Vincenzo GENNA - Gruppo Servizio Ambiente

Transcript

Vincenzo GENNA - Gruppo Servizio Ambiente
XXVII CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI
STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE E DI DELOCALIZZAZIONE DELLE
IMPRESE NEL MEZZOGIORNO
Vincenzo GENNA
Università degli Studi di Palermo - Facoltà di Economia - Dipartimento S.E.A.F. - Viale delle Scienze, 90128,
Palermo
SOMMARIO
Il presente lavoro si propone di analizzare le nuove forme e modalità di integrazione
internazionale della produzione delle imprese meridionali con particolare riferimento alle
prospettive di internazionalizzazione tramite delocalizzazione delle piccole e medie imprese.
L’obiettivo del lavoro è quello di descrivere le principali strategie di internazionalizzazione
delle imprese con particolare riferimento alla loro delocalizzazione produttiva. In particolare,
dopo avere illustrato i principali vantaggi e svantaggi della delocalizzazione produttiva ci si
concentrerà sui possibili effetti sui sistemi locali di produzione con specifico riferimento a
quelli meridionali.
A tal fine, si procederà ad effettuare uno studio dei nuovi strumenti e delle nuove strategie di
delocalizzazione delle PMI distrettuali (scelta tra esportazioni, accordi di cooperazione e
produzione all’estero); all’osservazione dei fenomeni di riorganizzazione internazionale della
produzione ed del loro impatto sulle dinamiche di sviluppo interno ed internazionale dei
sistemi produttivi meridionali; all’individuazione di alcune opzioni e strategie di policy per il
sostegno all’internazionalizzazione dei distretti meridionali.
1
INTRODUZIONE
Il modello di internazionalizzazione italiano appare sicuramente singolare se comparato ad
altri paesi (Germania, Francia, UK, USA), ovvero fortemente basato sull’export
(internazionalizzazione commerciale) e poco sugli investimenti diretti esteri (IDE). In questo
contesto, è da sottolineare il ruolo centrale e trainante delle PMI che, al contrario di altri paesi,
in Italia rappresentano una fetta importante dell’internazionalizzazione, una
internazionalizzazione tuttavia prevalentemente orientata sul versante “commerciale” e poco
su quello produttivo
Alla base di questa grande ed ‘unica’ capacità di esportazione della PMI italiana vi è infatti un
modello industriale fortemente competitivo (distretto e/o cluster industriale), basato sulla
concentrazione territoriale della produzione e su una catena del valore frammentata tra le
varie imprese ma territorialmente circoscritta (ovvero non globalizzata). Tuttavia, per cause
sia esogene (Paesi emergenti dell’Asia, nuove tecnologie, ecc.) che endogene (scarsa
propensione all’innovazione ed all’investimento, invecchiamento della classe imprenditoriale,
difficoltà nel passaggio generazionale, ecc.) i distretti e le PMI perdono la loro spinta di
crescita, con un declino di competitività e di quote sul commercio mondiale.
Tra le risposte al cambiamento gli aggiustamenti sul modello di internazionalizzazione sono
fondamentali, anche se talvolta contraddicono i punti di forza dello stesso modello industriale
finora seguito (es. delocalizzare fasi produttive e interi cicli produttivi dal distretto ad aree con
costi più bassi). In ogni caso le risposte non sono univoche ma differenziate nel variegato
mondo delle PMI e dei distretti.
Con l’inizio degli anni ’90 il fenomeno degli investimenti diretti esteri perde la sua episodicità
ed acquista consistenza reale; si tratta di diverse centinaia di imprese, per lo più medie; la
motivazione delocalizzativa più che di penetrazione di nuovi mercati prevale in queste
operazioni, soprattutto per quanto riguarda i settori maturi e labour-intensive.
Ciò che contraddistingue gli IDE oggi è il fatto che essi dipendono in larghissima misura dalle
strategie di localizzazione internazionale delle attività attuate dalle cosiddette imprese
“globali”, oltre che dalle PMI. Gli IDE, in altre parole, si sono moltiplicati a causa della
“frammentazione”del ciclo produttivo, ma anche della “esternalizzazione”delle attività di
impresa. La novità più importante nell’organizzazione delle imprese sta non tanto nella
frammentazione del ciclo di produzione in fasi distinte, quanto nell’outsourcing delle diverse
attività di impresa (R&S, produzione, logistica, etc..).
Questa nuova modalità organizzativa delle imprese deriva soprattutto dalla cosiddetta “timebased competition”, modalità introdotta sui mercati negli ultimi quindici anni. In altre parole,
la necessità di ridurre il “time-to-market” ha fortemente favorito il ricorso all’outsourcing di
molte attività prima svolte internamente dalle imprese. Si trasferiscono, in questo modo,
anche alcuni intangible assets su cui si basa la competitività dell’impresa.
Nel settore dell’abbigliamento, ad esempio, sono frequenti i casi in cui le competenze
ingegneristiche necessarie per organizzare efficientemente le fabbriche sono reperite
direttamente in loco, dopo un primo momento in cui tecnici stranieri fanno da istruttori. In
alcuni casi eccellenti, gli ingegneri locali sviluppano soluzioni tecniche che l’impresa madre
“rivende” ad altre imprese del settore.
Sono soprattutto le attività manifatturiere in senso stretto che sono state più frequentemente
delegate a unità produttive dislocate nelle più svariate località del mondo, dando luogo ad
intensi traffici di componenti, semilavorati o prodotti finiti tra paesi industriali. La
delocalizzazione riguarda inoltre prevalentemente i paesi in transizione che sono
maggiormente dotati di conoscenze e competenze “industriali”.
2
LE FORME DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI
Il termine “internazionalizzazione” ha assunto molteplici significati; in senso stretto, esso
riguarda: investimenti diretti esteri, decentramento all’estero della produzione, partecipazione di
imprese estere produttive, creazione di joint ventures, franchising, ecc.
La delocalizzazione internazionale o “frammentazione internazionale della produzione”, può
avvenire tramite processi di integrazione orizzontale e verticale. Nel primo caso, si tende a
replicare in diversi contesti geografici la struttura produttiva della casa madre, attraverso
l’investimento diretto estero (IDE), spesso avendo come principale finalità quella di guadagnare
un migliore accesso ai mercati locali. Nel secondo caso, invece, il processo produttivo
originariamente realizzato dalla casa madre viene frammentato e dislocato, mediante rapporti di
subcontratto o di subfornitura, in ambiti geografici separati, spesso perché essi offrono le migliori
condizioni di costo per la loro realizzazione (Schiattarella, 1999; Barba Navaretti et al., 1999;
Baldone et al., 2002; Viesti, 2002).
L’investimento diretto estero rappresenta il principale strumento di internazionalizzazione
produttiva a disposizione delle imprese di dimensioni medio-grandi.
L’IDE è un investimento reale effettuato all’estero (investimento attivo) o dall’estero
(investimento passivo) in fabbriche, beni capitali, terreni, scorte e può avvenire sia attraverso
la creazione di imprese consociate o l’apertura di unità locali (investimento green-field), sia
mediante l’acquisizione di partecipazioni di controllo, paritarie o minoritarie su imprese locali
esistenti (investimenti brouwn field).
Lo spostamento di attività produttive ad altre imprese localizzate in paesi stranieri
rappresenta, invece, la forma prevalentemente adottata dalle piccole e medie imprese ed è
nota come subcontratto (produzione conto terzi) o subfornitura2. Il ricorso al subcontratto
permette di trasferire un prodotto all’estero per effettuare alcune fasi di lavorazione (commercial
subcontracting) o di affidare la lavorazione di prodotti finiti (industrial subcontrating). Nel primo
caso, il prodotto viene poi reimportato nella base domestica per garantire gli interventi di
finissaggio. Nel secondo caso, invece, il prodotto finito viene poi direttamente esportato,
dall’impresa principale o dal subappaltatore.
Nel confronto con le PMI non distrettuali, il grado di internazionalizzazione di quelle
distrettuali risulta maggiore in termini di apertura commerciale, mentre è più contenuto in
termini di delocalizzazione produttiva (Centro Studi Unioncamere, 2002 e Federico, 2002).
L’internazionalizzazione del distretto industriale ha un impatto rilevante sul sistema locale e, di
conseguenza, sulle imprese che ne fanno parte, in quanto “consiste nel progressivo passaggio da
fasi prodotte all’interno del sistema a fasi fornite dall’estero, con progressiva uscita dal mercato
delle imprese produttrici di fasi esternalizzate” (Santini, 2001).
Un distretto industriale può essere interessato da internazionalizzazione attiva o passiva.
L’internazionalizzazione passiva è determinata dagli investimenti nei distretti da parte di
imprese esterne, l’internazionalizzazione passiva nei distretti industriali apre nuove linee di
interazione con l’esterno che possono recare vantaggio al sistema locale oltre che alle
multinazionali.
L’internazionalizzazione attiva, invece, si sviluppa attraverso tre direttrici fondamentali (Corò
e Grandinetti, 1999):
• il presidio dei mercati di sbocco e dei mercati delle materie prime;
• il ricorso a prestazioni immateriali;
• la delocalizzazione delle subforniture o di più ampie porzioni della filiera.
Il presidio dei mercati di sbocco da parte delle aziende leader del distretto industriale consiste
nel potenziamento della funzione commerciale e nell’organizzazione dei canali di sbocco in
modo efficace e sostenibile nel tempo, sottraendo così terreno ai tradizionali intermediari
distrettuali (buyer, agenzie di import-export).
Il presidio dei mercati delle materie prime, invece, viene adottato mediante il monitoraggio e
la selezione efficiente delle fonti di fornitura, e lo sviluppo di rapporti stabili con i fornitori al
fine di garantire continuità e costanza di qualità degli approvvigionamenti.
Le imprese leader più dinamiche possono far ricorso a prestazioni immateriali, fornite loro da
imprese di servizi esterne al distretto, come l’innovazione tecnologica, l’informatizzazione, la
gestione della qualità, la progettazione dei prodotti e il design, la comunicazione, il marketing, le
ricerche di mercato, la consulenza direzionale, i servizi finanziari, fornite loro da fornitori di
servizi “esterni” al distretto (Micucci, 2003).
La delocalizzazione delle subforniture è uno dei modi attraverso i quali la catena del valore si
sta aprendo verso l’esterno.
Le imprese leader hanno iniziato a guardare oltre i confini del distretto spostando alcune
subforniture in paesi a basso costo del lavoro, attraverso accordi di fornitura di lungo termine
(subcontratto), acquisizione o creazione di unità produttive, joint ventures.
L’indagine condotta dal Centro Studi Unioncamere e Assocamere Estero (2002)
sull’internazionalizzazione delle imprese italiane evidenzia come le attività di subfornitura
affidate ad imprese estere (subcontratto) costituiscano la forma di internazionalizzazione
prevalentemente adottata dalle imprese distrettuali, seguita dagli accordi di distribuzione.
Figura 1 Ripartizione delle iniziative di internazionalizzazione allargata per tipologia (valori
percentuali)
Viceversa, risulta contenuta la realizzazione di investimenti diretti all’estero e joint ventures
con imprese di altri paesi, attività che comportano un più ampio volume di costi irrecuperabili
(sunk costs). In generale, si può affermare che il limitato ricorso agli IDE da parte delle imprese
italiane dipenda da tre tipologie di fattori: di impresa, di settore e di strategia. Le aziende italiane
sono di minori dimensioni rispetto alla media europea; in Italia sono meno diffuse le industrie in
cui sono proporzionalmente più presenti le imprese multinazionali; in Italia vi sono vaste reti di
decentramento interno, che talvolta hanno sostituito gli investimenti all’estero (Viesti, 2002).
La delocalizzazione internazionale delle PMI distrettuali interessa prevalentemente le aree
oltre confine, ovvero i Paesi del Sud Est Europa. In questo caso l’investimento effettuato
rientra nella categoria “cost-saving” poiché l’azienda a cui viene affidata la lavorazione, che
può essere anche uno stabilimento dell’impresa principale, produce a costi decisamente inferiori.
Si verifica, cioè una “frammentazione organizzativa” motivata dal risparmio sui costi
(Ferragina e Quintieri, 2002). Nel caso, invece, di Paesi ad alto grado di industrializzazione,
l’impresa può decidere di affidare la produzione ad aziende estere perché non è in grado di
soddisfare la domanda oppure perché non ha macchinari e forza lavoro capaci di eseguire le
lavorazioni, o non ha sviluppato particolari tecnologie di lavorazione.
Le PMI distrettuali tendono a delocalizzare le fasi del processo produttivo (industrial
subcontracting) o il prodotto finito, destinato a essere poi esportato dall’impresa principale o
direttamente dal subcontractor (commercial subcontracting).
3
I DISTRETTI INDUSTRIALI NEL MEZZOGIORNO ITALIANO
In un quadro più generale di debolezza dell’economia locale, testimoniato dalla minore
presenza di realtà distrettuali “canoniche”, la situazione del Mezzogiorno sta dimostrando una
più sostenuta capacità competitiva.
Mentre i distretti industriali del Centro-Nord si sviluppano spesso a partire dall’industria
tessile, la presenza di un’industria tessile all’origine della nascita di distretti nel Mezzogiorno
è registrata con certezza solo a Martina Franca, nel napoletano ed in alcune zone
dell’Abruzzo.
Fondamentale in tutti i distretti meridionali è la disponibilità di risorse umane, presente anche
nelle aree del Sud in cui non si sono sviluppati i distretti. La disponibilità di capitale non
sembra essere un fattore centrale per spiegare lo sviluppo, soprattutto per via della
connotazione labour intensive delle produzioni prevalenti nei distretti meridionali. La
disponibilità di infrastrutture localizzate, ad esempio di suoli attrezzati per gli insediamenti
produttivi, non è – in genere – un fattore produttivo rilevante; anzi, la maggior parte delle
imprese distrettuali nasce al di fuori di aree appositamente attrezzate.
La geografia non favorisce certo i distretti meridionali, essendo lontanissimi dai grandi
mercati di sbocco; ciononostante, in media oltre il 70% delle vendite dei distretti sono in aree
extrameridionali: disponibilità e costo del trasporto di merci sono quindi fattori decisivi.
Un ruolo relativamente importante nella nascita dei distretti è rappresentato dalle tradizioni
artigiane locali. Riguardo a questo aspetto, i distretti meridionali possono essere raccolti in tre
principali gruppi:
1) tradizioni artigiane decisive;
2) nati comunque a partire da un piccolo artigianato locale;
3) assenza di tradizioni.
Tuttavia, diverse analisi negli ultimi anni hanno evidenziato il forte livello di effervescenza
imprenditoriale di diverse realtà locali. Se probabilmente queste realtà non posseggono le
caratteristiche specifiche dei distretti industriali di tipo marshalliano (Zanni 2000), si stanno
affermando nel Mezzogiorno diversi sistemi locali produttivi che presentano anche
interessanti potenzialità di apertura sui mercati esteri, le cui caratteristiche (in termini di punti
di forza e di debolezza) possono essere sintetizzate dalla fig. 2.
Punti di forza
Punti di debolezza
-
Tecnologia
e
produzione
Organizzazione
Lavoro
Istituzioni
Sapere artigiano collegato con
conoscenze esterne (interazione
- Alti costi di approvvigionamento connessi
tra cultura e locale e attività
alla forte importazione di beni e servizi
lavorativa)
complementari alle produzioni di beni finali
- Specializzazione in prodotti
- Carenza di funzioni terziarie interne e bassa
tradizionali per la casa o la
domanda di servizi avanzati (terziario
persona (capacità di sfruttare
esplicito)
l'immagine del made in Italy) in
- Problemi connessi con la tutela dell'ambiente
alcuni casi origine "colta" delle
- Forte isolamento degli operatori rispetto
produzioni (tradizioni storiche)
all'attività di centri di ricerca scientifica
e disponibilità di sapere diffuso
- Difficoltà o ritardi nel governare processi di
(elevate capacità professionali
innovazione ventrali sulla qualità (marchi
degli operatori)
registrati) e sulla R&S
- Innovazione di prodotto, ma di
tipo imitativo e non su basi R&S
- Forte "autocentrismo" della figura
imprenditoriale (delega solo su base familiare)
- Flessibilità produttiva
- Gracilità e precarietà delle strutture aziendali
- Differenziazione produttiva
(sottocapitalizzazione, organizzazione
(capacità di offrire un'ampia
informale, ecc.)
gamma di prodotti/servizi e una
- Scarsa cooperazione interaziendale (anche se
vasta fascia di prezzi)
ci sono eccezioni) esclusa quella su base
- Organizzazione "sommersa" o
familiare-amicale (l'opportunismo
"semisommersa" (va tuttavia
imprenditoriale è un elemento disgregatore nei
preso atto che la categoria
rapporti tra imprese)
"impresa sommersa" non è
- Cattivi rapporti con le banche che
necessariamente una realtà
favoriscono canali di finanziamento paralleli
marginale o insignificante sotto
- Costi per integrare funzioni non coperte
il profilo imprenditoriale,
adeguatamente dalle istituzioni (regolare il
occorre semmai favorirne
mercato del lavoro “irregolare”, difesa dei
l'emersione per garantirne lo
poteri occulti, ecc.)
sviluppo futuro)
- Eccessiva dipendenza nei confronti
dell’intermediazione commerciale
- Più elevato livello di produttività del lavoro
nero rispetto a quello regolare
- Alta capacità di
"aggiustamento" alle dinamiche
- Possibili effetti “perversi” di una
del ciclo economico
regolarizzazione ed emersione del lavoratore
(a detta degli imprenditori ciò comporta un
- Più basso costo del lavoro
(lavoro nero)
suo risanamento ed esalta gli aspetti
rivendicativi su quelli cooperativi)
- Più deboli controlli per il
- Debolezza del contesto (politico, legale,
rispetto delle condizioni di
infrastrutturale, ecc.) Logica di
legalità/igiene sui luoghi di
contrapposizione con lo Stato e scarsa voce
lavori
rivendicata nei confronti delle istituzioni
Figura 2 Punti di forza e di debolezza delle PMI del Mezzogiorno
Da sottolineare la buona apertura all’estero di una parte consistente dei distretti considerati.
In effetti il valore medio dell’incidenza del fatturato esportato su quello totale è pari al 45% e,
se si considera che larga parte della produzione di queste aree si dirige sui mercati di altre
regioni, ne deriva che il riferimento delle imprese locali al mercato di prossimità è molto
modesto.
Distretti
1) Pelletteria teramana
2) Abbigliamento Nord-abruzzese
3) Calzature tramane
4) Mobilio abruzzese
5) Abbigliamento Sud abruzzese
6) Calzature di Guardiagrele
7) Abbigliamento di Isernia
8) Abbigliamento del nord-barese
9) Maglieria di Barletta
10) Calzature di Barletta
11) Abbigliamento del Sud barese
12)Abbigliamento del Salento
13) Calzetteria del sud Salento
14) Calzature del Salento
15) Salotti della Murgia
16) Corsetteria di Lavello
17) Abbigliamento del Sannio
18) Sete di S. Leucio
19)Abbigliamento nord napoletano
20) Calzature napoletane
21) Pelletteria napoletana
22) Abbigliamento Sud napoletano
23) Concia di solfora
24) Abbigliamento salernitano
25)Abbigliamento della Sicilia cent.
Prodotti
Borse e articoli da viaggio in pelle
Abbigliamento casual esterno
Calzature da passeggio
Mobili per ufficio e per cucina
Abbigliamento prevalentemente capi spalla
Calzature da passeggio
Abbigliamento esterno
Abbigliamento prevalentemente intimo e tute
Maglieria esterna
Calzature per tempo libero e usi tecnici
Abbigliamento esterno
Abbigliamento casual e accessori
Calze da uomo e bambino
Calzature da passeggio
Divani e poltrone in pelle e tessuto
Reggiseni e intimo donna
Abbigliamento esterno
Tessuti in seta per arredamento
Abbigliamento esterno
Calzature da passeggio, da uomo classiche e sportive
Borse e articoli da viaggio in pelle
Abbigliamento esterno
Pelli ovi-caprine conciate
Abbigliamento
Abbigliamento esterno
Figura 3 I principali distretti industriali nel Mezzogiorno
In considerazione della minore presenza locale, e probabilmente anche della minore capacità
di attivare un sistema di interdipendenze con altri settori che compongono l’export distrettuale
indiretto, molto diversa è la capacità di trascinamento del complesso sistema economico da
parte di queste realtà produttive locali. Infatti, mentre l’export distrettuale incide per il 43% su
quello complessivo, l’export distrettuale nel Mezzogiorno è meno del 16% di quello dell’area.
Possiamo quindi ritenere che:
¾ nonostante la minore presenza di realtà distrettuali nel Mezzogiorno - ricordiamo
che incidono per meno del 10% sul complesso delle aree distretto nazionali (sebbene
con una tendenza in crescita) - quelle presenti fanno rilevare una decisa apertura ai
mercati, sebbene il loro dinamismo sui mercati esteri sia comunque inferiore rispetto
al dato medio del Mezzogiorno;
¾ la situazione complessiva lascia ben sperare per il futuro, purché si dimostri una
continua capacità di innovare e di inserimento nei circuiti alti della competizione;
tuttavia non si può trascurare che si tratta comunque di fenomeni che attualmente
incidono in maniera ancora modesta sul complesso delle esportazioni dell’area e
pertanto da essi non ci si può attendere – almeno nel breve periodo – quella capacità
di spinta sull’economia locale che invece caratterizza il complesso delle realtà
distrettuali del Paese, a causa della maggiore massa di esportazioni che sviluppano;
¾ si tratta inoltre di realtà in cui la componente indiretta di esportazione rispetto a
quello che può essere definito il settore core (ossia di specializzazione) è ancora
abbastanza modesta e quindi si presentano anche particolarmente esposte agli
andamenti ciclici dell’economia mondiale, da un lato, e dall’altro non sono ancora
capaci di generare un complesso sistema di interdipendenze che può dar vita a
fenomeni consistenti di diffusione dello sviluppo, attraverso la generazione di effetti
di connessione “a monte” dei processi produttivi specializzati.
Per quanto riguarda il ruolo del decentramento produttivo, l’esperienza dei distretti
meridionali è assai varia. In questo caso possiamo individuare tre differenti gruppi di distretti:
1) casi in cui il decentramento è fondamentale;
2) casi in cui aiuta lo sviluppo di distretti già nati;
3) casi in cui è irrilevante.
Per diversi distretti è fondamentale il ruolo di imprese “motrici”, quelle cioè che avviano per
prime la produzione o realizzano innovazioni di processo e/o di prodotto decisive,
determinando conseguentemente la nascita di fornitori e concorrenti. Nella maggior parte dei
casi l’impresa motrice è locale, anche se non mancano i casi di imprese “motrici” esogene. Le
sorti evolutive delle imprese “motrici” sono molteplici: in certi casi esse scompaiono dopo
pochi anni; in altri casi, invece, hanno sfruttato il loro vantaggio competitivo iniziale per
diventare le imprese “leader” del distretto produttivo di riferimento.
La domanda locale gioca un ruolo assai importante nella nascita e nello sviluppo dei distretti:
è la dimensione della domanda locale a consentire ai distretti di nascere e successivamente
raggiungere dimensioni tali da scomporre il ciclo produttivo, acquisire, produrre e diffondere
informazione tecnica, esercitare un effetto duraturo sul mercato del lavoro.
In tutti i distretti meridionali le produzioni sono destinate (almeno inizialmente) al mercato
locale. Tuttavia, la capacità di esportare è quasi sempre alla radice del successo. Alla base
della capacità competitiva dei distretti meridionali vi sono stati diversi fattori in momenti
diversi. In tutti i casi, quando le produzioni sono state avviate esse sono riuscite a difendere il
proprio mercato locale o ad espandersi su mercati non locali grazie, principalmente, al minor
prezzo. Questo iter è fisiologico: chi inizia a produrre dopo ha meno conoscenze e meno
esperienze sui prodotti, sui mercati, sulle tecnologie; chi produce in aree relativamente
arretrate non ha condizioni di contesto favorevoli; chi produce in aree lontane dai grandi
bacini di popolazione ha alti costi di trasporto e di comunicazione; chi opera in aree in cui il
volume complessivo di produzione è contenuto non si giova di economie distrettuali: non ha
fornitori specializzati, non può reperire dirigenti e tecnici esperti.
Le imprese meridionali riescono a praticare prezzi inferiori alla concorrenza, nonostante le
diseconomie ambientali, i sovracosti di trasporto e la mancanza dell’”effetto distretto” grazie
principalmente ad un minor costo del lavoro. La capacità competitiva dei distretti meridionali
cambia però con il tempo. Man mano che la produzione aumenta, i distretti affiancano
progressivamente al costo del lavoro altri fattori in grado di dare loro un vantaggio
competitivo, attraverso innovazioni di processo e organizzative.
In generale ciò che riduce più i costi totali, al di là del costo del lavoro, è l’organizzazione
della produzione su base distrettuale. L’esistenza dei fornitori, la rete dei trasportatori,
l’abitudine a lavorare insieme rende questo vantaggio stabile e difficile da riprodurre.
Vi è dunque una complessa dinamica dei fattori competitivi. Non si può certo sostenere che i
distretti meridionali abbiano ormai maturato capacità tali da metterli al riparo dalla
concorrenza internazionale. In molti casi, però, specie nei distretti più grandi, vi sono
interessanti tendenze evolutive in atto.
4
STRUMENTI, VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA DELOCALIZZAZIONE
PRODUTTIVA DELLE IMPRESE
L’accentuarsi dei fenomeni di decentramento e delocalizzazione produttiva all’estero si deve
essenzialmente a tre motivi, i primi due connessi all’evoluzione del mercato e alla
conseguente evoluzione dell’organizzazione industriale; l’altro dipendente sia da contingenze
storico-politiche che dai processi di industrializzazione in atto nei paesi emergenti e in quelli
in transizione.
Sul versante del mercato e dell’organizzazione industriale, le principali novità sono:
• l’avvento della cosiddetta Time-Based-Competition e, quindi, l’intensificarsi della
concorrenza su ciascun segmento di mercato, affrontata dalle imprese tramite la
riduzione del cosiddetto Time-to-market;
• la conseguente, drastica riduzione del ciclo di vita dei prodotti;
• la progressiva, consequenziale accentuazione della frammentazione produttiva, vale a
dire la scomposizione del ciclo produttivo in fasi autonome e distinte;
• la sempre più accentuata divisione del lavoro tra imprese (outsourcing) non solo per
quanto riguarda l’attività strettamente produttiva, ma anche per altre attività
strategiche di impresa (R&S);
• i mutamenti registrati nell’organizzazione distrettuale che sono andati nel senso di una
sempre maggiore “messa in rete” delle imprese, con un progressivo arricchimento
degli intangible assets di ciascuna impresa e di ciascun “sistema”.
Sul versante dell’economia internazionale, i mutamenti sono ben noti:
• la transizione dei paesi ex-socialisti verso l’economia di mercato, che li ha resi
accessibili ed appetibili alle iniziative di internazionalizzazione produttiva ma anche,
in alcuni casi (Russia, Cina), commerciale dei paesi industrializzati;
• la crescente pressione competitiva dei paesi emergenti (Cina).
Con il termine delocalizzazione intendiamo, in senso lato, il decentramento in altri paesi di
produzioni, o fasi del processo produttivo, che prima venivano effettuate all’interno del
sistema, oppure l’avvio da parte di imprese locali di nuove attività all’estero (piuttosto che nel
paese di origine). Ciò può avvenire in vari modi:
a) importando semilavorati: la formula più leggera con la quale una impresa può
delocalizzare parte della produzione è quella di acquistare sul mercato beni
semilavorati prodotti da una impresa estera; tale fatto darà luogo ad un flusso di
commercio internazionale di beni intermedi;
b) con accordi commerciali o produttivi con imprese estere: in questo caso l’impresa
nazionale attiva un rapporto di fornitura con l’impresa estera ed acquista un bene
intermedio (od anche finito dal punto di vista della lavorazione) prodotto secondo
specifiche tecniche richieste. In tal modo l’impresa che delocalizza mantiene un
controllo stringente sul processo produttivo senza dover investire in partecipazioni di
tipo equity.
c) attraverso investimenti diretti all’estero (IDE) da parte di imprese nazionali che
possono acquisire partecipazioni (di controllo o di minoranza) in imprese estere
oppure creare ex-novo imprese affiliate all’estero (investimenti green field);
d) attraverso la cosiddetta “imprenditorialità all’estero”, ovvero, la fondazione all’estero
di nuove imprese ad opera di imprenditori locali o persone ad essi collegate (ad
esempio i familiari o i collaboratori dell’imprenditore).
Lo strumento che dà forma alla delocalizzazione è l’IDE (Investimento Diretto Estero).
L’investimento diretto può essere di tipo greenfield o di tipo no-greenfield. Nel primo caso,
l’impresa madre procede all’attivazione ex-novo di una attività produttiva all’estero; nel
secondo caso, acquisisce (con partecipazioni di maggioranza) il controllo di una unità
produttiva estera già esistente.
Ai tempi delle prime multinazionali statunitensi, la forma pressoché esclusiva di IDE era
quella greenfield. Attualmente, le imprese multinazionali-globali preferiscono la forma nogreenfield. Il principale motivo corrisponde al fatto che oggi, la competitività delle imprese, si
gioca molto sulla rapidità delle azioni e sulla mobilità internazionale degli investimenti diretti.
Di conseguenza, la forma no-greenfield (più immediata, flessibile e meno costosa) è quella
che meglio si addice alla strategia d’internazionalizzazione produttiva di questo tipo di
imprese.
Nelle Piccole e Medie Imprese, gli strumenti utilizzati sono pressoché gli stessi: IDE
greenfield e no-greenfield. In questo caso la scelta dello strumento non deriva però da una
strategia globale, ma piuttosto dalla necessità di sfruttare i differenziali relativi al costo dei
paesi in transizione geograficamente più vicini. Infatti, come già dimostrato da alcuni autori
(Falzoni, Turrini, 2001), le imprese che compiono IDE nei paesi in transizione sono quelle
che possiedono in misura minore, o che non possiedono affatto, i cosiddetti intangible assets,
indispensabili per generare vantaggi competitivi non da costo.
Inoltre, le PMI sembrano preferire gli IDE di tipo greenfield, meno impegnativi da realizzare
e da gestire dal punto di vista delle risorse manageriali necessarie, e più facili da controllare
direttamente dall’imprenditore. Anche in questo senso, quindi, le PMI seguono in ritardo le
strategie realizzate dalle imprese di più grandi dimensioni.
Agli IDE si contrappongono le Nuove Forme di Internazionalizzazione (NFI). Il make
together è oggi la nuova forma organizzativa industriale al tempo stesso più efficiente ed
efficace per affrontare la crescente dinamica dei mercati.
Le “nuove forme” possono essere raggruppate in tre tipologie:
a) joint venture a partecipazione minoritaria – si caratterizzano per modalità di
contributo al capitale di rischio, vincolano più strettamente, rispetto ad altre soluzioni,
l’investitore estero ai risultati economici dell’attività produttiva oltre frontiera.
b) i subappalti ed i decentramenti produttivi internazionali extragruppo – costituiscono
una prima forma di coinvolgimento estero indotta da opportunità di integrazione
verticale delle fasi del ciclo produttivo e dall’affidamento di una parte di esse (in
genere quelle più labour intensive) ad imprese localizzate in paesi a basso costo del
lavoro.
c) altri accordi di cooperazione industriale internazionale tra imprese – sono costituiti
da “pacchetti” contrattuali non-equity, che configurano rapporti di collaborazione tra
imprese di paesi a diverso grado di sviluppo, prolungati nel tempo e prevalentemente
orientati a servire il mercato interno del paese di destinazione. Possiamo includere in
tale categoria le forniture di interi complessi produttivi “chiavi in mano” o “prodotto
in mano”, integrate da accordi di assistenza tecnica e di formazione del personale, o da
contratti di management e franchising.
5
GLI EFFETTI DELLA DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA
INTERNAZIONALE SUI SISTEMI LOCALI DI PRODUZIONE
La letteratura economica ha identificato effetti sia positivi che negativi della presenza
multinazionale sull’economia dei paesi ospiti. Da un lato le imprese estere possono migliorare
le capacità innovative e competitive delle imprese locali alimentando processi di spin-off e
creando opportunità per le imprese e le istituzioni locali di accedere a forza lavoro altamente
professionalizzata; stimolando dinamiche imitative, di reverse engineering e di diffusione
involontaria delle informazioni su tecnologie e pratiche manageriali avanzate; creando legami
produttivi a monte e a valle degli insediamenti multinazionali, che consentono di ampliare la
domanda di input locali, di rendere disponibili beni intermedi tecnologicamente avanzati per
gli utilizzatori e di favorire economie di specializzazione.
Dall’altro lato, invece, la presenza estera può influire negativamente sulle performance delle
imprese locali, specie nel breve e medio periodo, nella misura in cui le multinazionali sono in
grado di monopolizzare i mercati e drenare domanda locale, costringendo le imprese
domestiche a comprimere i volumi di produzione ed a ridurre la propria efficienza tecnica.
Per i paesi investitori, i fattori da considerare sono molteplici. La fuoriuscita di ingenti flussi
di capitale, infatti, può determinare nel paese investitore la perdita di risorse indispensabili per
il proprio sviluppo, la sottrazione di posti di lavoro specialmente nei settori più deboli dove la
manodopera è meno specializzata e, nel breve periodo, un deficit complessivo della bilancia
dei pagamenti. Nel lungo periodo, tuttavia, il paese in questione può beneficiare del c.d.
“rimpatrio dei profitti” e dell’afflusso di risorse relative ai pagamenti corrisposti per
l’acquisto di beni capitali, manufatti ed altri prodotti provenienti dal paese d’origine
dell’investimento. Il paese, inoltre, può sopperire alla perdita di posti di lavoro meno
qualificati fornendo manodopera specializzata, dotata di un know-how tecnico e manageriale
superiore.
Con riferimento particolare al nostro paese si nota come dal punto di vista degli IDE in
entrata, il posizionamento dell’Italia è calato dal 1990: nel 2003 gli IDE in Italia contavano
per circa il 2,1% degli IDE mondiali, con una crescita media annua dal 1990 dell’8,8%.
Dal punto di vista degli IDE in uscita, la quota dell’Italia è attorno al 2,9%, con un tasso di
crescita negli ultimi tredici anni (1990-2003) leggermente inferiore alla media mondiale. La
situazione è diversa per quanto riguarda gli IDE e import/export di servizi: i tassi di crescita
dei paesi industrialmente sviluppati tra il 1990 e il 2003 sono stati pari o superiori alla media
mondiale, mentre l’Italia ha dimostrato risultati nettamente più deboli.
L’Italia rispetto ad altri paesi industrializzati fatica, quindi, a riposizionarsi sul piano
industriale, incrementando progressivamente la quota di produzione di prodotti ad alto valore
aggiunto (quindi anche dal punto di vista della competitività nei servizi). Gli scarsi risultati
nell’attrazione degli IDE (i tassi di crescita dei paesi sviluppati sono stati dell’11,4% nel
1990-2003, mentre gli IDE in Italia sono cresciuti solo dell’8,8%) indicano che l’Italia non
riesce ad attrarre capitali a ritmi coerenti con le proprie caratteristiche strutturali.
È vero che i dati relativi agli IDE vanno sempre considerati con una certa cautela; paesi di
piccole dimensioni e in fase di sviluppo mostrano indubbiamente un’incidenza percentuale di
IDE molto significativa.
Nell’ambito della realtà locale italiana – e del Mezzogiorno – le conseguenze sullo sviluppo
dei processi di delocalizzazione possono differire notevolmente in relazione alle diverse
tipologie di comportamento strategico delle imprese, cioè la delocalizzazione e il
decentramento produttivo.
La principale differenza tra le due strategie che bisogna sottolineare riguarda il diverso
impatto che esse hanno sul trasferimento di conoscenze e competenze da un sistema
economico all’altro e quindi da un sistema locale di produzione verso un ambiente territoriale
esterno.
Con il decentramento estero della produzione l’impresa nazionale fa, né più né meno, quanto
faceva decentrando a terzisti locali alcune lavorazioni ad alto contenuto di lavoro ma a più
basso valore aggiunto. La determinante di questa prima condotta d’impresa è quindi di
abbassare il costo delle lavorazioni labour intensive per unità di prodotto. Le competenze che
sono trasferite riguardano, pertanto, solo quelle particolari capacità “manifatturiere” che
servono per mantenere inalterate le caratteristiche qualitative del prodotto stesso e, quindi, il
suo valore unitario. In altre parole, l’impresa con questa strategia vuole aumentare la
produttività del lavoro tramite la riduzione del costo della lavorazione.
Nel caso della delocalizzazione estera “da costo”, che è quella portata avanti, in genere, dalle
PMI distrettuali, le risorse trasferite comprendono le conoscenze e le competenze
manifatturiere relative alle fasi o alle lavorazioni delocalizzate ma anche le competenze
organizzative “di fabbrica”. È difficilmente pensabile, infatti, che le PMI possano
implementare strategie diverse, proprio per la mancanza di risorse cruciali. Alcuni autori
(Buckley, Casson, 1989) hanno dimostrato come esse trovino maggiori difficoltà delle grandi
imprese ad investire all’estero proprio a causa di vincoli di natura finanziaria, ma anche a
causa di vincoli manageriali.
Diversi sono i casi di strategie implementate da imprese di più grandi dimensioni che hanno la
possibilità di incidere sul loro ambiente competitivo sfruttando il loro potere di mercato. Ad
esempio è stato dimostrato (Blomstrom, Fors, Lipsey, 1997) come le multinazionali
statunitensi, quando delocalizzano per avvantaggiarsi dei differenziali dei prezzi dei fattori di
produzione dei paesi in via di sviluppo, risultano avere una minore intensità di lavoro nelle
produzioni domestiche di quanto non accada nelle sedi estere. Diversa è la situazione nel caso
in cui gli IDE siano compiuti negli altri paesi industrializzati, poiché, in questo caso,
l’obiettivo è di conquistare quote di mercato attraverso una crescita “orizzontale”.
Seppure entrambe le strategie – decentramento e delocalizzazione – possano dar luogo alla
stessa tipologia di scambi tra paesi (il cosiddetto Traffico di Perfezionamento Passivo), gli
effetti sul sistema locale di produzione domestico potrebbero essere però profondamente
diversi: solo nel caso della localizzazione, infatti, sono trasferite competenze e conoscenze
che possono accelerare i processi di apprendimento tipici delle economie in transizione
secondo la teoria del ciclo di prodotto. Sia la strategia di decentramento che la strategia di
delocalizzazione implicano, però, un processo di riorganizzazione industriale che nel tempo
può far mutare la configurazione dei sistemi locali domestici, premiando quelli dove più
numerose sono le imprese capaci di sviluppare intangible assets in grado di consolidare o
migliorare le posizioni di mercato.
Inoltre, poiché la conoscenza degli ambiti territoriali in cui l’impresa opera è importante per la
messa a punto di sempre nuovi comportamenti strategici, le due strategie sono spesso –
soprattutto nelle PMI distrettuali – sequenziali (decentramento prima, delocalizzazione poi).
Una volta che le due strategie sono state attivate da qualche impresa first comer, si presume,
inoltre, che entrambe tendono a diffondersi tra le altre imprese distrettuali, anche di settori
correlati o di altri comparti produttivi, grazie all’”effetto imitazione” tipico dei distretti. Da un
lato, infatti, nessuna impresa può permettersi di lasciare un vantaggio competitivo ai
concorrenti; dall’altro, quando nuovi modelli organizzativi si dimostrano efficaci, le imprese
presenti su un territorio “distrettuale” cominciano a prenderli in considerazione, valutandone
l’opportunità e l’applicabilità. In questo senso, delocalizzazione e decentramento produttivo
sono quindi due processi auto-propulsivi, e anche questo può spiegare il loro rapido successo.
STRATEGIE
Decentramento estero
OBIETTIVI
Riduzione del costo per unità
prodotta
Delocalizzazione “da costo”
Labour seeking
Riduzione del costo per unità
prodotta
Delocalizzazione strategica delle
attività
• Conseguimento di economie di
scala e distributive (efficiency
seeking)
• Penetrazione commerciale
(market seeking)
• Sfruttamento di vantaggi da
proprietà (tangible o intangible
assets)
• Anticipazione di comportamenti
imitativi e/o concorrenziali
aggressivi
RISORSE TRASFERITE
Competenze e conoscenze
manifatturiere
• Competenze e conoscenze
manifatturiere e organizzative
• Attività correlate
• Intangible assets del territorio
• Competenze e conoscenze
manifatturiere e organizzative.
Attività correlate
• Competenze e conoscenze
manifatturiere, organizzative e
commerciali
• Diverse a seconda del ruolo
svolto da ciascuna unità estera
• Competenze e conoscenze
manifatturiere e organizzative
Attività correlate
Figura 4 Strategie di internazionalizzazione e trasferimento di risorse
Per quanto riguarda l’occupazione, essa non sembra essere minacciata dal fenomeno della
delocalizzazione poiché questo comporterebbe una traslazione verso l’alto delle qualifiche e
delle professionalità occupate nelle imprese domestiche. Quindi, il reddito delle zone dove
sono localizzate le imprese madri crescerebbe e, dunque, il confronto tra occupazione attivata
all’estero e minore occupazione rilevata in Italia non dipenderebbe da nessi casuali diretti.
È utile precisare, tuttavia, il preciso nesso casuale che si presume si attivi quando l’esito della
delocalizzazione è positivo; il presupposto è infatti che le risorse che si liberano grazie alla
delocalizzazione produttiva siano poi impegnate dalle imprese domestiche per aumentare la
produttività (come si è detto, sono le fasi produttive a minor valore aggiunto ad essere
delocalizzate all’estero).
Il presupposto è che le risorse siano impegnate per attivare o incrementare produzioni o
attività a maggiore valore aggiunto utili per “spostare” stabilmente verso l’alto la posizione
competitiva dell’impresa. ma non sempre questo accade. Ad esempio, se le imprese
domestiche trasferiscono all’estero fasi delle lavorazioni che prima facevano svolgere a
terzisti locali, non c’è alcun motivo di pensare che i maggiori profitti scaturiti verranno
reinvestiti successivamente per incrementare la produttività in altri modi.
La delocalizzazione potrà, invece, avere l’effetto di sostituire i terzisti locali con terzisti esteri,
indebolendo fortemente la base produttiva locale.
Quindi, sembra logico affermare che gli effetti strutturali positivi dipendono dal
comportamento strategico delle imprese e, più esattamente, dalle motivazioni che spingono al
decentramento e alla delocalizzazione produttiva. In particolare, se alla base della strategia
delocalizzativa non c’è la volontà di cercare nuovi vantaggi competitivi, sembra difficilmente
plausibile un bilancio occupazionale favorevole.
Infine, anche se la conclusione ottimistica avesse fondamento nel medio periodo e dal punto
di vista macroeconomico, gli aggiustamenti di breve periodo, sia a livello settoriale (alcune
imprese potrebbero chiudere, altre potrebbero non nascere) che a livello territoriale e
generazionale (i lavoratori qualificati non sono gli stessi di quelli non qualificati) potrebbero
avere effetti immediati non positivi per i sistemi locali di riferimento.
6
PROSPETTIVE FUTURE E LINEE DI INTERVENTO
I dati sull’andamento dell’economia nazionale, nonostante i molti isolati esempi di
affermazione sui mercati esteri, mostrano il nostro Paese in condizioni non ottimali
per rispondere alla crescente concorrenzialità mondiale.
Molti dei problemi hanno solo apparentemente natura congiunturale: carenze infrastrutturali,
inadeguata presenza di grandi imprese e conseguente preponderante peso delle PMI e dei
settori tradizionali, insufficiente organizzazione degli investimenti in innovazione, carenze del
sistema formativo, permanenza di aree di inefficienza e di settori protetti, struttura
proprietaria delle imprese, mercato dei capitali non efficiente, inadeguatezza della Pubblica
Amministrazione.
Il dato sulla competitività è in calo da diversi decenni ed è oggi attestato su valori
negativi e più bassi di quelli degli alti paesi industrializzati.
L’economia italiana, basata su pur vitali piccole e medie imprese, incontra maggiori
ostacoli in un mondo globalizzato, caratterizzato dalla crescente influenza dei paesi
emergenti sull’economia mondiale e da difficoltà di adeguamento al nuovo cotesto
della stessa Unione Europea.
Gli effetti della congiuntura nazionale e dei cambiamenti europei si sommano a quelli
derivanti dall’inserimento nel ciclo di sviluppo economico di giganti come la Cina e
l’India, nuovi poli economici, che si pongono come assi privilegiati nei rapporti SudSud del pianeta.
Tuttavia – come riportato da un interessante studio dell’Osservatorio Economico MAP/ICE –
negli ultimi dieci anni (1994-2004) l’Italia ha perso 0,6 punti percentuali sul totale mondiale
delle esportazioni, passando da 4,4% a 3,8%.
In questo quadro, è significativo il dato evidenziato dallo stesso studio che pone in rilievo
l’incidenza dell’export sul PIL nei maggiori paesi UE fra il 2000 e il 2004. Da esso si rileva
che per l’Italia la percentuale è passata dal 22,3% del 2000 al 20,8% del 2004 (-1,5%), in
presenza di una limitata crescita del PIL.
Per completare il quadro nazionale è utile ricordare che:
• la maggior parte delle imprese esportatrici sono piccole e medie. Dei 181.082 (+2%
rispetto all’anno precedente) esportatori, il 93% circa (168.515 imprese) ha meno di
50 dipendenti ed esporta il 30% (77.574 mln €) del totale (258.888 mln di €);
• le medie imprese esportatrici – fra 50 e 250 dipendenti – sono 11.521 (6,3%) e
fanno registrare vendite all’estero per il 27% (71.460 mln €) circa del totale;
•
sono solo 2.046 (1,12% ca) le imprese esportatrici con più di 250 dipendenti. Esse,
però, realizzano il 42,5% (109.854 mln €) del totale del nostro fatturato oltrefrontiera.
In conclusione i dati riportati mostrano una sostanziale buona capacità di competere della
nostra economia, nonostante i limiti derivanti dalla mancanza di grandi imprese, le carenze
nei settori “science based” e dalla specializzazione nei settori manifatturieri tradizioni (tessile,
abbigliamento, calzature), popolati da molte piccole imprese, più esposte alla concorrenza di
prezzo dei paesi emergenti. La debolezza deriva dal fatto che la specializzazione
manifatturiera – ancora vincente se basata sulla qualità – non è sostanzialmente mutata negli
ultimi cinque anni.
La ridotta dimensione delle imprese non trova più risposte positive nemmeno nella pur
positiva esperienza dei distretti, che mostrano evidenti difficoltà a competere nei nuovi
scenari. Anche per essi, gli studiosi e i manager ipotizzano nuove soluzioni che portano a
configurare “metadistretti” e “distretti virtuali”.
Oltre alle carenze infrustrutturali richiamate e ai costi energetici, sono da citare
l’inadeguatezza della nostra presenza nei canali della commercializzazione all’estero e degli
investimenti in logistica, che rendono difficile anche lo sfruttamento dei vantaggi geografici
dell’Italia, come piattaforma logistica proiettata nel Mediterraneo e potenziale “hub”
dell’oriente verso il Nord Europa.
Una politica di rilancio deve essere centrata su interventi da realizzare nel breve periodo, per
evitare l’aggravamento della situazione, ma non può prescindere dall’avviare
contemporaneamente riflessioni di fondo, che partano dall’analisi delle cause del
deterioramento della nostra capacità competitiva e, in particolare, dell’industria italiana,
cominciata a delinearsi già negli anni ottanta.
Un’organica politica di internazionalizzazione deve, quindi, favorire sia la crescita
dimensionale e le fusioni - come già disposto con il recente decreto sulla competitività – sia
l’esigenza di andare sui mercati esteri per spingere le imprese di minore dimensione verso
l’aggregazione in modo che all’estero facciano azioni congiunte di promozione, di servizi, di
produzione.
La strategia di distribuire all’estero la fabbricazione di prodotti, se attuata in maniera
intelligente, permette di assicurarsi sbocchi di mercato stabili ed allargati non solo nei paesi di
insediamento, ma anche nelle aree di influenza, grazie anche ai loro specifici accordi di libero
scambio. Una visione globale per costruire, a seconda dei casi, nuovi mercati, opportunità
produttive, piattaforme operative verso altri paesi.
È necessario avere in molti casi una presenza produttiva diretta per sintonizzarsi meglio sulle
esigenze dei clienti, essere tempestivi nei rifornimenti, ridurre le incertezze e i costi di
trasporto e dell’accumulo di scorte, creare una rete di relazioni con le imprese locali. E’ in
questa logica che si parla di impresa multiaziendale, di azienda in rete, di alleanze su specifici
mercati, prodotti e processi anche per periodi limitati.
Questo complesso scenario presenta grandi opportunità: nuovi mercati di sbocco, nuove
combinazioni produttive, nuovi campi di collaborazione.
La difficoltà di tale sfida è determinata non soltanto dall’ampiezza, ma dalla intensità dei
fenomeni che nell’attuale fase di transizione può provocare conseguenze gravi nelle imprese e
nei paesi meno attrezzati e meno pronti.
Per questo motivo il MAP in collaborazione con l’ICE ha delineato quattro grandi obiettivi
strategici da perseguire nel quadro della internazionalizzazione della nostra economia:
1) Riposizionamento strategico della presenza italiana all’estero utilizzando in maniera
organica e modulare tutti gli attori che operano all’estero con funzioni “pubbliche”;
2) Utilizzo della necessità di internazionalizzazione come spinta all’aggregazione delle
imprese minori;
3) Promozione e sostegno dei settori innovativi per favorire collaborazioni con l’estero
“generatrici di conoscenza”;
4) Tutela del Made in Italy attraverso azioni in sede comunitaria per far approvare la
proposta che renda obbligatoria l’etichettaura “Made in ..” sui prodotti importati e
attraverso iniziative nazionali di promozione e di difesa sui mercati più importanti.
7
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Per uscire dalle incertezze di un percorso non ancora sufficientemente definito, bisogna
ripensare i circuiti della propagazione dello sviluppo, trasformando i clusters locali in nodi di
un sistema più ampio, internazionale; le reti corte in reti lunghe, il capitale sociale localizzato
in un tessuto relazionale più complesso e articolato, in grado di sostenere le relazioni a
distanza.
Una cosa è certa: la propagazione dello sviluppo avverrà più rapidamente lungo i canali che
riusciranno a riprodurre – in altri luoghi – lo stesso ambiente, o un ambiente simile, a quello
che i piccoli imprenditori dei cluster già esistenti conoscono oggi. Non si tratta cioè di
internazionalizzare la singola impresa, inducendola a fare qualche investimento all’estero o ad
organizzare qualche operazione di outsourcing. Si tratta invece di cambiare la geografia del
sistema di cui la singola impresa fa parte, sia nel senso di ampliare l’ampiezza del bacino su
cui è organizzata la divisione del lavoro e la condivisione delle conoscenze, sia nel senso di
aumentare la varietà dei ruoli e delle funzioni che in questo sistema più ampio vengono
assegnate ai diversi territori (locali).
Chiamare queste operazioni col termine di “delocalizzazione” non rende bene l’idea della
trasformazione da fare.
De-localizzare significa semplicemente spostare altrove una lavorazione, una fase produttiva
o anche un’intera linea. La parola sottolinea, in negativo, ciò che si lascia (il territorio) e ciò
che il territorio perde (la lavorazione, la fase, la linea che sono state spostate). Non si guarda
in positivo al nuovo sistema che viene a crearsi: un sistema dove il territorio di partenza
potrebbe avere un ruolo importante e ricevere benefici dal processo di spostamento di alcune
attività.
Il termine de-localizzazione, guardando le cose dal punto di vista del territorio che perde delle
attività, non mette nemmeno l’accento su quello che succede o che può succedere nel nuovo
territorio di insediamento. Né consente di considerare i legami tra i due luoghi (di origine e
destinazione dell’attività delocalizzata).
In realtà, si sconta in questo campo l’insufficienza teorica di una tradizione che guarda
all’internazionalizzazione dal punto di vista della singola impresa invece che del sistema
(della filiera, del network, della supply chain, ecc.) a cui la singola impresa appartiene
(Grandinetti, Rullani 1996).
In realtà, è il sistema che deve internazionalizzarsi, non la singola impresa. Non è importante
guardare se la singola impresa esporta o investe all’estero; ma se fa parte, o no, di un sistema
che ha distribuito le sue attività e funzioni a scala ampia, internazionale.
Più precisamente, i processi di crescente integrazione internazionale della produzione
rappresentano una sfida alla quale le PMI e i sistemi produttivi locali del Mezzogiorno non
possono sottrarsi.
Le ragioni sono almeno due: da un lato per rafforzare la stessa presenza commerciale delle
imprese sui mercati esteri; dall’altro lato è l’evoluzione dei modelli di produzione, e in
particolare la crescita del ruolo e dell’intensità della conoscenza, a rendere possibile, e in
molti casi necessario, accrescere la propria specializzazione e proiettare le proprie reti di
divisione del lavoro a scala globale. In altre parole, innovazione e internazionalizzazione sono
due facce della stessa medaglia: è difficile che cresca l’una senza che, allo stesso tempo, non
cresca anche l’altra.
In questo scenario la dimensione territoriale ha un ruolo. L’aumento di complessità a cui le
imprese, specie se di piccola e media dimensione, devono oggi fare fronte richiede un
maggiore investimento collettivo sui sistemi territoriali. Tale investimento deve rispondere a
due obiettivi congiunti:
¾ qualificare le dotazioni di servizi, infrastrutture e, soprattutto, di capitale umano e
sociale a cui le imprese possono accedere;
¾ favorire la specializzazione delle reti produttive locali nel nuovo quadro della
divisione internazionale del lavoro.
L’investimento sul territorio deve dunque portare a sviluppare un insieme di economie esterne
specifiche, che stimolino le imprese ad accrescere la produttività e contribuiscano a creare,
attraverso la valorizzazione delle proprie specificità, condizioni per un vantaggio competitivo
sostenibile.
Dal punto di vista delle politiche sui distretti industriali e sui sistemi di sviluppo locale questo
significa fare un investimento almeno su tre fronti:
a) valorizzare il territorio come identità e esperienza. Le ricerche finora condotte
sull’impatto dei processi di delocalizzazione nelle imprese e nei territori mettendo in
luce come al decentramento internazionale di alcune fasi della produzione si sia
accompagnato lo sviluppo di nuove funzioni e attività nel sistema locale; in questo
senso, allora, non si pone tanto un problema di come ostacolare la delocalizzazione,
bensì di come mantenere un equilibrio fra delocalizzazione e rilocalizzazione,
immaginando percorsi di innovazione che consentano al territorio di crescere e
accreditarsi come ambiente creativo, ricco di competenze specializzate e di esperienze
qualificanti;
b) investimenti in connettività. Le testimonianze delle imprese più innovative nel
processo di internazionalizzazione produttiva sottolineano l’importanza di nuovi
strumenti di gestione delle informazioni e delle operazioni basati sull’utilizzo
consapevole delle tecnologie di rete. Ciò conduce allo sviluppo di una nuova
generazione di sistemi informativi e logistici attraverso i quali accrescere la
connettività del sistema locale con le reti globali. Solo questi strumenti consentiranno
capacità competitiva attraverso una riduzione dei tempi di reazione agli stimoli del
mercato e una maggiore flessibilità rispetto all’evoluzione dei consumi; svilupperanno
inoltre nelle PMI anche la capacità di accedere a nuove conoscenze non prodotte
localmente, abbassando così i costi dell’innovazione.
c) Codificare e replicare le conoscenze. Nel momento in cui le relazioni produttive si
estendono oltre gli ambiti locali e nazionali, un certo processo di codificazione delle
conoscenze diventa condizione necessaria per potere comunicare. Ma questa è solo
una parte del problema. La codificazione della conoscenza è utile soprattutto per
potere valorizzare, tutelare e vendere separatamente dai prodotti il contenuto
informativo (immateriale) incorporato nella produzione.
Concludendo, il successo delle PMI italiane all’estero, e in particolare la possibilità di essere
protagoniste del nuovo processo di integrazione internazionale della produzione, dipende in
misura rilevante dall’opportunità di accedere anche nei territori di destinazione ad un contesto
istituzionale e di servizi simile a quello domestico in cui sono cresciute. Queste condizioni
sono richieste soprattutto dalla specificità del modello di internazionalizzazione delle PMI,
che non fa tanto leva sugli IDE, quanto sull’estensione delle reti di fornitura e la costruzione
di accordi di cooperazione e divisione del lavoro. Affinché questo modello possa svilupparsi e
vedere partecipare un numero crescente di PMI, è necessario che le PMI incontrino all’estero
condizioni economiche, infrastrutturali e istituzionali favorevoli.
Questa strategia, in altri termini, deve puntare a fare incontrare i contesti e non solo le
imprese, ritenendo che la conoscenza reciproca e lo sviluppo di relazioni fra contesti
istituzionali sia condizione necessaria per rafforzare l’integrazione delle reti produttive.
8
Bibliografia
Baldone S., Sdogati F. e Tajoli L. (2002), Frammentazione internazionale della produzione e
crescita, in Cucculelli M. e Mazzoni R. (a cura di), Risorse e competitività, Franco Angeli,
Roma.
Balcet G. (1997), International relocation strategies by Italian firms, in Buckley P. e
Mucchielli J., Multinational firms and international relocation, Edward Edgar Publishing,
Cheltenham.
Becattini G. (1998), Distretti industriali e Made in Italy, Bollati Boringhieri, Torino
Barba Navaretti G. B., Falzoni A. e Turrini A. (1999), L’impatto della delocalizzazione nelle
imprese italiane del tessile-abbigliamento e della meccanica, Centro Studi Luca d’Agliano,
Milano.
Brusco S., Paba S. (1997), Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo
dopoguerra agli anni novanta, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal
dopoguerra a oggi, Donzelli, Roma.
Bugamelli M., Cipollone P., Infante L. (2000), L’internazionalizzazione delle imprese negli
anni ‘90, Rivista Italiana degli Economisti, n. 3, 2000.
Centro Studi Unioncamere - Assocamere Estero (2002), Internazionalizzazione, imprese e
territorio, II Rapporto, Roma.
Corò G. (2000), La delocalizzazione: minaccia, necessità o opportunità?, Rapporto
Fondazione Nord Est 2000.
Corò G. e Grandinetti R. (1999), Strategie di delocalizzazione e processi evolutivi nei distretti
industriali italiani, L’Industria, n. 4, 1999.
Federico S. (2002), Producing abroad: evidence from Italy, Banca d’Italia, mimeo.
Ferragina A. e Quintieri B. (2002), I processi di frammentazione produttiva dell’Italia verso
l’area mediterranea e l’Est europeo, in Galli G. e Paganetto L. (a cura di), La competitività
dell’Italia, Centro Studi Confindustria, Il Sole 24 Ore, Milano.
Grandinetti R. e Rullani E. (1996), Impresa transnazionale ed economia globale, La Nuova
Italia Scientifica, Roma.
Onida F. (2001), IDE: su cosa fare ricerca?, Economia e Politica industriale, n. 111.
Rispoli L. (1994), Le forme di internazionalizzazione delle imprese, Venezia, Università degli
Studi di Venezia.
Schiattarella R. (1999), La delocalizzazione internazionale: problemi di definizione e di
misurazione, Economia e Politica Industriale, n.103, il Mulino, Bologna.
Zucchella A., Maccarini M. E. (1999), I nuovi percorsi di internazionalizzazione, Giuffré,
Milano.
ABSTRACT
The present research analyze the new methods of international production integration of the
enterprises with particular reference to the perspectives of internazionalization through
delocalization of the Southern SMEs.
Particularly, after having illustrated the principal advantages and disadvantages of the
productive delocalization, we will describe the possible effects on the local productive
systems.
Finally we will study the new tools and the new strategies of delocalization of the Southern
SMEs; the phenomenons of international reorganization of the production and their impact on
the dynamics of local and international development within the Suthern productive systems
and, finally, some options and strategies of policy for the internazionalization of the Southern
SMEs.