Combattere l`ipocrisia

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Combattere l`ipocrisia
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Combattere l'ipocrisia,
individuando gli obiettivi delle persone
L'opinione di Gianfilippo Cuneo
di Chiara Morelli
I
mercati attuali sono caotici,
dinamici e ipersegmentati. Si
aprono grandi opportunità sia
per gli investitori che per gli imprenditori, a condizione di operare
con criteri nuovi rispetto alle gestioni
aziendali del passato.
Gianfilippo Cuneo è uno dei più
noti consulenti italiani e opera ormai
da anni come leader di un fondo
di investimento dedicato all'acquisizione di partecipazioni in aziende
a connotazione imprenditoriale. Ma
ha anche saputo, in diversi momenti,
trarre dalla sua grande esperienza
analisi penetranti dei problemi di
management nello scenario della globalizzazione.
Nel suo ultimo libro (Così parlò
Warren Buffet: lezioni per investire in
Gianfilippo Cuneo
Italia, Baldini Castoldi Dalai, 2007)
Cuneo toglie il velo che copre il
disagio delle grandi organizzazioni
d'impresa anche multinazionali: gerarchia, burocrazia, separazione tra
azionisti e management, decisionismo centralizzato sono le eredità di
un'epoca ormai passata che occorre
ribaltare per cogliere le opportunità offerte dal caos dei mercati globali. Contemporaneamente Cuneo
analizza impietosamente le virtù e i
difetti delle imprese imprenditoriali
e fornisce preziosi suggerimenti derivati dalla sua esperienza diretta, per
amplificare le prime e minimizzare i
problemi dei secondi.
Lei vede anche un atteggiamento di
ipocrisia nella prassi ancora dominante del management?
L'ipocrisia è l'olio necessario per fare
funzionare le grandi organizzazioni:
bisogna far finta che si è d'accordo
sulle politiche aziendali, che si stimano i propri superiori, che si crede
nella tavoletta dell'azienda veramente
interessata al benessere e allo sviluppo delle persone, ecc. Dichiarare il
proprio disaccordo o dire veramente
quello che si pensa (invece che dire
solo quello che fa aumentare la stima del capo per la persona) espone
al rischio di isolamento e di non
fare carriera. L'ipocrisia è talmente
diffusa che quando si effettua una
diagnosi organizzativa non ci si può
assolutamente basare su quello che le
persone dicono o sulle procedure che
descrivono il modo ufficiale di funzionare dell'azienda. Bisogna invece
cercare di scoprire come le persone
si comportano veramente, quali sono
le aspirazioni e i giudizi nascosti e
quali le effettive molle che potrebbero
cambiare gli atteggiamenti. L'analisi
organizzativa diventa cosi una specie
di lavoro da detective, fra persone
che mentono e considerano l'ipocrisia
una virtù necessaria.
Come si può riprogettare l'impresa?
Bisogna ripartire dagli obiettivi fondamentali delle persone; ciascuno di noi
vuole guadagnare di più, fare carriera,
sentirsi apprezzato, e, a seconda delle
caratteristiche più o meno imprenditoriali, perseguire le grandi opportunità o invece la sicurezza. Bisogna
pensare all'impresa come a un'associazione di nuclei di persone che
perseguono tali obiettivi; il compito
del leader è di collimare gli obiettivi,
coordinare gli sforzi, aiutare a colmare le carenze di ciascuno. L'idea di
un'impresa nella quale tutti gli "schiavi" lavorano (anche ben remunerati)
per gli obiettivi del padrone è inadatta
in un mondo in cui le opportunità
possono solo esser percepite e colte
da persone diverse: quindi, pluralità
di sotto-imprese, partecipazioni delle
persone ai risultati, imprenditorialità
diffusa e incentivata. Ma se non lo si
sa fare, meglio rimanere nei modelli
gerarchici tradizionali, che almeno
hanno il vantaggio di essere consolidati, prevedibili.
HAMLETN°2/2008
III
hamlet
Puntare sul "successo degli altri"
espone per forza a un caos continuo,
oppure può aprire spazio anche ad
atteggiamenti più "calmi" e maturi
delle persone?
C'è spazio per tutti; dopotutto anche
una squadra di calcio non può avere
tutti centravanti. Ci sono persone
che per età, indole, scelta personale,
sono più adatte a fare i mentori che
non gli attori; altre che vogliono essere lasciate in pace e fare molto bene
una sola cosa; altre, infine, che hanno
un animo di esecutori.
Lei sviluppa in 10 punti le lezioni
per investire in Italia, evitando gli
errori più frequenti in cui cadono
le aziende familiari. Può indicarci
l'aspetto più importante?
Bisogna non fare più di un errore
alla volta; uno è recuperabile, due
no. Comunque, l'errore più grave e
frequente è confondere il ruolo di
azionista con quello di manager. È
naturale che il fondatore di un'azienda faccia tutto, ma gli eredi (figli,
generi ecc.) non hanno quasi mai
la competenza manageriale che è
richiesta per gestire un'azienda, particolarmente in tempi di turbolenza
e concorrenza accanita. Ma un figlio
che entra in azienda da giovane sotto
un padre forte ha l'ambizione di far
vedere che anche lui sa gestire, e
quindi ambisce a diventare amministratore delegato; per di più, se non
lavorasse in un sistema protetto, non
troverebbe nessuno che gli offrirebbe un lavoro. Quanto meno bravo è
il figlio/a e tanto più egli non ha altra
possibilità, per sentirsi importante,
che avere un ruolo "dinastico" o il
potere di auto-nominarsi amministratore delegato. Invece, c'è sempre
qualcuno più bravo di lui a gestire e
con un'esperienza più variegata; occupare una posizione che un altro si
meriterebbe è un modo per scoraggiare tutti i veri manager per privarsi
di capacità imprenditoriali vere, e
quindi avere un'azienda ossequiosa
IV
HAMLET N°2/2008
ma demotivata, non reattiva. Se questo errore avviene in concomitanza
di altri, per esempio la cecità ai cambiamenti del contesto competitivo, il
fallimento dell'azienda è assicurato.
Se invece l'erede dell'impresa, che
imprenditore non è, in quanto è solo
un capitalista, facesse il mestiere dell'azionista, possibilmente in associazione con un investitore istituzionale
esperto, quale un fondo di private
ratori in nero, non c'è spazio per lo
stipendio di un manager esterno; ma
queste imprese dovrebbero essere
classificate in una categoria a parte,
per esempio di imprese artigiane,
nelle quali è logico il passaggio dell'impresa di padre in figlio/a. Nelle
vere imprese, che possono attirare
capitali, crescere, e hanno dimensioni superiori a 1 milione di MOL
(margine operativo lordo), lo spazio
L'errore più frequente nelle imprese familiari italiane
è confondere il ruolo di azionista con quello di manager,
che si manifesta spesso nei cambi generazionali.
Non esiste la categoria dei "figli degli imprenditori",
esiste la categoria dei capitalisti eredi di imprenditori
equity, metterebbe in sicurezza il
patrimonio, lo immetterebbe in un
circuito virtuoso in cui il patrimonio
si raddoppia ogni 4-5 anni e potrebbe vivere felice e contento senza la
maledizione di dover far finta di
essere anche un manager.
Qualcuno potrebbe dire che la sua
visione è molto idealista...
È idealista la visione di un'azienda-rete nella quale tante persone
brave sanno contribuire al successo
di tutti e contemporaneamente possono realizzare se stessi. Alcuni bravi
imprenditori o manager riescono a
realizzarla, forse più nelle imprese di
servizi che nelle aziende industriali
(ove la pesantezza degli investimenti
condiziona fortemente il modo di
gestire). Per quanto concerne invece
l'opinione che un'azienda non dovrebbe esser gestita dai figli, non si
tratta di una visione idealista, è una
constatazione diffusa e rappresenta
quasi un'owietà. È pur vero che in
aziende piccole, dove magari si evadono le tasse e si pagano i collabo-
per farle gestire da uno più bravo
dell'erede c'è.
Purtroppo, lo dico come paradosso, ci
sono esempi di nipoti che hanno fatto
enormemente meglio dei nonni; si pensi al caso di Marco Drago nel Gruppo
De Agostini. Questi esempi danno la
scusa a 1.000 persone che non hanno
nemmeno un decimo delle qualità di
Marco Drago di dire: "Vedi che è utile
mantenere l'azienda in famiglia?". A
nulla serve ricordare gli altri 10.000 casi
in cui i figli o i nipoti hanno distrutto
l'azienda, intestardendosi a gestirla direttamente. È come per gli incidenti
automobilistici, uno pensa che debbano sempre capitare agli altri.
Un' ultima riflessione: chi si farebbe
operare da un "figlio di un cardiologo"? È perché mai dovrebbe
esser logico far gestire l'azienda dal
"figli/a di... ". Non esiste la categoria
dei "figli degli imprenditori", esiste
la categoria dei capitalisti eredi di
imprenditori: quelli furbi mettono il
patrimonio nelle mani di chi lo saprà
far crescere, agli altri si può solo augurare buona fortuna.
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