Ciad, effetto petrolio

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Ciad, effetto petrolio
Ciad, effetto petrolio
Domenica 27 Settembre 2009 21:08
di Eugenio Roscini Vitali
L’aggressivo sfruttamento delle risorse energetiche che negli ultimi anni ha cambiato la faccia
politica e sociale dell’Africa, non ha certo portato la ricchezza e lo sviluppo sperato, la pace ed
il benessere promesso da chi invece ha girato la testa di fronte a tragedie umanitarie quali il
Darfur o il Corno d’Africa, il Nord Kivu o il Sahara Occidentale, il Delta del Niger o le foreste
dell’Uganda settentrionale.
Al contrario, la politica del profitto ha sconvolto la vita di un numero incalcolabile di persone,
vittime di un saccheggio incontrollato che ha ricompensato i potentati ed ha premiato l’egoismo
di quelle nazioni che in cambio di un paventato sviluppo economico hanno dato vita ad una
nuova corsa all’Africa, ad una nuova forma di colonialismo politico-militare che in chiave
moderna ricorda quello che tra la fine dell’Ottocento e l'inizio della prima guerra mondiale si
spartì il continente. Ed è in questo contesto, in un continente come l’Africa, dove il 40% della
popolazione “vive” con meno di un dollaro al giorno e un numero molto maggiore “sopravvive”
con meno di due, che il Ciad rappresenta l’ennesimo esempio di come i poveri pagano sempre
il prezzo più alto. Pressato dalla fame e dei cambiamenti climatici, dalle crisi umanitarie e dalle scorribande dei
predoni, sovrani incontrastati del Sahel e dell’Africa sub-sahariana, dalle crisi regionali e dalla
concreta possibilità di una guerra civile, il Ciad sconta infatti, più di altri Paesi, l’illusione di una
“ricchezza” che probabilmente non arriverà mai. Quasi dieci milioni di abitanti che negli ultimi 40
anni hanno assistito all’irreversibile desertificazione del loro Paese e alla conseguente riduzione
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delle acque della loro unica fonte di sostentamento, il lago Ciad, passato da una estensione di
25 mila chilometri quadrati a poco più di 5 mila; dieci milioni di persone che hanno riposto tutte
le loro speranze sulla pioggia di dollari che sarebbe dovuta arrivare con l’oro nero ma che non
ha nemmeno bussato alla porta.
Sviluppatosi alla fine del secolo scorso, lo sfruttamento dei giacimenti non ha infatti cambiato lo
standard di vita dei ciadiani e, per ora, i profitti derivanti dai prezzi record del greggio registrati
negli ultimi anni hanno solo rimpinguato le casse del governo. Entrate gestite dalle autorità, in
gran parte appartenenti all’etnia Zaghawa e al Mouvement Patriotique du Salut (MPS), che
hanno praticamente dilapidato centinaia di milioni di dollari per armare l’esercito e premiare e la
classe politica più accondiscendente alla decisioni della presidenza. Una ricchezza il cui utilizzo
è diventato soprattutto strategico, ben lungi dall’alleviare la condizione di povertà in cui versa il
Paese, ma elemento importante per mantenere al potere chi di fatto ha favorito una endemica
situazione di instabilità.
Il fallimento brucia ancora di più se si ripensa al 2000, a quando la Banca mondiale ed alcune
agenzie pubbliche e private di credito decisero di sostenere con 370 milioni di dollari il
Chad-Cameroon Oil and Pipeline. “Un progetto per lo sviluppo”, conosciuto anche come “Doba
oil”, da quattro miliardi e duecento milioni di dollari, appaltato ad un consorzio di compagnie
petrolifere comprendenti la Exxon-Mobil, la Chevron-Texaco e la malese Petronas. Il fine ultimo
era la realizzazione e l’apertura di 300 pozzi petroliferi e la costruzione di un oleodotto lungo
1.070 chilometri che attraverso la foresta pluviale avrebbe collegato la città di Doba, nel Ciad
meridionale, al porto camenurense di Kibri, nel Golfo di Guinea. Un concetto completamente
rivoluzionario nel finanziamento ai Paesi poveri, il più grande in tutta l’Africa, diverso dai classici
prestiti a fondo perduto e i cui profitti sarebbero dovuti servire a ridurre la povertà in Ciad ed in
Camerun, a stimolare il microcredito, ad avviare nuove attività, a sovvenzionare l’acquisto di
macchinari agricoli, a realizzare scuole, ospedali, ed infrastrutture.
In realtà il Chad-Cameroon Oil and Pipeline ha provocato danni irreversibili: flussi migratori e
violazioni dei diritti umani collegati alla realizzazione dell’opera, confisca delle terre agricole
senza risarcimenti e gravi danni sociali ed ambientali. Un ecosistema distrutto, malaria e
malattie della pelle causate dal misterioso smaltimento dei rifiuti tossici, quasi cento villaggi
scomparsi, intere tribù pigmee costrette a rinunciare ad intere aree, crollo nell’esportazione del
cacao e del caffè, disoccupazione, violenza e crimine alle stesse, così come la prostituzione e i
casi di HIV. Tutti fatti denunciati dalle popolazioni locali e dalle Organizzazioni non governative
internazionali, così come i 225 mila barili di greggio prodotti ogni giorno dal consorzio; i profitti
annui della Exxon-Mobil, pari a 40 volte il Pil del Ciad; i 36 milioni di petrodollari ricevuti da
Deby nel 2006, utilizzati per armare la guardia presidenziale, “vincere” le elezioni e sconfiggere
i ribelli del Rally for Democratic Forces, e il miliardo e 200 milioni di dollari incassati dal Ciad
nel solo 2007.
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Con un tasso di analfabetismo che tocca 87% e un reddito pro capite annuo pari a 150 euro
all’anno, il Ciad è tra i cinque Paesi più poveri al mondo: 170mo su secondo 179 nazioni
secondo il rapporto 2008 delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano; 173mo su 180 per la
speciale classifica sulla corruzione stilata dall’associazione non governativa Transparency
International. La maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà estrema,
soltanto il 10% ha accesso ai servizi sanitari di base e meno del 30% può disporre di acqua
potabile di buona qualità; il tasso di mortalità infantile fino ad un anno di vita colpisce 102,6
neonati su mille e la speranza di vita alla nascita è di poco superiore ai 50 anni. In Ciad sono
presenti 12 campi profughi che accolgono più di 260 mila rifugiati, 220 mila civili provenienti dal
Darfur e 40 mila dalle foreste della Repubblica Centro Africana. Gli sfollati interni, fuggiti dai
villaggi in seguito alle incursioni delle milizie sudanesi e al conflitto interno tra forze governative
e ribelli, sono circa 170 mila.
Una situazione tragica, soprattutto perché negli ultimi dieci anni, anziché mantenere gli accordi
presi con la Banca Mondiale - 80% delle entrate destinato a programmi di sviluppo (sanità,
istruzione e infrastrutture) e il 10% a un fondo bancario riservato alle generazioni future - il
governo di N’Djamena ha preferito portare le spese militari dai 14 milioni di dollari del 2000 ai
315 milioni di dollari del 2009, una cifra che supera abbondantemente il 4% del Pil (4,2% nel
2006) e che Deby giustifica con il rischio di una possibile invasione sudanese. Grazie ai
partners principali, Francia, Stati Uniti e Cina, alla costante presenza della Legione Straniera e
ai soldi della Exxon-Mobil e della Elf, oggi N’Djamena ha infatti uno dei più equipaggiati e
preparati eserciti dell’Africa sub-sahariana.
Oltre agli Aermacchi SF-260 strappati alla Libia durante la guerra per la striscia di Aozou e ai
vecchi mezzi sovietici (i tank T-55, i veicoli da trasporto truppe BTR-80, i blindati BRDM, gli
elicotteri Mil Mi-8/-17, gli aerei trasporto Antonov An-26 e quelli da attacco al suolo e supporto
Sukhoi Su-25 Frogfoot), il Ciad dispone degli anfibi francesi ERC 90 Sagaie e dei veicoli
americani Humvee, gli High Mobility Multipurpose Wheeled Vehicle usati dall’esercito Usa in
Iraq ed Afghanistan; dei missili terra-aria FIM-92 Stinger, degli anticarro a medio raggio Milan e
sistema d'arma BGM-71 Two; degli aerei da trasporto C130-Hercules e dei velivoli da attacco
leggero Pilatus PC-9M; degli elicotteri da trasporto Mi-171 e di quelli da attacco Mil Mi-35.
Anche in Ciad il binomio petrolio-armi quindi funziona, sicuramente meglio di quello
petrolio-sviluppo e almeno quanto il progetto “Doba oil”, una speranza di affrancamento dalla
povertà che si è trasformato nel core business delle spese militari, fatto che nel settembre 2008
ha portato la Banca Mondiale a ritirate il proprio sostegno al finanziamento. E certamente non è
di aiuto all’economia nazionale che, a causa del brusco crollo dei prezzi petroliferi, negli ultimi
anni ha visto un andamento del Pil in vertiginosa discesa, passando dai livelli record del 2004
(+33,6%) al –0,4% del 2008. Una situazione economica che desta preoccupazioni e che a
causa dell’instabilità regionale e del sistema di governance, uno dei più corrotti al mondo, è
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destinata a peggiorare, almeno per quegli otto milioni di ciadiani che già vivono sotto la soglia
della povertà estrema. 4/4