Berlino 2014: vince Black Coal, Thin Ice,Tutta

Transcript

Berlino 2014: vince Black Coal, Thin Ice,Tutta
La ragazza con l’orecchino di
perla
Tra studiosi e cultori d’arte c’è grande fermento per il
capolavoro di Johannes van der Meer (meglio conosciuto con Jan
Vermeer) La ragazza col turbante, esposta a Bologna
all’interno di una mostra dedicata al mito della Golden Age.
L’impazienza è causata dalla fama del dipinto e dall’alone di
mistero che le si attribuisce, nonché dalle scarse notizie
sull’autore. Il quadro è da tutti, infatti, riconosciuto come
il più famoso e il più ammirato dopo la Gioconda. Tuttavia
l’ammirazione e l’attrattiva, che hanno già causato una
pioggia di prenotazioni, sono dovute anche alle rievocazioni
in letteratura: la prima del 1986 La ragazza col turbante
della scrittrice Marta Morazzoni e la seconda, più celebre,
del 1999
La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy
Chevalier. Quest’ultima, ormai best sellers, da vita all’opera
e narra la storia della sua creazione, da un’identità alla
modella, racconta di un platonico amore e spiega quel viso di
fanciulla volta di tre quarti che colpisce in particolar modo
per l’espressione estetica, languida e seducente.
Tanta premessa per enunciare il film che da tutto questo
prende spunto. Dal libro della Chevalier è infatti tratta
l’omonima pellicola, interpretata sapientemente da un cast
meritevole e diretto dal regista Peter Webber. Il
lungometraggio, uscito nelle sale nel 2003, è stato candidato
a tre premi Oscar e rivive le pagine del libro riassumendo, in
dettaglio, le vicende che portarono alla composizione del
dipinto attraverso la vita di uno dei massimi pittori olandesi
del 1600: Jan Vermeer. La pellicola appare subito notevole per
le rievocazioni storiche, le ambientazioni ricostruite e la
fotografia che ha il potere di ridare vita
agli scenari
olandesi del seicento tra i canali, il freddo pungente e le
scene di vita famigliare che si ritrovano nel realismo di
quell’arte nord europea.
La storia si svolge a Delft, all’interno della casa del
pittore Jan Vermeer (Colin Firth) dove viene mandata a servire
una giovane fanciulla Griet (Scarlett Johansson). La
proiezione si concentra sul rapporto tra i due eliminando
ulteriori avvenimenti presenti nel romanzo: si concentra
sulla complicità tra un pittore, che non riesce a produrre più
di due o tre quadri all’anno data la sua smania di perfezione
e che porta avanti con difficoltà il suo tenore di vita a
causa della prole che cresce a vista d’occhio sotto il tetto
coniugale, e una giovane serva, poco erudita e priva di
cultura ma con un’ingenita sensibilità nei confronti dell’arte
e della pittura.
A Griet viene dato l’incarico di pulire e riassettare lo
studio del maestro ed è lì che si appassiona all’estetica
pittorica e alla tecnica, la vediamo interagire con una camera
oscura, strumento realmente usato da Vermeer e dai suoi
contemporanei, si dedica alla preparazione dei colori e pian
piano entra nel mondo ermetico dell’artista. Naturalmente
questo genera gelosie ed invidie nei confronti della moglie
(Essie Davis) che la manderà via appena consapevole del
magnifico ritratto eseguito, per altro con i suoi orecchini di
perla.
La narrazione scorre lenta e soave tra le mura domestiche, il
regista ricalca la figura di un pittore all’interno della sua
vita privata, tra gli affetti famigliari e l’amore, isolato e
maniacale, per la sua arte. Vermeer fu un pittore connesso
agli stili del suo tempo, diede vita ad una espressione
realistica propria caratterizzata dalla luce e dalla poetica
degli interni; aspetti insiti nel film e riproposti abilmente
dalla regia. Nella narrazione, si palesa, quasi subito,
l’incanto tra il pittore e la serva, timida e riservata
fanciulla affascinata dall’arte, dai colori e dalla luce
intrappolata in essi. Questa caratteristica non è altro che
un’ulteriore calamita tra i due, i quali, unici protagonisti
indiscussi del film, danno vita ad un dialogo fatto di sguardi
intensi, di sospiri e di una segreta complicità che solo il
cinema poteva essere in grado di mettere in scena.
Le vicende narrative si intrecciano con inequivocabili verità
sul maestro della luce olandese e il film colpisce, non tanto
per la congettura attorno al quadro, quanto per la messa in
scena di un racconto intimo, quasi come fosse un intruso nelle
segrete di un amore ideale.
Si può infine notare come la pellicola sia di fatto ispirata
completamente al libro, non solo per le vicende narrate ma
anche per l’esposizione melodrammatica e romanzata che
comunque ricalca in pieno le aspettative del fruitore, ma
forse (unica nota dolente) svilisce un tantino quel cultore
d’arte che, ancora una volta vede crescere e insediarsi sempre
più con forza l’interesse suscitato dall’opera, non tanto per
le caratteristiche stilistiche quanto per il pettegolezzo più
semplice: chi mai potrebbe essere la ragazza con l’orecchino
di perla? Una mera curiosità quindi, non un’ammirazione
stilistica, legata più alle vicende da salotto che alla stima
per la maestria dell’utilizzo della luce, memore di Rembrant o
Caravaggio e ancor più unica nel suo modo di scomporsi e
ricomporsi nelle tele.
La maggior parte delle opere d’arte del passato sono intrise
di mistero, quasi ognuna di esse ha piccoli o evidenti
dettagli nascosti, la maggior parte di esse però rimane
nell’ombra agli occhi del grande pubblico e soccombe ad opere
(dall’indiscussa magnificenza) misteriose solo perché forse
potrebbero celare relazioni proibite o identità misteriose,
tendenza largamente accolta dal cinema che fa sue le
provocazioni enfatizzando accaduti reali e di fantasia.
Berlino 2014:
Coal, Thin Ice
vince
Black
Il film cinese Black Coal, Thin ice vince il Festival di
Berlino 2014.
La vittoria della pellicola di Diao Yinan si aggiudica l’orso
d’oro con grande sorpresa, infatti il favorito di tutti
era Boyhood di Richard Linklater.
Il Premio speciale della Giuria è andato all’acclamato The
Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, che aveva anche aperto
la manifestazione.
Il film cinese premia anche Liao Fan, eletto miglior attore.
Un’altra orientale, Haru Kuroki, vince il premio per la
miglior attrice nel dramma storico The Little House.
Premio Alfred Bauer a Life of Riley di Alain Resnais,
con Stations of the Cross premiato per la sceneggiatura, Blind
Massage per la fotografia e Gueros, in arrivo dalla sezione
Panorama, eletto miglior esordio.
questo l’elenco completo dei vincitori:
Orso d’oro per il miglior film:
Black Coal, Thin Ice di Diao Yinan
Orso d’argento Gran Premio della Giuria:
The Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson
Premio Alfred Bauer per l’innovazione:
Aimer, boire, et chanter di Alain Resnais
Orso d’argento per la miglior regia:
Richard Linklater per Boyhood
Orso d’argento per la migliore attrice:
Takako Matsu per The Little House
Orso d’argento per il miglior attore:
Liao Fan per Black Coal, Thin Ice
Orso d’argento per la miglior sceneggiatura:
Dietrich Brüggemann e Anna Brüggemann per Kreuzweg
Orso d’argento per il miglior contributo tecnico:
Zeng Jian per la fotografia di Blind Massage
Premio per la migliore opera prima:
Güeros di Alonso Ruizpalacios
Panorama – Premio del Pubblico, fiction:
1° Difret di Zeresenay Berhane Mehari, Etiopia
2° The Way He Looks di Daniel Ribeiro, Brasile
3° Brides di Tinatin Kajrishvili, Georgia
Panorama – Premio del Pubblico, documentari:
1° Der Kreis di Stefan Haupt, Svizzera
2° Finding Vivian Maier, di John Maloof & Charlie Siskel, USA
3° Meine Mutter, ein Krieg und ich di Tamara Trampe & Johann
Feindt
Tutta colpa di Freud
Due anni fa andai a vedere Una famiglia perfetta di Paolo
Genovese, autore di Immaturi e relativo sequel,
in tutta
onestà, mi piacque. Così mi sono voluto fidare ancora una
volta di questo regista e, un pochino incuriosito anche dal
trailer del film, mi sono infilato in una sala per cercare
anche quest’anno l’umorismo sano, volgare quel tanto che
basta, che trovai poco prima di Natale 2012 ma, purtroppo, non
è stato così. Non si possono di certo negare i pregi della
comicità che Tutta colpa di Freud propone: tempi comici
azzeccati e un non banale modo di fare ridere (con qualche
citazione qui e là che non guasta mai!), inoltre non possiamo
discutere sulla bravura degli attori (primo tra tutti, Marco
Giallini, interprete principale e filo conduttore delle tre
storie di cui parlerò tra qualche riga). Tuttavia questa volta
la scrittura di Genovese risulta traballante e confusa, forse
addirittura troppo superficiale. Risulta poco credibile,
infatti, trovarsi sullo schermo Anna Foglietta, lesbica che
decide di cambiare orientamento sessuale, ma che si stupisce
di una erezione, o che pensa addirittura che le donne etero
facciano solo le faccende di casa, badino alla famiglia e
nulla più. Purtroppo non riesco a credere ad una Vittoria
Puccini che si innamora del suo scrittore preferito, senza
però aver letto la sua biografia per scoprire che in realtà è
sposato e con figli (“normale”, insomma). Altrettanto
incredibile
è
che
la
diciottenne Laura Adriani studi
ancora il futuro anteriore.
Sono tante piccolezze, questo è
vero, ma messe insieme si
trasformano in una grossa
lacuna di sceneggiatura, la
quale rende insopportabile la
semplicità con cui Genovese si approccia alla storia,
trasformando uno spunto interessante in un’accozzaglia di gag,
simpatiche certo, ma vuote e prive di una struttura solida
alle spalle, un po’ come il film. Tre figlie, tre storie,
unico filo conduttore: il padre, Marco Giallini, credibile
come psicanalista tanto quanto la sua primogenita è naturale
nei panni di una eterosessuale. Ecco dunque l’ennesimo
pretesto familiare che serve al cinema italiano per raccontare
il solito cocktail di favole romantiche, l’ormai canonico
terzetto (che è un quartetto ma solo per caso) di colpi di
fulmine, di disillusioni amorose e di destini che si
incrociano. I problemi di script si riversano anche sulle
relazioni tra i protagonisti, molto semplici nella scrittura,
i quali non hanno quasi mai reazioni spontanee, ma costruite e
finte. A tal proposito possiamo citare il momento in cui
Giallini si arrabbia definitivamente con la sua secondogenita:
semplice, pacato e accademico, non accenna neanche uno sfogo
nel momento in cui esclama “i padri devono fare i padri, non
gli amici”, comportandosi per l’ennesima volta più da amico
che da padre esasperato. Insomma, se il film precedente di
Genovese era stato una piacevole sorpresa, questo nuovo lavoro
è stato una mezza delusione. Una domanda nasce spontaneamente:
e se il film di un paio di anni fa dovesse il suo successo al
fatto che si trattava di un remake di una pellicola spagnola?
La differenza nell’idea di base si sente, ma la regia non è da
buttare nemmeno questa volta. Tutta colpa di Paolo, dunque?
Non saprei, fatto sta che quel nome tanto famoso e tanto poco
rassicurante inserito tra gli autori del soggetto di questa
pellicola (Leonardo Pieraccioni) che scrive la storia assieme
all’autore e a Paola Mammimi, mi fa pensare che le colpe non
siano proprio tutte da attribuire a Genovese, che comunque, in
quanto a direzione di attori, fa la sua discreta figura.
2046
2046: un momento di riflessione per tutti. Uno sguardo che,
insinuandosi alle spalle, cerca quel momento felice che
crediamo di aver vissuto. Possiamo forse dare importanza a
qualcosa di trascorso, collocandolo anche al di sopra dell’
attimo ancora non vissuto, pensando che il suo ricordo sia
felicità istantanea?
Il tempo cambia le persone e il dolore le scalfisce, ma la
felicità le frantuma. Niente è come l’attimo dove tutto è
perfetto. Il cuore accelera, il respiro s’ingrossa, gli occhi
si adagiano sul tutto con nuova grazia, liberando un nuovo
flusso vitale capace di spingerci verso la vita lucente. C’è
chi non si riprende da tutto questo e nel vano tentativo di
rivivere quel momento cerca di capovolgere il normale
paradigma alla base del tempo vissuto. Le lacrime sono la
pioggia dei nostri ricordi come dice il protagonista, ma
probabilmente i sorrisi sono alla strenua dei fulmini,
impalpabili e mai presenti nello stesso posto per due volte.
Quel luogo non esiste se non nella nostra mente, ricercato a
volte solo per rivedere scene, in altri momenti per farsi
sorreggere nella costante vacuità emotiva.
2046 è una pellicola suggestiva nella sua idea di contemplare
come un momento possa cercare di impadronirsi delle emozioni
del futuro, umiliandole nello sbagliato tentativo di arrivare
ad un confronto. La memoria per Wong Kar-way si propaga fino a
fagocitare la realtà in una combinazione volutamente caotica,
ruolo di una mente in piena fase di idealizzare un luogo
inesistente e pronta ad affrontare il normale passare del
tempo. Chow Wo Man è uno scrittore che, inoltrandosi nella sua
immaginazione e nei suoi ricordi, dà una dimensione
d’inchiostro a delle evanescenti e ormai opacizzate emozioni;
il 2046 per lui rappresenta la stanza di un hotel dove
risiedeva l’amore, ma il 2046 è anche l’arrivo di un treno
mentale, dove vivono i ricordi perduti e da dove il suo alter
ego decide di tornare indietro perché non ha trovato
l’anelante sorriso dell’unica donna amata. Chow ha incontrato
l’amore che come unico frammento gli ha lasciato un’ossessione
di un desiderio che non si è esaudito, e nel suo ricordo si
concede ad altre donne che nulla gli hanno concesso se non
l’appagamento dell’attimo finale in una irrequieta Hong Kong
di fine anni ‘60, in rivolta contro il padrone. Si direbbe che
un ricordo possa oscillare tra varie dimensioni espressive:
lacrime, sorrisi, smorfie, che appaiono come chiari segni
distintivi dell’azione svolta vista l’inconsistenza
dell’immobilità, che appare come un qualcosa da soprassedere
perché rimasta tale sia nel volto che nel cuore. Tuttavia la
memoria è beffarda e il
vuoto può riempirsi
dell’idea che forse è
andata diversamente e
che fa tornare a galla
dal ricordo solo il
desiderato,
plasmato
nell’inconscio
per
sovrastare
il
rimpianto, ultimo atto
della consapevolezza di
fronte ad un’inutile
inerzia. In una trasfigurazione dell’idea della memoria e del
passato immaginario le luci del conosciuto si offuscano,
mentre solo l’ombra della felicità ricercata prova a
espandersi in un chiaro-scuro di sguardi che appaiono vuoti e
incostanti, comprensibili ad un solo cuore, eppure resi
universali dall’impostazione del regista. Lenta e delicata
come un pennello, l’impostazione visiva si lascia trascinare
avanti, sospinta dal sentimento presente nell’attimo
inquadrato, sospendendosi per poi accelerare di ritmo con il
mutare degli sguardi con colori stinti che vanno quasi
mescolandosi tra loro in un’atmosfera esternamente fosca,
ravvivati dagli interni della stanza dell’hotel quasi da un
bagliore di una lampada a olio, intensi nella parentesi
futuristica, marchiando con immediatezza nella pellicola una
sensazione onirica e di una bruma emotiva che, ristagnando dal
primo attimo sullo schermo, né marchia un’identità credibile e
intrigante di un quadro che mantiene vivo il suo costante
punto inafferrabile. Tra particolari di sigarette, mani e
schiene volte a rallentare il tempo stesso delle sequenze, è
la
sfuggente
presenza
decentrata
dei
personaggi
nell’inquadratura ad impreziosire un punto centrale errante
tra le vite dei protagonisti e i turbamenti dello spettatore:
la malinconia.
La visione del regista cinese è intavolata nella sua idea di
mettere su pellicola un vagheggiamento sull’illusione,
basandosi su una storia non anomala nei concetti, eppure la
ricerca di una forma attraente attraverso una sapiente regia
riesce ad infonderne un’anima pura ed onesta, che nel termine
fa alzare gli occhi nella ricerca di una propria riflessione
sulle proprie incertezze, come dei dubbi che alla fine della
giornata ci guidano verso il soffitto, ultimo capolinea delle
derive emotive non rescisse. L’unica destinazione alternativa
ai binari del ricordo è solo il rifiuto dell’amore, sfuggendo
da ogni suo più pericoloso accumulo nella memoria poiché, come
suggeriva Lord Byron, il ricordo della felicità non è più
felicità, il ricordo del dolore è ancora dolore.
Leonardo Carnicelli
Cogan – Killing them softly
Brad Pitt è Cogan e uccide con l’arido e glaciale colpo di
fucile che arriva a distanza tutt’altro che ravvicinata: (he)
Kills you softly. Un sicario? Un aguzzino su commissione della
mafia di New Orleans? No, è semplicemente il freddo e ruvido
killer che preme il grilletto senza guardare negli occhi,
colpendo dritto in petto.
Andrew Dominik, già padre d’interessanti pellicole come
Chopper (2000) e L’assassinio di Jesse James per mano del
codardo Robert Ford (2007), regala nel 2012 un grandioso film
statunitense che penetra gli stessi luoghi dell’ambientazione
spargendo sulla pellicola i colori della crisi economica e
della svolta elettorale americana dell’era “Yes, we can!”. Il
risultato è la narrazione dilatata e coinvolgente dei momenti
della rapina a una bisca clandestina, ad opera dei
vistosamente tossicodipendenti Frankie e Russell, (Scoot
McNairy e Ben Mendelsohn), due ansiogeni giovani signori in
cerca di contante facile: pianificazione, svolgimento e
conseguenze di un brutto affare.
Jekie
Cogan
è
un
personaggio
dalla
psicologia
appena
accennata, ma perfettamente intuibile attraverso le sue
movenze e gli atteggiamenti: non necessita di alcun cenno
biografico o giustificazione narrativa per camminare tra i
bassifondi e le cosche di New Orleans ed intrecciare la
propria vita di killer con gli sprovveduti rapinatori della
bisca e la mala organizzata per cui lavora, alla quale sta
particolarmente
a cuore anche l’organizzazione del gioco
d’azzardo in città. Brad Pitt indossa magistralmente la giacca
di pelle di Jekie e ne imbraccia il fucile a pompa, preme il
grilletto e l’obbiettivo percorre languidamente tutta la
superficie liscia dell’arma fumante, freddando il colpevole,
presunto o reale, dell’affronto alla lobby criminale.
Non ci soffermeremo ulteriormente su ciò che oggi si tende a
chiamare “story-line”, né sulle impeccabili interpretazioni di
Ray Liotta e di James Gandolfini, né tantomeno su chi veste i
panni del biscazziere Markie Tattmann e chi invece sarà il
mercenario Mickey, atterrato direttamente da New York.
Riteniamo dunque che la trama di Cogan vada assorbita
lentamente come se fosse una dose quasi letale di eroina che
comincia a scorrere nelle vene durante la visione,
trasformando la poltrona in una dolce culla oscillante posta
innanzi alle immagini di lavanderie pubbliche, cocktail
superalcolici, ronzanti automobili anni Settanta e berline
metallizzate in attesa sotto i piloni del ponte.
In questo particolarissimo film non ci sono protagonisti,
personaggi principali, buoni o cattivi. La stessa storia,
priva di narratore, risulta praticamente evanescente: Dominik
né filma né racconta, apre semplicemente l’otturatore che
riprende ciò che con ogni probabilità potrebbe accadere in
questo momento sotto i tramonti color ardesia degli Stati
Uniti d’America, trascinando la pellicola fin dietro gli
angoli dei pestaggi di periferia, calando la telecamera
dall’alto per insinuarsi negli oscuri vicoli dei denti rotti.
Del tutto lontano dalla realizzazione di un documentario, il
regista neozelandese muove i propri mezzi cinematografici con
tanta naturalezza da annullare i consueti confini dello
schermo; si ha l’eterna impressione che il film possa
terminare da un momento all’altro con la semplice interruzione
delle riprese, spente da un improvviso sparo che concede il
buio eterno e i titoli di coda.
Il sottile gioco di fotogrammi è accompagnato da una
soundtrack incredibilmente calzante, che spazia da Johnny Cash
ai Velvet Underground, passando per i motivi musicali che
hanno reso famosa la Louisiana, tutto perfettamente fuso coi
degradanti cartelloni elettorali e le scrostate immagini che
scorrono morbide…
Un film dai contorni sfumati sui toni del rosso del sangue e
del “noir” della morte, spalmato per 97 minuti sulla
pellicola, i cui dialoghi non sono mai superflui e le battute,
puntualissime, non stridono mai. Un film che non sente odore
di premi, ma di inequivocabile respiro pulp.
Vedi Cogan e poi muori, delicatamente.
S. Terribile