Dopo la delocalizzazione: i distretti del Nord Est nella nuova

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Dopo la delocalizzazione: i distretti del Nord Est nella nuova
Dopo la delocalizzazione:
i distretti del Nord Est nella nuova divisione internazionale del lavoro
1. Delocalizzazione e integrazione internazionale dei processi produttivi
Nel corso degli anni ’90 il sistema industriale del Nord Est ha conosciuto una profonda
trasformazione del suo modello di crescita. Storicamente aperto ai mercati esteri, il
Nord Est produttivo ha messo in moto un processo di internazionalizzazione che non si
è limitato a consolidare una capacità di presidio dei mercati finali, ma ha coinvolto
complessivamente l’intera catena del valore delle imprese.
La parte più visibile di questo processo è riconducibile alla delocalizzazione produttiva,
ovvero al trasferimento di importanti quote di attività manifatturiera a basso valore
aggiunto in paesi in via di sviluppo, con costi del lavoro significativamente inferiori al
nostro. La delocalizzazione ha riguardato soprattutto alcuni settori tipici del Made in
Italy – come l’abbigliamento, la calzatura, la concia delle pelli – che si caratterizzano
per la scomponibilità tecnica del ciclo produttivo e la possibilità offerta anche alle Pmi
di ricorrere, con limitati costi di transazione, ad un mercato internazionale della
fornitura. Le conseguenze economiche di questo processo sono state significative,
soprattutto in quei distretti industriali che su tali attività manifatturiere hanno costruito
nel tempo la base del proprio successo competitivo.
Tuttavia, il processo di riorganizzazione internazionale dell’economia del Nord Est deve
essere letto in una prospettiva più generale rispetto a quello della semplice
delocalizzazione. Tale processo, infatti, non riguarda solo l’attività manifatturiera, ma
almeno altri tre piani di azione: innanzitutto il rapporto complessivo con la rete dei
fornitori strategici, un rapporto che risulta sempre meno vincolato all’ambiente
domestico e sempre più esteso, invece, su scala internazionale; in secondo luogo
l’accesso ai servizi finanziari che, anche in conseguenza dei profondi processi di
riorganizzazione del sistema del credito, sono sempre più commerciabili all’esterno dei
tradizionali rapporti locali di affidamento bancario; in terzo luogo i legami con le
strutture dedicate alla ricerca e allo sviluppo tecnologico, presenti sia in Italia che
all’estero.1
Nell’economia globale non si internazionalizza solo il flusso delle merci e dei capitali;
si internazionalizza soprattutto il circuito della divisione del lavoro cognitivo e
dell’innovazione. In questo scenario, le imprese del Nord Est possono consolidare il
proprio vantaggio competitivo solo attraverso una nuova geografia economica che
consenta di sviluppare rapporti sia a monte che a valle della catena del valore: la posta
in gioco non è semplicemente l’accesso a mercati del lavoro a basso costo, ma
l’inserimento dell’impresa nei circuiti internazionali dell’innovazione.
Rispetto ad altre piazze internazionali, il dibattito sulla globalizzazione ha assunto nel
Nord Est una connotazione specifica. Questo perché, a differenza di altre aree in cui il
ruolo delle imprese multinazionali è più consolidato, nell’economia del Nord Est la
1
Per un’analisi documentata sui temi qui richiamati si rinvia al volume “Internazionalizzazione dei
sistemi locali di sviluppo. Dalle analisi alle politiche” (Aa.Vv., 2003). Oltre a presentare i dati
dell’osservatorio TeDIS, questo volume ripropone le considerazioni svolte nell’ambito del convegno sul
medesimo tema svolto presso la sede di TeDIS–VIU a San Servolo il 30 novembre 2002
(www.viu.unive.it/tedis).
messa in discussione dei tradizionali ambiti di relazione implica qualche rischio in più.
La piccola impresa del Nord Est ha, infatti, potuto a lungo contare su un territorio
capace di garantire stimoli all’innovazione all’interno di un sistema di relazioni e di
processi di comunicazione che, in modo originale, hanno saldato fra loro economia,
società locale e saperi tecnici. La crescita della pressione concorrenziale a scala globale
implica, perciò, alcuni cambiamenti non marginali nella cultura produttiva: a partire da
un rinnovamento delle competenze e delle stesse specializzazioni lavorative, non
sempre reperibili su scala locale. Quindi, un nuovo rapporto con la conoscenza
scientifica, dal momento che le conoscenze derivate dalla tradizione manifatturiera
rischiano di limitare le capacità di “assorbimento tecnologico” e rallentare la crescita
della produttività. Infine, una nuova enfasi sulle funzioni terziarie e di servizio, spesso
ai margini della cultura manageriale delle imprese distrettuali.
Fig. 1 - La localizzazione dei fornitori strategici delle imprese leader dei distretti
industriali italiani
Area Balcanica (Romania)
4,3
Sud America (Brasile)
8,7
Giappone
8,7
Usa/Canada
8,7
Altri Paesi (Sud Africa, Australia, Nuova
Zelanda, Egitto, Turchia)
Altri Paesi Est Europa (Russia, Estonia,
Lituania, Rep. Ceca, Ungheria)
15,2
15,2
23,9
Far East (Cina, Corea, Thailandia, India)
69,6
Unione Europea
0,0
Fonte: TeDIS, 2002
20,0
40,0
60,0
80,0
Fig. 2 - La localizzazione dei subfornitori contoterzi delle imprese leader dei
distretti industriali italiani
0,0
Sud America
Altri Paesi (Francia,
Spagna, Usa, Inghilterra,
Germania, Tunisia)
25,0
Far East (Cina, Corea,
Bangladesh)
37,5
Est Europa (Balcani, Rep.
Sovietiche, Ungheria,
Slovacchia)
0,0
56,2
20,0
40,0
60,0
Fonte: TeDIS, 2002
In questo contesto la separazione fra attività di concezione e attività di realizzazione dei
processi manifatturieri appare più problematica che in altri contesti. Nel Nord Est, la
manifattura è stata storicamente la sede dei processi di sperimentazione e
apprendimento tecnico delle imprese. Gran parte delle conoscenze maturate nell’ambito
della manifattura sono state alla base di percorsi innovativi, in alcuni casi anche di
grande successo, senza che tuttavia questo know how prendesse necessariamente la
forma di saperi codificati (know why) come, ad esempio, attraverso i brevetti. Le
incertezze e le paure generate dalla delocalizzazione sono perciò giustificabili più come
indebolimento dei presupposti di un modello di innovazione e apprendimento
consolidato nel tempo, che come minaccia per l’occupazione. D’altro canto, non è
difficile constatare come le nuove generazioni considerino poco attraenti i posti di
lavoro relativi alle attività delocalizzate.
La manifattura non può, dunque, esaurire lo spazio della creatività e dell’innovazione.
Al contrario, creatività e innovazione tendono a essere sempre più frammentate in una
serie di attività, servizi e professioni che necessitano di nuove forme di coordinamento
e, in una certa misura, anche di nuove politiche di sostegno.
2. Ripensare i vantaggi competitivi delle imprese distrettuali
Un bilancio di questa prima fase di riorganizzazione su base internazionale del sistema
produttivo del Nord Est appare complessivamente positivo. I distretti più innovativi
hanno dimostrato di saper interpretare in modo originale la sfida
dell’internazionalizzazione cognitiva, consolidando una nuova generazione di imprese
leader consapevoli del nuovo contesto competitivo, le quali hanno aperto la strada
dell’internazionalizzazione ad una più vasta platea di Pmi e fornitori locali. Le reti
distrettuali fra imprese appaiono, perciò, sempre più come sistemi aperti, capaci di
integrare competenze e know how spesso estranei alla tradizione locale.
Anche se un giudizio definitivo sul tema è del tutto prematuro, le prime evidenze
empiriche sembrano suggerire una relazione positiva fra il livello di apertura dei sistemi
locali e i loro tassi di crescita.2 Da un punto di vista qualitativo, inoltre, le imprese
leader dei sistemi locali appaiono meno “originali” rispetto ai concorrenti: la
globalizzazione, in altre parole, contribuisce a ridimensionare la “anomalia sociologica”
del sistema industriale italiano e del Nord Est a vantaggio di una maggiore leggibilità
del nostro modello di impresa a livello europeo. Ciò non significa il venire meno della
specificità dei contesti nell’economia d’impresa quanto, piuttosto, che la ricerca di un
“ancoraggio” al territorio – fenomeno diverso dal tradizionale “radicamento” – diventa
un fattore organizzativo comune alle reti transnazionali più evolute.3
Rimangono, tuttavia, diversi motivi di preoccupazione rispetto a un processo di apertura
internazionale che non ha trovato stabilizzazione entro un quadro culturale, legislativo e
istituzionale definito. A fronte di una prima fase sperimentale, che ha vissuto della
capacità auto-organizzativa degli imprenditori, è necessario avviare un percorso più
consapevole e articolato, capace di dare alle economie locali un orizzonte di medio
termine. La rete estesa entro la quale l’impresa del Nord Est vuole ridefinire il proprio
vantaggio competitivo non può essere considerata semplicemente come uno spazio
logistico, da ottimizzare in termini di flussi di comunicazione e di merci. Ciascuno dei
nodi della nuova rete internazionale deve diventare parte attiva e vitale nel processo di
rinnovamento delle conoscenze che sono alla base della capacità del sistema di produrre
valore.
3. I distretti come leva per una nuova presenza italiana nel mondo
Per quanto riguarda i sistemi produttivi locali del Nord Est il problema si pone in
termini di ripensamento delle politiche di innovazione, nel quadro di una nuova
divisione internazionale del lavoro. I processi di integrazione internazionale che le
imprese italiane e del Nord Est hanno sviluppato in modo massiccio soprattutto verso
l’Europa Centro-orientale, hanno aperto sia nuovi sbocchi commerciali per le merci, sia
percorsi di trasformazione e riposizionamento dei settori del Made in Italy.4 Si tratta ora
2
Cfr. Schiattarella (2002), Lorenzoni (2003). Per una lettura più generale del rapporto fra apertura
internazionale e sviluppo locale si rinvia a Corò e Volpe (2003).
3
La differenza fra “ancoraggio” e “radicamento” nelle strategie di impresa è sviluppata da Pierre Veltz
(1998). Sul rapporto fra contesti locali e strategie multinazionali si veda Doz, Santos, Williamson 2001.
4
Per un’analisi delle relazioni economiche attuali e di quelle possibili fra economia italiana e Europa
Centro-orientale si veda Viesti (2002).
di rafforzare questi legami internazionali e consolidare i relativi processi di innovazione.
Questo significa agire in misura coordinata sulle nuove aree della delocalizzazione
produttiva come all’interno della “base domestica”.
Nel caso delle aree della delocalizzazione, la creazione di nodi attivi in grado di favorire
una maggiore competitività alle reti produttive del Nord Est richiede progetti di
valorizzazione che vanno molto oltre la semplice presa di beneficio legata al
differenziale del costo del lavoro. In una prospettiva di medio periodo, l’obiettivo deve
essere quello di creare e diffondere quelle dinamiche di distretto su cui si è basato anche
da noi lo sviluppo della piccola e media impresa.
Si tratta, in altre parole, di riproporre i distretti in aree che siano effettivamente
interessate a un modello di sviluppo economico e sociale alternativo alle logiche della
produzione di massa. Il problema non è riducibile alla “replicazione” dei distretti italiani
all’estero. Il distretto è sempre una saldatura originale fra un’industria e un territorio: in
questo senso la sua duplicazione è impossibile. Ciò che è possibile, invece, è favorire in
alcune aree strategiche dal punto di vista geoeconomico, la diffusione di meccanismi di
crescita endogena simili a quelli che hanno caratterizzato lo sviluppo delle nostre
regioni. Questo significa, in particolare, aiutare soprattutto in alcune regioni dell’Europa
Centro-orientale la creazione di quelle condizioni istituzionali che hanno sostenuto la
crescita delle Pmi in Italia.
I punti essenziali di questo programma di cooperazione internazionale fra sistemi
produttivi locali sono numerosi. Alcuni appaiono particolarmente utili e, in alcuni casi,
urgenti. Innanzitutto, è necessario fare crescere le relazioni fra istituzioni formative dei
nostri distretti con quelle delle aree della delocalizzazione, in particolare nel campo
dell’istruzione tecnica e della formazione professionale. In parallelo a queste iniziative,
va pensata la possibile estensione degli ambiti di servizio dei centri locali per
l’innovazione e il trasferimento tecnologico, che hanno contribuito all’innalzamento dei
nostri standard produttivi.
L’obiettivo è che nei sistemi locali interessati dai processi delocalizzativi si possano
raggiungere adeguati livelli di qualificazione e specializzazione tecnica, indispensabili
per accrescere la qualità delle nuove reti produttive internazionali. Inoltre, si tratta di
favorire lo sviluppo di sistemi associativi compatibili con il nostro modello di impresa,
che siano di riferimento per le imprese sia a livello istituzionale che a livello di
progettazione di servizi.
Altra area di rilievo sono le politiche per l’accesso al credito attraverso la creazione di
strumenti di finanza agevolata e di garanzia fidi, senza i quali è difficile immaginare lo
sviluppo di una imprenditorialità minore radicata al territorio. Fondamentale, infine,
appare la promozione di strumenti di connettività fisica (logistica) e informativa (reti
telematiche e sistemi) che mettano in relazione efficacemente i diversi nodi della rete
internazionale.
Perché il percorso abbia successo è necessario che prenda forma una riflessione
compiuta sul ruolo del distretto industriale come modello di sviluppo da proporre a
livello internazionale.
Il distretto, in altre parole, deve acquisire un suo spessore “geopolitico” in quanto leva
per avviare dinamiche di crescita economica fondate non più sulla logica
dell’accumulazione, tipica della produzione di massa, quanto su dinamiche di
propagazione, che consentano a paesi emergenti di giocare, a termine, un ruolo
autonomo nello scenario economico internazionale.
Questa consapevolezza richiede di rinunciare all’idea del distretto come sistema del
tutto “speciale” per valorizzarne, invece, il potenziale di diffusione e di proposta
innovativa di politica industriale. In questa prospettiva, il processo di allargamento ad
Est dell’Unione Europea, così come la domanda di uno sviluppo più autonomo e
radicato al territorio che viene da molte aree emergenti dell’economia mondiale, può
rappresentare per l’Italia un’occasione davvero storica per raggiungere, attraverso la
diffusione del proprio modello di sviluppo, un maggiore ruolo economico e culturale a
livello internazionale.
Giancarlo Corò
Stefano Micelli
Riferimenti bibliografici
Aa.Vv.
2003 Internazionalizzazione dei sistemi locali di sviluppo. Dalle analisi alle politiche,
Roma, Quaderni di ricerca Formez, n.7
Corò G., Volpe M.
2003 Frammentazione produttiva e apertura internazionale nei sistemi di piccola e
media impresa, in “Economia e società regionale”, n. 1
Doz Y., Santos J., Williamson P.
2001 From Global to Metanational, Boston, Harvard Business School Press
Lorenzoni S.
2003 Effetti della delocalizzazione internazionale nei sistemi locali, in “Economia e
società regionale”, n. 1
Schiattarella R.
2002 Gli effetti della delocalizzazione internazionale nei Paesi Terzi Mediterranei.
Un’analisi per il comparto del Made in Italy, in “Argomenti”, n. 6
Veltz P.
1998 Economia e territori: dal mondiale al locale, in Perulli P. (a cura di),
Neoregionalismo, Torino, Bollati-Boringhieri
Viesti G.
2002 I vicini sono tornati. Italia, Adriatico, Balcani, Bari, Laterza