Figli, giu le mani dall azienda

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Figli, giu le mani dall azienda
2001, Giu.
Sette (supplemento Corriere della Sera)
FIGLI, GIU’ LE MANI DALL’AZIENDA
Parola di Gianfilippo Cuneo, guru della consulenza manageriale, che sottolinea:
“Almeno finchè non hanno imparato alcune regole d’oro”. La prima, sorprendente:
“I veri leader, oggi, sono quelli che non sanno un tubo”
Il leader? “Prima era un solitario che sapeva tutto. Adesso è un aggregacervelli che
non sa un tubo”. Un incompetente? “Uno che sa di non sapere”. E lo pagano per
sbandierarlo? “Oggi è importante sapere cosa fare, non come fare”. Che vuol dire?
“Vuol dire saper saltare al momento giusto su un altro treno, non restare tutta la
vita a perfezionare quello dove già sei”. Mobilità? “Pensiero analogico. Ieri il capo
era uno che conosceva bene il suo settore, se la ditta faceva macchine era un
ingegnere che sapeva vita morte e miracoli di ogni bullone. Oggi un capitano
d’impresa è uno che le imprese le sposta. E non le lascia in mano ai figli. Uno che
dice: ragazzi, vi lascio ricchi, ma giù le mani dall’azienda”. Parola di uno che di
aziende (e di manager) se ne intende: Gianfilippo Cuneo detto Phil, 59 anni,
savonese trapiantato a Milano, laurea in Economia e commercio, moglie svedese,
due figli venticinquenni (uno lavora in America, l’altra è web designer), presidente
della Bain, Cuneo e Associati.
Scusi, ma allora che cosa dovrebbero fare i figli degli industriali? Passare la vita a
Montecarlo?
“In imprese da 100-200 miliardi di fatturato, i figli degli industriali si chiamano
capitalisti e devono fare gli azionisti, non i manager, lo facciano in qualche altra
azienda, non nella loro”.
Esempi?
“La casa editrice De Agostini. Famiglia allargata: una quarantina di rampolli in
attesa. E nessuno di loro prenderà il timone a meno che non siano diventati prima
dirigenti in aziende terze. Per un manager, questo è motivante. Non c’è il figlio del
padrone che ti tappa le aspettative”.
Il nuovissimo identikit del manager di successo?
“Tre segni di riconoscimento. Primo: ieri i leader erano nominati. Oggi vengono
eletti. E’ sempre più il mercato finanziario che comanda. Ieri il grande manager
aveva un atteggiamento padronale. Era un solitario. Oggi è un aggregatore di
leader. Il suo mestiere è coagulare intorno a sé una squadra vincente capace di
ottenere la fiducia degli azionisti. Nei mercati più liberi, Stati Uniti e Gran Bretagna,
accade così: i fondi di “private equity”, 100 miliardi di dollari di fondi freschi
all’anno, guardano sempre di più alle caratteristiche del management”.
Ma quando una squadra di manager è vincente?
“Secondo segno: quando sa cogliere le opportunità. A un dirigente oggi si chiede
non di gestire bene uno stabilimento, ma di cogliere business. Crescere per
diversificazione laterale, decentramento produttivo, espansione internazionale”.
E la competenza?
“Terzo segno. C’era una volta il mito del capo tradizionale, che sapeva tutto, che
aveva fatto la gavetta. Oggi con la globalizzazione, il capo è uno che non sa niente.
Però sa come dare fiducia a quelli che sanno. Il capo oggi è un coordinatore di
imprenditori. Sapere di non sapere diventa una forza. Un’altra regola fondamentale:
tu non possiedi più le anime dei tuoi dipendenti”.
Che significa?
“Inutile pensare che uno debba giurare fedeltà eterna all’azienda altrimenti è un
mercenario che non bisogna assumere. Tutti sanno che nella vita cambieranno
azienda molte volte. Un capo deve metterlo in conto. E’ una realtà di scambio
continuo”.
Chi è il guru del momento?
“Gary Hamel. Il suo pensiero distillato: oggi è importante sapere cosa fare, non
tanto come fare”.
I suoi consigli per un eventuale grand tour del giovin manager?
“In Asia, Hong Kong e Singapore. Per respirar l’aria dell’Asia finanziaria. E poi
Vietnam, per capire quanto contano la forza di sacrificio e la volontà di riuscire. Lì
sono le stesse dell’Italia del miracolo economico. Saltare l’Africa a piè pari. E volare
negli Stati Uniti, naturalmente”.
Ancora la Silicon Valley?
Meglio il North Carolina. Lì si è formato un polo produttivo di imprese sofisticate,
ingegneria, elettronica. Molto interessante”.
Senta, ma qual è l’errore più grande che un manager può fare?
“Avere certezze. E quindi sottovalutare i segnali deboli che gli sussurrano che
qualcosa sta cambiando nel suo business. In passato il segno della leadership era la
sicurezza. Oggi bisogna avere il coraggio di dire: - Signori, noi andiamo là. Forse - ”
Michele Farina