito, del vero movente. Egli propenderà per tutte le razionalizzazioni dianzi citate, e per molte ancora, e quindi agirà secondo il suo vero movente proprio perché non può vederlo, e ha l'illusione di agire per altri motivi più ragionevoli. Il grado successivo è quello della piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Nel momento della decisione la sua mente è colma di desideri e di placanti razionalizzazioni. La sua decisione, comunque, potrebbe essere diversa se egli potesse vedere chiaramente le conseguenze del suo atto; se potesse vedere, per esempio, una vicenda amorosa protratta a lungo, insincera, il proprio narcisismo che lo rende stanco di lei e che può essere soddisfatto solo da nuove conquiste, e malgrado tutto questo il persistere in false promesse perché si sente colpevole e ha paura di ammettere che non l'ha mai amata veramente, l'effetto paralizzante e fiaccante di questo conflitto su di lui e su di lei, ecc.. Ma neppure la consapevolezza delle vere motivazioni sottostanti e delle conseguenze basta ad aumentare l'inclinazione per la decisione giusta. E' necessaria un'altra importante consapevolezza: quando viene fatta la scelta concreta e si è consapevoli di quali siano le possibilità concrete tra le quali si può scegliere. Supponiamo che egli sia consapevole di tutte le motivazioni e di tutte le conseguenze; supponiamo che egli abbia "deciso" di non andare a letto con questa donna. Allora la conduce ad uno spettacolo e prima di riportarla a casa suggerisce: "Beviamo qualcosa insieme". Apparentemente la frase suona abbastanza innocente. Non sembra ci sia niente di male nel bere qualcosa insieme; in effetti, non ci sarebbe nulla di male se l'equilibrio di forze non fosse già così fragile. Se in quel momento egli potesse essere consapevole di dove condurrà "il bere qualcosa insieme" non glielo chiederebbe. Vedrebbe che l'atmosfera sarà romantica, che la bevanda indebolirà la sua volontà, che non riuscirà a resistere al prossimo passo di scivolare nell'appartemento di lei per un altro "drink", e che quasi certamente si troverà a fare l'amore con lei. Con piena consapevolezza egli riuscirebbe a prevedere la sequenza come quasi inevitabile, e se potesse prevederla, potrebbe rifuggire dal "bere qualcosa insieme". Ma poiché il suo desiderio gli impedisce di vedere la sequenza necessaria, egli non fa la scelta giusta anche quando avrebbe la possibilità di farlo. In altre parole, la vera scelta qui viene fatta quando egli la invita a bere qualcosa (o forse quando la invita ad uno spettacolo), e non quando comincia a far l'amore con lei. All'ultimo punto della catena di decisioni egli non è più libero; in una fase precedente, avrebbe potuto essere libero se fosse stato consapevole che la decisione vera era da prendere proprio a quel punto e in quel momento. L'argomento in favore dell'opinione che l'uomo non ha alcuna libertà di scegliere il meglio contro il peggio è, in misura considerevole, basato sul fatto che di solito si guarda all'ultima decisione in una catena di avvenimenti, e non alla prima o alla seconda. Infatti, al momento della decisione finale la libertà di scegliere di solito è svanita. Ma può esserci stata in un momento precedente quando la persona non era ancora così profondamente presa dalle sue passioni. Si potrebbe generalizzare dicendo che una delle ragioni per cui moltissimi falliscono nella vita è precisamente questa, che essi non sono consci del momento in cui sono ancora liberi di agire secondo ragione, e sono consci di scegliere soltanto nel momento in cui è troppo tardi perché prendano una decisione. C'è un altro problema strettamente connesso a quello di vedere quando viene presa la vera decisione. La nostra capacità di scegliere muta continuamente con il nostro modo di vita. Quanto più a lungo noi continuiamo a prendere decisioni sbagliate, tanto più il nostro cuore si indurisce; quanto più spesso noi prendiamo la decisione giusta, tanto più il nostro cuore si intenerisce - o meglio, forse, diventa vivo... Ciò che implica l'analogia del gioco degli scacchi è evidente. La libertà non è un attributo costante che "abbiamo" o "non abbiamo". In realtà, non esiste nulla di simile alla "libertà" tranne come parola e come concetto astratto. C'è soltanto una realtà: l'atto di liberarci nel processo di operare delle scelte. In questo processo il grado della nostra capacità di operare scelte varia con ciascun atto, con il nostro modo di vivere. Ogni passo nella vita che aumenti la fiducia in me stesso, la mia integrità, il mio coraggio, la mia convinzione aumenta anche la mia capacità di scegliere l'alternativa desiderabile, finché alla fine non mi diventi più difficile scegliere l'azione indesiderabile piuttosto che quella desiderabile. D'altro canto, ogni atto di resa e di codardia mi indebolisce, apre la via ad altri atti di resa, e alla fine la libertà è perduta. Tra l'estremo di quando io non posso più fare un'azione sbagliata e l'altro estremo di quando ho perduto la libertà di agire rettamente, ci sono innumerevoli gradi di libertà di scelta. Nella vita pratica il grado di libertà di scelta è diverso ad ogni istante. Se il grado di libertà di scegliere il bene è alto, occorre meno sforzo per scegliere il bene. Se è basso richiede un grande sforzo, aiuto dagli altri, e circostanze favorevoli. Un esempio classico di questo fenomeno è la storia biblica della reazione del faraone alla richiesta di lasciare andare gli ebrei. Egli ha paura delle sofferenze sempre più gravi ricadute su lui e sul suo popolo; promette di lasciare andare gli ebrei; ma non appena il pericolo imminente scompare, "il suo cuore si 8 indurisce" ed egli decide di nuovo di non lasciare liberi gli ebrei. Questo processo di indurimento del cuore è il punto centrale della condotta del faraone. Quanto più egli rifiuta di scegliere il giusto, tanto più duro diventa il suo cuore. Non c'è somma di dolori che muti questo fatale svolgimento, che alla fine sfocia nella distruzione sua e del suo popolo. Egli non ha mai subito un mutamento di cuore, perché decideva soltanto in base al timore; e mancando tale mutamento il suo cuore divenne sempre più duro finché non ebbe più alcuna libertà di scelta. 6/ Le quattro “leggi” che danno forma all'esistenza: la libertà nella sua forma più alta consiste nel dire di sì a Dio da J. Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 142-162 La Chiesa ha elaborato la dottrina delle quattro leggi che devono mostrare l'ordine che struttura la nostra esistenza. Queste leggi sono in primo luogo la legge naturale; quindi la legge degli istinti e delle passioni; in terzo luogo la legge dell'Antica Alleanza mediata da Mosè; e infine la legge della Nuova Alleanza consegnataci da Gesù Cristo? In primo luogo dobbiamo tenere presente che queste leggi non sono tutte sullo stesso piano. La legge naturale ci rivela che anche la natura racchiude in sé un messaggio morale. Il contenuto spirituale della creazione non è solamente di natura meccanico-matematica. Questa è la dimensione che le scienze naturali mettono in luce nelle leggi di natura. Ma c’è un sovrappiù di spirito, di «leggi naturali» nel creato, che reca impresso in sé e ci rivela un ordine interiore. Nel creato possiamo leggere i pensieri di Dio e il modo in cui dobbiamo vivere. Secondo elemento: la legge delle passioni ci dice che il messaggio della creazione si è appannato. Vi si contrappone una specie di controspinta che ha fatto ingresso nel mondo con il peccato. Questa legge esprime, per così dire, la ribellione dell'uomo. Paolo lo esprime in questi termini: l'uomo avverte dentro di sé una legge che lo spinge a fare il contrario di quello che vorrebbe davvero. Questo è dunque un altro piano. Mentre la legge naturale esprime il messaggio interiore della creazione, la legge delle passioni significa che l'uomo si è costruito un proprio mondo e ha così introdotto nel mondo una controtendenza. Terzo elemento: la legge dell'Antica Alleanza. Anche questa legge ha un significato che comprende più strati. Il suo nucleo fondamentale è rappresentato dai Dieci Comandamenti del Sinai, a cui si aggiungono i cinque Libri di Mosè, che costituiscono l'ordinamento legislativo d'Israele e sono definiti come «la legge». Regolamentano l'esistenza, la liturgia, e insieme anche l'etica. Paolo ha analizzato criticamente quest'ordine e ha constatato che questa legge rappresenta sicuramente una forza regolamentatrice - e tale rimane per i nostri concittadini ebrei e sotto molti aspetti anche per noi... - ma che d'altro canto non è in grado di liberare completamente l'uomo. E questo per una ragione molto semplice: quanto più esigente è la legge, tanto più forte è l'istinto trasgressivo. È Gesù Cristo, infine, a liberarci dalla legge, secondo Paolo, per introdurci nella libertà della fede e dell'amore. Tommaso d'Aquino si è ricollegato al pensiero di san Paolo quando ha parlato a sua volta di una legge, la legge di Cristo, che è però di tutt'altra natura. Tommaso dice che la nuova legge, la legge di Cristo, è lo Spirito Santo, cioè una forza che, lungi dall'essere imposta dall'esterno, prorompe dall'interno. Da questo punto di vista i piani sono dunque quattro: in primo luogo il messaggio del creato. In secondo luogo la controspinta dell'uomo nella storia, in cui egli tenta in qualche modo di costruirsi un proprio mondo in contrapposizione con Dio. In terzo luogo il messaggio di Dio nell'Antico Testamento, che certo indica all'uomo il cammino, ma che, nel contrasto con la resistenza dell'uomo, rivela tutta la sua impotenza. La legge dell'Antico Testamento rimane così provvisoria, rimanda a qualcosa che la supera. E infine da ultimo c'è Cristo che ci tocca dall'interno, al di là delle leggi esteriori, e ci indica così la direzione verso cui volgere interiormente la nostra vita. Per approfondire: Cfr. il sito www.gliscritti.it 9