Giovanni Scarpa - comunita di via gaggio

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Giovanni Scarpa - comunita di via gaggio
VIAGGIO COMUNITARIO IN ARMENIA
Appunti, spunti e riflessioni
1. Premessa
Siamo partiti fiduciosi da Malpensa, per vivere la proposta di visitare questa volta
l’Armenia.
Con Angelo e Renato; arrivando da Lecco, Segrate, Milano, Palermo e Trieste.
Confidiamo di trarre spunti, di arricchirci anche con questa esperienza, per ritornare
con più voglia di dare nelle nostre quotidiane realtà.
Alcune considerazioni, in premessa.
Il tempo che viviamo risulta sempre più difficile da interpretare, fuori dal
trascinamento alla omologazione alla presente società del consumo e dell’opulenza,
seppure stiamo pagando ormai una lunga stagione di recessione non di poco conto, si
dice addirittura più severa della crisi degli anni trenta del secolo scorso, proprio nei
paesi di economia matura, anche a casa nostra, in Italia.
La società liquida postmoderna, quella della globalizzazione dei mercati che si è
imposta dopo la caduta del muro di Berlino, novembre 1989, che ha subito pure
l’emergere delle nuove conflittualità, conseguente all’attacco alle torri gemelle di
Manhattan, nine eleven twothousand and one, oltre che il soprassalto della crisi
finanziaria esplosa nel 2008 con la fine di Lehman Brothers, risulta sempre più
fragile e nel contempo esigente, paga comunque l’esasperazione degli interessi
individuali, frammentati e frammentanti.
Emergono allora domande di riscoperta del senso e della presenza di più umanità
negli ambiti di vita e di relazioni che sottendono il nostro quotidiano; di fronte a
distorsioni evidenti in fatto di grandi disparità cui viene sottoposta la società laddove
tenda a prevalere la spinta e l’interpretazione esasperata della cosiddetta
autoregolazione dei mercati; proprio perché si esasperano le differenze di condizioni
e soddisfazioni economiche, si esprimono disparità di voragine tra i pochi che
dispongono ed i tanti che vengono sempre più resi marginali.
Eppure risulta inarrestabile il processo di guida dei fenomeni riconducibili alla
applicazione sempre più stringente delle tecno-scienze, delle reti, in ambiti di libertà
e di democrazia, seppure ne conseguano pure domande nuove di interpretazione delle
dinamiche e delle scelte connesse alla vita della persona soprattutto nei momenti di
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inizio e fine vita, quelli del concepimento e della nascita cioè e quelli della
condizione terminale dell’esistenza.
Così come risulta pure evidente la difficoltà della composizione del vivere
comunitario di una società ormai sempre più globale ed aperta, in fatto di mobilità e
di compresenza di gruppi afferenti a composizione diversa in quanto ad origini,
nazionalità, religione, cultura; sapendo rispettare e trarre forza dalla diversità invece
di percorrere strade di scontro e di conflitto; imparare cioè a vivere e convivere con il
meticciato di culture ormai sempre più evidente dappertutto, nella società globale
odierna.
Di fronte a tutto questo, come rispondere come comportarsi.
Come trovare le condizioni per dare più umanità al nostro vivere quotidiano.
Come fare emergere il bene e dunque la condizione di benessere nella comunità, oltre
gli egoismi, l’avidità, l’arroganza, la cattiveria, l’invidia, la smania di potere, il male
presente dentro di noi e tra di noi.
Fino al male estremo, assoluto, quello sperimentato dagli Armeni con il loro
genocidio ad opera dei Turchi nel 1915; quello della Shoah, l’olocausto del popolo
ebreo, perpetrato dai nazisti negli anni ’40 della seconda guerra mondiale; scrive in
proposito Hetty Hillesum: “Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non
ci rende più umani, liberandoci dalle piccolezze e dalle cose superflue di questa vita,
è stato tutto inutile”.
La mia generazione era stata allevata in ambiti familiari sereni, ancora ricchi di fede e
tradizioni cattoliche, di voglia di vivere in contesti comunitari certi e definiti, seppure
ancora limitati; presa per mano e pian piano educata a capire e a superare le
deformazioni e le tragedie delle atrocità delle guerre del secolo passato, conseguenti
alla mitizzazione degli stati nazionali idealizzati, alle forme di guida totalitaria di tipo
sia nazista che sovietica; mettendo la persona umana e la sua comunità di riferimento
al centro del processo di crescita civile e democratica del nostro paese, rapportandolo
per di più in un contesto più ampio di società, quale la dimensione della Europa
Unita; in particolare, la formazione tra le file dei cosiddetti cattolici democratici in
Italia, risaliva al pensiero di Luigi Sturzo oltreché dei Mounier e dei Maritain e
veniva educata dall’esempio di figure guida come De Gasperi, accanto ad esperienze
di laici di alto spessore religioso e spirituale quali La Pira e Lazzati, per non parlare
di Dossetti, che nel frattempo aveva abbandonato l’impegno civile e politico per farsi
monaco.
Che fare oggi.
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Partendo da una dimensione senz’altro pre-politica, addirittura di primaria socialità,
Angelo Cupini, traendo riferimento e spunti dall’esperienza del viaggio di questo
giugno 2013 in Armenia, ci invita a riflettere sul tempo che viviamo, a partire dalla
interpretazione dei segni, di ciò che vediamo, anche in Armenia.
2. I modelli
Proprio perché siamo in Armenia, così ricca di storia e di monasteri cristiani,
sviluppatisi tra il quarto ed il quattordicesimo secolo, proviamo a capire come il
monachesimo possa risultare ancora un modello di riferimento; anche oggi; per un
atteggiamento di fede, di vita, dapprima di domanda personale, successivamente
anche comunitario, su come interpretare il senso della chiamata, il discepolato di
Gesù, in relazione agli atteggiamenti prevalenti.
Personalmente ricordo e rivivo viaggi familiari a cavallo degli anni’80-’90, in giro
per l’Europa, alla ricerca dei segni delle radici della fede cristiana: la visita al
monastero di Le Bec-Hellouin, Normandia, Francia, già abbazia benedettina ponte tra
il continente e l’Inghilterra sin dall’anno mille; a partire dal 1948 ed ancora oggi, sito
vivificato da una comunità monastica di sorelle e fratelli guidati da un priore; sempre
in Francia, Provenza, l’abbazia cistercense di Senanque del dodicesimo secolo; dove,
dopo 850 anni, i monaci cistercensi sono ritornati a testimoniare di nuovo la presenza
di Dio, oggi, proponendosi, sotto la guida di un abate, di ripercorrere e vivere la
solitudine ed il silenzio monastico per incontrare il Signore mediante la lettura, la
meditazione, la preghiera e la contemplazione; infine, anche l’esempio verso la
Mittle-Europa dei monasteri d’Austria, come l’abbazia benedettina di Melk,
undicesimo secolo, lungo il Danubio, ormai nelle vicinanze di Vienna; che è riuscita
a conservarsi e rinnovarsi fino ai nostri giorni come riferimento alto di fede, cultura,
insegnamento e le cui attuali, splendide architetture barocche risalgono ai primi del
settecento.
A partire dagli albori del cristianesimo, il monachesimo ha significato un riferimento
di organizzazione di spazio e di tempo, di attività e modalità, per indicare esempi
concreti di sequela possibile al messaggio cristiano.
Così con San Antonio Abate, che viveva nel deserto con discepoli e discepole; così
con San Simeone stilita del cui monastero abbiamo visitato tre anni fa i resti vicino
ad Antiochia, in Siria, con quelle foglie d’acanto a ornamento delle colonne mosse
dal vento dello Spirito; contrariamente alla vulgata, mai completamente staccato,
distante dal proprio contesto, la società siriaca del sesto secolo.
Successivamente, San Benedetto, dapprima in Italia, a Montecassino, poi dappertutto
in Europa, con la sua regola, “ora et labora”; visione globale di comunità completa,
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con una propria economia di riferimento, studio, ricerche applicate, produzione di
testi sacri e profani, lavoro manuale, servizio alla comunità circostante, generazione
di attività di indotto nei due sensi; alle origini del volgare da cui la lingua italiana:
“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette, parte Sancti
Benedicti”.
Poi irrompe Francesco, che innova, perché nel frattempo maturano le ricchezze anche
per i monasteri e le comunità monastiche; Francesco che si mette ai margini, va oltre
la gabbia del monastero, diciamo “border line” rispetto la vita della città e del
villaggio di inizio milleduecento, tra l’Umbria e la Toscana; con la sua sfida di
costruire fraternità sulla base della libertà dal possesso, cioè promuovendo la povertà
di vita e di comportamento.
Per arrivare fino ai giorni nostri, per provare ad andare oltre alla constatazione dello
svuotamento dei monasteri.
C’è già Charles de Focault, che esce dal monastero, va alla ricerca di fratelli di altra
fede, vicino alle comunità dei Tuareg del deserto algerino, a riproporre la sfida di
entrare tra la gente, testimoniare la quotidianità della relazione come nuova via
dell’evangelizzazione.
Sulle sue orme l’esperienza dei frati trappisti di Tibhirine, Algeria, guidati da frere
Christian, testimoni del vangelo dell’amicizia, fino al sacrificio delle loro vite, nel
marzo del 1996, al tempo della riproposizione della guerra civile in Algeria;
raccontati pure nel pregevole ed intenso film “Uomini di Dio”; che dialogano e
servono la comunità musulmana del posto; scavando assieme ideali pozzi d’acqua,
per trovare acqua di Dio, non acqua musulmana oppure cristiana; che non possono
lasciare la gente di Tibhirine, seppure consci dei pericoli incombenti; si sentono dire
infatti: ”voi siete il ramo dove ci posiamo; se non ci foste più, dove andremo”?
C’è poi Thomas Merton, che si fa frate trappista alla ricerca di Dio e testimonia il
suo cammino, vedi “La montagna dalle sette balze” che dice che il monaco non è
solo, piuttosto unificato dentro la propria persona.
In Italia qualche esempio.
Dai monaci di Camaldoli, dove si studia e si medita il filone teologico-politico, alla
ricerca del senso dell’esistenza, il tempo che viviamo.
Particolare poi l’esperienza della comunità monastica di Bose, vicino a Biella,
fondata e guidata sin da metà degli anni sessanta dal priore Enzo Bianchi, una
ottantina tra fratelli e sorelle di cinque diverse nazionalità.
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3. Le modalità
Accanto al riferimento di spazi ed ambiti, al monastero e le sue dinamiche di
aggiornamento al tempo che viviamo, vediamo, approfondiamo anche, soprattutto
alcune modalità di interpretazione del come operare, oggi.
Intanto darsi dei riferimenti, continuamente; personalmente direi “fare il punto nave”;
diciamo per tutti darsi delle mappe, anche provvisorie, per posizionarci; capire dove
siamo, in questo momento; per stabilire come ci possiamo eventualmente muovere,
decidere che direzione prendere; con chi, come e perché.
Con un atteggiamento in linea con le riflessioni di Reiner Maria Rilke, che scrive:
“Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco
andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni
giorno più definitivamente”.
Ancora, imparare a vedere, come.
Nella chiamata alla profezia, Dio chiede a Geremia: “Che cosa vedi”. E lui di
rimando: “Vedo un ramo di mandorlo”.
Proprio per iniziare una metodologia di osservazione e interpretazione; evitare
dunque, per dirla con Antonietta Potente, suora domenicana, teologa, di dover dire:
”Abbiamo occhi e non vediamo”.
Pagare fedeltà alla storia, essere ancorati al tempo che viviamo, come iniziano i
vangeli a narrare la storia di Gesù: “In quel tempo…”. Imparare a leggere e vedere il
linguaggio del Dio dei cristiani.
Continuare a domandarsi, a domandare, come faceva Gesù in risposta ai quesiti dei
farisei, per imparare ad avere coscienza di ciò che si fa, come i costruttori delle
cattedrali gotiche.
Soprattutto sapere come si fa a realizzare le cose, assieme.
Possono esserci metodologie ed approcci diversi, naturalmente:
- vedi l’organizzazione prestigiosa ed autorevole del direttore d’orchestra;
- oppure la capacità creativa di relazionarsi in modo sintonico, tipica del quartetto di
musica jazz;
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- infine, così come si è capaci di far uscire il fuoco, soffiando sulla cenere, mettersi in
ascolto lungo i sentieri della vita di strada per trarne musicalità nuove, in sintonia con
gli antichi canti degli schiavi; riuscire a mettere in musica, con modalità innovative,
ciò che la gente ha dentro di sè.
Avendo come obiettivo di vivere disinteressatamente, in modo libero e gratuito la
donazione di sè, essere come il seme ed il lievito delle parabole evangeliche,
metafora di espressione aggiornata e convinta del ruolo di minoranza; provare
addirittura ad esprimere pluralità di proposte, di posizioni di minoranza, per
fermentare di più e meglio la realtà di uomini e donne che ci circonda, come dice
Martini; diciamo la metafora del tarassaco, il cui soffione, si spande e dona d’attorno
i propri semi, per creare poi piante nuove la stagione successiva.
Attenzione poi alle condizioni di vulnerabilità della società, oggi, vedi le
conseguenze delle torri gemelle; nel nostro piccolo, in Italia, il problema del
femminicidio, la violenza sui minori tra le mura domestiche; come saper dare senso,
ancora, alla persona nella comunità, saper risvegliare l’attenzione, il rispetto, l’amore
per l’altro.
Serve allora la coscienza di dover svolgere il ruolo di minoranza responsabile,
ricordandoci, come dice De Rita, nel 44° Rapporto Censis sull’Italia: “Nessuno, oggi,
vuole assumersi responsabilità”; ecco allora che servono al paese minoranze vitali e
visibili nel solco di quanto si è cercato di comunicare nel libro, quello coordinato
proprio da Angelo Cupini, “Grammatica delle minoranze”.
Piccolo inserto, a posteriori, che calza come non mai.
Dice Angelo, che papa Francesco, affacciandosi al balcone della basilica di San
Pietro, immediatamente dopo la sua elezione “a vescovo di Roma”, con i suoi gesti e
le sue parole, in sette minuti ha comunicato segni di cambiamento profondo non solo
ai cattolici, ai cristiani, ai credenti delle varie fedi, a tutti gli uomini di buona volontà.
Continua imperterrito papa Francesco, vero dono dello Spirito all’umanità, a servirci
con esempi di comportamento, di insegnamento, di coerenza, altissimi.
Lunedì 8 luglio; papa Francesco, alla sua prima uscita da Roma dopo l’elezione di
febbraio; va subito in una delle tante periferie dell’ esistenza; va a Lampedusa, a
rendere omaggio alle vittime di ogni migrazione, in particolare quelle che continuano
ad arrivare dall’Africa, quelle della speranza negata; contano i gesti; contano le
parole; all’omelia della celebrazione eucaristica di riparazione, dice: “Abbiamo perso
il senso della responsabilità fraterna; in questo mondo della globalizzazione, siamo
caduti nella globalizzazione dell’indifferenza; ci siamo abituati alla sofferenza
dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro; ricordiamoci la
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domanda esistenziale posta all’umanità dal suo Creatore; “Adamo dove sei; Caino,
dove è tuo fratello”.
Personalmente voglio richiamare anche Aldo Moro: “Questo paese non si salverà, la
stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un
nuovo senso del dovere, della responsabilità”.
Riprendiamo il nostro percorso, allora.
Conta saper leggere il vangelo, oggi, nella logica del desiderio, saper sviluppare
processi di liberazione del desiderio, come dice la psicanalista cattolica Francoise
Dolto: “Evitare che l’educazione cristiana sia nemica dell’amore e della povertà”;
proprio perché Gesù insegna che il desiderio accende il piacere della comunicazione
creativa; in tal senso ricordo Saint Exupery: “Quando si costruisce una nave, non
serve saper dare la pece, conta soprattutto il desiderio del mare infinito”.
Cosa serve allora, in concreto.
Intanto iniziare a vivere processi di umanizzazione; a partire dalle piccole cose;
metterci in relazione, saper riconoscere gli altri, il loro nome, andare oltre
l’anonimato, fare lievitare la comunità.
Creare poi spazi di fiducia, perché di solito abbiamo paura degli altri; come sanno
fare Ermanno e Rosaria, che vivono a porte aperte nella loro comunità, formata oggi
da quattro gruppi familiari, l’esperienza di condivisione degli averi e delle
responsabilità; perché senza la fiducia non c’è cammino di umanizzazione.
Avere infine capacità e coscienza collettiva dell’alternativa, fare nascere cioè massa
critica sufficiente a creare coscienza collettiva; fino ad esplorare possibili alternative
ai modelli che ci vengono proposti; usare l’intelligenza della misericordia come
capacità dell’alternativa come ci dice il filosofo Roberto Mancini; esplorare forme,
sviluppare anche idee eretiche in economia, oltre la schiavitù del mercato, se mette
tutti contro tutti sotto l’assillo della competizione, se vale il principio vinco se gli altri
perdono; un altro mondo può essere possibile.
Perché, in definitiva, più avanza l’umanizzazione e meno il male ha potere.
Ricordiamoci che Gesù ci ha dato l’esempio di come liberarci dal male, con la sua
morte di croce e resurrezione, grazie alla sua fedeltà al Padre.
Accoglienza allora dell’azione di Dio.
Angelo chiude idealmente le sue riflessioni sulla necessità di sviluppare e vivere più
umanità oggi, dunque il proprio messaggio di testimonianza ai suoi compagni di
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viaggio in Armenia, citando il suo maestro di teologia Carlo Molari; per aiutarci a
compiere il sentiero di speranza che abbiamo di fronte a noi, riproponendo cinque
riferimenti, proprio come “milestone” di tale cammino:
- avere coscienza della propria identità;
- imparare ad amare;
- amare in modo oblativo;
- avere distacco dalle cose;
- fidarsi della vita, perderla per ritrovarla, proprio come dice Gesù.
4. Riflessioni
Partiamo dal mettere a fuoco il paese che abbiamo visitato, l’Armenia.
Abbiamo avuto informazioni dalle guide, la prima, quella breve iniziale, il professore
di scienze politiche che aveva studiato a Bologna ma soprattutto da Cristina, la vera,
brava, preparata guida della nostra presenza in Armenia; nel frattempo ci siamo
confortati attraverso la consultazione soprattutto via rete della raccolta di alcuni dati
di riferimento.
Popolo di antica origine, l’armeno, che abita l’altipiano caucasico sin dal sesto secolo
a.C.; addirittura il primo che nel 300 addotta la religione cristiana come religione di
stato; chiesa la loro, tuttora denominata apostolica, perché fondata dagli apostoli
Bartolomeo e Taddeo; che rimane isolato rispetto il divenire della storia della chiesa
sin dal concilio di Calcedonia, anno 451; che riesce a conservare una propria
indipendenza ed identità, sottolineata dalla realizzazione di un proprio alfabeto,
dunque di una propria lingua, sin dagli inizi del 400; che ha espresso alta cultura,
grazie alla presenza dei monaci nei monasteri che hanno saputo dialogare e
confrontarsi con l’oriente e l’occidente; testimoniata dai più che 19000 manoscritti,
soprattutto di testi sacri ma pure riferiti alla scienza naturale e medica, sopravvissuti a
tanti tentativi di distruzione, tuttora conservati in Armenia.
Mantiene la propria autonomia dai persiani e dagli arabi; in seguito subisce la
presenza ed il dominio degli ottomani a partire dal XIV secolo e successivamente,
nella parte orientale da parte della Russia zarista.
Allo scoppio della prima guerra mondiale in presenza della dissoluzione dell’impero
ottomano, ebbe luogo lo sterminio di più di un milione di armeni da parte dei turchi e
la pace successiva alla guerra confermò la divisione dell’Armenia tra la nascente
Turchia di Ataturk e la nuova Unione Sovietica; in seguito alla caduta del muro di
Berlino e alla dissoluzione dell’impero sovietico, sorge nel 1991 l’attuale repubblica
dell’Armenia, ancora una debole democrazia del tipo presidenziale.
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Dunque l’attuale repubblica dell’Armenia è un’istituzione indipendente seppure
ancora per certi aspetti sotto tutela sia della Russia che degli USA; senz’altro alla
ricerca di una propria identità, oggi, per dar senso definitivo e consolidato alla
propria autonoma indipendenza; ancora debole politicamente, con la presenza di più
di cento partiti politici; con un parlamento di oltre 140 deputati; con un presidente
che esercita un’autorità molto forte
Sono poco più di tre milioni di abitanti, quasi tutti armeni, con presenza pure di
minoranze curde e russe; la capitale Yerevan, con oltre un milione di abitanti,
evidenzia con stridori tra centro e periferia, una lampante assimilazione ed
omologazione al sistema consumistico occidentale; con tante vetrine delle più
prestigiose firme della moda internazionale, con tanti negozi che vendono telefonini e
computer, con tanti sportelli bancari; Yerevan evidenzia soprattutto lo stridore che
c’è, ed è grande, tra la vita della città e quella della campagna, ove si sono viste
diffuse presenze di condizioni abitative e residenziali ai margini della povertà se non
del sottosviluppo; un’economia dunque probabilmente difficile, con grande forbice
tra i pochi ricchi ed i tanti poveri, con in mezzo probabilmente la condizione dei ceti
medi delle professioni soprattutto nella grande città; Yerevan, addirittura considerata
città metropolitana anche dalla ex URSS, quindi dotata di una propria metropolitana,
quando superò il milione di abitanti; tra l’altro con un impianto apprezzabile della sua
distribuzione urbanistica, grandi strade, grandi rettilinei alberati, tanto verde, tante
piazze, a partire dalla principale, oggi piazza della repubblica; ove alla sera la gente, i
giovani soprattutto, anche famiglie intere, si raccolgono attorno ai giochi delle
fontane e dei loro spruzzi alti e colorati, che mutano al suono della musica e dei
canti; bella poi la rappresentazione del museo moderno ed aperto a tutti, realizzato in
estensione a quello che era stato un monumento ai Soviet, KasKad; la Cascata, con
i suoi giardini prospicienti l’ampia rampa di gradini che salgono verso l’alto; tutti
ricchi di opere d’arte, scultura in prevalenza, vedi Botero, anche opere in vetro
provenienti dalla collezione del filantropo armeno della diaspora, Cafesjian.
Rimane la domanda sulle difficoltà, che sono lampanti, sulla capacità da parte
dell’Armenia di stare in linea con la presente dinamica della globalizzazione dei
mercati; per un paese a cavaliere tra Europa ed Asia; piccolo con poco più di 3
milioni di abitanti; con un reddito pro-capite attorno ai 5000 dollari, contro ad
esempio i 100000 del Qatar, i 50000 degli USA, i 40000 della Germania, i 30000
dell’Italia, i 15000 della Russia, i 10000 dell’Azerbaigian; isolato; confinante in
modo conflittuale con l’Azerbaigian per via della irrisolta destinazione del NagornoKarabakh; confinante praticamente senza relazioni con la Turchia, per via della
irrisolta questione del riconoscimento del genocidio degli armeni del 1915;
confinante con qualche modalità di rapporti almeno con l’Iran, soprattutto con la
Georgia, perché l’unico contatto internazionale via terra avviene tramite la ferrovia
che collega Yerevan con Tiblisi; dipendente ancora dalla Russia a partire dalla
fornitura del gas; anche dalla distribuzione della posta, che passa ancora da Mosca,
prima di essere spedita attorno al mondo; dipendente anche in via positiva dalla
disponibilità e dall’amore per la patria da parte dei grandi magnati armeni che
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costituiscono l’apice più evidente della piramide della diaspora armena, formata oggi
da ben 7 milioni di persone, sparse ovunque nel mondo; per questo esiste pure il
ministro della diaspora.
Siamo atterrati all’alba all’aeroporto di Yerevan.
Nel tragitto vero Yerevan, subito si è evidenziato il maestoso profilo tra il roseo e
l’indaco, vista l’ora, del monte Ararat, che sta nel cuore degli Armeni ancora e
sempre di più proprio per il fatto che ormai è altro, è un sogno ormai struggente,
irraggiungibile come i resti biblici dell’arca, perché appartiene alla Turchia; domina
ovunque l’altipiano verso ovest.
Abbiamo reso omaggio ai martiri del feroce e drammatico eccidio del popolo
armeno da parte dei Turchi con la visita al museo monumento di Yerevan; momento
di intensa commozione; soprattutto, camminando oltre l’alta stele, per entrare
all’interno della rosa di dodici petali di basalto che contiene all’interno la fiaccola
della memoria perenne; rimanendo lì a pregare in silenzio; nella speranza che simili
atrocità non avvengano mai più.
Per visitare e vivere l’atmosfera dei conventi, abbiamo percorso tante strade, anche
difficili, tra altipiano e montagne, tra gole e distese di prati ed alpeggi, per giungere
pure su un promontorio sopra il grande lago di Sevan; colori diversi, cangianti,
brillanti si sono succeduti e si sono incrociati ai nostri sguardi; diverse tonalità di
verde sui prati macchiati per di più dai fiori con tonalità tra i giallo, il viola, il rosso;
in estensione, il bianco dei nevai eterni; poi i bianco-azzurri di cieli anche quando si
rispecchiavano sulle acque blu intenso del lago; anche la luminosità del nero dei sassi
di ossidiana, affioranti sulle alture a lato della strada; diversi pure gli ambienti, donati
dai paesaggi, dai villaggi, dagli orti coltivati, dagli alberi, anche dai resti di
archeologia industriale, tristemente sopravvissuti al regime dei Soviet; anche sullo
sfondo un paio di rotonde ciminiere di centrali nucleari; pure un impianto di miniera
di rame.
Ci rimarranno nella mente le modalità diverse di aggregazione e di composizione
architettonica ed urbanistica anche unitaria dei vari monasteri visitati, nel contesto
degli ambienti ove erano stati realizzati; esempio sublime di identità di popolo e
creatività realizzativa funzionale ai compiti ed al ruolo dei religiosi e della religione
cristiana per gli Armeni; tanto da meritare per alcuni esempi, vedi quello di Haghpat,
la titolazione a Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO; il motivo ripetuto dovunque
con leggere varianti, della pianta centrale a croce, con mura sormontate quasi sempre
da quattro archi a tutto sesto incrociati che si elevano verso l’alto a sostegno della
cupola circolare, per mezzo di un passaggio dalla forma del quadrato a quella
dell’ottagono; quando la pianta si allarga, c’è allora il bisogno funzionale delle
colonne a sostenere gli archi portanti alla cupola, soprattutto per il “gavit”, cioè il
vestibolo antistante.
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Ricordo la raffigurazione di Gesù giudice sulla porta di accesso dal gavit alla chiesa
di San Giovanni Battista; la raffigurazione trinitaria all’entrata del gavit nel
monastero di Noravank; un leone sorridente tra pietre e tombe sul prato, sempre al
suo esterno; tante croci, dappertutto, alle pareti, alle colonne; rare le rappresentazioni
di Gesù su di esse; talvolta con il teschio di Adamo ai piedi; una volta con la
raffigurazione di Gesù sceso agli inferi che prende proprio Adamo per il polso, a
significare la salvezza dell’umanità con la sua morte di croce ed il passaggio agli
inferi prima della resurrezione. Come negli affreschi di San Salvatore in Cora di
Istanbul e a me pure il mosaico similare nella navata centrale della basilica di San
Marco a Venezia.
I monasteri evidenziano motivi architettonici che anticipano passaggi che vedremo in
Europa successivamente tra architettura di chiese romaniche, gotiche e
rinascimentali; motivi che risentono anche della vicina circostante arte araba ed
orientale, in particolare persiana; originali e sublimi poi gli affreschi del monastero di
Akhtala; ricordo la madre di Dio in trono, con sotto gli apostoli, nell’abside
dell’altare principale; in particolare, sulla parete laterale di entrata, la raffigurazione
dei quaranta martiri di Sebaste, i santi quaranta, a testimonianza degli avvenimenti
avvenuti in quella città armena, l’odierna Siwas in Turchia, il 9 marzo del 320;
affreschi simili a quelli visti nelle chiese ortodosse dell’isola di Cipro; la particolarità
del complesso del monastero di Kor Virap dedicato a San Gregorio l’illuminatore
visto dall’alto con il monte Ararat emergente tra le nuvole sullo sfondo; la
suggestione intensa e bellissima dell’ambiente delle chiese degli Apostoli a dominare
la vista sull’istmo che idealmente crea ben due laghi di Sevan, probabilmente per me
la più suggestiva, sulle cui pietre ci siamo pure seduti attorno ad Angelo, in uno dei
ripetuti incontri di riflessione comunitaria corale.
Proviamo ora a parlare di incontri, seppure brevi, eppure intensi.
A partire da quello con il giovane prete al monastero di Geghard, fresco di
consacrazione e di entusiasmo.
Poi, quello con il ballerino, attore in Italia della serie dei carabinieri, al ristorante
accanto al monumento al genocidio.
Ancora, l’incontro con il parroco del monastero di Goshavank, che mi prende per
mano, entra in chiesa attraverso il gavit, intona un canto tra il cinguettio delle rondini
che scendono in volo dalle finestre sovrastanti ed infine ci benedice.
A seguire, la cordialità delle insegnanti in gita con i loro allievi nel paese sulla strada
per il monastero di Haghpat, che ci offrono sorridenti il pane georgiano appena
comprato al grande emporio.
Significativi gli incontri con gli studenti, al monastero di Haghpat; dapprima tre
studentesse di psicologia, all’uscita della biblioteca; una delle quali mi dice che le
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piacerebbe venire in Italia, magari a Venezia, a fare il proprio dottorato; soprattutto
con i giovani studenti di relazioni internazionali, che ci avvicinano al termine del
nostro incontro comunitario e vogliono sapere da dove veniamo e perché; che
rimangono piacevolmente sorpresi di sapere che siamo pellegrini tra i loro tesori di
arte e cultura; cui auguriamo un futuro ricco di soddisfazioni; uno di loro, addirittura,
mentre stiamo per salire sul pullman, mi porterà in segno di stima e di amicizia una
cartolina sulla quale gli chiedo di scrivere il suo nome.
Un incontro ideale nella cattedrale di Echmiadzin, durante la messa domenicale;
quando ricevo, assieme ai fedeli armeni, pure io, la particolare benedizione sul capo
da parte di uno dei preti che assiste alla cerimonia.
Chiudo con l’incontro davanti al nostro albergo di Yerevan, in attesa della partenza
mattutina per il nord, con un ingegnere aeronautico armeno che vive in Italia, dalle
parti di Cherasco, vicino a Torino; vuole sapere chi siamo e mi dice che viene almeno
due tre volte l’anno in Armenia per contribuire al suo possibile futuro; i suoi erano
originari di Istanbul; lui è venuto in Italia per laurearsi e vi è rimasto; saputo che
siamo di Trieste mi ha ricordato il prof. Giacomo Ciamician, armeno, ritenuto tra
l’altro il padre dei pannelli fotovoltaici, primo triestino nel senato del regno dopo il
ritorno di Trieste all’Italia nel 1919; dice che l’Armenia di oggi è una scommessa
difficile ma ci si deve credere ed impegnarsi per il suo futuro; anche se rimane
isolata, se ricca di contraddizioni, grandi ricchezze e soprattutto grandi povertà;
bisogna volerle bene ed aiutarla, ecco il senso delle sue continue presenze qui a
Yerevan.
Infine tanti volti, a partire dalle donne e dagli uomini con i quali si parla, al negozio,
al mercato, davanti i tanti banchetti ricchi di souvenir e cianfrusaglie all’entrata dei
monasteri; in particolare i bimbi che offrono sassi di cuprite davanti al monastero di
Akhtala e ci seguono finchè saliamo sul pullman.
Tanti volti, appunto; tanti sorrisi, tanta gentilezza, tanta cordialità, tante speranze.
5. Guardare avanti
Provare a passare da sensazioni ed immagini ancora ricche di emozioni per entrare
negli ambiti della razionalità possibile.
Ecco.
Una boccata di benessere, ritengo per tutti; stare bene nello spirito e sentirsi bene
come persona fisica, anche a valle di qualche strapazzo, vedi le lunghe fasi dei
trasferimenti in aereo.
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Un grazie a tutti a cominciare da Angelo e Renato, anche per la loro concelebrazione
eucaristica sul sacrato dell’antica chiesa con alle spalle le mura della fortezza di
Amberd sugli avamposti, ricchi di verde e di papaveri, sopra i 2300 metri, con sullo
sfondo le nevi del monte Aragat,
Provare a ripensare e fare memoria, anche a ricercare possibili passaggi applicativi.
Sono costretto a ripensare a conseguenze di natura economica e politica, per
consuetudine ed attitudine.
Mi riferisco in particolare alle citazioni fatte da Angelo sui ragionamenti del filosofo
Roberto Mancini sul modello di economia della competizione dei mercati globali.
Rifletto.
Alcuni filoni della cultura cattolica hanno spesso ricercato impossibili terze vie tra
modelli di economia libera, tipica del mondo delle democrazie occidentali ed
economia assistita, tipica del mondo del cosiddetto socialismo reale, almeno dopo la
seconda guerra mondiale.
La caduta del muro sembrava portare la soluzione delle problematiche; invece la
stagione che ne è seguita è stata effimera, evidenziando le crepe di una economia
lasciata completamente libera di creare diseguaglianze e guai derivati dai disastri e
dalle macerie della cosiddetta finanza creativa.
Al di là di differenziazioni sul tema, sviluppate dalle variegate scuole di pensiero,
emerge la necessità di guidare le scelte; dunque di responsabilità della politica; ora
più che mai, dopo essere passati dalla fase della guerra fredda bipolare a quella di una
sola guida al comando, quella americana, per vivere oggi la transizione alla fase delle
responsabilità plurali, multicentriche.
Viviamo così la recessione, transizione più difficile da noi, perché nel frattempo
abbiamo fatto di più le cicale, abbiamo rinunciato a vivere condizioni di
responsabilità collettiva, abbiamo lasciato spazio alle furbizie, agli interessi di
bottega, non abbiamo pensato al domani dei giovani, al futuro delle nuove
generazioni; paghiamo l’egoismo; diciamo che viviamo condizioni di welfare
superiori alle attuali condizioni del paese; tutto questo evidenzia l’enorme nostro
debito pubblico; da qui ormai una inderogabile necessità; ritrovare le condizioni di
una proposta di guida politica certa e responsabile negli ambiti della presente
democrazia, capace di indicare un futuro possibile al paese, soprattutto alle giovani
generazioni, operando in sintonia ed in relazione con le istituzioni internazionali cui
apparteniamo.
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Intanto la politica, i partiti in Italia devono riconciliare le istituzioni con la società
civile; dare segnali concreti di cambiamento; a partire dalle riforme indispensabili al
superamento degli sprechi della politica e di adeguamento degli strumenti
istituzionali, perché funzionino meglio e a minori costi; deve dimostrare di saper
guidare il paese fuori dalle presenti difficoltà.
Ecco che nel contempo, da un lato serve realizzare, in sintonia con gli ambiti più
ampi della realtà nazionale, diciamo a livello EU, condizioni nuove di responsabilità
e di guida, anche di risorse; ripartire con proposte efficaci ed aggiornate di
formazione e di innovazione; per dare lavoro di nuovo ai giovani; mettersi nelle
condizioni di realizzare aspetti certi e diffusi di economia sociale di mercato; con
l’obiettivo cioè che l’economia sia attenta alle condizioni di chi è più debole ed
esposto; certo non prescindendo da quella che si considera la modalità di base del
mercato, a livello della presente globalizzazione della società postmoderna; mettersi
cioè nella condizione di sapere competere; che significa stimolo alla ricerca, alla
applicazione delle tecno-scienze, alla produzione di eccellenza, intesa come gara
leale; creare di nuovo condizioni di crescita dunque, di sviluppo sostenibile; purché
responsabilmente consapevoli degli ambiti ove operiamo; di attenzione, di rispetto
cioè alla persona, alla comunità all’ambiente.
Dall’altro lato si devono ricercare condizioni di responsabilità più diretta a livello di
corpi intermedi, di società civile, di quotidianità del vivere; provare a creare nuovo
welfare più responsabile, efficiente ed efficace sul versante della sussidiarietà.
Parto dal livello di soglia minima seppure altamente indicativa, gli esempi di
comunità condivisa sperimentati con responsabilità da Rosaria ed Ermanno.
Un livello più alto, le esperienze più ampie, più coinvolgenti, tipo l’associazione
Comunità di via Gaggio a Lecco e la sua realtà della Casa sul Pozzo.
Provare cioè a trovare modalità aggiornate per cogliere obiettivi di esistenza
individuale attraverso attività collettive più ampie; capacità di creare spazi di vita, di
servizi, di sicurezza, di lavoro, anche di efficienza, sulla base della responsabilità da
rendicontare; in variegati aspetti della realtà, facendo ad esempio riferimento agli
ambiti tipici del welfare, quelli dei servizi alla persona, alla comunità; dunque,
modalità altre, ricche di novità e di stimoli pure sul versante della creazione del
valore; esempi da allargare e perseguire sulla falsariga del modello di economia
civile proposto da Zamagni.
Qui mi fermo per continuare a pensare.
Senz’altro dovrò vedere di organizzare a breve una visita al monastero mechitarista
nell’isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia.
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Grazie a tutti di nuovo ed arrivederci.
GSD - TS, 080713.
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