Sapere di non sapere
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Sapere di non sapere
SAPERE DI NON SAPERE Il leader dovrà essere come Socrate: riconoscere di non sapere e di imparare dagli altri. Hamber – Novembre 1998 Intervista a Gianfilippo Cuneo, a cura di Alessandra Aldrighetti I sofisti più famosi si ponevano nei confronti dell’uditore nel superbo atteggiamento di chi sa tutto; Socrate, al contrario, si metteva nei confronti dell’interlocutore nell’atteggiamento di chi non sa e, riconoscendo la fragilità del sapere umano, era aperto a imparare dagli altri. Sembra quest’ultima la carta vincente del leader del prossimo mil-lennio secondo Gianfilippo Cuneo, presidente della società di consulenza strategica Bain Cuneo e Associati, filiale italiana della multinazionale americana Bain & Company, pre-sente in Italia dal 1988. Nel suo recente libro Il successo degli altri Cuneo affronta il tema della leadership pre-sentando i risultati di una ricerca svolta dal gruppo Bain nel 1995 su 160 capi di aziende di successo europee e americane. Gli abbiamo rivolto alcune domande specifiche per co-noscere, in particolare, il suo pensiero sull’essenza della leadership, le skill necessarie per guidare gli altri e le modalità di formazione migliori per crescere. Che cosa intende per leadership? Leadership è sostanzialmente guidare le persone non attraverso il comando ma attraverso una visione, l’esempio, le emozioni. La leadership non è una questione di razionalità. Il leader offre un modello di riferimento alle persone e riceve in cambio stima e credibilità. Non esiste un modo unico, migliore di altri, per essere leader. Gestire un’azienda indu-striale, finanziaria o di servizi richiede diversi stili di leadership e la presenza di manager con caratteristiche particolari. Ogni azienda ha una propria cultura e il leader non può es-serne estraneo. Il leader deve essere credibile e coerente con lo stile della sua azienda e i comportamenti codificatisi nel tempo. Questo significa che uno stile di leadership che funzione in un certo tipo di contesto potrebbe anche non funzionare in un altro. Ne sono un esempio i manager di successo, amati e seguiti in un’impresa che, trasferiti in un altro contesto aziendale, non raggiungono i risultati attesi o hanno performance scadenti. A volte non si tratta di mancanza di capacità, non si tratta di un giudizio di valore sulle per-sone. L’importante in definitiva è riconoscere tre passaggi: nelle aziende esistono culture diverse; la leadership impatta sulla cultura; non c’é, di conseguenza, uno stile di leadership universale che vada bene ovunque. I leader si differenziano dai manager perché... Penso che non ci sia una differenza in assoluto. Un manager, se è un manager vero, è ine-vitabilmente anche un leader per le persone che collaborano con lui o sono in contatto con l’azienda. Naturalmente ci sono manager molto orientati alle persone e tesi a guidarle attraverso l’emozione o la condivisione di obiettivi; altri che sono meno leader su questo fronte e più abituati a comandare e controllare. Mentre lo stile personale è permanente, un bravo leader dovrebbe variare situazionalmente il proprio approccio in funzione delle cir-costanze. La scelta di un leader va quindi anche fatta in considerazione dei futuri collabo-ratori. Si può mettere il cavallo di Caligola a fare il senatore o il manager: i servi lo tratte-ranno ossequiosamente in considerazione del ruolo formale che ha ricevuto, ma per tutti gli altri, e per i risultati che saranno conseguiti, sarà sempre e solo un cavallo. Purtroppo l’analogia non è priva di fondamento, dati i molti esempi recenti italiani nel settore pub-blico come in quello privato. Il rischio di non studiare con attenzione le caratteristiche individuali e le capacità delle persone è di compromettere la performance aziendale del team stesso. E’ inevitabile che ogni capo aziendale sviluppi col tempo un proprio stile assecondando alcune caratteristiche naturali. I capi di successo sono, però, quelli che cer-cano un adattamento fra questo stile personale, le necessità dell’impresa e le attese dei collaboratori. Che cosa pensa delle leadership al femminile? Le cito il caso della Bain Cuneo. Il nostro chairman è una donna e la Bain è l’unica socie-tà di consulenza mondiale che ha a capo una donna. Ne siamo pienamente soddisfatti e la consideriamo un leader di grande successo. Sono convinto che nei confronti delle donne vi siano ancora pesanti vincoli culturali. Il mondo le considera più fragili o meno credibi-li. Di conseguenza per emergere le donne devono essere doppiamente brave e doppia-mente fortunate. Sono convinto che il problema dello sviluppo di una leadership al fem-minile non sia legato quindi alle potenzialità delle donne o a qualche particolare caratteri-stica genetica penalizzante. E’ nella mentalità, nella cultura della gente. Qual é il profilo di top manager più adatto a sostenere le sfide competitive del nuovo millennio? Dovrà essere più filosofo o più guerriero? Quali competenze dovrà ave-re? C’è oggi la tendenza a considerare il leader sempre più somigliante a Superman. Deve essere il più bravo, il più aitante, il più competente a 360 gradi. Se è vero che la globaliz-zazione dell’economia aumenterà notevolmente la complessità delle cose da capire, la strategia del leader-superuomo sarà perdente. Sarà più difficile cogliere le opportunità in un mondo sempre più vasto e articolato. Il fu-turo appartiene sempre più a chi fa crescere l’azienda e non a chi fa ridurre i costi. Questo significa che per crescere bisogna cogliere le opportunità in tutti i Paese del mondo: per fare questo un cervello non basta. La strada da perseguire è inversa. Il presupposto è “sapere di non sapere”. Il leader che riconosce questo ha già fatto il primo passo. Il passo operativo è cercare joint con altri vincenti, collegarsi a persone, aziende, fornitori, clienti, finanziatori e professionisti e-sterni che dominano un segmento specifico (un Paese, un mercato, una tecnologia, una fascia di clientela...). Tendenzialmente chi opera in una nicchia è in grado più facilmente di cogliere le opportunità. Faccio un esempio: il leader non deve comandare il direttore di produzione ma motivarlo e fare sì che questa persona sia un vincente, soddisfatto da tutti i punti di vista (immagine, soldi, autonomia crescita professionale). Il leader che si coalizza con il direttore di produ-zione o con un cliente innovativo o un fornitore attraverso alleanze, partecipazioni incro-ciate o sviluppi congiunti, potrà realisticamente cogliere opportunità vere. Il leader del futuro deve comportarsi quindi da catalizzatore, seminatore e non da padrone guerriero, per sciogliere il dilemma di questo numero di Hamlet. Non si deve pretendere di saper fare tutto e di agire autonomamente. Contrariamente a quanto fanno gli americani, che mandano i loro manager a gestire “le province dell’impero”, penso che sia molto più red-ditizio collegarsi e allearsi ai vincenti Paese per Paese. Per il leader cercare il “successo degli altri” è una strategia vincente. Non si rinuncia a dirigere, a mediare, ma piuttosto si riesce a riconoscere le qualità e a valorizzare le specificità di persone diverse. La respon-sabilità del leader è lasciare che gli altri trovino la soluzione giusta. Alcuni studiosi ritengono che il leader, giunto alla vetta della piramide di Maslow e soddisfatti i suoi bisogni di autorealizzazione, si possa trovare solo e insoddisfatto dal punto di vista affettivo e sociale, Lei ritiene che per occupare i posti di comando ed essere leader ci sia un prezzo da pagare? Non c’è nessun prezzo da pagare. Ci sono solo vantaggi: si vive meglio, si soddisfano i collaboratori, e spesso si lavora meno. Sicuramente esistono work- alcoolics, persone la-voro-dipendenti, che compromettono la loro vita, la famiglia e anche la salute psicofisica dei collaboratori. Ma sono patologie non esclusive di chi occupa posizioni di comando e comunque modelli da imitare sempre meno. Quale formazione immagina per lo sviluppo manageriale dei top aziendali? Non una formazione fatta da professori. Il taglio accademico, la formazione erogata dall’alto non è vincente. Intendo invece la formazione come una esposizione programma-ta a persone che si stimano e che sono almeno dei pari. In altri termini, il manager di una società impara se parla, se lavora e se fa affari con altri manager vincenti, non con un professore. La formazione deve essere esposizione attiva, programmata e voluta con dei diversi di uguale o superiore qualità e competenza. Il vero dilemma è che tutti noi vor-remmo essere in contatto con persone più brave per imparare da loro. Questo è un open loop che non sono ancora riuscito a risolvere.