atti del convegno
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atti del convegno
INTRODUZIONE L’evento si è svolto domenica 18 settembre 2017 e si è sviluppato in due momenti: 1. stage di Arti Marziali, presso la palestra dell’Oratorio di Caravaggio, aperto a tutti coloro che desideravano conoscere queste discipline, sperimentare alcune tecniche di difesa personale. 2. Tavola rotonda, presso il teatro San Carlo, per iniziare a prendere coscienza del fenomeno del bullismo, alla presenza di professionisti del settore, scuola, parrocchia e amministrazione comunale. Sono intervenuti: KARATE M° Libero Michelini KRAV MAGA M° Paolo Bosco KICK BOXING M° Andrea Corbetta MMA M° Roberto Suardi AIKIDO M° Andrea Anzalone Dott. Ireneo Mascheroni Direttore dei consultori familiari Accreditati di Treviglio e Caravaggio (coop. Sociale AGAPE) Mons. Angelo Lanzeni Parroco di Caravaggio Claudia Ariuolo Consigliere comunale - Educatore Professionale c/o ATS di Bergamo Dott.ssa Elena Foppa Psicologa c/o Centro Antiviolenza - SportelloDonna – SIRIO CSF Soc, Coop soc a.r.l ONLUS Prof. Giuseppe Di Sipio Dirigente Scolastico Istituto Comprensivo Mastri Caravaggini Avvocato Laura Rossoni Avvocato esperto in diritto di famiglia e dei Minori Dott.ssa Silvia Colnaghi Antropologa e Etnologa Prima parte Stage di Arti marziali: la parola ai Maestri Pensando al Bullismo e Arti Marziali Al giorno d’oggi quanti giovani si sentono fieri di essere dei bravi ragazzi? Molto pochi. Un titolo da perdenti; preferiscono assumere quello stupido comportamento da persone dure e insensibili per imitare i coetanei ad essere meglio all’interno della compagnia: una moda che ha contribuito allo sviluppo del bullismo, che si sta imponendo con una frequenza impressionante sia tra i bambini che gli adolescenti. Ultimamente i giornali riportano troppo spesso casi di bullismo che accadono nelle scuole o per strada, con episodi molto gravi e non sono mancati fatti gravissimi di bullismo che, a lungo andare, hanno portato le giovani vittime ad uno stato di forte depressione, e instabilità psicologica e purtroppo, a dei casi di suicidio. Ma perché si verificano questi fenomeni che coinvolgono ragazzi in azioni negative e talvolta piene di cattiverie per colpire dei compagni che spesso hanno l’unica colpa di essere troppo buoni per reagire? Per capire a fondo la questione bisogna analizzare i personaggi e le situazioni che entrano in gioco: i bulli, le vittime, le reazioni. I bulli si ritengono dei leader; per comandare e manipolare hanno bisogno di qualcuno più debole che non faccia parte del gruppo per coprirlo di insulti, preso in giro, per deriderlo e ferirlo in qualunque maniera. Ma cosa si nasconde dietro questa figura? Si tratta di ragazzi con problemi famigliari, ragazzi che non sanno gestire la loro aggressività , senza regole e rispetto, che esercitano atti di violenza e di sopruso e trovano una via per sfogarsi; oppure l’eccessiva autostima e il bisogno di essere sempre al centro dell’attenzione. L’elemento chiave è comunque la vittima. E’ un ragazzo riservato educato che spesso si trova isolato, non sufficientemente integrato nella scuola o nella cerchia di amici, che ha paura delle sue reazioni e di quelle degli altri e il più delle volte non si confida con nessuno. E questo è l’errore più grande perché il silenzio non aiuta a risolvere il problema anzi lo aggrava. Con questo fenomeno si sta mettendo in risalto la prepotenza, ma soprattutto il voler essere protagonisti e sostenitori di tutto quello che è illegale, non permesso, per il gusto di fare qualcosa di illecito senza pensare che in tale modo si colpisce la sensibilità della vittima che è cosi costretta per paura a subire uno stress umiliante. Il problema deve essere affrontato su più fronti; sono gli educatori, gli insegnanti, i genitori le forze dell’ordine le associazioni e le società sportive, in particolar modo le Arti Marziali, che dovrebbero far capire ai ragazzi che i veri valori sono altri e che la prepotenza e l’insensibilità verso i compagni e soprattutto i più deboli non sono degne delle persone civili. Le Arti Marziali che hanno come scopo lo studio e la diffusione del Tradizionale, nel pieno rispetto dei principi che ne fanno un mezzo davvero straordinario per lo sviluppo e la crescita armonica delle persone. Essendo un M° di Karate- Do Tradizionale, parlerò del Karate come riferimento a un'Arte Marziale , il Karate infatti impostato e trasmesso secondo i principi della tradizione, attraverso un lavoro armonico e completo sulla triplice dimensione fisica, emozionale e mentale, favorisce il riequilibrio e l’armonizzazione di queste tre componenti, consentendo al giovane di migliorare il carattere, di sviluppare disciplina e autocontrollo, di acquisire maggiore consapevolezza di se e degli altri. A.S.D. A.C. Kanyukai Keiko International Traditional Shotokan Goshin Karate-Do M° Michelini Libero Kickboxing e difesa personale vs bullismo. Circoscrivere il bullismo solo nel ambito scolastico è riduttivo. Sotto il nome di Mobbing, stalking ed altro si cela lo stesso principio che anima il “bullo”: prevaricazione, dominio, violenza fisica e psicologica sono elementi comuni sia nei contesti scolastici che lavorativi, ma anche in situazioni di ordinaria quotidianità. Il contributo contro il bullismo che può dare la pratica di uno sport da combattimento o di un sistema di difesa personale è quello relativo alla disciplina attraverso un allenamento mirato e volto ad accrescere l’allievo fisicamente e psicologicamente. L’istruttore ha un ruolo importante in questo contesto in quanto, oltre a seguire e formare gli allievi, deve creare e mantenere un clima di reciproco rispetto contenendo le eventuali esuberanze e stimolando le qualità positive di ognuno pur rispettandone le diversità fisiche e caratteriali; inoltre deve essere un esempio positivo soprattutto per i soggetti giovani facilmente influenzabili dagli esempi negativi. M° Andrea Corbetta MMA e Bullismo Questa è solo la mia idea personale da praticante e appassionato di arti marziali e la mia opinione riguardo alle arti marziali collegate al bullismo. Ritengo che ci potrebbe essere una connessione positiva tra le due cose, ma credo che sia molto difficile da far capire alla gente che non pratica abitualmente. Per chi pratica arti marziali da tanti anni, la cosa è più facile da vedere e da intuire. L'idea che solitamente hanno le persone o i genitori, è quella di ritenere che la pratica delle arti marziali contribuisca a peggiorare la situazione, portando magari il proprio figlio a subire di più o a reagire con più violenza e cattiveria rispetto a quello che sta subendo. Condivido pienamente questa preoccupazione, magari reagire alzando le mani in questi casi fa correre il rischio di ottenere l'effetto contrario! Il messaggio che vorrei trasmettere alle persone in questa giornata è qualcosa di più importante,e va oltre la parte “esterna” in cui si impara a muovere le mani. Io da piccolo non ho mai ricevuto per fortuna atti di bullismo vero e proprio, a parte le solite litigate di scuola, ma ho comunque subito alcune situazioni che anche se pur leggere, crescendo hanno influenzato molto il mio carattere in modo negativo. Posso solo immaginare comunque al giorno d'oggi, nei casi di vero bullismo, come possa essere veramente devastante per un ragazzino! Dal mio punto di vista va bene imparare una disciplina marziale, ma ritengo molto più importante crearsi un carattere attraverso la pratica costante ,cosa che aiuta una persona fragile a comunicare e trovare quel tantino di coraggio per parlare con gli altri e di affrontare le situazioni negative, esperienze negative che poi si trascinano per tutta la vita crescendo. Da piccolo e anche crescendo ho sempre avuto difficoltà a sentirmi a pari degli altri, ero nervoso, insicuro e facevo fatica a legare con altre persone! Adesso, a distanza di anni, e con la pratica, ho acquisito autocontrollo e più sicurezza nell'affrontare tutte le difficoltà che possono presentarsi nell'ambito lavorativo o nei rapporti con le altre persone. M° Roberto Suardi Bullismo: una spirale da rompere – L’uso strategico delle arti marziali come supporto per affrontare e gestire il fenomeno del Bullismo Aikido Per evitare di ridurre le potenzialità offerte dall’Aikido non procederemo con una sua definizione, in quanto se da un lato la definizione è un supporto, dall’altro ricordiamo ciò che Oscar Wilde ha scritto ne “Il ritratto di Dorian Gray”: <<Definire è limitare>>. L’aikido offre infatti, allo stesso tempo, molto più e molto meno di quanto generalmente non si creda; “molto più”, perché apre all’incontro tra culture, “molto meno” poiché non dà particolare enfasi alle cosiddette tecniche. La pratica dell’Aikido comporta in effetti il confronto con una cultura altra rispetto alla nostra (occidentale ed europea in particolare). Una cultura che presenta uno scarto1 significativo rispetto alle nostre categorie di pensiero. 1 Nei presenti appunti troverete molti riferimenti al “cantiere” aperto tra Occidente e Cina dal filosofo e sinologo Francois Jullien. Riteniamo che il suo lavoro possa essere utile anche a quella nicchia di mondo rappresentato dalle arti marziali (in particolare dall’Aikido) che ha subito il pregiudizio etnocentrico. Proprio a causa di questo pregiudizio i praticanti queste discipline non si sono accorti del reale potenziale e delle risorse a loro disposizione. E’ mancato un vero scarto culturale. Per la nozione di “scarto” e di “tra” cfr. F. Jullien, Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, Mimesis: << parlare della diversità delle culture nei termini di differenza disinnesca in anticipo ciò che l’altro dell’altra cultura può apportare di esterno e di inatteso, al tempo stesso sorprendente e sconcertante, disorientante e incongruo. Il concetto di differenza ci colloca fin dall’inizio in una logica di integrazione – di classificazione e di specificazione – e non di scoperta. La scoperta non è un metodo (p.41). (…)fare uno scarto significa uscire dalla norma, procedere in modo inconsueto, operare uno spostamento rispetto a ciò che ci si aspetta e a ciò che è convenzionale. In breve vuol dire rompere il quadro di riferimento e arrischiarsi altrove, temendo Il praticante verrà condotto in una sorta di “cantiere” sempre aperto tra Europa e Cina/Giappone, un ponte che lo farà metaforicamente spostare da un luogo all’altro mettendolo alla prova sia fisicamente sia mentalmente, in modo da apprezzare l’utilità dello scarto e i benefici del divario tra due modi di pensare e vivere. L’incontro con un Arte, con una disciplina Marziale che affonda le radici nel lontano Giappone e che viene praticata in un luogo chiamato dojo2, diventa per il bambino e in generale per il praticante un luogo di scoperta, l’inizio di un’avventura che non ha limiti talmente è vasta. Nella pratica dell’Aikido sin dal primo giorno di allenamento, si portano i bambini, i giovani e meno giovani a porre l’attenzione sulla respirazione (prima la propria e poi su quella del compagno). Si evidenziano i momenti in cui si inspira, si espira, si resta in apnea, i muscoli e gli organi coinvolti. Se in occidente si vive in una cultura dell’essere, in estremo oriente si vive in una cultura respiratoria evidenzia Francois Jullien. Le forme o tecniche arriveranno successivamente, dopo aver imparato le fondamenta/basi dell’aikido, prime fra tutte la postura e la respirazione3 appunto. Il termine giapponese che indica “respirazione” – kokyu- per il fatto stesso di essere composto sia dal pittogramma ko=espirare sia dal pittogramma kyu=inspirare rappresenta un importante indizio della polarità relazionale che caratterizza la cultura giapponese. Proprio nell’elemento più fondamentale per la vita, la respirazione, i giapponesi ripropongono l’interazione di yin e yang che, a livello macrocosmico, permette la regolazione del processo dei 10000 esseri, in sostanza la regolazione del mondo. In Cina/Giappone si ha un approccio di tipo relazionale, circolatorio delle energie (veicolate a partire dalla respirazione), un approccio in cui polarità opposte e complementari inter-agiscono fra loro e “lavorano” nel processo del reale4 altrimenti di arenarsi (p.45)>>. 2 Dojo viene tradotto con “luogo dove si pratica la Via”. Il maestro Pierre Chassang citando il Maestro N. Tamura diceva: <<Il Dojo è al tempo stesso un campo di battaglia e un luogo di culto>> 3 4 Cfr .Nobuyoshi Tamura., AIKIDŌ, Marseille 1986; Malcom Tiki Shewan kokyu-et-kokyu-ryoku-dans-les-budos-etl-aikido F. Jullien precisa: <<invece di dire essenza e modalità unitarie io mi esprimo in termini di relazione>>. Intervento presso l’Università di Parigi, Saggezza o filosofia, la via o la verità. Con riferimento al termine “processo” vedi, F. Jullien, Processo o creazione. Introduzione al pensiero dei letterati cinesi, tr. it di E. Pasini, M. Porro, Parma, Pratiche 1991 Respirare per il bambino diventa un momento di attenzione a sé, a ciò che avviene al proprio interno e allo scambio con l’esterno; in seguito diventa un momento di attenzione alle relazioni con gli altri. Si scopre l’importanza del momento di transizione tra espirazione e inspirazione, transizione che evidenzia uno “scarto” “vitale” sia tra i due momenti respiratori (inspirazione ed espirazione) sia tra respirazioni complete che ritmano e rappresentano il continuo processo di rinnovamento della vita. Qualcuno in passato ci ha chiesto, in modo molto pragmatico, come possa la respirazione essere utile alla vittima o al bullo5 ed abbiamo risposto che la consapevolezza che il giovane acquisisce, a partire dalla propria respirazione, troverà applicazione in tutti gli aspetti dell’allenamento di aikido: si partirà dalla gestione della respirazione silenziosa, si passerà a quella fragorosa (quando si eserciterà nel kiai 6 ) per arrivare al coordinamento respiro-gesto nelle cadute al suolo e nell’esecuzione delle forme/tecniche sino ad arrivare o meglio a tornare ad un gesto spontaneo permeato dal Kokyu ryoku7 (forza del respiro) e da esso vivificato. Siamo certi che, per una vittima di bullismo, apprendere che, partendo dalla propria respirazione, possa imparare a salvare il proprio corpo (significato delle “cadute” ukemi ), avere la forza di “urlare” consapevolmente in pubblico (kiai) e gestire le relazioni fisiche con i compagni siano potenti leve per accrescere la sua autostima e motivarlo a migliorare le sue potenzialità, anzi, sarà proprio l’accresciuta autostima che gli permetterà di fargli comprendere che potrà gestire in modo efficace i futuri rapporti di forza che incontrerà nel corso della sua crescita e nel corso della vita. I piccoli passi fatti con il desiderio di imparare e di mettersi alla prova costituiscono gli scalini che portano ai grandi cambiamenti. Per quanto riguarda il bullo, iniziare con l’esercitarsi nel controllare la propria respirazione ed essere stimolato da un approccio altro alle relazioni umane, veicolato tramite l’allenamento proposto dall’aikido, può, altresì, portare a significativi cambiamenti come nel caso della vittima. 5 Questa separazione tra teoria e pratica è proprio uno dei tipici esempi di pensiero greco occidentale ed è significativo che chi pone la questione in oggetto non consideri sufficientemente “pratico” già lo scarto tra oriente ed occidente in nuce nell’idea stessa di respirazione che apre le porte ad uno scambio estremamente proficuo di riflessioni. Restando comunque nel campo della pragmatica è immediato ai nostri occhi l’utilità di imparare a “tirare il fiato”, a “spezzare il fiato”, a “rallentare la respirazione”, a “controllare i battiti cardiaci”. Chi impara a gestire la respirazione (la transizione tra i propri vuoti e pieni) avrà buone probabilità di gestire le relazioni più complicate (i vuoti e pieni di tipo sociale). Cfr. anche Taisen Deshimaru, Lo zen e le arti marziali, SE, pag. 44 6 Il kiai è una sorta di manifestazione sonora, emessa tramite la respirazione, della concentrazione delle proprie energie in un gesto determinato. 7 Cfr. N. Tamura, Aikido, op.cit.; Malcom Tiki Shewan op. cit. Vuoto e pieno, assenza presenza, sono esempi di come l’oriente approcci i rapporti che sono di tipo relazionali-respiratori sia che si tratti di oggetti, sia che si tratti di persone. La tensione tra le polarità opposte e complementari yin-yang rappresenta il paesaggio naturale del pensiero estremo orientale (in Cinese lo stesso kanji usato per designare la parola “paesaggio” venendo tradotto con “montagne”-“acqua” ne indica la polarità in tensione). Tensione tra le polarità che i bambini affronteranno, gradualmente passando da pratiche individuali a pratiche a coppie e a esercizi in gruppi. Esercizi che verranno svolti reciprocamente, in modo alternato, scambiandosi i rispettivi ruoli. Ecco apparire un nuovo binomio: chi esegue la forma e chi la subisce (aite-uchi, uke-tori) in continua alternanza di ruoli. Si impara ad affrontare una delle più elementari paure, quella di cadere8 e farsi male, approcciando l’impatto con il suolo (la materassina su cui ci si allena), imparando a rotolare dolcemente e senza far assumere spigolosità al proprio corpo. La naturale conseguenza di questi esercizi è una stupefacente soddisfazione del praticante nel vedere come è possibile divertirsi “cadendo” per terra. In seguito si studierà la strategia e la conseguente gestione del rapporto con l’altro: rapporto di forza, conflitto, rapporto fisico e dialettico con l’altro. Il tutto partendo da esercizi con i quali è il corpo il principale strumento (utensile) di apprendimento. <<La mano informa il cervello>> era solito dire il Maestro Pierre Chassang9 e il Maestro Tamura avrebbe aggiunto che “l’aikido esprime per mezzo del corpo l’ordine dell’universo”. Dall’incontro/tensione con l’altro, con il compagno di lavoro (in un ambiente protetto come è appunto il dojo), può emergere la capacità di risolvere i problemi se impariamo a non focalizzarci su di essi. E’ infatti proprio la focalizzazione che crea il cosiddetto “effetto tunnel” che limita e ostruisce la strada all’individuazione di quei fattori che possono far propendere a nostro vantaggio la situazione in essere e, nel caso concreto (aikidoisticamente parlando), a trasformare a nostro favore il processo tecnico in corso. Una semplice “presa” al polso comporta, spesso, sia in chi la subisce sia in chi la esegue l’effetto di far perdere l’attenzione alla propria postura, alla propria respirazione e all’ambiente circostante per concentrarsi, invece, unicamente nel punto in cui avviene il contatto fisico. Si resta talmente “presi” 8 Cfr. Vedi Gaku Homma, Aikido per la vita, Phasar edizioni, pag. 69 cap. 10 – Cadere è naturale 9 Pierre Chassang, Aikido. Dis-nous ce que tu sais, autopubblicato. Per un approfondimento relativo a come viene inteso ”corpo” in Cina e Giappone vedi anche Marcello Ghilardi pluralità del "corpo" e F. Jullien, La grande immagine non ha forma, Colla Editore.; Shitao, Discorsi sulla pittura del monaco zucca amara. A cura di M. Ghilardi; Cfr. anche N. Tamura, Aikido - Etichetta e Disciplina, Ed. Mediterranee, pag. 21:<< l’aikido esprime per mezzo del corpo l’ordine dell’universo>> dal ripetere meccanicamente gli stessi strattoni per tentare invano di liberarsi o, nel caso di chi afferra, per cercare di tenere più forte per non perdere la presa, da perdere, invece, la capacità di pensare altrimenti. Paul Watzlawick evidenziava come in molti casi sono proprio le soluzioni tentate a mantenere il problema o ad aggravarlo10. Ci auto-blocchiamo, restiamo invischiati nelle nostre fissazioni che, scavando solchi sempre più profondi, ci rendono difficile uscirne e vedere altre soluzioni. Questo è un tipico caso in cui ci sono le condizioni per suggerire ai praticanti che a volte il lasciarsi andare, il “rilasciare la tensione 11 ”, comporta come conseguenza la soluzione del problema, in quanto si possono trasformare le sfavorevoli condizioni iniziali, in cui si era in stallo, bloccati per un eccesso di pieno e una carenza di vuoto, in un processo in cui l’improvviso rilassamento e la conseguente mancanza di “appoggio” alla presa comporta un vuoto funzionale a dinamizzare la relazione, rimettendo in gioco nuovi momenti-opportunità. Nuovi momenti di transizione contenenti quei fattori di supporto che, se individuati sul nascere, possono essere indirizzati con poco sforzo in modo da far propendere a nostro favore la nuova situazione innescata. Altrettanto utile potrebbe essere suggerire di porre l’accento sulla “durata” e sulla “pazienza”: infatti, nel momento in cui si viene afferrati dal compagno, si potrebbe evidenziare come la forza dell’avversario non duri per sempre, anzi, più questo stringe e più i suoi muscoli si stancano, di conseguenza, chi è afferrato, se resta attento, vigile (disponibile 12 e aperto), può individuare il momento in cui la situazione comincia a trasformarsi, in modo da individuare immediatamente i primi indizi di cambiamento e sfruttare così a proprio vantaggio il momento-opportunità più 10 Cfr. Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967). Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio e Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974). Change. La formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio; cfr anche Nardone, G., Fiorenza, A. (1995). L'intervento strategico nei contesti educativi. Comunicazione e problem-solving per i problemi scolastici. Milano: Giuffrè.; Nardone, G., Giannotti, E., Rocchi, R. (2001). Modelli di famiglia. Milano: Ponte alle Grazie 11 Vale anche per chi afferra, in quanto una presa salda ma rilassata permette di un migliore adattamento ai cambiamenti. Cfr anche Taisen Deshimaru, Lo zen e le arti marziali, SE, p. 67 dove si collega il “lasciar la presa” e il raggiungere la “spontaneità”. 12 <<In Cina la disposizione del saggio è fondata sulla disponibilità: ovvero un’apertura dove tutto rimane possibile. In effetti, ciò che fa dell’uomo un saggio, in Cina, è il non fermarsi mai in una posizione precisa e statica>> in Intervista Francois Jullien a cura di Andrea Mayer, tr. di Elena Acuti adeguato nel processo che sta maturando13. Ci si può liberare dalla presa con grande semplicità, senza forzare, proprio nel momento in cui si individua il vuoto di forza del compagno14. In questi casi siamo soliti evidenziare l’utilità di imparare a prendere coscienza proprio di quei momenti di passaggio e transizione che si sperimentano tra una posizione di pieno e una di vuoto, tra un momento di vantaggio e uno di svantaggio, con lo stesso impegno con cui si pratica la respirazione per affinare la propria consapevolezza della transizione tra 15 inspirazione ed espirazione. L’Aikido contribuisce ad affinare i sensi per individuare le transizioni più sottili sia tra stati fisici sia tra quelli emotivi; questa attività di auto-investigazione contribuisce, a propria volta, a migliorare ciò che viene chiamata padronanza di sé16. Altra strategia possibile è quella di sfruttare la resistenza dell’altro per innescare il cambiamento favorevole 17 : spingo il braccio del compagno per ottenere una controspinta di reazione che canalizzo a mio vantaggio. Si può vincere in modo facile, anzi questo è uno dei più significativi insegnamenti di Sun Tzu. Quelli sopra riportati sono elementari esempi di Strategia che possiamo dire essere indiretta e tipica dell’estremo oriente rispetto a quella diretta ed immediata tipica di noi europei. Probabilmente il barone Von Clausevitz 18 , nelle stesse situazioni, avrebbe elaborato un piano/modello tale da avere i mezzi per distruggere l’avversario nel minor tempo possibile e con il 13 Cfr. Trattato dell'efficacia, tr. it. di M. Porro, Torino, Einaudi 1998 14 E’ un esercizio per affinare la propria sensibilità ai cambiamenti. 15 Il concetto di “tra” può essere approfondito nell’aikido parlando del “ma” giapponese che viene tradotto in modo incompleto e superficiale con “distanza” (“ma-ai”). 16 Cfr. Kenji Tokitsu, Lo Zen e la via del karate, SugarCo, pag. 9.<<In questo tipo di lotta bisogna prima cogliere l’altro ed essere consapevoli di sé>> 17 Sulla “prescrizione del sintomo” cfr Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967). Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio. Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974). Change. La formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio 18 maggior danno ravvisabile. Sun Tzu19 predilige invece il conquistare uno stato intatto o vincere senza combattere. Nella nostra esperienza abbiamo notato che il secondo approccio strategico rappresenta, per i giovani, una preziosa scoperta. Essi stessi si divertono a trovare innumerevoli applicazioni nella vita di tutti i giorni (in famiglia, a scuola, con gli amici, in oratorio) e questa loro applicazione al gioco “vinci facile” contribuisce a rafforzare la fiducia nelle proprie capacità. Il gioco lavora in modo discreto (non forzato), con tempi lunghi, contribuendo a porre le condizioni necessarie affinché si inneschi o si rafforzi il processo di cambiamento che vede il giovane diventare consapevole delle proprie possibilità di controllo/gestione di una situazione in cui l’avversario è più forte (o sembra tale). Tuttavia, il passaggio tra lo stato di impotenza e frustrazione causata da atti di bullismo e quello di gestione e controllo rientra nei cambiamenti che richiedono tempo, una durata lunga (anche anni), e deve essere accompagnato dal supporto e dalla solidarietà di tutti gli attori coinvolti nel processo educativo. Si tratta di un intervento sistemico con uno scambio di informazioni continuo e approfondito che ha come centro la famiglia del bambino e come periferia tutte le aggregazioni sociali che lo vedono coinvolto e con le quali interagisce abitualmente. La formazione, l’educazione, l’esempio tramite gli esercizi praticati nel dojo aiutano a migliorare, nel bambino e nel praticante in generale, a seconda dei casi, autostima, fiducia in sé stesso, autocontrollo, autodisciplina, gestione delle relazioni, a condizione che l’allievo sia seguito da un maestro 20 che sappia dare l’esempio e sappia trasmettere ai discenti il piacere dell’allenamento, della scoperta e della ricerca. 21 Attività queste che lo stesso insegnante non cessa di praticare proprio perché arricchito dalle sempre nuove relazioni dipendenti dagli allievi: si può dire, anzi, che è egli stesso che apprende22 dai praticati più di quanto loro non apprendano da lui. In effetti è lui Cfr. Carl von Clausewitz, Della Guerra, Milano, Mondadori, 1997 19 Cfr. L'arte della guerra, Milano, Oscar Mondadori, 2003 20 Parleremo qui di “maestro” in senso generico senza distinguerlo da “insegnante”, “educatore”, “istruttore” ecc. 21 Cfr. Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, citando Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza: <<…Un mezzo più sicuro di tutta questa roba, e quello che da sempre si dimentica, è il desiderio di apprendere. Date al bambino questo desiderio poi lasciate da parte le tavole (…), ogni metodo sarà buono per lui….>> 22 Vedi N. Tamura, Aikido - Etichetta e Disciplina, Ed. Mediterranee, pag. 14:<< Insegnare è apprendere>> (significativo anche la traduzione data al titolo originale – Etiquette et Transmission. Ndr); vedi anche pag. 14-16 cap. che ha già appreso la strategia della disponibilità, la capacità di rimanere aperto al cambiamento e di individuarne i minimi indizi, per cui è avvantaggiato nell’apprendimento rispetto a chi inizia gli allenamenti pieno di nozioni che lo limitano e bloccano. Il maestro non aggiunge informazioni, semmai le toglie, ma a partire da sé stesso. Quando abbiamo i polmoni pieni di aria non possiamo più respirare se non li svuotiamo. In particolare è nell’inter che compone la parola “inter-relazione” tra allievo e maestro che avviene la scoperta di sé e dell’altro (un po’ come avviene nel dia del dia-logo). Questa considerazione vale in generale, ma vale soprattutto e ancora di più nel caso di situazioni delicate come quella del bullismo o nei casi di violenza. In apertura accennavo al fatto che spesso le arti marziali offrono più di quanto non ci si aspetti per il fatto che esse rappresentano una cultura altra rispetto alla nostra. Rappresentano un vero e proprio “scarto” culturale, dove per “scarto” intendo una “distanza”, una “frattura” a cui non siamo abituati e che, come abbiamo visto con gli esempi esposti in precedenza, risulta essere un’utilissima risorsa strategica per riflettere e studiare su ciò che ci è più vicino, sul nostro abituale modo di pensare e di affrontare le cose. Il maestro, come accennavamo in precedenza, è la persona che ha la capacità di tenere in “tensione” i poli di questo “scarto” culturale e di stimolare la curiosità dei praticanti in modo che si inneschi un processo virtuoso di approfondimento e ricerca reciproca che aiuti a non trascurare “l’impensato del proprio pensiero” (cfr Francois Jullien). Parafrasando questa citazione ed applicandola all’Aikido, potremmo dire: “ per non trascurare l’impraticato della nostra pratica”. Quando si varca la porta della palestra, in realtà, si varca la soglia di un “dojo” (luogo dove si pratica la “via”). Quando si incontra un maestro di Aikido questo probabilmente instaurerà un rapporto discreto ma globale nelle relazioni che legano l’allievo, la sua famiglia e gli amici: maggiore è il numero delle persone coinvolte nella relazione, più essa è foriera di informazioni utili alla scoperta. L’insegnante, pag. 20-21 cap. Finalità dell’insegnamento, pag. 24-32 Metodo d’insegnamento. Sulle caratteristiche personali del “Maestro” cfr anche Giangiorgio Pasqualotto, East & West. Identità e dialogo interculturale, Ed. Marsilio, pag. 81 e seguenti; Miyamoto Musashi, Il libro dei cinque anelli, Ed. Mediterranee, pag. 47:<<(Il maestro)…deve conoscere le capacità e i limiti dei suoi collaboratori e deve stimolarli quando è opportuno senza tuttavia pretendere l’impossibile. Anche la strategia militare deve seguire questa linea di condotta (…) nulla deve essere trascurato (…)>> In Giappone era tradizione che si dovessero portare lettere di presentazione di persone conosciute al fine di essere accettati come candidati per la pratica; non dimentichiamo che parliamo di disciplina marziale. Gli allievi potevano trasferirsi a vivere nella casa del maestro, occuparsi della pulizia della casa e prendersi cura delle occupazioni quotidiane dello stesso. Il maestro si interessava dell’attività lavorativa del praticante e poteva coinvolgere i più adatti nell’insegnamento . Spesso, infine, il maestro assumeva la paternità spirituale del giovane ed in alcuni casi, quando non aveva discendenti, era usanza che adottasse un proprio studente o un terzo al fine di trasmettere la propria Arte. Il maestro è un “esempio” sia per gli aspetti teorico-pratici sia per quelli relazionali - strategici. Mostra il percorso ma non forza il cammino dei praticanti. Si adatta ad ognuno di loro in base alle loro necessità cercando di far germogliare le potenzialità di ciascuno23. In occidente utilizziamo, in modo analogo, ma non identico, il termine “ educare” - educere – nel senso di tirar fuori ciò che è già dentro l’allievo. In ogni modo il maestro non si atteggia né a guida né a mero accompagnatore, diciamo piuttosto che, in quanto “nato prima” (significato di “sensei”), è semplicemente “più avanti” nella via e ne suggerisce il percorso, segnala gli ostacoli, influenza24 gli allievi con il proprio esempio. E’ in grado di farsi vuoto per meglio accogliere le osservazioni e gli stimoli che gli allievi gli offrono: uno svuotamento utile per accumulare nuovo potenziale. Corregge sé stesso e così facendo accresce la propria disponibilità verso gli altri. Con discrezione si farà più presente o più assente a seconda delle circostanze ma praticherà sempre con gli allievi25. Proprio questa sensibilità sottile sarà un utile supporto nei casi di bullismo al fine di individuare le differenti tipologie di attori di fronte a lui. Sappiamo infatti che non esistono solo il bullo e la vittima ma molte altre figure ancora, alcune delle quali insidiose, difficili da riconoscere perché 23 Con riferimento allo sviluppo delle potenzialità cfr. Fondamenti del Judo in quaderni del Bu-Sen Kyu Shin Do a cura di H. Asaki e C. Barioli, pag. 80 << Shuyoo – coltivazione del corpo: sviluppo della tendenza naturale di ogni persona>> 24 Il termine qui è da intendersi solo con accezione positiva e non negativa. 25 Cfr Daniel Pennac op. cit. pag. 76,:<<quel professore non inculcava un sapere, regalava quel che sapeva. (…) l’uomo che legge ad alta voce ci eleva all’altezza el libro. Dà veramente da leggere!>> sovrapponibili fra loro e ambivalenti (es. vittima provocatrice)26. Indichiamo le principali figure e rimandiamo agli esperti per gli adeguati approfondimenti e distinzioni: Vittima passiva, vittima reattiva Bullo leader, bullo freddo, bullo aggressivo, bullo ansioso-agitato, bullo spavaldo, bullo amico Figure ambivalenti: emarginato violento, vittima ambigua, vittima provocatrice. Il maestro deve essere attento a tutto, ai minimi indizi, senza tuttavia farsi vedere attento in quanto l’attenzione può essere considerata una sorta di riconoscimento sociale che il bullo ricerca (ecco un altro esempio di ciò che chiamiamo presenza-assenza). Il bullismo è un’attività antisociale altamente negativa che il maestro deve prevenire o quanto meno bloccare sul nascere intervenendo in modo immediato, immancabile e ineluttabile con la sanzione adeguata27 alla situazione, senza un coinvolgimento personale manifesto (che lo faccia percepire aggressivo). La sanzione e l’atteggiamento sono esempi importanti sia per il bullo, che ha la possibilità di rendersi conto dell’errore, sia per la vittima che si sente al sicuro. Azione – reazione, condizione- conseguenza applicate in ogni ambiente collegato agli attori in gioco ne permette la maturazione. Da qui l’importanza dello scambio di informazioni, per il tramite dei genitori, con tutti i centri di aggregazione sociale ivi compreso le forze dell’ordine qualora si dovessero ravvisare estremi di reato o situazioni limite. Primo dovere del maestro è quindi intervenire per bloccare ogni comportamento antisociale. Dopodiché tempo, pratica, pazienza ed esempio potranno influenzare positivamente i giovani, contribuendo a far crescere persone sicure di sé e consapevoli delle proprie capacità. Si devono coltivare le condizioni affinché i giovani possano maturare il loro pieno potenziale, così come per 26 Cfr fra tutti: Olweus D., Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono", Giunti Editori; Guarino A., Lancellotti R., Serantoni G. (2011) Bullismo: aspetti giuridici, teorie psicologiche e tecniche di intervento; http://www.educabimbi.it/bullismo-libro-online/ ; http://www.generazioniconnesse.it/index.php?s=3 ; http://www.carabinieri.it/cittadino/consigli/tematici/questioni-di-vita/il-bullismo/il-bullismo ; http://www.azzurro.it/it/informazioni-e-consigli/consigli/bullismo/che-cos%E2%80%99%C3%A8-il-bullismo 27 La sanzione non dovrà mai essere di tipo violento ma certamente potrà essere fisica come quella di far eseguire piegamenti sulle gambe al bullo, farlo restare nella “posizione del cavaliere” (kibadachi) per un certo tempo, far eseguire piegamenti sulle braccia (se si tratta di bambini o adolescenti bisogna avere l’accortezza di fargli mantenere le ginocchia a terra per evitare che lo sforzo sia eccessivo per l’ossatura non ancora adeguata). In sostanza la sanzione diventa un esempio per gli altri e un “toccasana” per il bullo. Si dovrà anche vietare ai compagni di schernire il punito. far crescere una pianta non ci si può mettere a tirarla per le foglie ma solo zapparle intorno, concimarla e innaffiarla. Questa metafora spiega chiaramente che il “non agire” taoista -<< wu wei er wu bu no wei28 (non fare nulla in modo che nulla non sia fatto/ non fare nulla ma che nulla non sia fatto) non ha niente a che vedere con il nichilismo o l’abbandono di qualunque attività, bensì con il mettersi in fase29 con il processo del mondo. A lungo termine la pratica marziale contribuirà ad aumentare l’autostima della vittima e ad indirizzare il bullo verso la comprensione dei propri errori. E’ necessario, a questo fine, che i bambini vengano avviati alla pratica marziale sin dall’infanzia. Intendo dire che prima i giovani vengono avviati all’Aikido più facile è risolvere le situazioni negative in cui incorrono; al contrario, più si ritarda più risulterà difficile. Questo succede quando le vittime di bullismo superano i 15/16 anni mentre, se si tratta di bulli, si ha qualche possibilità di successo in più. Ai genitori raccomandiamo di non forzare il proprio figlio a frequentare un corso di Aikido, bullo o vittima che sia. Non portatelo in palestra con la speranza che impari a controllarsi o a difendersi : tutto ciò è inutile se non si inter-agisce sinergicamente a tutti i livelli sociali a partire dai rapporti inter-famigliari. Da ultimo, ma non per importanza, accenniamo allo “scarto” tra occidente e Giappone per quanto riguarda il metodo di insegnamento. Dal lato europeo troviamo la modellizzazione. Dal lato Cinese e Giapponese troviamo la maturazione del potenziale della situazione come ha ben illustrato nelle sue opere il filosofo e sinologo francese Francois Jullien. Da un lato troviamo la progettualità 30 per obiettivi tipica delle nostre istituzioni scolastiche che combattono il bullismo ricercando la ripetibilità scientifica di un progetto/modello a livello 28 F. Jullien, Trattato dell’efficacia, op.cit.; La grande Immagine non ha forma, op. cit. 29 “Essere in fase” è un’espressione usata da F. Jullien. In Aikido parliamo di armonia e di armonizzazione che tuttavia possono dare adito a confusioni. 30 Cfr ad es: http://ita.tabby.eu/il-progetto-tabby.html contro il bullismo oppure http://www.tabby.eu/.Vedi anche Atti del seminario di studio: Difesa personale, prevenzione del bullismo e sicurezza sociale, a cura di Luca Elid e Marco Bussetti all’interno del progetto: “Formazione degli insegnanti di educazione fisica di ogni ordine e grado delle scuole della Lombardia sulle scienze motorie e sportive nelle scuole” (www.irrelombardia.it) promosso dalla Direzione Scolastica Regionale della Lombardia, dalla Direzione Generale Sport della Regione Lombardia, nazionale o locale; dall’altro incontriamo la propensione alla trasformazione del processo in corso, della situazione/relazione. Da una parte si tende ad agire con piani e modelli disegnando i fini e predisponendone i mezzi; dall’altra si pongono le condizioni affinché maturi il potenziale della situazione. Da un lato si agisce in modo locale e diretto, dall’altro si trasforma in modo globale e silenziosamente. Quante risorse abbiamo a nostra disposizione! Sfruttiamole tutte a nostro vantaggio per sconfiggere il bullismo! L’Akido e le arti marziali, come dicevamo in precedenza, possono contribuire a risolvere questo fenomeno a condizione che tutte le differenti forme di aggregazione sociale facciano sistema: famiglia, scuola, oratorio, associazioni sportive, culturali, CRE, scout, centri di ascolto ed assistenza, forze dell’ordine, ecc. Queste forme di aggregazione sociale devono inter-agire fra loro tramite le persone ad esse preposte al fine di combattere e sradicare la negatività che accompagna il bullismo, facendo sistema con spirito di solidarietà e collaborazione. Concludiamo evidenziando i potenziali rischi cui si può andare incontro nella frequentazione di palestre, dojo e in genere di ambienti che hanno a che vedere con l’oriente. Qui aleggia sempre il pesante rischio non tanto di farsi male fisicamente, quanto quello che il bambino si faccia male moralmente o psicologicamente. Questo accade quando il (pseudo) maestro ha, da una parte, come modello l’oriente esotico e vive l’Aikido come una sorta di facile disciplina di vago sviluppo personale - perché incapace di seguire il rigore ed i sacrifici che l’arte richiede- e dall’altra quando confonde autorevolezza con autoritarietà. L’accettazione acritica delle istruzioni, la mancanza di verifica dia-logica (e non solo), la mancanza di regole condivise (ma solo imposte), comporta il facile plagio dell’allievo, con il rischio di cadere nel “gurismo” e nel “settarismo31”. Rischi questi che potrebbero causare danni ben più gravi dei motivi per cui ci si vuole avvicinare alla disciplina dall’Agenzia scolastica – Nucleo Territoriale Lombardia e LITOS A. Steiner di Milano. Per progetti Aikido-Scuola vedi http://www.amicidellaikido.it/grandi/EcoBergamoApr2013.jpg Amicidellaikido – IIS Guglielmo Oberdan, Gestione dei Rapporti di Forza 31 http://www.amicidellaikido.it/images/attitudine.pdf - Amicidellaikido, Praticare con tutti, :<< Con questi “ismo” intendiamo l’aspetto più negativo dell’essere guru, o meglio, combattiamo un diffuso atteggiamento che consiste nel nascondersi dietro maschere di sedicenti maestri di vita per fuorviare, traviare i propri allievi limitandone il senso critico e la libertà, per assoggettarli invece all’obbedienza più passiva. Cfr anche Stanley Milgram, Obbedienza all’autorità, Einaudi>>. marziale. Ed è qui che la relazione tra Maestro e Genitore assume tutta la sua importanza strategica: inter-relazione per confronto, indagine e verifica reciproca, nell’interesse dell’Allievo-Figlio. Gli Amicidellaikido vi aspettano per praticare tutti insieme. A presto. Qui di seguito riportiamo le indicazioni per una corretta pratica esposte nel dojo del fondatore dell’aikido dal 1938, condivise da tutti i praticanti Disposizioni per la pratica – testo affisso nel dojo di O-Sensei dal 1931 Un colpo, in Aikido, può decidere per la vita o per la morte. Durante la pratica, obbedite alle istruzioni di chi dirige il corso. Non trasformate la pratica in un assurda prova di forza. I- L’Aikido è una disciplina attraverso la quale, per mezzo dell’UNO si possono raggiungere i diecimila esseri. Anche con un solo avversario, non bisogna occuparsi unicamente di chi abbiamo davanti; è necessario praticare restando attenti alle quattro e alle otto direzioni. II- Bisogna lavorare in un clima di gioia. III- L’insegnamento di chi tiene il corso, non rappresenta che un frammento dell’Aikido. IV- Quando sarete pervenuti alla conoscenza attraverso il corpo, la ricerca, l’allenamento quotidiano e costante di sé stessi, vi permetteranno il reale uso delle meraviglie dell’Aikido V- L’allenamento giornaliero comincia con TAI NO HENKA, in seguito si pratica sempre più intensamente senza superare i propri limiti, ciò permette anche a persone anziane, di praticare con piacere per raggiungere lo scopo della pratica senza il rischio di farsi male. VI- L’Aikido è una ricerca che tende, attraverso l’esercizio del corpo e dello spirito, a plasmare un uomo dal cuore retto. Tutte le tecniche, senza eccezione, sono segrete e non possono essere mostrate senza cautela a chi non pratica. Bisogna evitare di insegnare l’Aikido a chi potrebbe farne un cattivo uso. Riepiloghiamo i punti accennati in questo incontro Aikido ponte tra culture: luogo di scoperta per il bambino Respirazione e i processi relazionali: tensione tra opposti complementari yin-yang Strategia della disponibilità: individuare le trasformazioni in corso: affinamento della sensibilità Importanza strategica del gioco per la maturazione del bambino: “divertirsi cadendo” – “vinci facile” Interrelazione sistemica per combattere il bullismo La figura del maestro-sensei Tipologie di bulli e vittime Interventi: caratteristiche della punizione Metodo di insegnamento: progetto e modello o adattamento e maturazione Rischi delle arti marziali Disposizioni per la pratica dell’aikido 1938 M° Andrea Anzalone Seconda parte Tavola rotonda CONVEGNO “BULLISMO: UNA SPIRALE DA ROMPERE” CARAVAGGIO DOMENICA 18 SETTEMBRE 2016 A cura del dr. Ireneo Mascheroni* L’ iniziativa di sensibilizzazione e contrasto al fenomeno del bullismo “Una spirale da rompere” si caratterizza per alcuni elementi di particolare rilievo. Il momento è promosso congiuntamente da diverse associazioni che praticano ed insegnano arti marziali - Karate – Krav Maga – Kick boxing – MMA – Aikido - che intendono così offrire un'occasione di confronto su come queste discipline possono aiutare ad affrontare e gestire il fenomeno del bullismo in chiave non solo di “difesa personale”, ma soprattutto pedagogica, relazionale, culturale. Una proposta che, realizzata in questo modo, rappresenta un caso abbastanza raro nel panorama delle iniziative di formazione su questo particolare tema. La seconda caratteristica di rilievo è il fatto che queste associazioni sportive hanno chiamato a riflettere sul tema del bullismo diversi soggetti sociali – mondo ecclesiale, scuola, amministrazione comunale, servizi sociosanitari come i consultori privati accreditati di Treviglio e Caravaggio e il Centro Antiviolenza della coop. Sirio - ad indicare il fatto che il fenomeno del bullismo, e in generale della gestione dei conflitti, riguarda più ambiti, interessa più agenzie educative, a cominciare dalla famiglia. E’ convinzione di tutti che il fenomeno vada affrontato in un’ottica di collaborazione sistemica tra agenzie, su un piano che è prima di tutto educativo e culturale. Ma di che cosa stiamo parlando? Cos’è il bullismo? Il bullismo viene definito comunemente come un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona - o da un gruppo di persone - più potente nei confronti di un’altra persona percepita come più debole32. Così uno studente è oggetto di bullismo quando viene esposto ripetutamente, nel corso del 32 tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni. Un comportamento ‘bullo’ è un tipo di azione che mira deliberatamente a far del male o a danneggiare; spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi, persino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare. Dalle diverse definizioni sopra presentate, è possibile ricavare alcuni elementi comuni che delineano il fenomeno nella sua specificità: • L’intenzionalità. Gli atti bullistici sono intenzionali, deliberati: il bullo agisce con l’intenzione e lo scopo preciso di dominare sull’altra persona, di offenderla e di causarle danni o disagi. • La persistenza nel tempo. Sebbene anche un singolo fatto grave possa essere considerato una forma di bullismo, di solito gli episodi sono ripetuti nel tempo e si verificano con una frequenza piuttosto elevata. • L’asimmetria della relazione. La relazione tra bullo e vittima è di tipo asimmetrico: viene ad instaurarsi una disuguaglianza di forza e di potere, per cui uno dei due sempre prevarica e l’altro sempre subisce, senza riuscire a difendersi. La differenza di potere tra il bullo e la vittima deriva essenzialmente dalla forza fisica. Altri fattori che intervengono sono la differenza di età (i bulli sono generalmente bambini più grandi) o il genere sessuale (il ruolo di bullo è generalmente agito da maschi mentre le vittime possono essere indifferentemente maschi o femmine). Spesso gli episodi di bullismo vedono coinvolto un singolo soggetto contro un altro; è però altrettanto frequente il caso in cui a mettere in atto le prepotenze sia un gruppetto di 2 o 3 persone ai danni di una sola vittima. Gli episodi di prepotenza si possono manifestare con diverse modalità, più o meno esplicite e più o meno evidenti. Due sono le principali forme di bullismo: diretto e indiretto. Il bullismo diretto è costituito dai comportamenti aggressivi e prepotenti più visibili e può essere agito in forme sia fisiche sia verbali. Il bullismo diretto fisico consiste nel picchiare, prendere a calci e a pugni, spingere, dare pizzicotti, graffiare, mordere, tirare i capelli, appropriarsi degli oggetti degli altri o Farrington, D. P. (1993d). Understanding and preventing bullying rovinarli. Il bullismo di tipo indiretto, invece, si gioca più sul piano psicologico, è meno evidente e più difficile da individuare, ma non per questo meno dannoso per la vittima. Esempi di bullismo indiretto sono l’esclusione dal gruppo dei coetanei, l’isolamento, l’uso ripetuto di smorfie e gesti volgari, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul conto della vittima, il danneggiamento dei rapporti di amicizia. Il bullismo è una tra le possibili manifestazioni di aggressività messe in atto dai bambini e dagli adolescenti. Sebbene non sia sempre semplice riconoscere ad un primo sguardo le differenti tipologie di comportamenti aggressivi, è però possibile distinguere quelli più specificamente riconducibili alla categoria “bullismo” da quelli che, invece, non entrano a far parte di questo fenomeno. Una prima categoria di comportamenti non classificabili come bullismo è quella degli atti particolarmente gravi, che più si avvicinano ad un vero e proprio reato. Attaccare un coetaneo con coltellini o altri oggetti pericolosi, fare minacce pesanti, procurare ferite fisiche gravi, commettere furti di oggetti molto costosi, compiere molestie o abusi sessuali sono condotte che rientrano nella categoria dei comportamenti antisociali e devianti e non sono in alcun modo definibili come “bullismo”. Allo stesso modo, i comportamenti cosiddetti “quasi aggressivi”, che spesso si verificano tra coetanei, non costituiscono forme di bullismo. I giochi turbolenti e le “lotte”, particolarmente diffusi tra i maschi, o la presa in giro “per gioco” non sono definibili come bullismo in quanto implicano una simmetria della relazione, cioè una parità di potere e di forza tra i due soggetti implicati e una alternanza dei ruoli prevaricatore/prevaricato. A contribuire alla difficoltà di distinguere con chiarezza che cosa sia il bullismo e, soprattutto, ad ostacolare gli interventi per contrastarlo, giocano un ruolo di rilievo alcuni pregiudizi e luoghi comuni diffusi nell’immaginario collettivo: • il bullismo, in fondo, è solo “una ragazzata”. Al contrario, gli atti bullistici sono tutt’altro che un gioco, anche se spesso i bulli si nascondono dietro a questa giustificazione per evitare la punizione. • Il bullismo fa parte della crescita, è una fase normale che serve a “rafforzarsi”. In realtà il bullismo non è un fenomeno fisiologicamente connesso alla crescita e non serve affatto a rinforzare, ma crea disagio e sofferenza sia in chi lo subisce che in chi lo esercita. • Chi subisce le prepotenze dovrebbe imparare a difendersi. La vittima non è in grado di difendersi da sola e il continuo subire prepotenze non la aiuta certo a imparare a farlo, ma aumenta il suo senso di impotenza. • Le caratteristiche esteriori della vittima rivestono un ruolo fondamentale. Si pensa comunemente che ad influire in modo decisivo nella “designazione della vittima” intervengano l’aspetto fisico e alcuni particolari esteriori come l’essere in sovrappeso, avere i capelli rossi, portare gli occhiali, avere un difetto di pronuncia. In realtà molti bambini possiedono tali caratteristiche, senza per questo essere vittime di atti di bullismo. Piuttosto, spesso i bulli portano tali elementi come “giustificazione” per i loro gesti. • Il bullismo è un fenomeno proprio delle zone più povere e degradate, è più diffuso nelle grandi città, nelle scuole e nelle classi più numerose. Tali convinzioni non trovano riscontro nella realtà. Il bullismo è infatti altrettanto diffuso nelle zone più benestanti dal punto di vista socioeconomico, così come nelle scuole e nelle classi meno numerose. • Il bullismo deriva dalla competizione per ottenere buoni voti a scuola. Talvolta si crede che il bullo agisca aggressivamente in seguito alle frustrazioni per i ripetuti fallimenti scolastici: questa opinione non ha fondamento, anche perché sia i bulli che le vittime ottengono a scuola voti più bassi della media. • Il bullo ha una bassa autostima e al di là delle apparenze è ansioso e insicuro. Il bullo è un soggetto con un forte bisogno di dominare sugli altri ed è incapace di provare empatia. Generalmente non soffre di insicurezza o ansia, e la sua autostima è nella norma o addirittura superiore alla media. Permettetemi infine di fare cenno ad una forma particolare di bullismo oggi molto attuale, al quale anche i nostri consultori accreditati di Treviglio e Caravaggio stanno dedicando una particolare attenzione proponendo percorsi di formazione specifici agli alunni delle scuole del territorio, nell’ambito dei progetti di educazione alla affettività sostenuti dall’ATS di Bergamo. Sto parlando del cyber bullismo, definito come una forma di bullismo fatta attraverso l'uso di tecnologie digitali: internet e telefoni cellulari vengono utilizzati per minacciare, spaventare o impedire le comunicazioni.33 Squilli anonimi, messaggi con minacce, insulti in chat sono esempi di cyberbullismo. Questo fenomeno presenta differenze particolari rispetto al bullismo: anonimato, assenza di contatto diretto tra cyberbullo e vittima, invisibilità della vittima; assenza di limiti spazio-temporali; deresponsabilizzazione e diminuzione del senso di colpa, visibilità. Un fenomeno al quale è necessario prestare la massima attenzione. Entriamo nel dibattito: Mons. Angelo Lanzeni, presbitero della Diocesi di Cremona, arciprete della comunità dei Santi Fermo e Rustico in Caravaggio, la parrocchia più grande della diocesi di Cremona con oltre 14.000 abitanti. Il contrasto ad ogni forma di violenza e la promozione di una cultura della convivenza, della tolleranza e del rispetto è impegno di tutte le realtà del territorio. A lui chiediamo: come la comunità cristiana si lascia interpellare dai fenomeni di violenza che in particolare tra i ragazzi possono prendono vita nell’ambito delle realtà ecclesiali? Quali possono essere le responsabilità della comunità cristiana? Claudia Ariuolo, consigliere comunale di maggioranza dell’AC di Caravaggio e presidente della commissione "Qualità della vita". Claudia Ariuolo è Educatore Professionale dipendente dell' ATS di Bergamo; per molti anni ha svolto il ruolo di educatore presso il CSE (Centro socio educativo) per disabili, prima di Spirano e poi di Caravaggio (ora denominato CDD - Centro Diurno Disabili). Da circa 10 anni lavora al Centro screening oncologici sempre all'ATS occupandosi di programmi di prevenzione secondaria per quanto riguarda i carcinomi del colon retto, mammella, cervice uterina. Le chiediamo: cosa la A.C. può mettere in campo per sostenere i cittadini – in particolare le fasce più giovani – a prevenire ed affrontare le situazioni disagio e di prevaricazione che si possono presentare e promuovere relazioni sociali improntate a rispetto e dialogo? Dott.ssa Elena Foppa, psicologa presso il “Centro Antiviolenza- Sportello Donna” della Coop. Sociale Sirio, una realtà che da anni opera a favore delle donne vittime di violenza. Al tema della violenza di genere - che drammaticamente occupa in questi ultimi anni le pagine dei giornali per l’aumento del numero dei casi di femminicidio - anche Regione Lombardia e 33 http://www.iccroce.org/joomla3/images/05.Genitori/SmartWeb/Documentazione/04.Cyber-Bullismo.pdf ? i servizi del nostro territorio stanno rispondendo attraverso la creazione di una Rete Interistituzionale per la prevenzione ed il contrasto alla violenza di genere. Le chiediamo: sulla base della esperienza professionale di questi anni quale ruolo gioca la famiglia nell’educare i ragazzi a gestire in modo positivo i conflitti, l'aggressività? In che senso la famiglia è considerata un modello nell'assunzione di comportamenti improntati a correttezza, rispetto, solidarietà? Prof. Giuseppe di Sipio, è Dirigente Scolastico dell’Istituto comprensivo Mastri Caravaggini di Caravaggio; il prof. Di Sipio ha lavorato in questa scuola come vicario dell’allora Preside Tadini per circa 10 anni; attualmente al settimo anno di dirigenza alla Mastri, dopo aver diretto l’allora scuola media Vailati di Crema per tre anni. L’Istituto comprende, dal 1° settembre 2012, tutte le scuole statali dell’obbligo di Caravaggio e delle frazioni di Masano e Vidalengo, con scuole dell’infanzia, primarie e secondaria di I grado e alunni compresi perciò dai 3 ai 14 anni. Abbiamo visto che il ruolo della scuola è fondamentale rispetto al tema che stiamo trattando. La scuola ha da sempre incrociato e posto grande attenzione a questo fenomeno. Quale ruolo possono dunque giocare gli insegnati, la scuola nel suo complesso nell’affrontare in modo corretto ed efficace il fenomeno del bullismo? Quale alleanza è possibile stringere tra la scuola., la famiglia e le diverse agenzie educative che si occupano dell'educazione dei ragazzi? A quali valori si ispirano le linee educative della scuola nel contrastare il fenomeno del bullismo? La dott.ssa Silvia Colnaghi, ha conseguito la laurea magistrale in antropologia culturale ed etnologia presso l'università di Bologna, e attualmente segue un master dell'università di Modena riguardante l'intercultura in ambito sanitario, lavorativo, sociale e del welfare che prende in esame il fenomeno migratorio in tutti i suoi aspetti socio-culturali (leggi e politiche sulla migrazione, chi sono i migranti e cosa vuol dire essere rifugiato/richiedente asilo/migrante economico, come si interfacciano con i nuovi cittadini le istituzioni e in particolare il sistema sanitario, come cambiano le classi nelle scuole, ecc.) In particolare, si è occupata di mediazione culturale all'interno delle strutture sanitarie, inizialmente nel lavoro di tesi sui mediatori nell'ospedale pubblico Sant'Orsola di Bologna, e attualmente presso uno dei centri di salute mentale dell'AUSL bolognese, con un gruppo di psicoterapeuti che lavora su pazienti (adulti) stranieri e disagio mentale. Il suo punto di vista può risultare molto utile ed interessante per comprendere meglio il fenomeno del bullismo sotto il profilo delle radici sociali che lo alimenta e della descrizione dei profili dei protagonisti degli atti di bullismo (il bullo, le vittime, gli spettatori). Le chiediamo: a partire dalla sua esperienza come vede il fenomeno del bullismo? Quale ruolo rivestono i protagonisti principali? Possiamo considerare gli “spettatori” –come co-protagonisti delle azioni di prevaricazione a cui assistono? Quali le responsabilità di ciascun attore? L’ Avv. Claudia Rossoni, lavora da anni nel nostro territorio nell’ambito del diritto di famiglia e della tutela delle donne e dei minori. Le chiediamo un aggiornamento sugli aspetti giuridici e sugli strumenti di tutela dei minori vittime di bullismo. dr. Ireneo Mascheroni, direttore dei consultori familiari accreditati di Treviglio e Caravaggio LA COMUNITA’ CRISTIANA DAVANTI AL FENOMENO DEL BULLISMO Don Angelo Lanzeni Parroco di Caravaggio La comunità cristiana, in ogni suo membro, non può non sentirsi interpellata da un fenomeno che sembra avere radici lontane, nel tempo e nella storia delle relazioni umane. C’è una possibilità che il bullismo abbia sempre abitato tra noi, che non sia una novità di questi tempi. E’ un fatto però che ce ne occupiamo più che in passato, che gli abbiamo dato un nome, che lo conosciamo meglio: se non è aumentato il fenomeno – ma non è facile a dirsi perché in passato non lo si monitorava come ora – è cresciuta la percezione. E’ emerso. Come sta a dimostrare questo incontro dal titolo emblematico “Bullismo: una spirale da rompere”, promosso dall’associazione sportiva Amici dell’Aikido che si occupa di insegnare arti marziali. Da una recente seria ricerca che fotografa l’idea che gli italiani hanno del bullismo emerge un dato interessante anche per la nostra conversazione. Parto da questo contributo per poi raccogliere alcune considerazioni circa la responsabilità che una comunità cristiana deve avvertire in ordine a questo problema. Stando alle statistiche sulla percezione: la parola bullismo evoca termini come violenza, prepotenza, prevaricazione nei confronti dei più deboli. Gli intervistati lo associano soprattutto alla violenza fisica più o meno incisiva (97,4%) e all’aggressione verbale (minacce, prese in giro, appellativi dispregiativi, 90,2%) Meno percepito il bullismo indiretto (l’esclusione, la diffusione di menzogne sulla vittima), sentito dal 62% degli interpellati, che al 60,9% chiamano in causa la versione cyber, quella che implica l’utilizzo dei cellulari e Internet per diffondere immagini e parole volte a screditare chi viene preso di mira. Si pensa che a scatenarlo siano soprattutto aspetti caratteriali della vittima, ma vengono citati anche l’aspetto fisico, la corporatura, la situazione economica. Molti intervistati associano il tema ai comportamenti dei ragazzi in età da scuola media e sono in molti a credere che il fenomeno sia cresciuto negli ultimi 5 anni. Elevata, 40%, è la percezione del campione che ammette di aver subito prevaricazioni di questo tipo. E si tratta di coloro che hanno del problema una percezione più realistica. Sono convinti che non è solo la violenza fisica a far male, sanno che entra nelle scuole prestissimo, fin dalla scuola dell’infanzia, sanno che si viene presi di mira anche per le condizioni economiche in cui si versa, per le caratteristiche della famiglia, per la religione, per l’origine geografica. Di fatto superata risulta la convinzione antiquata che la prevaricazione sia uno strumento per fortificare il carattere. Hanno capito quasi tutti che si tratta di una distorsione che va combattuta. Ma come? Me lo chiedo a partire dalla consapevolezza della responsabilità che una comunità cristiana riconosce alla base del proprio impegno educativo. Senza pretendere di essere esaustivo mi concentro su alcuni atteggiamenti imprescindibili, da promuove o da evitare. Il bullismo, come ogni forma di prevaricazione, va combattuto alla radice promuovendo la cultura dell’accoglienza, che nasce dal rispetto dell’altro considerato, in ottica cristiana, non un avversario, un nemico da umiliare, ma un fratello da amare. I cristiani sono convinti che in ogni uomo e ogni donna si rifletta un raggio luminoso del volto di Dio. Soprattutto nei più fragili – ricorda il Vangelo – Dio si rivela nella sua forma più riconoscibile. “Chi accoglie voi accoglie me – dice Gesù ai suoi discepoli – e chi accoglie me accoglie il Padre mio che sta nei cieli”. C’è una relazione profonda tra l’uomo, ogni uomo, e Gesù, e grazie a lui con Dio. Nel discorso così definito degli ultimi tempi al capitolo 24 di Matteo, Gesù indica le opere di misericordia e delinea con chiarezza il suo pensiero: “Ogni volta che avete fatto (o non avete fatto) queste cose a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete (o non lo avete) fatto a me”. Il bullismo si vince e si sradica solo con una reale presa in carico delle proprie responsabilità educative. Una comunità cristiana prigioniera delle proprie paure, arroccata a difesa delle proprie tradizioni, non disponibile al rinnovamento, è terreno fertile per il sorgere di atteggiamenti di negazione dell’altro e della sua diversità. Questo produce il cancro dell’esclusione violenta e del rifiuto pregiudiziale dell’altro in quanto altro e diverso da sé. Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, il piano programmatico del suo pontificato, richiama le comunità cristiane al loro impegno primario di evangelizzare la vita. “Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualistica che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente…” (EG,2). E propone una via da percorrere: prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare “La Chiesa in uscita è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano… La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva… La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce…” (EG, 24) Solo intervenendo alla radice del male che è all’origine del fenomeno del bullismo possiamo sperare di debellare questa piaga, causa di innumerevoli sofferenze, spesso sommerse, soprattutto nei primi anni di vita, con conseguenze sulla propria personalità inimmaginabili, che si ripercuotono nel tempo. Per riuscire nell’impresa occorre una grande coalizione educativa. Famiglia, parrocchia, scuola, istituzioni, associazioni, la società civile nella sua totalità, unite per un progetto educativo condiviso, possono insieme raggiungere l’obiettivo. Solo procedendo nella stessa direzione, a partire dai nostri consueti luoghi di vita, è possibile costruire una città abitabile, poiché “gli ambienti in cui viviamo influiscono sul nostro modo di vedere la vita, di sentire e di agire. Al tempo stesso, nella nostra stanza, nella nostra casa, nel nostro luogo di lavoro e nel nostro quartiere facciamo uso dell’ambiente per esprimere la nostra identità”. (Laudato Si, 147). EDUCARE CONTRO IL BULLISMO Claudia Ariuolo Consigliere comunale Innanzitutto, voglio ringraziare gli organizzatori dell’evento per aver offerto ai cittadini di Caravaggio una grande opportunità: quella di affrontare e parlare di un fenomeno sempre più in ascesa come quello del bullismo, e ringrazio vivamente per l’invito rivolto all’Amministrazione comunale a prenderne parte, invito accolto favorevolmente anche con il patrocinio dell’evento. Il fenomeno del bullismo è sempre più in crescita, i dati sono preoccupanti. Il bullismo è indubbiamente diventato un problema sociale, un problema urgente, dove occorre investire sulla prevenzione e sulla promozione del benessere della persona, non lasciando come unica soluzione l’atto punitivo. Un’amministrazione comunale non può e non deve rimanerne indifferente a tale fenomeno perché è un disagio che è anche espresso da alcuni suoi cittadini. Le espressioni di disagio possono essere molteplici e derivanti da fattori dell’ambiente in cui il soggetto vive, non solo l’ambiente famigliare ma anche quello sociale: anche se è consolidato che il fenomeno è agito soprattutto nell’ambito della scuola, luogo dove bambini e adolescenti passano la maggior parte del loro tempo, tuttavia, non sono da sottovalutare altri ambienti sociali quali quelli sportivi, l’oratorio, luoghi più appartati del nostro territorio come giardinetti, bar, discoteche, la strada, ecc.. In un’ottica di prevenzione occorre tenere conto che gli atti di bullismo appaiono sempre più diversi: ad esempio, l’espressione della scarsa tolleranza e della non accettazione verso chi è diverso per etnia, religione, per orientamento sessuale, per caratteristiche psico-fisiche, il prendere di mira chi è indifeso. Ciò si deve molto alla disinformazione e al pregiudizio che ne consegue. Ma è anche diventato un fenomeno agito attraverso la tecnologia: i parla sempre di più, ultimamente, del fenomeno del Cyberbullismo. Inoltre, talvolta, è agito anche da chi non ti aspetti: le “amiche”. Queste sono le tristi notizie dei nostri giorni. E non dimentichiamoci che il bullismo può in alcuni casi indurre la vittima al suicidio. Anche se scuola e famiglia sono i soggetti principali deputati a far si che tali atteggiamenti mentali e culturali cambino, essendo i luoghi educativi per eccellenza, non di meno lo deve essere un’amministrazione comunale, che deve concorrere a promuovere tutte le azioni necessarie a far sì che tali atteggiamenti cambino. Infatti, se non si agisce su questo fenomeno con prontezza e sollecitudine, ciò potrebbe comportare sul futuro dei bambini/ragazzi il rischio, molto alto, di sviluppare da adulti un comportamento antisociale e delinquenziale o depressivo, con una ricaduta ancora più negativa sulla comunità, con alti costi sociali in termini di risorse economiche, di sicurezza della comunità, di servizi. Per questo servono tutti gli strumenti necessari che, devono essere forniti a tutti quelli che fanno parte della vita quotidiana del bambino/adolescente: genitori, insegnanti, allenatori, catechisti, educatori in generale. Perciò, un’azione da mettere in campo dovrebbe essere quella di costituire una rete multidisciplinare (scuola, parrocchia, forze dell’ordine, psicologi, assistenti sociali, avvocati, amministrazione, allenatori), per monitorare costantemente l’evoluzione del fenomeno e cercare di trovare le strategie per arginarlo e trovare soluzione laddove è possibile. Pertanto il compito di un’amministrazione comunale, che è l’istituzione più vicina ai cittadini e la prima alla quale essi si rivolgono per i loro bisogni, dovrebbe essere quello di rendere migliore il territorio, per aumentare il benessere della comunità, in maniera che tutti se ne sentano parte, diventando essi stessi attori di miglioramento. Questo può avvenire attraverso una partecipazione attiva, prendendo parte concretamente all’azione civica in tutte le sue forme, soprattutto quella solidale, con un occhio di riguardo a chi si sente fuori, non coinvolto nella comunità in cui vive e anche a chi si chiama fuori dalla comunità e quindi esprime un disagio. Il bullo, mi vien da dire, a volte si crea una sua comunità parallela (baby gang). Educare i cittadini a prendersi cura del bene comune, al senso delle istituzioni, non è solo un compito per adulti ma riguarda tutti in modo speciale bambini e adolescenti che si preparano a essere i cittadini del futuro, cittadini del mondo consapevoli e di sani principi, perciò non possiamo permetterci che ci arrivino da “bulli”. Perché il bullo è l’esatto contrario del cittadino consapevole, colui che ha cuore la democrazia e i suoi valori, perché il bullo vuole sopraffare l’altro, non è in grado di dialogare e intessere relazioni paritarie, nega ogni uguaglianza, non sa cosa vogliano dire democrazia e solidarietà, usa la violenza per comunicare. I bulli esprimono il loro disagio socio-culturale attraverso il disimpegno morale, il disprezzo delle regole di convivenza civica, la mancanza di etica della responsabilità e la mancanza di senso della legalità. Per cercare di prevenire il bullismo è necessario far crescere nei bambini e negli adolescenti la responsabilità individuale e sociale delle proprie azioni e delle proprie parole. Allo stesso modo, l’intenzione è anche quella di “salvare” le vittime. Perciò, ha senso che l’amministrazione comunale concorra a creare uno stato di benessere attraverso alcune azioni molto concrete, quali: -favorire il coinvolgimento delle forze dell’ordine, delle istituzioni religiose, ma anche dei cittadini per un monitoraggio costante dei punti di criticità del territorio, controllo del vicinato; progettare interventi preventivi come favorire la partecipazione dei cittadini alla vita sociale, promuovere il benessere sociale e contrastare il degrado ambientale e il disagio sociale; patrocinare interventi formativi che promuovano l’educazione alla legalità e alla buona cittadinanza, attiva, corresponsabile e solidale e favorire l’integrazione sociale; far rivivere i luoghi pubblici come centri d’incontro e aggregazione, per favorire il controllo sociale del territorio; educare i giovani, cittadini del domani, alla cura della nostra città nel rispetto dei valori di libertà e democrazia diretta e partecipata; rendere noti e ben visibili tutti i contatti per favorire la denuncia delle violenze subite o viste. Purtroppo, non esiste una ricetta magica per fermare questo fenomeno, ma tutti abbiamo il dovere di provarci. Un ringraziamento speciale va ai maestri di Aikido, Karate, Krav Maga, MMA, Kick-boxing che, nel corso dello stage multidisciplinare, ci hanno insegnato alcune tecniche di difesa personale e, soprattutto, ci hanno insegnato come nel praticare arti marziali, s’imparano il rispetto di sé e degli altri, la disciplina e il rispetto delle regole e dell’avversario, s’impara che nella vita non si è sempre vincenti e dominanti, ma capita di essere perdenti e dominati. Si diventa più sicuri di sé e si acquista più autostima diventando meno timidi. IL BULLISMO: IL PUNTO DI VISTA DI UN CENTRO ANTIVIOLENZA A cura della dott.ssa Elena Foppa, psicologa psicoterapeuta, operatrice del centro antiviolenza cooperativa Sirio csf Treviglio. Negli ultimi anni sempre più spesso si è sentito parlare di bullismo all’interno delle scuole e in quei contesti nei quali è forte la presenza dei ragazzi. Ma quali sono le caratteristiche di questo fenomeno? Quando si parla di bullismo si fa riferimento a quei comportamenti violenti ed aggressivi che vengono perpetrati da una persona, o da un gruppo di persone, nei confronti di una persona considerata debole, a causa di caratteristiche personali, caratteriali o di fattori socio-culturali. Tali comportamenti possono essere di natura fisica (calci, spintoni, pugni, schiaffi, sputi, aggressioni di natura sessuale), psicologica (isolamento ed esclusione dal gruppo dei pari, maldicenze), verbale (offese, ingiurie, minacce, prese in giro). Ciò che distingue gli atti di bullismo da altre forme di aggressione sono l’intenzionalità di provocare, di causare un danno alla vittima, la reiterazione degli atti, ossia la persistenza nel tempo di tali comportamenti aggressivi e una relazione asimmetrica, dove gli attori coinvolti sono uno nella posizione di bullo (aggressore) e l’altro nella posizione di vittima. Un’altra caratteristica del bullismo è la mancanza di empatia del “bullo”, ossia l’incapacità di immedesimarsi e di comprendere il vissuto emotivo dell’altro. Il bullismo può assumere due diverse forme di manifestazione: bullismo diretto: si verifica ogni qualvolta l’aggressore si relaziona direttamente alla vittima; bullismo indiretto: il bullo non agisce direttamente sulla vittima ma ne danneggia le relazioni sociali e i rapporti interpersonali; Solitamente, oltre al bullo e alla vittima, in tali dinamiche sono coinvolti anche altri attori: il complice che “alimenta” con il suo comportamento (ridendo, etc…) il perpetrarsi degli atti ai danni della vittima, e gli spettatori, ossia tutte quelle persone che assistono agli episodi di aggressione senza prendervi parte. È importante non confondere, durante l’infanzia, episodi di bullismo con episodi di aggressività e/o di vandalismo. sino ai 7/8 anni non si può parlare di atti di bullismo che implicano l’intenzionalità di provocare un danno, in quanto sino a quella età il bambino non è in grado di comprendere e prevedere le conseguenze delle proprie azioni. ciò non significa che un bambino non commetta azioni che provochino danni ad altri ma tali azioni sono prive delle tre caratteristiche fondamentali del bullismo, ossia l’intenzionalità, la dannosità e la continuità temporale. Il punto di vista di un centro antiviolenza rispetto al fenomeno del bullismo è un punto di osservazione particolare in quanto tale fenomeno viene letto e significato come una delle possibili conseguenze del maltrattamento che si vive, si respira all’interno della dimensione familiare. È stato ampiamente dimostrato come il bullismo sia una conseguenza che si manifesta nel lungo periodo della violenza assistita, termine con il quale si fa riferimento a qualsiasi forma di violenza (fisica, verbale, psicologica, sessuale, economica) agita nei confronti di figure di attaccamento importanti per il bambino/a (un genitore o dei fratelli) e di cui il bambino/a ne fa esperienza diretta (assiste ad episodi di violenza) od esperienza indiretta (il bambino/a pur non assistendo direttamente ad episodi di violenza ne è a conoscenza). Assistere alla violenza di un genitore nei confronti dell’altro genera, nel bambino/a confusione rispetto a cosa sia violenza, affetto e intimità, provocando delle conseguenza a livello cognitivo, fisico e relazionale. il bambino che cresce all’interno di una dinamica maltrattante avrà come punti di riferimento delle figure genitoriali che, da un lato vengono vissute come minacciose dall’altro spaventate e terrorizzate. soprattutto, apprendono che l’uso della violenza è “normale” nelle relazioni. In una ricerca sul bullismo a scuola è stato evidenziato come il 61% dei bambini vittime di violenza assistita sia diventato un “bullo” e il 71% dei bambini vittime di atti di bullismo siano vittime di violenza assistita all’interno delle mura domestiche (Baldry A.C., 2003). Al fine di prevenire il manifestarsi di episodi di bullismo, riteniamo indispensabile e fondamentale l’intervento educativo dei genitori, i quali hanno il ruolo di educare i propri figli non solo rispetto a tutto il bagaglio di conoscenze e risorse necessarie per vivere all’interno della propria cultura e società ma soprattutto hanno la responsabilità di fornire ai propri figli un’educazione emotiva, ossia insegnare loro a conoscere, riconoscere ed esprimere le proprie e le altrui emozioni, nonché i propri bisogni. Aiutare i propri figli a riconoscere ed esprimere le proprie emozioni e i propri bisogni significa aiutarli a trovare il modo per gestirle nella modalità più efficace; saper gestire le emozioni evita il ricorso alla violenza o ad altre modalità disfunzionali. NOTE BIBLIOGRAFICHE: Baldry A.C., Bullying in schools and exposure to domestic violence, in Child Abuse and Neglect, 27, 713-732, (2003); Bullismo: il punto di vista di un operatore della scuola Prof. Giuseppe di Sipio La mission fondamentale della scuola ci porta ad evidenziare, del fenomeno bullismo, soprattutto gli aspetti educativi e di prevenzione; il fenomeno interroga gli operatori scolastici su quali siano le cause, quali gli interventi educativi che i docenti possano porre in essere per affrontare e, soprattutto, per prevenire gli episodi di bullismo. Ciò in considerazione della specifica fascia di età dei nostri alunni, utenti di un Istituto comprensivo del I ciclo, che comprende bambini e preadolescenti dai 3 ai 14/15 anni. Non si vuole con questo escludere che in questa fascia di età possano emergere episodi di bullismo e la nostra scuola infatti non è sprovvista di strumenti, procedure e strategie per l’affronto del problema; punti di riferimento al riguardo sono il nostro Regolamento di Istituto e l’attenzione puntuale che docenti e Dirigenza hanno sempre rivolto anche a piccoli episodi che avrebbero potuto, se non affrontati tempestivamente, degenerare verso forme di bullismo. Episodi affrontati sempre in sinergia tra operatori della scuola e in collaborazione con le famiglie in primo luogo, e con diversi enti esterni, dall’Oratorio ai Servizi sociali. Anche al fine, dunque, di potenziare i processi autovalutativi interni e per stimolare una seria autoriflessione di tipo educativo e pedagogico, si impongono, al mondo della scuola e al nostro istituto in particolare, le domande: chi è il bullo? perché il bullo? Trovare risposte adeguate, anche solo in via ipotetica, è fondamentale per attivare gli interventi educativi propri della scuola. Chi è il bullo, dunque e perché il bullo? Il bullo è figlio del deserto di valori - piuttosto che del proliferare di disvalori - e della carenza, se non dell’assenza, di lineee educative chiare da parte degli adulti che si occupano, o che si dovrebbero occupare e preoccupare, dell’educazione di bambini e ragazzi, famiglia in primo luogo, ma non solo. Assenza di valori e carenza di linee educative sono strettamente collegati, giacché linee educative definite possono scaturire solo da un quadro di valori di riferimento, che spesso gli adulti hanno smarrito. Quando poi anziché valori positivi i riferimenti degli adulti sono disvalori, le linee educative sono forse presenti, ma si rischia che indirizzino a comportamenti negativi. Quando bambini e ragazzi non hanno indicazioni chiare e coerenti di cosa è giusto e cosa è sbagliato – essi leggono infatti la realtà che li circonda, fino alla conquista dell’autonomia di pensiero, processo lungo e complesso, con gli occhi degli adulti - si danno ai loro giochi, non avendo consapevolezza della gravità di quello che a volte fanno. E il termine giochi è qui volutamente utilizzato, il più delle volte infatti l’intenzione reale e dichiarata dei nostri discenti è di voler solo giocare, mostrando scarsa consapevolezza della gravità dei comportamenti agiti e, a volte, scarsa capacità di distinguere tra realtà prossima, mondo virtuale, fantasia. Una delle principali consapevolezze di cui mancano questi ragazzi infatti, è proprio quella di quanta sofferenza, anche fisica ma soprattutto psicologica, a volte possano procurare all’altro. Scarsa o mancata consapevolezza, che è legata all’assenza, in loro, del valore solidarietà e/o alla presenza del disvalore io solo e i miei bisogni, veri o presunti, al centro del mondo. Il mondo degli adulti chi li circonda dovrà forse chiedersi se li stiamo educando anche a sentire empatia, a riconoscere, a saper controllare e gestire le emozioni, proprie e del proprio prossimo. La responsabilità degli adulti è quindi decisiva, anche in riferimento ad un altro elemento fondamentale del processo educativo: la coerenza educativa tra adulti, in particolare tra famiglia e scuola. Concordare tra genitori, tra docenti della stessa classe, della stessa scuola e tra insegnanti e genitori, le linee educative e gli interventi, confrontarsi sui valori di riferimento cui si ispira l’azione formativa, è determinante. Centrali risultano anche nel processo educativo I no che aiutano a crescere. Che siano no sani, chiari, pochi, che provengano coerentemente da tutti gli adulti educatori, e che siano accompagnati da tanta disponibilità all’ascolto e da tanta attenzione verso i bisogni veri, soprattutto quelli emotivi, di bambini e ragazzi. Non quindi il soddisfacimento, magari immediato e comunque nel più breve tempo possibile, dei miei bisogni, deve guidare l’atteggiamento educativo dell’adulto nei confronti del bambino/ragazzo, ma prima di tutto il riconoscimento delle vere esigenze. Questo educa, tra l’altro, ad uscire dal naturale egoismo, a considerare il punto di vista degli altri, a saper procrastinare il soddisfacimento immediato dei bisogni e a saper gestire la frustrazione. Servono quindi paletti chiari che traccino una strada che i nostri alunni e figli possano vedere chiara e seguire senza rischi, per un sano equilibrio emotivo. Troppo spesso gli adulti sembrano invece preoccupati di evitare loro solo rischi e disagi materiali, anziché educarli ad affrontare anche questi, parte inevitabile di ogni vita e della stessa condizione umana. Dobbiamo dunque tornare ad educare alle regole, regole condivise certo, ma regole che, una volta condivise con tempi, modi e strumenti opportuni, non siano sempre negoziabili e continuamente negoziate. Li educhiamo così alla cittadinanza, all’esercizio della democrazia, strumento di convivenza quanto mai delicato, al senso di appartenenza alla comunità e conseguenti, inevitabili limiti alla libertà individuale senza vincoli, esatto contrario del naturale egocentrismo. In questo modo, prevenendo il bullismo, educhiamo alla cittadinanza attiva e consapevole, finalità ultima dell’istituzione scolastica. BULLISMO E CYBERBULLISMO: il punto di vista di un avvocato Avv. Laura Rossoni Con il termine BULLISMO si intendono una serie di azioni e condotte aggressive attuate da un singolo o da un gruppo a danno di una vittima scelta in quanto soggetto debole o diverso. La caratteristica che distingue il bullismo dalle altre condotte reiterate è il fatto che si svolge tra pari, cioè tra preadolescenti o adolescenti ai danni di ragazzi della stessa fascia d'età. Il bullismo può essere diretto (più frequentemente attuato dai maschi) quando ci sono degli attacchi aperti: ad esempio atti di lesione, minacce, insulti, derisioni, offese; oppure può essere indiretto (modalità posta in essere soprattutto dalle femmine) quando si attua attraverso l'isolamento della vittima, le maldicenze, i pettegolezzi. Quasi sempre gli episodi di bullismo si manifestano nella scuola o all'uscita da scuola, oppure hanno la loro origine nel contesto scolastico e si manifestano poi all'esterno. Non esiste nel nostro ordinamento giuridico il reato di bullismo in quanto vengono perseguite e punite le singole azioni lesive. I colpevoli verranno dunque condannati alla pena prevista dal reato posto in essere: ingiurie, diffamazione, minacce, percosse, lesioni, danneggiamento fino ai casi più gravi di istigazione al suicidio. Gli autori del reato vengono giudicati dal Tribunale per i minorenni qualora abbiano agito in età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il processo minorile è regolato dalle disposizioni del D.P.R. 448/88 e, per quanto da esso non previsto, si osservano le disposizioni del codice di procedura penale. Si tratta dunque di un vero e proprio processo penale improntato tuttavia al principio della "minima offensività del processo" perché la finalità è quella educativa e responsabilizzante. Lo scopo del processo minorile è quello di sviluppare nel minore competenze in grado di regolare i suoi comportamenti che devono essere ancorati a principi e comportamenti socialmente condivisi. Il Tribunale per i minorenni è composto da un Presidente, da un altro giudice togato e da due giudici esperti in psicologia, pediatria, antropologia, sociologia o psichiatria perché accanto al giudizio sulla colpevolezza o sull'innocenza del minore il Tribunale deve esprimere anche un giudizio sulla personalità del ragazzo. Innanzitutto andrà accertata la capacità di "intendere e di volere" al momento della commissione del fatto, intesa come capacità del minorenne di rendersi conto del significato antisociale del reato compiuto, e di valutarne le conseguenze. Un istituto particolare del processo minorile è quello della "messa alla prova" per cui il giudice può sospendere il processo per un anno (tre anni per i reati per i quali la pena è l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a 12 anni). Durante il periodo di sospensione il minore verrà affidato ai servizi sociali minorili che elaboreranno un progetto strutturato con regole e obiettivi precisi che il minore dovrà seguire positivamente, nel progetto verrà coinvolta anche la famiglia del minore e in generale la realtà sociale nella quale il minore è inserito. All'esito della prova il giudice valuterà l'evoluzione della personalità del minore e se il comportamento del minore sarà stato ritenuto adeguato, il giudice potrà dichiarare l'estinzione del reato. Fra le prescrizioni che il giudice può impartire, particolare importanza ha quella della riparazione delle conseguenze del reato anche attraverso la conciliazione dell'autore dell'illecito con la persona offesa dal reato. Accade spesso infatti che il minore non si renda conto che le sue condotte integrino dei reati e siano causa di sofferenza anche profonda per la vittima. Per questo è fondamentale che nelle scuole si educhi alla legalità, intesa come rispetto delle regole e consapevolezza dei valori fondanti della nostra società e della nostra convivenza civile. E' interessante sapere che responsabile del reato non viene ritenuto solo l'autore materiale dell'azione lesiva, ma anche tutti coloro i quali abbiano concorso o collaborato nell'ideazione del reato, nella sua attuazione o, ad esempio, abbiano filmato e incitato l'autore del reato. Nel nostro ordinamento giuridico infatti esiste l'istituto del concorso di persone del reato in base al quale tutti i soggetti che hanno contribuito causalmente a commettere l'atto illecito soggiacciono alla stessa pena. Il concorso può essere materiale quando partecipano più persone all'azione criminosa, si pensi alle violenze di gruppo, oppure quando vi sono dei complici che collaborano nella ideazione del piano o nella sua esecuzione ad esempio facendo il palo e controllando che nessuno scopra l'esecutore del delitto. Il concorso invece è morale quando vi sono dei soggetti che, pur non eseguendo l'atto criminoso, rafforzano, istigano o agevolano l'azione altrui. Si pensi ai numerosi casi di cronaca nei quali la vittima viene ripresa con il telefono e poi il filmato viene caricato sul web. In questi casi anche i soggetti che hanno ripreso la scena vengono puniti con la stessa pena dell'autore del fatto perché si ritiene abbiano istigato l'esecutore e abbiano amplificato le conseguenze lesive dell'azione criminale. Accanto alla responsabilità penale del minore vi è la responsabilità civile dei genitori prevista dall'art. 2048 del codice civile che stabilisce una presunzione di colpa a carico degli esercenti la responsabilità genitoriale per non aver adeguatamente educato il proprio figlio. Si tratta di una responsabilità oggettiva e presunta in quanto il genitore può liberarsi solo provando di non avere potuto evitare il fatto. Generalmente quindi i genitori saranno chiamati a rispondere del fatto illecito dei figli attraverso il risarcimento del danno alla vittima. Anche la scuola può essere chiamata a rispondere civilmente se ha omesso la vigilanza o se non è stata in grado, per una carenza organizzativa, di evitare la commissione o la reiterazione di fatti lesivi a danno di un alunno. Mentre viene pubblicato il presente opuscolo, è in discussione alla Camera dei Deputati un disegno di legge di contrasto al "cyberbullismo". Con tale termine viene indicato l'atto di bullismo compiuto da un soggetto che, prevalentemente attraverso i social network, offende la vittima mediante la diffusione di materiale denigratorio (testi, foto e immagini). Nella relazione che accompagna il provvedimento legislativo, viene citata una ricerca di Save the Children secondo cui 2/3 dei minori italiani riconoscono nel cyberbullismo la principale minaccia presente a scuola, che compromette il rendimento scolastico, riduce il desiderio di relazioni sociali e ha conseguenze psicologiche anche gravi. La vittima è scelta in base al criterio della "diversità" come ad esempio la disabilità, la timidezza, il supposto orientamento sessuale, l'essere straniero o l'abbigliamento non convenzionale. Spesso il cyberbullismo si manifesta attraverso la dinamica del branco, per cui un soggetto inizia il comportamento aggressivo e gli altri lo appoggiano, spesso convinti di rimanere nell'anonimato e assai frequentemente ignari delle gravi sofferenze patite dalla vittima. La legge quindi opera su più fronti: formando le forze dell'ordine perché le vittime e le loro famiglie possano incontrare interlocutori competenti quando sporgono denuncia e soprattutto coinvolgendo la scuola perché gli episodi di cyberbullismo hanno quasi sempre inizio nei contesti scolastici e proseguono poi sulla rete. Le scuole, si dice nel disegno di legge, hanno un valore strategico per l'educazione alle relazioni interpersonali e gli insegnanti sono le sentinelle in grado di cogliere il disagio delle vittime e sono un punto di riferimento indispensabile cui rivolgersi per chiedere aiuto. Penso che anche il contesto sportivo sia utile per la prevenzione del bullismo perché attraverso lo sport i ragazzi imparano a rispettare le regole, a rapportarsi agli altri in modo rispettoso e corretto, talvolta a gestire la loro aggressività e a superare la timidezza. Ringrazio sentitamente gli organizzatori del convegno perché hanno dimostrato di cogliere pienamente il ruolo educativo e formativo che fa dello sport un momento indispensabile per la crescita consapevole dei nostri ragazzi. Scuola e riti d'iniziazione: uno sguardo antropologico al fenomeno del bullismo Dott.ssa Silvia Colnaghi La giornata di oggi sarà dedicata a un tema di discussione piuttosto delicato, ovvero il bullismo. È un tema a cui tengo molto e per questo sono molto lieta di vedere che, a livello multidisciplinare, si abbia voglia di affrontare una discussione aperta in cui ognuno è invitato a esprimere le proprie idee e a proporre metodi con cui affrontare e gestire il fenomeno. Un contributo originale al dibattito è certamente, oggi, quello delle arti marziali: è interessante vedere come lo sport, da sempre motore di aggregazione, e in particolare le arti marziali presentate in questa giornata, abbiano molto da insegnare quando si spostano da un piano meramente fisico o competitivo a un piano più "sociale", a un percorso educativo che non si limita a insegnare tecniche e nozioni per battere l'avversario, ma modi per gestire il conflitto utili per la vita di tutti i giorni. I maestri, come gli insegnanti, gli educatori, i genitori e le altre figure adulte che ruotano intorno al mondo dei ragazzi, hanno anch'essi un ruolo nella loro formazione. Insegnare un'arte di "lotta" per antonomasia come può essere quella marziale significa non solo dare in mano ai ragazzi gli strumenti per difendersi dal (o offendere il) prossimo, ma anche assumersi la responsabilità di insegnare a usarli con senso critico e in maniera corretta nei confronti degli altri. Coinvolgere in questo percorso di apprendimento a tutto tondo anche figure più classicamente associate al cammino formativo dei ragazzi è a mio avviso un metodo valido per sottolineare questo: ciò che si impara in tappetina non resta e non deve restare solo in tappetina, ma può arricchire l'esperienza di tutti i giorni e diventare una prospettiva diversa da cui guardare la stessa realtà che si trova fuori dal dojo, dal luogo di apprendimento. Ogni figura che si ritrova a insegnare, a interagire con i ragazzi, è parte integrante della formazione di questi, e ha altresì l'importante compito di essere dare l'esempio. Proprio sul concetto di esempio ci terrei a spendere due parole in più: l'esempio, per come la vedo io, non significa semplicemente indicare un comportamento corretto o una serie di valori a cui è meglio fare riferimento rispetto ad altri, ma farne uno stile di vita proprio mostrando quanto l'impegno, la passione, l'attenzione e il rispetto possano portare frutti, come possano realmente incidere in maniera positiva sulla nostra vita e su quella degli altri. In questo contesto, in questa giornata, quello che vedo è anche un altro importante esempio: quello che vede raggrupparsi persone adulte e con ruoli di vario tipo nella crescita della persona (sportivi, insegnanti, psicologi, mondo ecclesiastico) che non si girano dall'altra parte di fronte a un problema, ma discutono assieme per cercare di capirlo e dare qualche possibile soluzione. Un esempio di impegno sociale che, se direzionato anche a un possibile incontro con le persone che la realtà del bullismo la subiscono quasi quotidianamente, può rappresentare un inizio di un percorso che serve a mostrare a tutti che “ci interessa”, che “ci preoccupiamo”, che “ci siamo” e ci stiamo muovendo per portare qualcosa di positivo. Quella di oggi mi sembra quindi una bellissima occasione di confronto anche tra realtà che non sempre vengono in contatto, ma che fanno parte della stessa comunità e possono dimostrare bene come dall'unione di più prospettive si possa dare forma a un quadro più completo e sfaccettato del fenomeno a cui si guarda, per comprenderlo sotto tutti i punti di vista, e in tal modo provare a ipotizzare nuovi metodi per cambiare la situazione. Qualche dato introduttivo Nel 2014 in Italia più del 50% dei ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni ha subito atti offensivi, discriminatori e/o violenti da parte di coetanei, e circa il 19,8% è vittima assidua di atti bullismo (almeno una volta al mese, per il 9,8% gli episodi avvengono con cadenza settimanale)34. La maggiore incidenza si ha nella fascia d'età compresa tra gli 11 e i 13 anni (22,5%) e le vittime sono 34 prevalentemente ragazze (20,9% rispetto al 18,8% dei ragazzi)35. Il 15% dei ragazzi di questa fascia d'età ha invece dichiarato di aver compiuto atti di bullismo36, e in questa percentuale si trovano sia i bulli sia chi ha subito atti di bullismo e a sua volta ne perpetra. Ovviamente il bullismo non riguarda solo le scuole italiane: in Europa ritroviamo una media molto simile a quella italiana (il 15% dei ragazzi subisce bullismo faccia a faccia, a questo si aggiunge un 8% che subisce atti di bullismo su internet o via cellulare37) mentre negli stati uniti almeno un 77% di ragazzi ha vissuto un episodio di bullismo durante il suo percorso scolastico, e il 30% subisce o agisce il bullismo regolarmente38. Ho introdotto l'argomento con delle statistiche per sottolineare che, con numeri simili, non si può considerare il fenomeno del bullismo come un fenomeno individuale, un “problema” tra coetanei, bensì come un problema diffuso che ha un impatto sociale non indifferente. Facendo un esercizio anche un po' retorico, se trasformiamo queste percentuali in frazioni forse avremo un'idea un po' più “umana” dell'impatto: un ragazzo su 5 subisce abitualmente atti di bullismo, che in una classe di circa 25 persone significa 5 per classe. Si tratta certamente di una media, ma possiamo ipotizzare quanto il bullismo possa essere pervasivo e radicato in ogni scuola e sostanzialmente in ogni classe. A maggior ragione quindi, ragionare sul problema per cercare di arginarlo può avere un impatto reale e importante sulla quotidianità di moltissimi ragazzi e futuri adulti. http://www.istat.it/it/archivio/176335 35 http://www.istat.it/it/files/2015/12/Bullismo.pdf?title=Bullismo++tra+i+giovanissimi+-+15%2Fdic%2F2015++Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf 36 http://www.bullyingandcyber.net/it/ecpr/risultati-italia/ 37 38 http://www.ispcc.ie/file/39/1/0_0/BULLYING+STATISTICS.pdf http://www.bullyingstatistics.org/content/school-bullying-statistics.html In questo intervento il mio obiettivo è principalmente quello di inquadrare il fenomeno nella sua dimensione sociale, cercando di fare il punto su come questo sia percepito dai ragazzi (bulli, vittime e spettatori), dal mondo degli adulti e dai media, cercando di comprendere come mai se ne è iniziato a parlare tardi (i primi studi sul bullismo, condotti nei paesi scandinavi da Olweus, risalgono agli anni '70, mentre quelli italiani iniziano nel 1993 con il lavoro della dottoressa Ada Fonzi) e, nel dibattito pubblico, con toni che spesso tendono a svalutare la pervasività del fenomeno, dando rilevanza a pochi isolati atti di bullismo come se fossero un'eccezione rispetto alla norma. Riti inclusivi, riti esclusivi Una delle cause che ha portato al ritardo nello studio del fenomeno, e che ancora ne ostacola una risoluzione efficace, è che spesso, sia dai genitori che dagli insegnanti, il bullismo è visto come una sorta di “fase” che i ragazzi devono passare per farsi le ossa, un “rito di iniziazione” dal quale, se si riesce a uscirne con successo, si può entrare a tutti gli effetti nell'età adulta. Anche i bulli sono ragazzi che attraversano una “fase”, vuoi l'adolescenza, vuoi la ribellione dai genitori o dal sistema. Insomma, gli atti di bullismo sono spesso sottovalutati proprio perché un po' di competizione, “ragazzate”, scherzi, sono “normali” a quell'età, sono una tappa che tutti passano: ma in questo ragionamento si rischia di includere sia le vere e proprie ragazzate, che sono svolte tra persone consenzienti o sicuramente in grado di gestire il conflitto in modo paritario, che il bullismo, dove la disparità tra le due parti è evidente ed è vissuta male. In antropologia, si definiscono riti di iniziazione l'insieme di riti, culturali e religiosi, che sanciscono “l'uscita da uno status in funzione dell'entrata in uno status diverso, talora in modo radicale, dal precedente”39. Van Gennep, antropologo degli inizi del '900, li chiama anche “riti di passaggio”40, in quanto scandiscono le varie tappe, i vari passaggi di status che l'uomo in tutte le società si ritrova ad affrontare. Senza scomodare le pratiche di iniziazione di clan e tribù all'altro capo del mondo, pensiamo ad esempio al matrimonio nella nostra società: il rito, in questo caso, serve ad accompagnare il passaggio della coppia dal mondo del celibato/nubilato al riconoscimento sociale di questa come un nuovo nucleo familiare. Ho voluto usare un esempio comune perché spesso, al termine “rito di iniziazione”, associamo pratiche e rituali bizzarri, a volte crudeli e violenti, appartenenti esclusivamente ad “altri”, a popoli 39 Carlo Prandi, “Iniziazione” in “Dizionario delle religioni”, Einaudi 1993 p.377 40 A.Van Gennep, “Riti di passaggio”, Bollati Boringhieri 2012 “primitivi” o “selvaggi”, mentre tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi eventi che si possono a tutti gli effetti definire riti di passaggio: si pensi ai voti del sacerdozio, al cambiamento sociale della donna che diventa madre, al battesimo, alle cerimonie che assegnano cariche istituzionali. Il punto cruciale è, appunto, quello che la società percepisce come cambiamento nel ruolo sociale di una persona o di un gruppo di persone. Anche l'ingresso in confraternite universitarie (vedi i Goliardi in Italia) passa attraverso pratiche di iniziazione a volte crudeli: i candidati devono superare prove spesso imbarazzanti e insensate per entrare finalmente a far parte del gruppo ed essere riconosciuti anche esternamente come membri di quello. Un altro esempio di rito di iniziazione che forse ci avvicina maggiormente al tema del discorso è, a mio parere, quello del nonnismo. Il nonnismo si ritrova prevalentemente in ambito militare, dove i membri più anziani del gruppo, ovvero quelli che si trovano da più tempo in caserma, mettono in atto una serie di scherzi, più o meno pesanti e ripetitivi (insulti, ma anche furti, lesioni, discriminazioni, vessazioni di vario tipo) nei confronti delle nuove reclute, anche per lunghi periodi di tempo, allo scopo di sottolineare l'organizzazione gerarchica e, alla fine del periodo di nonnismo, far entrare le nuove leve all'interno del gruppo più alto (e di conseguenza queste ripeteranno gli atti di nonnismo nei confronti dei nuovi arrivati, con un ricambio generazionale continuo). Gli esempi qui riportati mostrano come il fine dei riti di iniziazione sia l'inclusione in un gruppo sociale di riferimento, che sia quello dei preti, delle famiglie, degli studenti universitari: inclusione che passa sì attraverso delle “prove” ma che aiuta la società e i membri di questa a riconoscersi in determinati ambiti e ad avere, in virtù di questo, vantaggi sul piano sociale (un'immagine migliore agli occhi degli altri, un senso di appartenenza a un gruppo “superiore” o privilegiato)41. Insomma, per quanto possano sembrarci banali o violenti, tutti questi riti sono un modo che la società stessa ha istituito per comunicare quali sono i passaggi cruciali nella vita dei membri di quella società e per ufficializzare l'evento del passaggio stesso, in modo da rinnovarsi e riconoscersi all'interno di un corpus di pratiche abituali con cui interpretare la propria organizzazione sociale. Alla luce di questo è possibile considerare il bullismo un rito di passaggio? A mio parere un'associazione di questo tipo è molto rischiosa: è vero che chi fa il bullo può farlo per ragioni di status sociale (“se me la prendo con i più deboli sono un figo, gli altri mi 41 Per un approfondimento sui riti di iniziazione rimando anche al testo di S. Allovio, “Riti d'iniziazione. Antropologi, stoici e finti immortali”, Raffaello Cortina Editore, 2014 stimeranno/temeranno perché sono il più forte”), ma le sue conseguenze, specialmente per le vittime, sono tutt'altro che inclusive. Simile al nonnismo nel metodi (scherzi pesanti, continuità nel compiere atti offensivi, violenti e/o discriminatori nei confronti della vittima o delle vittime prescelte42), ne manca completamente il fine: il ragazzo vessato si ritroverà, anziché nel fantomatico “gruppo degli adulti”, in una situazione di isolamento ed esclusione sociale che può avere ripercussioni anche molto gravi sulla sua vita adolescenziale e adulta. Ne consegue, a mio parere, che considerare il bullismo nelle scuole come una tappa del percorso di formazione dei ragazzi (che impareranno così a farsi valere, a farsi le ossa, a reagire ai soprusi o a dominare il prossimo per ricavarne vantaggi) sia un rischio che non ci si può permettere: si assegna un valore in qualche modo positivo (“crescono”, “diventano grandi così”) a situazioni a volte al limite della criminalità, sminuendo pericolosamente le conseguenze che questi atti possono avere, sia sui bulli che sulle vittime. I bulli, non ricevendo nessun tipo di rimprovero né dai loro pari né dagli adulti, e anzi vedendo liquidate le loro azioni come delle “ragazzate”, difficilmente comprenderanno la gravità delle azioni che stanno compiendo e soprattutto delle conseguenze sulla persona tormentata, e questo può portare ad alzare l'asticella fino a considerare “scherzi” comportamenti violenti e crudeli come quello comparso tristemente sulle cronache italiane solo l'anno scorso che riguarda un ragazzo violentato con un compressore da un gruppo di bulli.43 Dall'altro lato, sottovalutare questi comportamenti porta a non riconoscere i campanelli d'allarme della vittima, che in un contesto stressante come può essere quello di subire continuamente atteggiamenti vessatori, possono essere un forte calo dell'autostima, ansia, depressione, senso di isolamento: un insieme di fattori che in alcuni casi ha portato questi ragazzi e ragazze a tentare il suicidio, e purtroppo a volte questo è riuscito.44 Per ribadire ulteriormente che quella del bullismo non è una fase vorrei aprire una breve parentesi su quelle che sono le conseguenze a lungo termine di questi comportamenti. 42 Un interessante e completa spiegazione del fenomeno e delle modalità in cui questo si perpetra all'interno del contesto scolastico rimando allo studio del 2015 condotto dal Telefono Azzurro http://www.scuolavicospinea.it/documenti/TA-DossierBullismo.pdf 43 http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_09/sei-troppo-grasso-perforano-l-intestino-l-aria-compressab6db6736-4f8b-11e4-8d47-25ae81880896.shtml 44 http://www.repubblica.it/cronaca/2016/01/18/news/pordenone_ragazzina_di_12_anni_si_lancia_dal_balcone _e_grave-131512560/ Le vittime, ad esempio, hanno buone probabilità di soffrire di disturbi psicologici in età adulta; i problemi di autostima (“se mi picchiano tutti i giorni sono un perdente e me lo merito”, “se nessuno mi aiuta è perché non valgo niente”) vissuti in un'età in cui il carattere è ancora in formazione possono radicarsi al punto da creare problemi, a volte anche gravi, all'adulto che durante l'infanzia ha subito il bullismo: disturbi dell'ansia, tendenze autolesioniste e suicide, depressione, disturbi della personalità.45 Ma non è solo la vita della vittima ad essere potenzialmente segnata. Il bullo, infatti, può a sua volta soffrire di disturbi sociopatici della personalità, soprattutto se a sua volta è stato una vittima, e ha il quadruplo delle probabilità rispetto ai suoi coetanei di assumere atteggiamenti criminali in età adulta, con il doppio delle possibilità di subire pene detentive.46 Anche il mobbing può essere una delle conseguenze a lungo termine del bullismo, e con questo condivide molte caratteristiche comuni: aggressioni psicofisiche, umiliazioni, insulti, diffusione di maldicenze su un soggetto da parte di una o più persone nell'ambiente lavorativo. Anche qui il risultato è l'esclusione di un soggetto dal gruppo di quelli che dovrebbero essere suoi pari (ma anche da parte dei superiori si possono avere pressioni di questo tipo). Il bullismo non può essere quindi sottovalutato, non è una cosa “normale” che tutti i ragazzini passano e da cui si viene fuori con una risata e tutti amici come prima. Sminuirne la pervasività significa liberare la strada alle problematiche gravi che questo comportamento porta con sé sia nell'immediato che nel futuro dei ragazzi che lo vivono o lo hanno vissuto. Con questo chiaramente non intendo dire che in ogni ambiente il bullismo è considerato con superficialità: in molti si impegnano quotidianamente per cercare di dare soluzioni anche temporanee per migliorare la vivibilità degli ambienti frequentati dai più giovani. Tuttavia, sia a livello mediatico che nel dibattito pubblico talvolta tutto questo è trattato con semplicità e senza considerare le cause e le conseguenze degli atti di bullismo, che non sono considerabili eventi a se stanti e del tutto fuori dalle norme: hanno radici sociali, hanno conseguenze sulla comunità tutta, in particolare sulla fascia delle nuove generazioni che rappresenteranno, poi, i nuovi cittadini delle nostre stesse comunità. Non dare la giusta rilevanza al radicamento del fenomeno, considerarlo come qualcosa che succede e basta, situazioni che semplicemente sfuggono di mano, non può essere di nessun aiuto nel 45 http://www.thelancet.com/journals/lanpsy/article/PIIS2215-0366%2815%2900165-0/abstract 46 A. Civita, “Il bullismo come fenomeno sociale. Uno studio tra devianza e disagio minorile”, Franco Angeli, 2008 contrastarlo; bisogna valutarne tutti gli aspetti, allargare la visuale per inglobarlo in una rete di rapporti sociali su cui è necessario intervenire a tutto tondo se si vuole raggiungere un obiettivo duraturo nel tempo. Non solo vittime e bulli: gli spettatori Fino a qui mi sono soffermata prevalentemente sui protagonisti per così dire “principali” del bullismo: bulli e vittime. Ma un ruolo molto importante sia per la prevenzione che per la continuità del fenomeno lo svolgono anche gli spettatori, che distinguerei tra spettatori diretti e spettatori indiretti. Gli spettatori diretti sono tutte quelle persone che assistono direttamente agli atti di bullismo: compagni di classe, insegnanti, genitori dei bulli e delle vittime, che hanno un collegamento diretto con questi ultimi per il fatto che condividono gli stessi spazi e assistono alle vessazioni, a volte intervenendo, altre no. I compagni di classe hanno chiaramente un ruolo importante se si vuol cercare di prevenire il fenomeno: opporsi ai maltrattamenti, anche se non si subiscono direttamente, significa non lasciare isolate le vittime, che è fondamentale per il recupero socio-psicologico di queste. Ma significa anche rapportarsi con i bulli, che da un confronto possono forse imparare o rendersi conto dell'entità delle proprie azioni. Spesso però, per paura di ripercussioni, i coetanei non intervengono: si corre il rischio di diventare a propria volta vittima nel momento in cui ci si mette in competizione con il bullo, o si rischia di essere presi in giro dagli altri se si appoggia la vittima, in genere considerata già in partenza una persona diversa, “sfigata”, un/una perdente e quindi possibilmente da evitare per non avere ripercussioni sulla propria immagine nel gruppo di pari. Le dinamiche di gruppo in un'età critica come quella che va dalla preadolescenza alla fine dell'adolescenza rivestono un ruolo importantissimo della vita dei ragazzi, e senza una solido appoggio alle spalle (un genitore che incoraggia a scelte indipendenti, un insegnante che supporta azioni che servono a contrastare il succedersi di violenze psico-fisiche rivolte verso questo/a o quei compagni), che permette di guardare anche oltre l'appartenenza a un gruppo quando si tratta di intervenire in maniera “giusta”47 in difesa di qualcuno, può essere molto difficile affrontare apertamente le situazioni o rivolgersi a qualcuno di più grande per ricevere l'aiuto necessario. 47 Per “giusta” qui intenderei “conforme alla giustizia” in senso lato, e non un giudizio su cosa è giusto o sbagliato fare in queste situazioni, cosa che nemmeno io so con precisione e che è ancora oggetto di studio. Soprattutto l'insegnante (che sia di materie scolastiche, di discipline sportive, di corsi extrascolastici) ha un ruolo educativo fondamentale in questo contesto, ma spesso non è preparato a gestire situazioni complesse, e le ragioni possono essere molte: dall'incapacità di cogliere la portata del problema alla paura vera e propria di subire ritorsioni dal bullo (che spesso non si fa problemi a farsi beffe anche degli adulti che ruotano attorno al mondo della scuola), dalla scarsa consapevolezza del proprio ruolo non solo di dispensatore di nozioni ma anche di persona che riveste il ruolo istituzionale di accompagnare la formazione di nuovi cittadini. Una maggior tutela dell'insegnate (ricordiamo che è anche una categoria di lavoratori particolarmente “abbandonata a se stessa”, e per alcuni questo può significare il disinteressarsi ai problemi o per difendere la propria posizione o perché “non ne vale la pena” 48 ) e una solida preparazione per affrontare anche situazioni di disagio potrebbero portare a evitare gli errori che comunemente si fanno in situazioni problematiche: sgridare il bullo, metterlo in punizione, agendo come se fosse un episodio a sé stante, ad esempio, può far sentire quest'ultimo ancora più potente, una punizione può essere un vanto perché si è dato fastidio al sistema, e soprattutto l'assenza di dialogo che un semplice rimprovero comporta non porterà mai il bullo a rendersi conto della gravità delle sue azioni sia sulla vittima che sugli altri compagni di classe. Distogliere lo sguardo, invece, farà sì che il bullo si senta protetto in quanto impunito, più potente in quanto perfino gli adulti non hanno i mezzi per fermarlo, e soprattutto scoraggerà fortemente la vittima dal chiedere aiuto a un adulto, dato che l'esempio che ha sotto gli occhi è quello di una persona che per non avere guai che si disinteressa alla sua sofferenza e alle ingiustizie che sta subendo, creando così un forte senso di sfiducia nell'istituzione scolastica che si risolve talvolta con l'abbandono. Una parentesi a parte la meritano anche i genitori: quante volte, ad esempio, dopo che gli atti di bullismo si sono trasformati in fatti di cronaca, si è sentito dire da genitori e parenti che “non ci si era accorti di nulla”, “sembrava una ragazza allegra”, “sono stati solo scherzi finiti male”? I genitori non si accorgono sempre delle tendenze suicide de figli vessati continuamente dai propri pari, e non sempre si accorgono o non si rendono conto di avere un figlio che ritiene uno scherzo violentare con altri una compagna di classe e diffondere il video sui social. Un atteggiamento di superficialità (che qui non mi sento di accusare in quanto è molto più complesso di quanto possa sembrare comunicare apertamente con i membri della propria famiglia) può consolidare ancora di più nei ragazzi l'idea che 48 Ricorderei qui anche di come spesso, oltre che sulle sue possibilità e I suoi diritti, l'insegnante non sempre sia formato o pienamente consapevole dei suoi doveri in quanto pubblico ufficiale quello che stanno vivendo non sia considerato importante, e pertanto non possa essere fermato con le proprie forze, o peggio che la violenza non abbia conseguenze nel “mondo degli adulti”, che è quello a cui i ragazzi desiderano appartenere e in cui picchiare un compagno o una compagna non ha grande rilevanza49. Non è mio intento qui esprimere un giudizio sulla capacità di questi genitori di “fare i genitori”: non rientro nella categoria e non è il mio campo indagare le problematiche interne a ogni famiglia che possono portare a situazioni del genere, di questo probabilmente si occuperà meglio la psicologia. Quello che mi interessa fare è però una riflessione in senso più ampio, e qui entrano in gioco gli spettatori indiretti, che altri non siamo che noi: la società in senso più ampio all'interno del quale questo fenomeno si è radicato e continua a creare sofferenza e disagio nei minori. Quando si parla di società, spesso ci si dimentica che a farne parte sono persone come me e voi, genitori, figli, adulti che, come in questa giornata, hanno i mezzi per ritrovarsi, discutere, proporre soluzioni a un problema che non è lontano o altro rispetto a noi, ma si ritrova all'interno di ogni comunità di cui facciamo parte e su di questa ha un impatto da cui non possiamo prendere le distanze: pensiamo ai social media, all'uso che ne facciamo quasi quotidianamente, e al fatto che attraverso quegli stessi social media il bullismo viene sia agito (cyberbullismo) che mostrato, le immagini di violenza nei confronti dei più deboli ci arrivano sotto agli occhi, sulle varie home page, e per quanto ognuno possa reagire a suo modo nessuno può definirsi estraneo agli eventi. Quello che accade all'interno delle scuole, anche se ormai tanti di noi le hanno abbandonate da tempo, coinvolge tutti noi in prima persona, poiché è lì che si formano le nuove generazioni con cui ci troveremo presto o tardi a interagire, per cui dovremo decidere o che decideranno per noi sul piano politico, sociale, culturale. I bulli e le vittime non sono estranei ma membri di un gruppo sociale più ampio che è quello della comunità in cui sono inseriti, e della società italiana o europea, saranno i futuri cittadini del mondo. Per questo credo che un'analisi di quello che noi siamo e che trasmettiamo possa servire a farsi una vaga idea su quali possano essere strade percorribili per ridurre l'impatto di un fenomeno che a volte devasta intere esistenze e del quale noi non possiamo essere spettatori neutri. 49 Per un approfondimento sul ruolo degli adulti in contesti di bullismo rimando a A.Meluzzi “Bullismo e cyberbullismo”, Imprimatur editore, 2014, pag. 9- 40. Il resto del saggio è a mio avviso da prendere con le pinze, in quanto svia verso un atteggiamento da “si stava meglio quando si stava peggio” che non rientra nei miei ideali, ma questa prima parte offre una serie di dati interessanti da cui sviluppare una propria riflessione. Cosa spinge, in generale, a sottovalutare atti discriminatori o violenti tra ragazzi? Come mai il bullo si sente, il più delle volte, dalla parte della ragione senza riflettere sulle conseguenze di ciò che fa? Il bullismo non è un fenomeno nuovo. Dall'alba dei tempi i ragazzi più forti perpetrano soprusi ai danni dei più deboli, perché questo è quello che la società insegnava: i forti vincono, i deboli perdono, e se vuoi avere successo nella vita impara a essere il più forte, così da avere il potere, le ricchezze e una posizione sociale importante. Il fatto che ora si studi e si parli del fenomeno con nuovi termini è già indice di un cambiamento nel percorso che i valori di una società intraprendono nel corso della propria storia50. Tuttavia l'idea di fondo non è totalmente cambiata: al più forte si è recentemente sostituito il più furbo, il più bravo a manipolare gli altri e trarre vantaggio personale dalle persone senza necessariamente usare la violenza o la minaccia. In ogni caso la società resta divisa, e in adolescenza questa divisione è ancora più amplificata dal fatto che ancora non ci si è formati gli strumenti necessari per comprenderne la complessità, tra “vincenti” e “perdenti”. Attualmente sembra che, nonostante tutti i passi avanti fatti per l'uguaglianza, il rispetto reciproco, la pace, la parità di genere, l'obiettivo generale a cui spinge la società è quello di trovarsi una propria posizione nel mondo anche a discapito degli altri. Lo vediamo in continuazione nel mondo del lavoro, dove a furia di competere si è arrivati a farsi pagare una miseria pur di lavorare al posto di qualcun altro, o dove pur di fare carriera si è disposti a scendere a compromessi con il proprio tempo libero, la propria libertà personale e a fare carte false pur di scavalcare gli altri e aggiudicarsi la posizione. A livello più ampio, la società ha sempre necessariamente bisogno di distinguersi e porsi a un livello superiore rispetto a quello che è considerato “altro”, diverso, e quindi non meritevole come invece lo siamo noi. Chi sono questi “altri” e perché sentiamo il bisogno di mettere dei confini tra “noi” e “loro”? 50 Mi preme sottolineare qui che la “cultura” di una società non è un elemento fisso e immutabile nel tempo: quello che viene considerato un valore può, nel giro di qualche decennio, tramutarsi in un disvalore, quel che prima era abitudine diffusa può ritrovarsi appannaggio di pochi eletti: un esempio lampante e attuale è quello della medicina, fino a pochi anni fa considerata esclusivamente una cosa per esperti del settore che ora in occasioni sempre più numerose vengono screditati dai propri pazienti che ricercano autonomamente cure alternative per i propri problemi. Sono le persone stesse che contribuiscono attivamente al mutamento dei propri riferimenti culturali, poiché la cultura non è qualcosa che viene dispensata dall'alto su una massa di persone che ricevono passivamente le “istruzioni per l'uso” della propria vita: questo punto è molto importante per comprendere che il cambiamento sociale è possibile e dipende dagli stessi attori sociali coinvolti. Quando si parla di antropologia e alterità, generalmente si pensa a usi, costumi e pratiche culturali e religiose che ci distinguono in macrogruppi a seconda appunto dell'“etnia”51. Gli altri sono quindi quegli altri popoli, diversi da noi, con cui chiaramente abbiamo poco in comune 52 e da cui ci differenziamo nettamente per riferimenti culturali e modalità con cui conduciamo la nostra esistenza. Come osserva Remotti 53 , l'uomo costruisce la sua identità per contrasto rispetto a quello che percepisce come diverso da sé, ma questo avviene per contrasto non con popoli di cui scarsamente conosciamo gli usi, bensì con l'alterità che ci è più prossima: quella immediatamente vicino alla nostra società, quella che conosciamo meglio e da cui ci vogliamo differenziare per marcare nettamente la nostra superiorità. Gli altri sono quindi i gruppi sociali più svantaggiati, più deboli, che non hanno modo di rivendicare una propria posizione rispetto all'ideologia dominante: gli emarginati, gli immigrati, le donne, gli omosessuali e tutti quei gruppi che in qualche modo escono dalla norma che la società si è data come valore assoluto a cui aspirare. Ogni giorno tutto l'apparato dei media riporta notizie che parlano con toni spesso allarmistici di immigrazione, sbarchi, profughi a cui vengono dati i nostri soldi “mentre qui la gente muore di fame”, delinquenza perpetrata da persone di etnia diversa, allarmismo per atti di terrorismo internazionale che sì, porta alla luce un problema, ma che parla alla pancia delle persone con toni controproducenti e che non rendono giustizia alla realtà molto più variegata e pacifica dei gruppi etnici presenti sul nostro territorio, e soprattutto non contribuisce minimamente alla comprensione del fenomeno, che ha radici complesse che non sono poi così lontane dalla nostra stessa società. Il secondo posto, nella cronaca, spetta al cosiddetto “femminicidio”, conclusione tragica di una violenza che può durare anni da parte di un partner uomo nei confronti di quella che egli ritiene la “sua” donna, oggetto di proprietà che quando decide di fare di testa sua va punita severamente. 51 Etnia è un edulcorante per la parola razza molto in uso. Cosa formi veramente un'etnia non è ancora completamente chiaro, pertanto è un termine da usare con molta cautela. In antropologia si definisce etnia un gruppo che condivide lingua, usanze e riferimenti culturali e (ma questo non sempre è scontato) un luogo geografico, e che si autodefinisce come tale e si distingue appunto dagli altri gruppi su queste basi. Il rischio che si corre è di spostare il razzismo da un piano genetico qual era in passato a un piano culturale, dando all'etnia, anziché alla razza, un valore assoluto per cui necessariamente “chi è di etnia rom ruba” o “i marocchini sono tutti spacciatori”e altre generalizzazioni simili appannaggio del pensiero razzista di inizio secolo. 52 È molto facile trovare punti di differenza tra noi e i berberi del sahara in quanto usi, costumi e religione. Tuttavia tra le diverse culture presenti nel mondo ci sono molto più punti in comune di quanto non si pensi: in tutte le società le tappe a cui sono associati rituali sono sostanzialmente le stesse, anche se espresse in modi differenti: per tutti sono importanti momenti come la nascita, tutto ciò che è legato al cibo, il passaggio all'età adulta, il matrimonio come unione sociale, tutti i popoli hanno una religione e una serie di riti ad essa associati, tutti celebrano i propri morti: le differenze stanno solo nelle modalità con cui questi momenti sono affrontati. 53 F.Remotti, “Contro l'identità”, Laterza 2007 I toni con cui questo tema è affrontato sono spesso quelli della lacrima e della commozione facile, per cui la vittima, “poverina”, stava con un “mostro” che per una fatalità “ha perso la testa”. Ci dimentichiamo tuttavia del fatto che viviamo in una società in cui ancora la donna è percepita un gradino sotto rispetto agli uomini, dove non è tutelata nel lavoro, dato che guadagna meno di un uomo e se per caso decide di andare in maternità non è detto che ritrovi poi il posto che ha lasciato, e nemmeno nella sua sicurezza è tutelata (lascerei dire all'esperta presente all'incontro quanti centri antiviolenza hanno dovuto chiudere per mancanza di sovvenzioni da parte dello stato). La donna viene scoraggiata ad assumere ruoli di responsabilità, e quando ci arriva viene presa in giro54. In molte famiglie ancora è il matrimonio, e non la laurea, ad esempio, ad essere considerato il momento più importante della vita della propria figlia. C'è ancora molto da fare per raggiungere la parità che si professa da anni, e il discorso pubblico è ancora immaturo per affrontare temi complessi e delicati di questo tipo. Dall'altro lato, ci sono uomini che considerano le donne proprie pari, che le rispettano e che si assumono parte della responsabilità nelle decisioni familiari, nella cura dei figli, nella cura della casa comune, e ancora per una parte di società questi comportamenti li rendono “meno uomini” agli occhi degli altri. Fortunatamente è una tendenza che sta cambiando, ma non in una maniera appoggiata anche dalle istituzioni: basti pensare che il congedo di paternità, pur esistendo, è sfruttato in casi rarissimi e ha una durata assolutamente irrisoria rispetto a quello di maternità, a dimostrazione del fatto che il ruolo del padre è considerato ancora minoritario e la responsabilità di “allevare la prole” è tutta della madre. Un'altra parentesi la aprirei sull'omosessualità, categoria che rientra tra le fasce “deboli” da cui la società tende a distinguersi: senza scomodare il dibattito su cosa sia conforme o contro natura, si negano sistematicamente diritti a cittadini assolutamente uguali a tutti gli altri ma con un orientamento sessuale diverso da quella che viene considerata la norma. In questo caso la discriminazione è sia culturale (l'omosessualità è vista spessissimo come un'anomalia piuttosto che una semplicissima diversità che non nuoce a nessuno) sia istituzionale, dato che una parte della popolazione, che svolge gli stessi lavori e le stesse attività che svolgono tutti gli altri, che partecipa attivamente alla vita sociale, culturale e politica del paese, non gode delle stesse possibilità di tutti gli altri di fronte alla legge. 54 Si pensi alla direttrice del CERN di Ginevra, che si è sentita dire sui social che per arrivare dove è arrivata ha dovuto offrire prestazioni sessuali di ogni genere, o alla Boldrini, oggetto continuo di insulti sessisti che prescindono dal suo operato, o dall'astronauta Cristoforetti, che perfino nello spazio si è dovuta sorbire insulti per il suo aspetto fisico. I casi sopra citati sono gli esempi forse più lampanti di quell'insieme di gruppi e sottogruppi scarsamente tutelati che sono vittime di una vera e propria violenza strutturale55, ovvero un tipo di violenza non fisica ma perpetrata dalle istituzioni che rendono burocraticamente e socialmente impossibile ad alcune fasce della popolazione l'inserimento a pieno titolo come membri di una società, negando loro diritti, sostegno, accesso a servizi comunemente accessibili a tutti gli altri. Conclusioni Può sembrare che nel capitolo precedente sia andata fuori tema rispetto a quello di cui stiamo trattando, cioè del fenomeno diffuso del bullismo. Vorrei quindi chiarire perché il concetto di violenza strutturale applicato alle categorie sopra citate può aiutarci a capire meglio, e forse porre un freno, a questo fenomeno. Il motivo per cui ho parlato di stranieri, donne e omosessuali è molto semplice: se guardiamo alle vittime del bullismo, un 10% di queste è di origine straniera, e più della metà sono ragazze. I ragazzi e le ragazze omosessuali o presunti tali, poi, costituiscono un'altra percentuale significativa dei ragazzi e delle ragazze bullizzati56. I soggetti verso cui si perpetra la violenza all'interno delle scuole sono gli stessi che la società, più in generale, discrimina ed emargina. Sono le stesse persone che, diverse dallo standard, sono meno tutelate, vengono zittite quando rivendicano i propri diritti, sono considerate categorie e non membri fondanti della società a cui tutti apparteniamo, ma fino a un certo punto.Questo mi porta a pensare che il fenomeno del bullismo altro non sia che uno specchio della società stessa, certamente deformante in quando chi agisce non ha ancora piena consapevolezza del suo ruolo all'interno di questa società e non ha ancora acquisito i mezzi per comprendere la complessità che si cela dietro alle apparenze del mondo adulto, ma pur sempre un riflesso di quello che a livello più ampio costituisce il funzionamento della realtà in cui viviamo: una realtà in cui la diversità è preferibilmente nascosta anziché valorizzata, dove tutto ciò che è fuori dalla norma viene tollerato purché non rivendichi nessun diritto, dove il successo passa attraverso l'omologazione a modelli dominanti.Per questo motivo ritengo che qualunque intervento si svolga per contrastare il bullismo, questo nonpossa limitarsi alle aule scolastiche o agli altri ambienti in cui il fenomeno è 55 Si veda a tal proposito l'opera di Paul Farmer, medico e antropologo che per primo ha descritto il fenomeno. 56 http://www.istat.it/it/files/2015/12/Bullismo.pdf?title=Bullismo++tra+i+giovanissimi+-+15%2Fdic%2F2015++Testo+integrale+e+nota+metodologica.pdf presente57. Bisogna anche lavorare in senso più ampio sulla comunità, per far comprendere meglio fenomeni di cui spesso si sente parlare solo attraverso i toni a volte distorti dei media, e sulle istituzioni, affinché il senso di uguaglianza e rispetto e valorizzazione delle differenze che è auspicabile infondere nei ragazzi che agiscono o subiscono il bullismo non resti una “favoletta” che, una 57 volta finito il percorso scolastico, non trova riscontro nella realtà. A tal proposito e visto il contesto può essere interessante aggiungere che un 10% dei ragazzi vittime di bullismo lo subisce in ambiente sportivo: http://www.azzurro.it/it/informazioni-e-consigli/consigli/bullismo/quanto-%C3%A8diffuso-il-fenomeno-del-bullismo Per informazioni è possibile contattare: POLIZIA DI STATO 113 CARABINIERI 112 CENTRO ANTIVIOLENZA SIRIO CSF, Treviglio tel: 0363 301773 CONSULTORIO FAMILIARE – PUNTO FAMIGLIA, Caravaggio tel. 036351555 Telefono Azzurro da 25 anni e garantisce a bambini e adolescenti il diritto all’ascolto: – Il 114 è una linea telefonica di emergenza per segnalare situazioni in cui un bambino o un adolescente è in pericolo. Possono chiamare adulti e bambini 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, sia da telefonia fissa che da telefonia mobile, gratuitamente. – l’1.96.96 linea telefonica per bambini e adolescenti che desiderino raccontare piccole e grandi difficoltà che si trovano a vivere. Alla medesima linea possono rivolgersi anche adulti che intendano parlare di problemi che coinvolgono minorenni. – Chat telefono azzurro disponibile dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 22, sabato e domenica dalle 8 alle 20 Il Ministero della Pubblica Istruzione ha istituito il numero verde 800669696 nell’ambito della campagna contro la violenza”Smonta il bullo“, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 19. A rispondere sono operatori specializzati come psicologi, insegnanti e personale del Ministero. Il numero verde è stato attivato, nel corso della campagna di comunicazione “smonta il bullo”, per: segnalare casi; domandare informazioni generali; chiedere come comportarsi in situazioni critiche; ricevere sostegno. Per denunciare episodi di bullismo o spaccio di sostanze stupefacenti a scuola basta inviare un SMS al 43002 e la segnalazione arriverà in forma anonima alle forze dell’ordine competenti nel territorio.