è il telo che orna il rosone della chiesa, dove per tanti anni ha

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è il telo che orna il rosone della chiesa, dove per tanti anni ha
Il cinema del melting-p(l)ot
Storie di immigrazione e tentativi di integrazione *
di Cristina Battocletti
Clandestini in Mostra
Un paramento chiaro precipita dall’alto: è il telo che orna il rosone della chiesa, dove
per tanti anni ha officiato un vecchio sacerdote dolente. Mentre la lunga stoffa cade,
si infrangono i vetri colorati che disegnano un occhio, quello di Dio, che rimane
accecato, come lo sono gli uomini che hanno rotto quella finestra. Da fuori arrivano
rumori scomposti di pale di elicottero, passi pesanti, grida concitate che scandiscono
ordini militari. In questo bailamme un nugolo nero di persone si infila silente e
immobile tra le navate della chiesa, come un presepe d’ebano, e in quel luogo di
culto, che sta per essere dismesso assieme al suo pastore, prende forma un paese in
miniatura, costruito con cartoni, stoffe e oggetti riposti in sacrestia. Il villaggio di
cartone è l’ultimo film con cui Ermanno Olmi ha voluto allungare una carezza ai
miseri del mondo che bussano le porte di casa nostra. Presentato “Fuori concorso”
alla 68esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, la pellicola del maestro
lombardo non ha avuto il successo di pubblico che avrebbe meritato. Composto da un
susseguirsi di inquadrature teatrali, tanto che ogni singola scena sembra un quadro
caravaggesco con i protagonisti virati in nero, ha raccontato le contraddizioni
dell’Italia, divisa tra generosi volontari e feroci persecutori di clandestini. Sono
gruppi minoritari e caparbiamente chiusi nel proprio egoismo, che Olmi fotografa
beffardamente in pattuglie equipaggiate per un conflitto atomico. Il maestro non è
però nemmeno indulgente sui lati meno nobili che i diseredati riservano agli stessi
fratelli e mostra lo sfruttamento della prostituzione e il pizzo esoso chiesto per
partecipare ai cosiddetti viaggi della speranza. Mentre nella sacrestia il vecchio
sacerdote, interpretato da un superbo Michael Lonsdale, si contorce nelle incertezze
della fede, sembra che anche Dio abbia voltato le spalle di fronte allo scempio… O
forse no.
Tanto è stato lo spazio che una rassegna cinematografica prestigiosa come quella
di Venezia ha riservato all’immigrazione che vien da pensare che l’Italia stia
finalmente sentendo lo straniero come un pezzo del suo corpo: braccia, pancia, cuore
non importa. La vera novità è che l’immigrato esce dal cliché del domestico filippino,
del ristoratore cinese, del delinquente nordafricano, albanese, rumeno per diventare
protagonista della pellicola. Non è stato un caso che il “Premio Speciale della Giuria”
sia stato attribuito a Terraferma di Emanuele Crialese e non solo per rendere omaggio
alla mano ferma della regia, che già fruttò al regista un Leone d’argento nel 2006 con
un’altra storia di immigrazione, Nuovomondo, che faceva luce sulla tradotta dei
siciliani in America. Molti hanno interpretato il riconoscimento a Terraferma come
*
Pubblicato in «Sdc. Sale della comunità», 2, marzo 2012.
un tributo all’importanza del tema più che alla pellicola, in cui si racconta la storia di
un pescatore, Ernesto (Mimmo Cuticchio), che con la sua bagnarola mette in salvo
alcuni clandestini, aggrappati alle boe in mezzo alle onde. Costerà cara a Ernesto la
devozione alle leggi del mare, che, a dispetto di quelle dell’uomo, impongono al
pescatore di salvare il naufrago senza aspettare l’intervento dell’autorità. La sua
imbarcazione sarà requisita e la sussistenza di un’intera famiglia messa a repentaglio.
Il film può non convincere per certi compiacimenti fotografici, per certo amore
dell’effetto “cartolina”, caro a Crialese, ma il messaggio di fratellanza e di invito alla
convivenza sono importanti e meritevoli di riconoscimento.
Vite di immigrati in lotta per la sopravvivenza
Ancora, tra le opere che affondano la macchina da presa tra i clandestini, bisogna
segnalare Là-bas di Guido Lombardi. Racconta i fatti di cronaca di Castelvolturno, in
cui per la prima volta una strage di camorra ha coinvolto immigrati. Lombardi va in
controtendenza rispetto alla tesi della stampa, che aveva parlato della comunità
africana colpita come di una vittima occasionale e casuale del rendimento di conti
avvenuto in Campania nel 2008. Il regista fornisce la sua versione della vicenda,
ricostruita in base agli atti giudiziali e ai racconti della gente. È la storia, purtroppo
comune e banale, di un ragazzo arrivato dalla miseria con l’intento di garantire la
sussistenza della propria famiglia di origine, ma che rinuncia all’onestà una volta
constatato che il successo e la ricchezza dei suoi connazionali in patria erano solo
millantati. Alla durezza di una vita ai margini, di fazzoletti venduti ai semafori, di
ortaggi da raccogliere nei campi, preferisce la scorciatoia della malavita fino a
soccombere. Bellissimo ritratto neorealista, fatto per mano italiana. Il prossimo sarà
firmato, speriamo, da un italiano di origini africane.
Altro film che sfortunatamente ha avuto poco successo di pubblico, ma che
meritava, è Io sono Li, se non altro per la fotografia e la bravura di attori come Zhao
Thao (Shun Li) e Rade Serbedzija (Bepi). Il regista Andrea Segre racconta la saga di
una cinese, che, per pagare il suo biglietto per l’Italia, arriva a gestire un bar a
Chioggia. Tra gli scherzi malandrini dei locali che si fanno beffe della sua parlata e le
difficoltà economiche, alla fine Shun Li viene accolta benevolmente tra i chioggiotti e
accettata per la sua operosità. La baruffa, di cui Goldoni sapeva qualche cosa, scoppia
quando Bepi, pescatore insediatosi nel paese dalla Jugoslavia trent’anni prima, si
innamora di Li e viene ricambiato. La reciproca tolleranza negli affari delle due
comunità, la cinese e la veneta, si spezza e così anche il processo di integrazione.
Stranieri in patria
Ma l’accorciarsi delle distanze può passare anche attraverso una risata. Ce lo
insegnano Claudio Bisio e Alessandro Siani, rispettivamente Alberto Colombo e
Mattia Volpe, in due film, Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord, entrambi firmati da
Luca Miniero. Le pellicole tratteggiano la discesa di un “polentone” nel Mezzogiorno
e la salita di un “terrone” a Milano. La prima è la ricostruzione filologica, con
l’aggiunta di pregiudizio nostrano, di un film che aveva fatto favolosi incassi in
Francia, Giù al Nord (2007) di e con Dany Boon, che recita anche un cammeo in
Benevenuti al Sud. Oltralpe il centro del dileggio è il Nord del Paese, dipinto come
una terra di barbari che parlano una lingua stretta e incomprensibile - in Italia
tradotta con un improbabile accento simil bergamasco -, dove c’è solo pioggia e cibi
indigeribili.
Nella versione italica Claudio Bisio ripercorre la “carriera” del protagonista di Giù
al Nord, Philippe Abrams (Kad Merad), che, impiegato alle poste, si finge
diversamente abile per sorpassare tutti in graduatoria e trasferirsi con la famiglia in
Costa Azzurra. Bisio addotta lo stesso escamotage per andare a vivere dall’hinterland
a Milano. Ma, scoperta la truffa, “il” Colombo viene allontanato nella profonda
provincia campana. Il nostro “scende” l’Italia piangendo, con tanto di giubbotto
antiproiettile, il terrore di essere sequestrato dalla malavita, avvelenato dai prodotti
locali, insidiato dai nullafacenti. Scoprirà calore, amore e bellezza tali da non voler
più far ritorno a casa.
Quanto il primo Benvenuti aveva delle trovate gustose, che disseppellivano i nostri
peggiori campanilismi, il sequel è stanco e scontato. Si sorride delle donne che si
fanno il segno della croce quando Mattia parte con la sua utilitaria verso le Alpi,
mentre sul tetto stazionano improbabili e antistoriche valigie di cartone. Strappa
timide risate il gilet con appesi i fari antinebbia, dono dei colleghi a Mattia, e quel
“lavurà” forsennato e cronometrato dei “postali” milanesi. Ma le gag sono così
serrate e innaturali da incanalare il percorso alla risata in un binario morto.
Nonostante questo aspetto, Benvenuti al Nord ha dato un po’ di ossigeno al
botteghino, quasi quanto il progenitore meridionale, che assieme al campione di
incassi 2010, Che bella giornata, di Gennaro Nunziante con Checco Zalone, e La
banda dei babbi Natale di Paolo Genovese, avevano innescato un circolo virtuoso
grazie a cui tra la fine del 2010 e il 2011 moltissimi erano accorsi al cinema e si era
parlato di una ripresa della commedia all’italiana, pur con le dovute differenze
rispetto al genere che negli anni Sessanta aveva fatto scuola anche all’estero.
Stereotipi ereditari e nuove emarginazioni
Certo più geniali e più genuine sono le trovate di Almanya. La mia famiglia va in
Germania, racconto lieve ma con una buona dose di vetriolo sulla considerazione che
i turchi hanno dei tedeschi e viceversa, nell’epopea di una famiglia anatolica che si
trasferisce in Germania nel periodo del boom economico. Questa pellicola
ironicamente autobiografica, firmata dalla giovane tedesca di seconda generazione
Yasemin Samdereli, meriterebbe di essere vista in versione originale (con sottotitoli
ovviamente), perché nella traduzione si perdono espressioni comiche molto vive. Si
capirebbe meglio il terrore del capofamiglia turco di finire bavaresizzato a mangiare
salsicce e bere birra all’Oktobefest o di contrarre germi dai tedeschi - che
nell’immaginario turco sono sporchissimi - o le beffe che i tedeschi si fanno dei
costumi e delle tradizioni turche con uppercut per tutti.
Come una favola, in cui si sorride più che ridere, Miracolo a Le Havre ci porta
invece in punta di piedi in una epopea molto simile a quella di Il villaggio di cartone
con lo humor sottile e retrò che Aki Kaurismaki riserva alle sue pellicole. Girata
come un noir francese, tra interni anni Settanta, automobili anni Cinquanta, atmosfere
e pose anni Quaranta, il film narra la storia di un lustrascarpe, Marcel Marx (André
Wilms), che salva la vita a un ragazzino di colore clandestino, che vorrebbe passare
la Manica per raggiungere i parenti in Inghilterra e viene ricercato come un
pericolosissimo membro di Al Queda.
Bellissima, aspra, senza sconti, infine, la storia di immigrazione di Sette opere di
misericordia raccontata dai fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio. Una giovane
dell’Est (Olimpia Melinte), incrudelita dalla vita, si nasconde negli anfratti caldi di un
ospedale in attesa di una preda: una borsa da rubare, un bambino da vendere, una
defunta non reclamata di cui assumere l’identità, un degente debole, vecchio e senza
parenti di cui occupare la casa. Ma sarà proprio quell’anziano su cui si avventa, il
meraviglioso Roberto Herlitzka nei panni di Antonio, a insegnarle la pietas, la
compassione. Le scene sono anticipate da titoli che ricalcano le sette opere di
misericordia, che ogni cristiano dovrebbe compiere nel corso della sua esistenza e che
nel film suonano come una amara provocazione. Il titolo è rimasto nelle sale solo una
manciata di giorni, ma vale la pena recuperarlo in dvd. Sono novanta minuti di
tristezza e desolazione, colpi allo stomaco, stupende inquadrature, anche se a volte la
durata delle stesse avrebbe bisogno di una sforbiciata per non cadere nel
compiacimento autoriale. Suona come un supplizio, ma è l’opposto: si guadagna in
poesia e in lezioni di vita.