Vincenzo GENNA - Gruppo Servizio Ambiente
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Vincenzo GENNA - Gruppo Servizio Ambiente
XXVII CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE E DI DELOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE NEL MEZZOGIORNO Vincenzo GENNA Università degli Studi di Palermo - Facoltà di Economia - Dipartimento S.E.A.F. - Viale delle Scienze, 90128, Palermo SOMMARIO Il presente lavoro si propone di analizzare le nuove forme e modalità di integrazione internazionale della produzione delle imprese meridionali con particolare riferimento alle prospettive di internazionalizzazione tramite delocalizzazione delle piccole e medie imprese. L’obiettivo del lavoro è quello di descrivere le principali strategie di internazionalizzazione delle imprese con particolare riferimento alla loro delocalizzazione produttiva. In particolare, dopo avere illustrato i principali vantaggi e svantaggi della delocalizzazione produttiva ci si concentrerà sui possibili effetti sui sistemi locali di produzione con specifico riferimento a quelli meridionali. A tal fine, si procederà ad effettuare uno studio dei nuovi strumenti e delle nuove strategie di delocalizzazione delle PMI distrettuali (scelta tra esportazioni, accordi di cooperazione e produzione all’estero); all’osservazione dei fenomeni di riorganizzazione internazionale della produzione ed del loro impatto sulle dinamiche di sviluppo interno ed internazionale dei sistemi produttivi meridionali; all’individuazione di alcune opzioni e strategie di policy per il sostegno all’internazionalizzazione dei distretti meridionali. 1 INTRODUZIONE Il modello di internazionalizzazione italiano appare sicuramente singolare se comparato ad altri paesi (Germania, Francia, UK, USA), ovvero fortemente basato sull’export (internazionalizzazione commerciale) e poco sugli investimenti diretti esteri (IDE). In questo contesto, è da sottolineare il ruolo centrale e trainante delle PMI che, al contrario di altri paesi, in Italia rappresentano una fetta importante dell’internazionalizzazione, una internazionalizzazione tuttavia prevalentemente orientata sul versante “commerciale” e poco su quello produttivo Alla base di questa grande ed ‘unica’ capacità di esportazione della PMI italiana vi è infatti un modello industriale fortemente competitivo (distretto e/o cluster industriale), basato sulla concentrazione territoriale della produzione e su una catena del valore frammentata tra le varie imprese ma territorialmente circoscritta (ovvero non globalizzata). Tuttavia, per cause sia esogene (Paesi emergenti dell’Asia, nuove tecnologie, ecc.) che endogene (scarsa propensione all’innovazione ed all’investimento, invecchiamento della classe imprenditoriale, difficoltà nel passaggio generazionale, ecc.) i distretti e le PMI perdono la loro spinta di crescita, con un declino di competitività e di quote sul commercio mondiale. Tra le risposte al cambiamento gli aggiustamenti sul modello di internazionalizzazione sono fondamentali, anche se talvolta contraddicono i punti di forza dello stesso modello industriale finora seguito (es. delocalizzare fasi produttive e interi cicli produttivi dal distretto ad aree con costi più bassi). In ogni caso le risposte non sono univoche ma differenziate nel variegato mondo delle PMI e dei distretti. Con l’inizio degli anni ’90 il fenomeno degli investimenti diretti esteri perde la sua episodicità ed acquista consistenza reale; si tratta di diverse centinaia di imprese, per lo più medie; la motivazione delocalizzativa più che di penetrazione di nuovi mercati prevale in queste operazioni, soprattutto per quanto riguarda i settori maturi e labour-intensive. Ciò che contraddistingue gli IDE oggi è il fatto che essi dipendono in larghissima misura dalle strategie di localizzazione internazionale delle attività attuate dalle cosiddette imprese “globali”, oltre che dalle PMI. Gli IDE, in altre parole, si sono moltiplicati a causa della “frammentazione”del ciclo produttivo, ma anche della “esternalizzazione”delle attività di impresa. La novità più importante nell’organizzazione delle imprese sta non tanto nella frammentazione del ciclo di produzione in fasi distinte, quanto nell’outsourcing delle diverse attività di impresa (R&S, produzione, logistica, etc..). Questa nuova modalità organizzativa delle imprese deriva soprattutto dalla cosiddetta “timebased competition”, modalità introdotta sui mercati negli ultimi quindici anni. In altre parole, la necessità di ridurre il “time-to-market” ha fortemente favorito il ricorso all’outsourcing di molte attività prima svolte internamente dalle imprese. Si trasferiscono, in questo modo, anche alcuni intangible assets su cui si basa la competitività dell’impresa. Nel settore dell’abbigliamento, ad esempio, sono frequenti i casi in cui le competenze ingegneristiche necessarie per organizzare efficientemente le fabbriche sono reperite direttamente in loco, dopo un primo momento in cui tecnici stranieri fanno da istruttori. In alcuni casi eccellenti, gli ingegneri locali sviluppano soluzioni tecniche che l’impresa madre “rivende” ad altre imprese del settore. Sono soprattutto le attività manifatturiere in senso stretto che sono state più frequentemente delegate a unità produttive dislocate nelle più svariate località del mondo, dando luogo ad intensi traffici di componenti, semilavorati o prodotti finiti tra paesi industriali. La delocalizzazione riguarda inoltre prevalentemente i paesi in transizione che sono maggiormente dotati di conoscenze e competenze “industriali”. 2 LE FORME DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI Il termine “internazionalizzazione” ha assunto molteplici significati; in senso stretto, esso riguarda: investimenti diretti esteri, decentramento all’estero della produzione, partecipazione di imprese estere produttive, creazione di joint ventures, franchising, ecc. La delocalizzazione internazionale o “frammentazione internazionale della produzione”, può avvenire tramite processi di integrazione orizzontale e verticale. Nel primo caso, si tende a replicare in diversi contesti geografici la struttura produttiva della casa madre, attraverso l’investimento diretto estero (IDE), spesso avendo come principale finalità quella di guadagnare un migliore accesso ai mercati locali. Nel secondo caso, invece, il processo produttivo originariamente realizzato dalla casa madre viene frammentato e dislocato, mediante rapporti di subcontratto o di subfornitura, in ambiti geografici separati, spesso perché essi offrono le migliori condizioni di costo per la loro realizzazione (Schiattarella, 1999; Barba Navaretti et al., 1999; Baldone et al., 2002; Viesti, 2002). L’investimento diretto estero rappresenta il principale strumento di internazionalizzazione produttiva a disposizione delle imprese di dimensioni medio-grandi. L’IDE è un investimento reale effettuato all’estero (investimento attivo) o dall’estero (investimento passivo) in fabbriche, beni capitali, terreni, scorte e può avvenire sia attraverso la creazione di imprese consociate o l’apertura di unità locali (investimento green-field), sia mediante l’acquisizione di partecipazioni di controllo, paritarie o minoritarie su imprese locali esistenti (investimenti brouwn field). Lo spostamento di attività produttive ad altre imprese localizzate in paesi stranieri rappresenta, invece, la forma prevalentemente adottata dalle piccole e medie imprese ed è nota come subcontratto (produzione conto terzi) o subfornitura2. Il ricorso al subcontratto permette di trasferire un prodotto all’estero per effettuare alcune fasi di lavorazione (commercial subcontracting) o di affidare la lavorazione di prodotti finiti (industrial subcontrating). Nel primo caso, il prodotto viene poi reimportato nella base domestica per garantire gli interventi di finissaggio. Nel secondo caso, invece, il prodotto finito viene poi direttamente esportato, dall’impresa principale o dal subappaltatore. Nel confronto con le PMI non distrettuali, il grado di internazionalizzazione di quelle distrettuali risulta maggiore in termini di apertura commerciale, mentre è più contenuto in termini di delocalizzazione produttiva (Centro Studi Unioncamere, 2002 e Federico, 2002). L’internazionalizzazione del distretto industriale ha un impatto rilevante sul sistema locale e, di conseguenza, sulle imprese che ne fanno parte, in quanto “consiste nel progressivo passaggio da fasi prodotte all’interno del sistema a fasi fornite dall’estero, con progressiva uscita dal mercato delle imprese produttrici di fasi esternalizzate” (Santini, 2001). Un distretto industriale può essere interessato da internazionalizzazione attiva o passiva. L’internazionalizzazione passiva è determinata dagli investimenti nei distretti da parte di imprese esterne, l’internazionalizzazione passiva nei distretti industriali apre nuove linee di interazione con l’esterno che possono recare vantaggio al sistema locale oltre che alle multinazionali. L’internazionalizzazione attiva, invece, si sviluppa attraverso tre direttrici fondamentali (Corò e Grandinetti, 1999): • il presidio dei mercati di sbocco e dei mercati delle materie prime; • il ricorso a prestazioni immateriali; • la delocalizzazione delle subforniture o di più ampie porzioni della filiera. Il presidio dei mercati di sbocco da parte delle aziende leader del distretto industriale consiste nel potenziamento della funzione commerciale e nell’organizzazione dei canali di sbocco in modo efficace e sostenibile nel tempo, sottraendo così terreno ai tradizionali intermediari distrettuali (buyer, agenzie di import-export). Il presidio dei mercati delle materie prime, invece, viene adottato mediante il monitoraggio e la selezione efficiente delle fonti di fornitura, e lo sviluppo di rapporti stabili con i fornitori al fine di garantire continuità e costanza di qualità degli approvvigionamenti. Le imprese leader più dinamiche possono far ricorso a prestazioni immateriali, fornite loro da imprese di servizi esterne al distretto, come l’innovazione tecnologica, l’informatizzazione, la gestione della qualità, la progettazione dei prodotti e il design, la comunicazione, il marketing, le ricerche di mercato, la consulenza direzionale, i servizi finanziari, fornite loro da fornitori di servizi “esterni” al distretto (Micucci, 2003). La delocalizzazione delle subforniture è uno dei modi attraverso i quali la catena del valore si sta aprendo verso l’esterno. Le imprese leader hanno iniziato a guardare oltre i confini del distretto spostando alcune subforniture in paesi a basso costo del lavoro, attraverso accordi di fornitura di lungo termine (subcontratto), acquisizione o creazione di unità produttive, joint ventures. L’indagine condotta dal Centro Studi Unioncamere e Assocamere Estero (2002) sull’internazionalizzazione delle imprese italiane evidenzia come le attività di subfornitura affidate ad imprese estere (subcontratto) costituiscano la forma di internazionalizzazione prevalentemente adottata dalle imprese distrettuali, seguita dagli accordi di distribuzione. Figura 1 Ripartizione delle iniziative di internazionalizzazione allargata per tipologia (valori percentuali) Viceversa, risulta contenuta la realizzazione di investimenti diretti all’estero e joint ventures con imprese di altri paesi, attività che comportano un più ampio volume di costi irrecuperabili (sunk costs). In generale, si può affermare che il limitato ricorso agli IDE da parte delle imprese italiane dipenda da tre tipologie di fattori: di impresa, di settore e di strategia. Le aziende italiane sono di minori dimensioni rispetto alla media europea; in Italia sono meno diffuse le industrie in cui sono proporzionalmente più presenti le imprese multinazionali; in Italia vi sono vaste reti di decentramento interno, che talvolta hanno sostituito gli investimenti all’estero (Viesti, 2002). La delocalizzazione internazionale delle PMI distrettuali interessa prevalentemente le aree oltre confine, ovvero i Paesi del Sud Est Europa. In questo caso l’investimento effettuato rientra nella categoria “cost-saving” poiché l’azienda a cui viene affidata la lavorazione, che può essere anche uno stabilimento dell’impresa principale, produce a costi decisamente inferiori. Si verifica, cioè una “frammentazione organizzativa” motivata dal risparmio sui costi (Ferragina e Quintieri, 2002). Nel caso, invece, di Paesi ad alto grado di industrializzazione, l’impresa può decidere di affidare la produzione ad aziende estere perché non è in grado di soddisfare la domanda oppure perché non ha macchinari e forza lavoro capaci di eseguire le lavorazioni, o non ha sviluppato particolari tecnologie di lavorazione. Le PMI distrettuali tendono a delocalizzare le fasi del processo produttivo (industrial subcontracting) o il prodotto finito, destinato a essere poi esportato dall’impresa principale o direttamente dal subcontractor (commercial subcontracting). 3 I DISTRETTI INDUSTRIALI NEL MEZZOGIORNO ITALIANO In un quadro più generale di debolezza dell’economia locale, testimoniato dalla minore presenza di realtà distrettuali “canoniche”, la situazione del Mezzogiorno sta dimostrando una più sostenuta capacità competitiva. Mentre i distretti industriali del Centro-Nord si sviluppano spesso a partire dall’industria tessile, la presenza di un’industria tessile all’origine della nascita di distretti nel Mezzogiorno è registrata con certezza solo a Martina Franca, nel napoletano ed in alcune zone dell’Abruzzo. Fondamentale in tutti i distretti meridionali è la disponibilità di risorse umane, presente anche nelle aree del Sud in cui non si sono sviluppati i distretti. La disponibilità di capitale non sembra essere un fattore centrale per spiegare lo sviluppo, soprattutto per via della connotazione labour intensive delle produzioni prevalenti nei distretti meridionali. La disponibilità di infrastrutture localizzate, ad esempio di suoli attrezzati per gli insediamenti produttivi, non è – in genere – un fattore produttivo rilevante; anzi, la maggior parte delle imprese distrettuali nasce al di fuori di aree appositamente attrezzate. La geografia non favorisce certo i distretti meridionali, essendo lontanissimi dai grandi mercati di sbocco; ciononostante, in media oltre il 70% delle vendite dei distretti sono in aree extrameridionali: disponibilità e costo del trasporto di merci sono quindi fattori decisivi. Un ruolo relativamente importante nella nascita dei distretti è rappresentato dalle tradizioni artigiane locali. Riguardo a questo aspetto, i distretti meridionali possono essere raccolti in tre principali gruppi: 1) tradizioni artigiane decisive; 2) nati comunque a partire da un piccolo artigianato locale; 3) assenza di tradizioni. Tuttavia, diverse analisi negli ultimi anni hanno evidenziato il forte livello di effervescenza imprenditoriale di diverse realtà locali. Se probabilmente queste realtà non posseggono le caratteristiche specifiche dei distretti industriali di tipo marshalliano (Zanni 2000), si stanno affermando nel Mezzogiorno diversi sistemi locali produttivi che presentano anche interessanti potenzialità di apertura sui mercati esteri, le cui caratteristiche (in termini di punti di forza e di debolezza) possono essere sintetizzate dalla fig. 2. Punti di forza Punti di debolezza - Tecnologia e produzione Organizzazione Lavoro Istituzioni Sapere artigiano collegato con conoscenze esterne (interazione - Alti costi di approvvigionamento connessi tra cultura e locale e attività alla forte importazione di beni e servizi lavorativa) complementari alle produzioni di beni finali - Specializzazione in prodotti - Carenza di funzioni terziarie interne e bassa tradizionali per la casa o la domanda di servizi avanzati (terziario persona (capacità di sfruttare esplicito) l'immagine del made in Italy) in - Problemi connessi con la tutela dell'ambiente alcuni casi origine "colta" delle - Forte isolamento degli operatori rispetto produzioni (tradizioni storiche) all'attività di centri di ricerca scientifica e disponibilità di sapere diffuso - Difficoltà o ritardi nel governare processi di (elevate capacità professionali innovazione ventrali sulla qualità (marchi degli operatori) registrati) e sulla R&S - Innovazione di prodotto, ma di tipo imitativo e non su basi R&S - Forte "autocentrismo" della figura imprenditoriale (delega solo su base familiare) - Flessibilità produttiva - Gracilità e precarietà delle strutture aziendali - Differenziazione produttiva (sottocapitalizzazione, organizzazione (capacità di offrire un'ampia informale, ecc.) gamma di prodotti/servizi e una - Scarsa cooperazione interaziendale (anche se vasta fascia di prezzi) ci sono eccezioni) esclusa quella su base - Organizzazione "sommersa" o familiare-amicale (l'opportunismo "semisommersa" (va tuttavia imprenditoriale è un elemento disgregatore nei preso atto che la categoria rapporti tra imprese) "impresa sommersa" non è - Cattivi rapporti con le banche che necessariamente una realtà favoriscono canali di finanziamento paralleli marginale o insignificante sotto - Costi per integrare funzioni non coperte il profilo imprenditoriale, adeguatamente dalle istituzioni (regolare il occorre semmai favorirne mercato del lavoro “irregolare”, difesa dei l'emersione per garantirne lo poteri occulti, ecc.) sviluppo futuro) - Eccessiva dipendenza nei confronti dell’intermediazione commerciale - Più elevato livello di produttività del lavoro nero rispetto a quello regolare - Alta capacità di "aggiustamento" alle dinamiche - Possibili effetti “perversi” di una del ciclo economico regolarizzazione ed emersione del lavoratore (a detta degli imprenditori ciò comporta un - Più basso costo del lavoro (lavoro nero) suo risanamento ed esalta gli aspetti rivendicativi su quelli cooperativi) - Più deboli controlli per il - Debolezza del contesto (politico, legale, rispetto delle condizioni di infrastrutturale, ecc.) Logica di legalità/igiene sui luoghi di contrapposizione con lo Stato e scarsa voce lavori rivendicata nei confronti delle istituzioni Figura 2 Punti di forza e di debolezza delle PMI del Mezzogiorno Da sottolineare la buona apertura all’estero di una parte consistente dei distretti considerati. In effetti il valore medio dell’incidenza del fatturato esportato su quello totale è pari al 45% e, se si considera che larga parte della produzione di queste aree si dirige sui mercati di altre regioni, ne deriva che il riferimento delle imprese locali al mercato di prossimità è molto modesto. Distretti 1) Pelletteria teramana 2) Abbigliamento Nord-abruzzese 3) Calzature tramane 4) Mobilio abruzzese 5) Abbigliamento Sud abruzzese 6) Calzature di Guardiagrele 7) Abbigliamento di Isernia 8) Abbigliamento del nord-barese 9) Maglieria di Barletta 10) Calzature di Barletta 11) Abbigliamento del Sud barese 12)Abbigliamento del Salento 13) Calzetteria del sud Salento 14) Calzature del Salento 15) Salotti della Murgia 16) Corsetteria di Lavello 17) Abbigliamento del Sannio 18) Sete di S. Leucio 19)Abbigliamento nord napoletano 20) Calzature napoletane 21) Pelletteria napoletana 22) Abbigliamento Sud napoletano 23) Concia di solfora 24) Abbigliamento salernitano 25)Abbigliamento della Sicilia cent. Prodotti Borse e articoli da viaggio in pelle Abbigliamento casual esterno Calzature da passeggio Mobili per ufficio e per cucina Abbigliamento prevalentemente capi spalla Calzature da passeggio Abbigliamento esterno Abbigliamento prevalentemente intimo e tute Maglieria esterna Calzature per tempo libero e usi tecnici Abbigliamento esterno Abbigliamento casual e accessori Calze da uomo e bambino Calzature da passeggio Divani e poltrone in pelle e tessuto Reggiseni e intimo donna Abbigliamento esterno Tessuti in seta per arredamento Abbigliamento esterno Calzature da passeggio, da uomo classiche e sportive Borse e articoli da viaggio in pelle Abbigliamento esterno Pelli ovi-caprine conciate Abbigliamento Abbigliamento esterno Figura 3 I principali distretti industriali nel Mezzogiorno In considerazione della minore presenza locale, e probabilmente anche della minore capacità di attivare un sistema di interdipendenze con altri settori che compongono l’export distrettuale indiretto, molto diversa è la capacità di trascinamento del complesso sistema economico da parte di queste realtà produttive locali. Infatti, mentre l’export distrettuale incide per il 43% su quello complessivo, l’export distrettuale nel Mezzogiorno è meno del 16% di quello dell’area. Possiamo quindi ritenere che: ¾ nonostante la minore presenza di realtà distrettuali nel Mezzogiorno - ricordiamo che incidono per meno del 10% sul complesso delle aree distretto nazionali (sebbene con una tendenza in crescita) - quelle presenti fanno rilevare una decisa apertura ai mercati, sebbene il loro dinamismo sui mercati esteri sia comunque inferiore rispetto al dato medio del Mezzogiorno; ¾ la situazione complessiva lascia ben sperare per il futuro, purché si dimostri una continua capacità di innovare e di inserimento nei circuiti alti della competizione; tuttavia non si può trascurare che si tratta comunque di fenomeni che attualmente incidono in maniera ancora modesta sul complesso delle esportazioni dell’area e pertanto da essi non ci si può attendere – almeno nel breve periodo – quella capacità di spinta sull’economia locale che invece caratterizza il complesso delle realtà distrettuali del Paese, a causa della maggiore massa di esportazioni che sviluppano; ¾ si tratta inoltre di realtà in cui la componente indiretta di esportazione rispetto a quello che può essere definito il settore core (ossia di specializzazione) è ancora abbastanza modesta e quindi si presentano anche particolarmente esposte agli andamenti ciclici dell’economia mondiale, da un lato, e dall’altro non sono ancora capaci di generare un complesso sistema di interdipendenze che può dar vita a fenomeni consistenti di diffusione dello sviluppo, attraverso la generazione di effetti di connessione “a monte” dei processi produttivi specializzati. Per quanto riguarda il ruolo del decentramento produttivo, l’esperienza dei distretti meridionali è assai varia. In questo caso possiamo individuare tre differenti gruppi di distretti: 1) casi in cui il decentramento è fondamentale; 2) casi in cui aiuta lo sviluppo di distretti già nati; 3) casi in cui è irrilevante. Per diversi distretti è fondamentale il ruolo di imprese “motrici”, quelle cioè che avviano per prime la produzione o realizzano innovazioni di processo e/o di prodotto decisive, determinando conseguentemente la nascita di fornitori e concorrenti. Nella maggior parte dei casi l’impresa motrice è locale, anche se non mancano i casi di imprese “motrici” esogene. Le sorti evolutive delle imprese “motrici” sono molteplici: in certi casi esse scompaiono dopo pochi anni; in altri casi, invece, hanno sfruttato il loro vantaggio competitivo iniziale per diventare le imprese “leader” del distretto produttivo di riferimento. La domanda locale gioca un ruolo assai importante nella nascita e nello sviluppo dei distretti: è la dimensione della domanda locale a consentire ai distretti di nascere e successivamente raggiungere dimensioni tali da scomporre il ciclo produttivo, acquisire, produrre e diffondere informazione tecnica, esercitare un effetto duraturo sul mercato del lavoro. In tutti i distretti meridionali le produzioni sono destinate (almeno inizialmente) al mercato locale. Tuttavia, la capacità di esportare è quasi sempre alla radice del successo. Alla base della capacità competitiva dei distretti meridionali vi sono stati diversi fattori in momenti diversi. In tutti i casi, quando le produzioni sono state avviate esse sono riuscite a difendere il proprio mercato locale o ad espandersi su mercati non locali grazie, principalmente, al minor prezzo. Questo iter è fisiologico: chi inizia a produrre dopo ha meno conoscenze e meno esperienze sui prodotti, sui mercati, sulle tecnologie; chi produce in aree relativamente arretrate non ha condizioni di contesto favorevoli; chi produce in aree lontane dai grandi bacini di popolazione ha alti costi di trasporto e di comunicazione; chi opera in aree in cui il volume complessivo di produzione è contenuto non si giova di economie distrettuali: non ha fornitori specializzati, non può reperire dirigenti e tecnici esperti. Le imprese meridionali riescono a praticare prezzi inferiori alla concorrenza, nonostante le diseconomie ambientali, i sovracosti di trasporto e la mancanza dell’”effetto distretto” grazie principalmente ad un minor costo del lavoro. La capacità competitiva dei distretti meridionali cambia però con il tempo. Man mano che la produzione aumenta, i distretti affiancano progressivamente al costo del lavoro altri fattori in grado di dare loro un vantaggio competitivo, attraverso innovazioni di processo e organizzative. In generale ciò che riduce più i costi totali, al di là del costo del lavoro, è l’organizzazione della produzione su base distrettuale. L’esistenza dei fornitori, la rete dei trasportatori, l’abitudine a lavorare insieme rende questo vantaggio stabile e difficile da riprodurre. Vi è dunque una complessa dinamica dei fattori competitivi. Non si può certo sostenere che i distretti meridionali abbiano ormai maturato capacità tali da metterli al riparo dalla concorrenza internazionale. In molti casi, però, specie nei distretti più grandi, vi sono interessanti tendenze evolutive in atto. 4 STRUMENTI, VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA DELLE IMPRESE L’accentuarsi dei fenomeni di decentramento e delocalizzazione produttiva all’estero si deve essenzialmente a tre motivi, i primi due connessi all’evoluzione del mercato e alla conseguente evoluzione dell’organizzazione industriale; l’altro dipendente sia da contingenze storico-politiche che dai processi di industrializzazione in atto nei paesi emergenti e in quelli in transizione. Sul versante del mercato e dell’organizzazione industriale, le principali novità sono: • l’avvento della cosiddetta Time-Based-Competition e, quindi, l’intensificarsi della concorrenza su ciascun segmento di mercato, affrontata dalle imprese tramite la riduzione del cosiddetto Time-to-market; • la conseguente, drastica riduzione del ciclo di vita dei prodotti; • la progressiva, consequenziale accentuazione della frammentazione produttiva, vale a dire la scomposizione del ciclo produttivo in fasi autonome e distinte; • la sempre più accentuata divisione del lavoro tra imprese (outsourcing) non solo per quanto riguarda l’attività strettamente produttiva, ma anche per altre attività strategiche di impresa (R&S); • i mutamenti registrati nell’organizzazione distrettuale che sono andati nel senso di una sempre maggiore “messa in rete” delle imprese, con un progressivo arricchimento degli intangible assets di ciascuna impresa e di ciascun “sistema”. Sul versante dell’economia internazionale, i mutamenti sono ben noti: • la transizione dei paesi ex-socialisti verso l’economia di mercato, che li ha resi accessibili ed appetibili alle iniziative di internazionalizzazione produttiva ma anche, in alcuni casi (Russia, Cina), commerciale dei paesi industrializzati; • la crescente pressione competitiva dei paesi emergenti (Cina). Con il termine delocalizzazione intendiamo, in senso lato, il decentramento in altri paesi di produzioni, o fasi del processo produttivo, che prima venivano effettuate all’interno del sistema, oppure l’avvio da parte di imprese locali di nuove attività all’estero (piuttosto che nel paese di origine). Ciò può avvenire in vari modi: a) importando semilavorati: la formula più leggera con la quale una impresa può delocalizzare parte della produzione è quella di acquistare sul mercato beni semilavorati prodotti da una impresa estera; tale fatto darà luogo ad un flusso di commercio internazionale di beni intermedi; b) con accordi commerciali o produttivi con imprese estere: in questo caso l’impresa nazionale attiva un rapporto di fornitura con l’impresa estera ed acquista un bene intermedio (od anche finito dal punto di vista della lavorazione) prodotto secondo specifiche tecniche richieste. In tal modo l’impresa che delocalizza mantiene un controllo stringente sul processo produttivo senza dover investire in partecipazioni di tipo equity. c) attraverso investimenti diretti all’estero (IDE) da parte di imprese nazionali che possono acquisire partecipazioni (di controllo o di minoranza) in imprese estere oppure creare ex-novo imprese affiliate all’estero (investimenti green field); d) attraverso la cosiddetta “imprenditorialità all’estero”, ovvero, la fondazione all’estero di nuove imprese ad opera di imprenditori locali o persone ad essi collegate (ad esempio i familiari o i collaboratori dell’imprenditore). Lo strumento che dà forma alla delocalizzazione è l’IDE (Investimento Diretto Estero). L’investimento diretto può essere di tipo greenfield o di tipo no-greenfield. Nel primo caso, l’impresa madre procede all’attivazione ex-novo di una attività produttiva all’estero; nel secondo caso, acquisisce (con partecipazioni di maggioranza) il controllo di una unità produttiva estera già esistente. Ai tempi delle prime multinazionali statunitensi, la forma pressoché esclusiva di IDE era quella greenfield. Attualmente, le imprese multinazionali-globali preferiscono la forma nogreenfield. Il principale motivo corrisponde al fatto che oggi, la competitività delle imprese, si gioca molto sulla rapidità delle azioni e sulla mobilità internazionale degli investimenti diretti. Di conseguenza, la forma no-greenfield (più immediata, flessibile e meno costosa) è quella che meglio si addice alla strategia d’internazionalizzazione produttiva di questo tipo di imprese. Nelle Piccole e Medie Imprese, gli strumenti utilizzati sono pressoché gli stessi: IDE greenfield e no-greenfield. In questo caso la scelta dello strumento non deriva però da una strategia globale, ma piuttosto dalla necessità di sfruttare i differenziali relativi al costo dei paesi in transizione geograficamente più vicini. Infatti, come già dimostrato da alcuni autori (Falzoni, Turrini, 2001), le imprese che compiono IDE nei paesi in transizione sono quelle che possiedono in misura minore, o che non possiedono affatto, i cosiddetti intangible assets, indispensabili per generare vantaggi competitivi non da costo. Inoltre, le PMI sembrano preferire gli IDE di tipo greenfield, meno impegnativi da realizzare e da gestire dal punto di vista delle risorse manageriali necessarie, e più facili da controllare direttamente dall’imprenditore. Anche in questo senso, quindi, le PMI seguono in ritardo le strategie realizzate dalle imprese di più grandi dimensioni. Agli IDE si contrappongono le Nuove Forme di Internazionalizzazione (NFI). Il make together è oggi la nuova forma organizzativa industriale al tempo stesso più efficiente ed efficace per affrontare la crescente dinamica dei mercati. Le “nuove forme” possono essere raggruppate in tre tipologie: a) joint venture a partecipazione minoritaria – si caratterizzano per modalità di contributo al capitale di rischio, vincolano più strettamente, rispetto ad altre soluzioni, l’investitore estero ai risultati economici dell’attività produttiva oltre frontiera. b) i subappalti ed i decentramenti produttivi internazionali extragruppo – costituiscono una prima forma di coinvolgimento estero indotta da opportunità di integrazione verticale delle fasi del ciclo produttivo e dall’affidamento di una parte di esse (in genere quelle più labour intensive) ad imprese localizzate in paesi a basso costo del lavoro. c) altri accordi di cooperazione industriale internazionale tra imprese – sono costituiti da “pacchetti” contrattuali non-equity, che configurano rapporti di collaborazione tra imprese di paesi a diverso grado di sviluppo, prolungati nel tempo e prevalentemente orientati a servire il mercato interno del paese di destinazione. Possiamo includere in tale categoria le forniture di interi complessi produttivi “chiavi in mano” o “prodotto in mano”, integrate da accordi di assistenza tecnica e di formazione del personale, o da contratti di management e franchising. 5 GLI EFFETTI DELLA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA INTERNAZIONALE SUI SISTEMI LOCALI DI PRODUZIONE La letteratura economica ha identificato effetti sia positivi che negativi della presenza multinazionale sull’economia dei paesi ospiti. Da un lato le imprese estere possono migliorare le capacità innovative e competitive delle imprese locali alimentando processi di spin-off e creando opportunità per le imprese e le istituzioni locali di accedere a forza lavoro altamente professionalizzata; stimolando dinamiche imitative, di reverse engineering e di diffusione involontaria delle informazioni su tecnologie e pratiche manageriali avanzate; creando legami produttivi a monte e a valle degli insediamenti multinazionali, che consentono di ampliare la domanda di input locali, di rendere disponibili beni intermedi tecnologicamente avanzati per gli utilizzatori e di favorire economie di specializzazione. Dall’altro lato, invece, la presenza estera può influire negativamente sulle performance delle imprese locali, specie nel breve e medio periodo, nella misura in cui le multinazionali sono in grado di monopolizzare i mercati e drenare domanda locale, costringendo le imprese domestiche a comprimere i volumi di produzione ed a ridurre la propria efficienza tecnica. Per i paesi investitori, i fattori da considerare sono molteplici. La fuoriuscita di ingenti flussi di capitale, infatti, può determinare nel paese investitore la perdita di risorse indispensabili per il proprio sviluppo, la sottrazione di posti di lavoro specialmente nei settori più deboli dove la manodopera è meno specializzata e, nel breve periodo, un deficit complessivo della bilancia dei pagamenti. Nel lungo periodo, tuttavia, il paese in questione può beneficiare del c.d. “rimpatrio dei profitti” e dell’afflusso di risorse relative ai pagamenti corrisposti per l’acquisto di beni capitali, manufatti ed altri prodotti provenienti dal paese d’origine dell’investimento. Il paese, inoltre, può sopperire alla perdita di posti di lavoro meno qualificati fornendo manodopera specializzata, dotata di un know-how tecnico e manageriale superiore. Con riferimento particolare al nostro paese si nota come dal punto di vista degli IDE in entrata, il posizionamento dell’Italia è calato dal 1990: nel 2003 gli IDE in Italia contavano per circa il 2,1% degli IDE mondiali, con una crescita media annua dal 1990 dell’8,8%. Dal punto di vista degli IDE in uscita, la quota dell’Italia è attorno al 2,9%, con un tasso di crescita negli ultimi tredici anni (1990-2003) leggermente inferiore alla media mondiale. La situazione è diversa per quanto riguarda gli IDE e import/export di servizi: i tassi di crescita dei paesi industrialmente sviluppati tra il 1990 e il 2003 sono stati pari o superiori alla media mondiale, mentre l’Italia ha dimostrato risultati nettamente più deboli. L’Italia rispetto ad altri paesi industrializzati fatica, quindi, a riposizionarsi sul piano industriale, incrementando progressivamente la quota di produzione di prodotti ad alto valore aggiunto (quindi anche dal punto di vista della competitività nei servizi). Gli scarsi risultati nell’attrazione degli IDE (i tassi di crescita dei paesi sviluppati sono stati dell’11,4% nel 1990-2003, mentre gli IDE in Italia sono cresciuti solo dell’8,8%) indicano che l’Italia non riesce ad attrarre capitali a ritmi coerenti con le proprie caratteristiche strutturali. È vero che i dati relativi agli IDE vanno sempre considerati con una certa cautela; paesi di piccole dimensioni e in fase di sviluppo mostrano indubbiamente un’incidenza percentuale di IDE molto significativa. Nell’ambito della realtà locale italiana – e del Mezzogiorno – le conseguenze sullo sviluppo dei processi di delocalizzazione possono differire notevolmente in relazione alle diverse tipologie di comportamento strategico delle imprese, cioè la delocalizzazione e il decentramento produttivo. La principale differenza tra le due strategie che bisogna sottolineare riguarda il diverso impatto che esse hanno sul trasferimento di conoscenze e competenze da un sistema economico all’altro e quindi da un sistema locale di produzione verso un ambiente territoriale esterno. Con il decentramento estero della produzione l’impresa nazionale fa, né più né meno, quanto faceva decentrando a terzisti locali alcune lavorazioni ad alto contenuto di lavoro ma a più basso valore aggiunto. La determinante di questa prima condotta d’impresa è quindi di abbassare il costo delle lavorazioni labour intensive per unità di prodotto. Le competenze che sono trasferite riguardano, pertanto, solo quelle particolari capacità “manifatturiere” che servono per mantenere inalterate le caratteristiche qualitative del prodotto stesso e, quindi, il suo valore unitario. In altre parole, l’impresa con questa strategia vuole aumentare la produttività del lavoro tramite la riduzione del costo della lavorazione. Nel caso della delocalizzazione estera “da costo”, che è quella portata avanti, in genere, dalle PMI distrettuali, le risorse trasferite comprendono le conoscenze e le competenze manifatturiere relative alle fasi o alle lavorazioni delocalizzate ma anche le competenze organizzative “di fabbrica”. È difficilmente pensabile, infatti, che le PMI possano implementare strategie diverse, proprio per la mancanza di risorse cruciali. Alcuni autori (Buckley, Casson, 1989) hanno dimostrato come esse trovino maggiori difficoltà delle grandi imprese ad investire all’estero proprio a causa di vincoli di natura finanziaria, ma anche a causa di vincoli manageriali. Diversi sono i casi di strategie implementate da imprese di più grandi dimensioni che hanno la possibilità di incidere sul loro ambiente competitivo sfruttando il loro potere di mercato. Ad esempio è stato dimostrato (Blomstrom, Fors, Lipsey, 1997) come le multinazionali statunitensi, quando delocalizzano per avvantaggiarsi dei differenziali dei prezzi dei fattori di produzione dei paesi in via di sviluppo, risultano avere una minore intensità di lavoro nelle produzioni domestiche di quanto non accada nelle sedi estere. Diversa è la situazione nel caso in cui gli IDE siano compiuti negli altri paesi industrializzati, poiché, in questo caso, l’obiettivo è di conquistare quote di mercato attraverso una crescita “orizzontale”. Seppure entrambe le strategie – decentramento e delocalizzazione – possano dar luogo alla stessa tipologia di scambi tra paesi (il cosiddetto Traffico di Perfezionamento Passivo), gli effetti sul sistema locale di produzione domestico potrebbero essere però profondamente diversi: solo nel caso della localizzazione, infatti, sono trasferite competenze e conoscenze che possono accelerare i processi di apprendimento tipici delle economie in transizione secondo la teoria del ciclo di prodotto. Sia la strategia di decentramento che la strategia di delocalizzazione implicano, però, un processo di riorganizzazione industriale che nel tempo può far mutare la configurazione dei sistemi locali domestici, premiando quelli dove più numerose sono le imprese capaci di sviluppare intangible assets in grado di consolidare o migliorare le posizioni di mercato. Inoltre, poiché la conoscenza degli ambiti territoriali in cui l’impresa opera è importante per la messa a punto di sempre nuovi comportamenti strategici, le due strategie sono spesso – soprattutto nelle PMI distrettuali – sequenziali (decentramento prima, delocalizzazione poi). Una volta che le due strategie sono state attivate da qualche impresa first comer, si presume, inoltre, che entrambe tendono a diffondersi tra le altre imprese distrettuali, anche di settori correlati o di altri comparti produttivi, grazie all’”effetto imitazione” tipico dei distretti. Da un lato, infatti, nessuna impresa può permettersi di lasciare un vantaggio competitivo ai concorrenti; dall’altro, quando nuovi modelli organizzativi si dimostrano efficaci, le imprese presenti su un territorio “distrettuale” cominciano a prenderli in considerazione, valutandone l’opportunità e l’applicabilità. In questo senso, delocalizzazione e decentramento produttivo sono quindi due processi auto-propulsivi, e anche questo può spiegare il loro rapido successo. STRATEGIE Decentramento estero OBIETTIVI Riduzione del costo per unità prodotta Delocalizzazione “da costo” Labour seeking Riduzione del costo per unità prodotta Delocalizzazione strategica delle attività • Conseguimento di economie di scala e distributive (efficiency seeking) • Penetrazione commerciale (market seeking) • Sfruttamento di vantaggi da proprietà (tangible o intangible assets) • Anticipazione di comportamenti imitativi e/o concorrenziali aggressivi RISORSE TRASFERITE Competenze e conoscenze manifatturiere • Competenze e conoscenze manifatturiere e organizzative • Attività correlate • Intangible assets del territorio • Competenze e conoscenze manifatturiere e organizzative. Attività correlate • Competenze e conoscenze manifatturiere, organizzative e commerciali • Diverse a seconda del ruolo svolto da ciascuna unità estera • Competenze e conoscenze manifatturiere e organizzative Attività correlate Figura 4 Strategie di internazionalizzazione e trasferimento di risorse Per quanto riguarda l’occupazione, essa non sembra essere minacciata dal fenomeno della delocalizzazione poiché questo comporterebbe una traslazione verso l’alto delle qualifiche e delle professionalità occupate nelle imprese domestiche. Quindi, il reddito delle zone dove sono localizzate le imprese madri crescerebbe e, dunque, il confronto tra occupazione attivata all’estero e minore occupazione rilevata in Italia non dipenderebbe da nessi casuali diretti. È utile precisare, tuttavia, il preciso nesso casuale che si presume si attivi quando l’esito della delocalizzazione è positivo; il presupposto è infatti che le risorse che si liberano grazie alla delocalizzazione produttiva siano poi impegnate dalle imprese domestiche per aumentare la produttività (come si è detto, sono le fasi produttive a minor valore aggiunto ad essere delocalizzate all’estero). Il presupposto è che le risorse siano impegnate per attivare o incrementare produzioni o attività a maggiore valore aggiunto utili per “spostare” stabilmente verso l’alto la posizione competitiva dell’impresa. ma non sempre questo accade. Ad esempio, se le imprese domestiche trasferiscono all’estero fasi delle lavorazioni che prima facevano svolgere a terzisti locali, non c’è alcun motivo di pensare che i maggiori profitti scaturiti verranno reinvestiti successivamente per incrementare la produttività in altri modi. La delocalizzazione potrà, invece, avere l’effetto di sostituire i terzisti locali con terzisti esteri, indebolendo fortemente la base produttiva locale. Quindi, sembra logico affermare che gli effetti strutturali positivi dipendono dal comportamento strategico delle imprese e, più esattamente, dalle motivazioni che spingono al decentramento e alla delocalizzazione produttiva. In particolare, se alla base della strategia delocalizzativa non c’è la volontà di cercare nuovi vantaggi competitivi, sembra difficilmente plausibile un bilancio occupazionale favorevole. Infine, anche se la conclusione ottimistica avesse fondamento nel medio periodo e dal punto di vista macroeconomico, gli aggiustamenti di breve periodo, sia a livello settoriale (alcune imprese potrebbero chiudere, altre potrebbero non nascere) che a livello territoriale e generazionale (i lavoratori qualificati non sono gli stessi di quelli non qualificati) potrebbero avere effetti immediati non positivi per i sistemi locali di riferimento. 6 PROSPETTIVE FUTURE E LINEE DI INTERVENTO I dati sull’andamento dell’economia nazionale, nonostante i molti isolati esempi di affermazione sui mercati esteri, mostrano il nostro Paese in condizioni non ottimali per rispondere alla crescente concorrenzialità mondiale. Molti dei problemi hanno solo apparentemente natura congiunturale: carenze infrastrutturali, inadeguata presenza di grandi imprese e conseguente preponderante peso delle PMI e dei settori tradizionali, insufficiente organizzazione degli investimenti in innovazione, carenze del sistema formativo, permanenza di aree di inefficienza e di settori protetti, struttura proprietaria delle imprese, mercato dei capitali non efficiente, inadeguatezza della Pubblica Amministrazione. Il dato sulla competitività è in calo da diversi decenni ed è oggi attestato su valori negativi e più bassi di quelli degli alti paesi industrializzati. L’economia italiana, basata su pur vitali piccole e medie imprese, incontra maggiori ostacoli in un mondo globalizzato, caratterizzato dalla crescente influenza dei paesi emergenti sull’economia mondiale e da difficoltà di adeguamento al nuovo cotesto della stessa Unione Europea. Gli effetti della congiuntura nazionale e dei cambiamenti europei si sommano a quelli derivanti dall’inserimento nel ciclo di sviluppo economico di giganti come la Cina e l’India, nuovi poli economici, che si pongono come assi privilegiati nei rapporti SudSud del pianeta. Tuttavia – come riportato da un interessante studio dell’Osservatorio Economico MAP/ICE – negli ultimi dieci anni (1994-2004) l’Italia ha perso 0,6 punti percentuali sul totale mondiale delle esportazioni, passando da 4,4% a 3,8%. In questo quadro, è significativo il dato evidenziato dallo stesso studio che pone in rilievo l’incidenza dell’export sul PIL nei maggiori paesi UE fra il 2000 e il 2004. Da esso si rileva che per l’Italia la percentuale è passata dal 22,3% del 2000 al 20,8% del 2004 (-1,5%), in presenza di una limitata crescita del PIL. Per completare il quadro nazionale è utile ricordare che: • la maggior parte delle imprese esportatrici sono piccole e medie. Dei 181.082 (+2% rispetto all’anno precedente) esportatori, il 93% circa (168.515 imprese) ha meno di 50 dipendenti ed esporta il 30% (77.574 mln €) del totale (258.888 mln di €); • le medie imprese esportatrici – fra 50 e 250 dipendenti – sono 11.521 (6,3%) e fanno registrare vendite all’estero per il 27% (71.460 mln €) circa del totale; • sono solo 2.046 (1,12% ca) le imprese esportatrici con più di 250 dipendenti. Esse, però, realizzano il 42,5% (109.854 mln €) del totale del nostro fatturato oltrefrontiera. In conclusione i dati riportati mostrano una sostanziale buona capacità di competere della nostra economia, nonostante i limiti derivanti dalla mancanza di grandi imprese, le carenze nei settori “science based” e dalla specializzazione nei settori manifatturieri tradizioni (tessile, abbigliamento, calzature), popolati da molte piccole imprese, più esposte alla concorrenza di prezzo dei paesi emergenti. La debolezza deriva dal fatto che la specializzazione manifatturiera – ancora vincente se basata sulla qualità – non è sostanzialmente mutata negli ultimi cinque anni. La ridotta dimensione delle imprese non trova più risposte positive nemmeno nella pur positiva esperienza dei distretti, che mostrano evidenti difficoltà a competere nei nuovi scenari. Anche per essi, gli studiosi e i manager ipotizzano nuove soluzioni che portano a configurare “metadistretti” e “distretti virtuali”. Oltre alle carenze infrustrutturali richiamate e ai costi energetici, sono da citare l’inadeguatezza della nostra presenza nei canali della commercializzazione all’estero e degli investimenti in logistica, che rendono difficile anche lo sfruttamento dei vantaggi geografici dell’Italia, come piattaforma logistica proiettata nel Mediterraneo e potenziale “hub” dell’oriente verso il Nord Europa. Una politica di rilancio deve essere centrata su interventi da realizzare nel breve periodo, per evitare l’aggravamento della situazione, ma non può prescindere dall’avviare contemporaneamente riflessioni di fondo, che partano dall’analisi delle cause del deterioramento della nostra capacità competitiva e, in particolare, dell’industria italiana, cominciata a delinearsi già negli anni ottanta. Un’organica politica di internazionalizzazione deve, quindi, favorire sia la crescita dimensionale e le fusioni - come già disposto con il recente decreto sulla competitività – sia l’esigenza di andare sui mercati esteri per spingere le imprese di minore dimensione verso l’aggregazione in modo che all’estero facciano azioni congiunte di promozione, di servizi, di produzione. La strategia di distribuire all’estero la fabbricazione di prodotti, se attuata in maniera intelligente, permette di assicurarsi sbocchi di mercato stabili ed allargati non solo nei paesi di insediamento, ma anche nelle aree di influenza, grazie anche ai loro specifici accordi di libero scambio. Una visione globale per costruire, a seconda dei casi, nuovi mercati, opportunità produttive, piattaforme operative verso altri paesi. È necessario avere in molti casi una presenza produttiva diretta per sintonizzarsi meglio sulle esigenze dei clienti, essere tempestivi nei rifornimenti, ridurre le incertezze e i costi di trasporto e dell’accumulo di scorte, creare una rete di relazioni con le imprese locali. E’ in questa logica che si parla di impresa multiaziendale, di azienda in rete, di alleanze su specifici mercati, prodotti e processi anche per periodi limitati. Questo complesso scenario presenta grandi opportunità: nuovi mercati di sbocco, nuove combinazioni produttive, nuovi campi di collaborazione. La difficoltà di tale sfida è determinata non soltanto dall’ampiezza, ma dalla intensità dei fenomeni che nell’attuale fase di transizione può provocare conseguenze gravi nelle imprese e nei paesi meno attrezzati e meno pronti. Per questo motivo il MAP in collaborazione con l’ICE ha delineato quattro grandi obiettivi strategici da perseguire nel quadro della internazionalizzazione della nostra economia: 1) Riposizionamento strategico della presenza italiana all’estero utilizzando in maniera organica e modulare tutti gli attori che operano all’estero con funzioni “pubbliche”; 2) Utilizzo della necessità di internazionalizzazione come spinta all’aggregazione delle imprese minori; 3) Promozione e sostegno dei settori innovativi per favorire collaborazioni con l’estero “generatrici di conoscenza”; 4) Tutela del Made in Italy attraverso azioni in sede comunitaria per far approvare la proposta che renda obbligatoria l’etichettaura “Made in ..” sui prodotti importati e attraverso iniziative nazionali di promozione e di difesa sui mercati più importanti. 7 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Per uscire dalle incertezze di un percorso non ancora sufficientemente definito, bisogna ripensare i circuiti della propagazione dello sviluppo, trasformando i clusters locali in nodi di un sistema più ampio, internazionale; le reti corte in reti lunghe, il capitale sociale localizzato in un tessuto relazionale più complesso e articolato, in grado di sostenere le relazioni a distanza. Una cosa è certa: la propagazione dello sviluppo avverrà più rapidamente lungo i canali che riusciranno a riprodurre – in altri luoghi – lo stesso ambiente, o un ambiente simile, a quello che i piccoli imprenditori dei cluster già esistenti conoscono oggi. Non si tratta cioè di internazionalizzare la singola impresa, inducendola a fare qualche investimento all’estero o ad organizzare qualche operazione di outsourcing. Si tratta invece di cambiare la geografia del sistema di cui la singola impresa fa parte, sia nel senso di ampliare l’ampiezza del bacino su cui è organizzata la divisione del lavoro e la condivisione delle conoscenze, sia nel senso di aumentare la varietà dei ruoli e delle funzioni che in questo sistema più ampio vengono assegnate ai diversi territori (locali). Chiamare queste operazioni col termine di “delocalizzazione” non rende bene l’idea della trasformazione da fare. De-localizzare significa semplicemente spostare altrove una lavorazione, una fase produttiva o anche un’intera linea. La parola sottolinea, in negativo, ciò che si lascia (il territorio) e ciò che il territorio perde (la lavorazione, la fase, la linea che sono state spostate). Non si guarda in positivo al nuovo sistema che viene a crearsi: un sistema dove il territorio di partenza potrebbe avere un ruolo importante e ricevere benefici dal processo di spostamento di alcune attività. Il termine de-localizzazione, guardando le cose dal punto di vista del territorio che perde delle attività, non mette nemmeno l’accento su quello che succede o che può succedere nel nuovo territorio di insediamento. Né consente di considerare i legami tra i due luoghi (di origine e destinazione dell’attività delocalizzata). In realtà, si sconta in questo campo l’insufficienza teorica di una tradizione che guarda all’internazionalizzazione dal punto di vista della singola impresa invece che del sistema (della filiera, del network, della supply chain, ecc.) a cui la singola impresa appartiene (Grandinetti, Rullani 1996). In realtà, è il sistema che deve internazionalizzarsi, non la singola impresa. Non è importante guardare se la singola impresa esporta o investe all’estero; ma se fa parte, o no, di un sistema che ha distribuito le sue attività e funzioni a scala ampia, internazionale. Più precisamente, i processi di crescente integrazione internazionale della produzione rappresentano una sfida alla quale le PMI e i sistemi produttivi locali del Mezzogiorno non possono sottrarsi. Le ragioni sono almeno due: da un lato per rafforzare la stessa presenza commerciale delle imprese sui mercati esteri; dall’altro lato è l’evoluzione dei modelli di produzione, e in particolare la crescita del ruolo e dell’intensità della conoscenza, a rendere possibile, e in molti casi necessario, accrescere la propria specializzazione e proiettare le proprie reti di divisione del lavoro a scala globale. In altre parole, innovazione e internazionalizzazione sono due facce della stessa medaglia: è difficile che cresca l’una senza che, allo stesso tempo, non cresca anche l’altra. In questo scenario la dimensione territoriale ha un ruolo. L’aumento di complessità a cui le imprese, specie se di piccola e media dimensione, devono oggi fare fronte richiede un maggiore investimento collettivo sui sistemi territoriali. Tale investimento deve rispondere a due obiettivi congiunti: ¾ qualificare le dotazioni di servizi, infrastrutture e, soprattutto, di capitale umano e sociale a cui le imprese possono accedere; ¾ favorire la specializzazione delle reti produttive locali nel nuovo quadro della divisione internazionale del lavoro. L’investimento sul territorio deve dunque portare a sviluppare un insieme di economie esterne specifiche, che stimolino le imprese ad accrescere la produttività e contribuiscano a creare, attraverso la valorizzazione delle proprie specificità, condizioni per un vantaggio competitivo sostenibile. Dal punto di vista delle politiche sui distretti industriali e sui sistemi di sviluppo locale questo significa fare un investimento almeno su tre fronti: a) valorizzare il territorio come identità e esperienza. Le ricerche finora condotte sull’impatto dei processi di delocalizzazione nelle imprese e nei territori mettendo in luce come al decentramento internazionale di alcune fasi della produzione si sia accompagnato lo sviluppo di nuove funzioni e attività nel sistema locale; in questo senso, allora, non si pone tanto un problema di come ostacolare la delocalizzazione, bensì di come mantenere un equilibrio fra delocalizzazione e rilocalizzazione, immaginando percorsi di innovazione che consentano al territorio di crescere e accreditarsi come ambiente creativo, ricco di competenze specializzate e di esperienze qualificanti; b) investimenti in connettività. Le testimonianze delle imprese più innovative nel processo di internazionalizzazione produttiva sottolineano l’importanza di nuovi strumenti di gestione delle informazioni e delle operazioni basati sull’utilizzo consapevole delle tecnologie di rete. Ciò conduce allo sviluppo di una nuova generazione di sistemi informativi e logistici attraverso i quali accrescere la connettività del sistema locale con le reti globali. Solo questi strumenti consentiranno capacità competitiva attraverso una riduzione dei tempi di reazione agli stimoli del mercato e una maggiore flessibilità rispetto all’evoluzione dei consumi; svilupperanno inoltre nelle PMI anche la capacità di accedere a nuove conoscenze non prodotte localmente, abbassando così i costi dell’innovazione. c) Codificare e replicare le conoscenze. Nel momento in cui le relazioni produttive si estendono oltre gli ambiti locali e nazionali, un certo processo di codificazione delle conoscenze diventa condizione necessaria per potere comunicare. Ma questa è solo una parte del problema. La codificazione della conoscenza è utile soprattutto per potere valorizzare, tutelare e vendere separatamente dai prodotti il contenuto informativo (immateriale) incorporato nella produzione. Concludendo, il successo delle PMI italiane all’estero, e in particolare la possibilità di essere protagoniste del nuovo processo di integrazione internazionale della produzione, dipende in misura rilevante dall’opportunità di accedere anche nei territori di destinazione ad un contesto istituzionale e di servizi simile a quello domestico in cui sono cresciute. Queste condizioni sono richieste soprattutto dalla specificità del modello di internazionalizzazione delle PMI, che non fa tanto leva sugli IDE, quanto sull’estensione delle reti di fornitura e la costruzione di accordi di cooperazione e divisione del lavoro. Affinché questo modello possa svilupparsi e vedere partecipare un numero crescente di PMI, è necessario che le PMI incontrino all’estero condizioni economiche, infrastrutturali e istituzionali favorevoli. Questa strategia, in altri termini, deve puntare a fare incontrare i contesti e non solo le imprese, ritenendo che la conoscenza reciproca e lo sviluppo di relazioni fra contesti istituzionali sia condizione necessaria per rafforzare l’integrazione delle reti produttive. 8 Bibliografia Baldone S., Sdogati F. e Tajoli L. (2002), Frammentazione internazionale della produzione e crescita, in Cucculelli M. e Mazzoni R. (a cura di), Risorse e competitività, Franco Angeli, Roma. Balcet G. (1997), International relocation strategies by Italian firms, in Buckley P. e Mucchielli J., Multinational firms and international relocation, Edward Edgar Publishing, Cheltenham. Becattini G. (1998), Distretti industriali e Made in Italy, Bollati Boringhieri, Torino Barba Navaretti G. B., Falzoni A. e Turrini A. (1999), L’impatto della delocalizzazione nelle imprese italiane del tessile-abbigliamento e della meccanica, Centro Studi Luca d’Agliano, Milano. Brusco S., Paba S. 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Particularly, after having illustrated the principal advantages and disadvantages of the productive delocalization, we will describe the possible effects on the local productive systems. Finally we will study the new tools and the new strategies of delocalization of the Southern SMEs; the phenomenons of international reorganization of the production and their impact on the dynamics of local and international development within the Suthern productive systems and, finally, some options and strategies of policy for the internazionalization of the Southern SMEs.