I prodotti italiani di alta qualità sono il nuovo biglietto da visita del

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I prodotti italiani di alta qualità sono il nuovo biglietto da visita del
Economia | La società del cibo
I prodotti italiani di alta qualità sono
Non è una novità: gli stranieri invidiano
la nostra cucina. E ormai ha preso piede
la ricerca dei prodotti made in Italy. Maggiormente
richiesti quanto più esclusivi e particolari.
Non è un caso quindi che i principali protagonisti
del fashion investano nel settore di Ugo Bertone
Italian
’ultima frontiera del lusso ha il colore delicato del culatello, il sapore
del parmigiano-reggiano e l’intensità un po’ peccaminosa del cioccolato fondente. A tavola, a tavola. Altro che modelle anoressiche: la linea più vera passa dall’alimentazione sana e genuina, la magia
che consente di trasformare il lusso qualsiasi nel luxury food, lo stadio finale in cui
l’eleganza si combina con il benessere. E
con il portafoglio, «perché è senz’altro più
sostenibile l’acquisto di un etto di prosciutto a 30 euro che non di una borsa di Vuit-
L
24 OUTLOOK - MARZO/APRILE 2015
ton a 6-700 euro», commenta sul «Financial Times» Francesco Moccagatta, managing director di N+1 Syz, boutique finanziaria che ha fatto da advisor ai turchi di
Toksoz nell’acquisizione dei cioccolatini
Pernigotti.
È stato proprio il «Financial Times» a
lanciare l’abbinata cibo-moda, sulla base
di numerosi indizi che, come si sa, fanno
senza dubbio una prova. Primo, la piccola
guerra che Bernard Arnault, patron di
Lvmh, e Patrizio Bertelli di Prada hanno
combattuto attorno alla sorti della pastic-
il nuovo biglietto da visita del lusso
food style
ceria che Antonio Cova fondò a lato della
Scala nel 1817, raduno dei patrioti durante le Cinque Giornate e diventata, dopo il
trasferimento in via Montenapoleone,
uno dei simboli del Quadrilatero della
moda. Sconfitto dal rivale francese, Bertelli, dal carattere che non s’arrende né in
mare (vedi Luna Rossa) né al bar, ha fatto
rotta su un altro caffè storico: la pasticceria Marchesi di via Meravigli, proprio
sotto l’appartamento che nella Milano
austriaca ospitava Giuditta Meregalli, la
lavandaia che diede quattro figli al mare-
sciallo Joseph Radetzky, che abitava a
due passi, in palazzo Arconati in via
Brisa.
Ma perché i big della moda dovrebbero
sfidarsi nella «guerra del cappuccino»? A
prima vista, sembrava una disputa tra
prime donne ambiziose e capricciose. Al
contrario, dietro l’apparente bizzarria
c’era una logica. Bertelli e Miuccia Prada,
infatti, hanno messo in cantiere un piano
per esportare la linea della «pasticceria
Marchesi» ad Hong Kong, Dubai e Tokyo,
alcune delle roccaforti della griffe quotata
Da sinistra:
Bernard Arnault, patron di Lvmh,
Brunello Cuccinelli, dell’omonima
casa di moda,
Ferruccio Ferragamo, presidente
dell’azienda di famiglia,
Gianni Tamburi, banchiere e ad di Tip,
Patrizio Bertelli, patron di Prada,
Renzo Rosso, fondatore di Diesel.
Investire nel settore alimentare rende bene
perché benessere ed eleganza sono due
aspetti che piacciono al consumatore
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L’ECONOMIA A TAVOLA
La spesa italiana pro capite annua per il cibo
è di circa 2.400 euro, tra le più alte al mondo.
Anche se la riduzione dei consumi
è senza precedenti:
nel 2014 si è tornati agli stessi livelli
degli anni Sessanta.
Il paniere dell’Istat contiene 178 prodotti
alimentari, che nel 1939,
alla vigilia della guerra, erano solo 19
e nel 1974 non andavano oltre i 74
•
Il settore food vale 250 miliardi di fatturato
(130 generati dalla sola industria)
Nel 2013 l’export ha toccato quota
27,4 miliardi, il 27% in più
del precedente primato che risaliva al 2007,
prima della caduta dei consumi
causati dal post Lehman Brothers
•
I punti di forza del made in Italy
non sono in grado di ovviare ai limiti
della struttura industriale italiana.
I protagonisti del settore nella maggioranza
dei casi sono piccoli.
Le imprese con più di 250 addetti
producono solo il 31% del fatturato
contro il 21% realizzato da aziende
con meno di nove addetti.
In Francia e in Germania i grandi gruppi
generano la metà della ricchezza totale
Da sinistra: la pasticceria Cova di Milano;
Antonio Belloni, esperto di comunicazione;
Sandro Veronesi, patron di Calzedonia
alla Borsa di Hong Kong, l’ex colonia dove fino dal
1994 opera una dependance di Cova. Certo, il giro
d’affari è ben poca cosa rispetto ai fatturati miliardari di borse e fashion delle griffe. Ma lo sbarco in pasticceria è una mossa coerente, ammonisce Bertelli:
«È un passo coerente», spiega l’amministratore delegato del gruppo, «con la nostra visione del lusso e del
benessere». Una visione, tra l’altro, in grande evoluzione, come emerge dalla trimestrale dello scorso settembre di Prada group in cui Bertelli, rilevando la
frenata degli acquisti in Asia (Cina in testa) e i vincoli da austerità in Europa, sollecitava la necessità «di
ripensare il lusso». Insomma, ci vuole un salto di qualità, una sorta di passaggio dal consumismo alla qualità della vita, in cui assume un ruolo rilevante, ancora di più dell’impegno di mecenate dell’arte moderna,
il biglietto da visita rappresentato dal cibo. Di fatto,
dalla società del luxury al luxury food.
Non a caso è sempre più forte l’interesse per l’italian food da parte degli imprenditori nostrani.
Mentre Renzo Rosso, il creatore di Diesel, ha appena
dato il via all’investimento in BioNatura, catena di
cibo naturale, Brunello Cucinelli in quel di Solomeo
non si limita a produrre cachemire ma anche olio
d’oliva. E che dire del vino? Ferruccio Ferragamo, attorno a un antico borgo ristrutturato di San Giustino
Valdarno, nell’aretino, ha sviluppato con il marchio
«il Borro» un relais & chateaux e una cantina vinicola di livello; Massimo Ferragamo ha creato nella Val
d’Orcia «Castiglion del Bosco»; Gaetano Marzotto
partecipa al capitale di «Ca’del Bosco», tra le maggiori case vinicole della Franciacorta, nel bresciano;
Sandro Veronesi, di Calzedonia, ha avviato una catena di negozi specializzati nel vino. E così via. Intanto,
rileva il «Financial Times», la più importante operazione del 2014 di un private equity in Italia riguarda
lo sbarco di Charterhouse Capital Partners nella
Nuova Castelli. 300 milioni di euro per l’80 per cento
del maggiore esportatore di parmigiano-reggiano
creato da Dante Bigi, nelle cui mani è rimasto il 20
per cento dell’azienda e tante ambizioni: l’obiettivo è
di salire da 120.000 a 400.000 forme di parmigiano
all’anno.
Certo, l’Italia non può contare su un player del
peso del Crédit Agricole, colosso finanziario al servizio soprattutto del settore agroalimentare, l’alleato
fondamentale per lo sbarco di Lactalis in Parmalat.
Nella società
del cibo, spiega
Antonio Belloni
autore
di un saggio
dedicato
ai consumi
alimentari,
il food
«è nutrizione,
antropologia,
comunicazione,
marketing,
pubblicità,
semiologia,
diritto, fisica,
ecologia».
Un insieme
dove conta
il packaging,
l’innovazione,
l’informazione
e non solo
la moda
e l’effetto
dei viaggi
Ma qualcosa si muove, come dimostra l’ingresso del
Fondo strategico italiano in Cremonini. Il simbolo
più clamoroso della grande trasformazione, però, è
Eataly di Oscar Farinetti, venti (per ora) empori del
made in Italy pronti a sbarcare (dopo il trampolino
dell’Expo) in Piazza Affari sotto la regia di Gianni
Tamburi, il finanziere di Tip, il salotto buono del
quarto capitalismo. In attesa di realizzare Fico, la
Fabbrica italiana contadina da lanciare in quel di
Bologna, «un luogo», dice Farinetti, «dove centinaia
di piccole e medie imprese italiane potranno mostrare in diretta la loro arte manifatturiera». Molti segnali di questo risveglio ricordano il passaggio negli
anni Ottanta dall’industria dell’abbigliamento tradizionale a quella del fashion. «Il fenomeno presenta
numerose analogie», è il parere di Luigi Consiglio,
advisor di molte aziende del settore food. «Anche qui,
come nella moda, abbiamo a che fare con imprese a
struttura familiare che hanno i prodotti adatti per
imporsi sui mercati internazionali». Anche le difficoltà da superare, aggiunge Diego Selva, di Bank of
America Merrill Lynch, sono simili: «il sistema sconta l’assenza di canali di distribuzione verso l’estero».
Ma il terreno di coltura è fertile.
Ogni giorno nel Belpaese nasce un blog dedicato al
cibo. All’inizio del 2015 se ne contano più di 25.000,
spesso a ruota di trasmissioni tv che a ogni ora del
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giorno e della notte affrontano il tema dell’alimentazione, spesso associata al turismo o alla gastronomia,
passione che accomuna una vasta maggioranza degli
italiani. Alla faccia della crisi. Ancora oggi, nonostante la stretta dei consumi, la spesa pro capite annua è
di circa 2.400 euro, tra le più alte al mondo. E l’Istat
si trova di fronte ogni anno nuove specialità, prima
sconosciute nella borsa della spesa delle nonne, classiche massaie (chi le chiama ancora così?) o della mamma, la prima a fare la spesa al supermarket. Oggi,
infatti, il paniere dell’Istituto di statistica contiene
178 prodotti alimentari. Nel 1939, alla vigilia del conflitto mondiale, erano solo 19, sufficienti a dare l’idea
della tavola degli italiani, e nel 1974 non andavano
oltre i 74. Meno della metà di quelli di oggi, che sono
al centro di un’offerta che si è evoluta non meno del
palato dei consumatori. Oggi si fa la spesa un po’ ovunque, dando pari dignità all’ipermercato e al discount, alla grande distribuzione organizzata e alle
nuove catene legate al biologico, al chilometro zero
piuttosto che alle sagre o ai mercatini. Il tutto all’insegna di quello che Giuseppe De Rita ha definito il
«politeismo alimentare» in cui la ricerca della vera
mozzarella coabita con il sushi o il couscous.
Eccoci, quindi, nella società del cibo, dove si pensa
anche a mangiare. Ma dove il food, sottolinea Antonio Belloni (cui si deve «Food Economy», un saggio
illuminante dell’anno scorso edito da Marsilio e dedicato ai consumi alimentari), «è nutrizione, antropologia, comunicazione, marketing, pubblicità, semiologia, diritto, fisica, ecologia». Una filiera di servizi del-
Oscar Farinetti
e i suoi empori
del made
in Italy
sono pronti
a sbarcare
a Piazza Affari.
E intanto
a Bologna
nasce Fico,
la Fabbrica
italiana
contadina:
«un luogo»,
dice Farinetti,
«dove centinaia
di piccole
e medie imprese
italiane
mostreranno
dal vivo
la loro arte
manifatturiera»
In alto, da sinistra:
un rendering di Fico,
Oscar Farinetti
l’economia virtuale al servizio di una miniera trasmessaci dalla genialità della tradizione regionale e
più ancora dalle biodiversità del nostro territorio che
ci hanno regalato un tesoro unico al mondo: 266 prodotti che possono fregiarsi del marchio Doc o di quello Dop, ben davanti alla Francia che ne ha 216 o alla
Germania che ne ha solo una settantina, ma che in
compenso li sfrutta a dovere (i prodotti tipici made in
Germany hanno fatturato 3,3 miliardi di euro nel
2010, più di quelli francesi o italiani) e intende difenderli senza alcuna concessione. Come dimostra la
levata di scudi della Bve, la lobby dell’industria alimentare tedesca insorta contro le dichiarazioni di
Christian Schmidt, ministro dell’agricoltura di Berlino, che a proposito del negoziato transatlantico sul
libero scambio ha detto: «Se vogliamo raggiungere un
accordo, non possiamo pretendere di difendere ogni
tipo di formaggio o di salsiccia». «Non accetteremo
mai», ha risposto la portavoce del Bve, «che in Kentucky possano produrre il bratwurst di Norimberga.
O che in Baden-Württemberg venga distillato un whisky». Peccato che in materia di parmigiano-reggiano
o di altre specialità inimitabili, l’amore per l’autenticità del cibo lasci parecchio a desiderare.
Ma non recriminiamo. Tocca a noi italiani completare quel salto di qualità che è già nell’aria, come dimostrano i risultati raggiunti in questi anni, sotto i
cieli della crisi. Sui 250 miliardi di fatturato (130
miliardi generati dalla sola industria) del settore,
tanto per cominciare, cresce la quota dell’export. Nel
2013, secondo il rapporto del Censis, le vendite oltre-
MARZO/APRILE 2015 - OUTLOOK 29
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domanda e offerta di lavoro.
Economia | La società del cibo
frontiera hanno raggiunto quota 27,4 miliardi, il 27
per cento in più del precedente primato che risaliva al
2007, prima della caduta dei consumi causati dal post
Lehman Brothers. È uno sviluppo gradito e necessario
per compensare le difficoltà del mercato interno, su cui
pesa una riduzione dei consumi senza precedenti: nel
2014 la spesa pro capite è tornata, in termini attualizzati, agli stessi livelli degli anni Sessanta. Di qui la
necessità di puntare sull’estero, dove l’espansione
delle vendite si accompagna al reclutamento di consumatori di nuovo tipo, sia nei Paesi tradizionali sia,
soprattutto, in quelli delle economie emergenti, ansiosi di conoscere e di consumare in maniera informata. È
la food economy, in cui conta il packaging, l’innovazione tecnologica, l’informazione medica e ambientale
oltre che la moda e l’effetto dei viaggi. Un campo di
gioco in continua evoluzione, che regala cambiamenti
impensabili. Prendiamo la Svezia, dove la pasta era in
pratica assente nella dieta locale. Oggi, al contrario, il
Paese scandinavo è il quarto al mondo per consumo
pro capite.
È quasi inutile dire che i punti di forza del made in
Italy, dalla qualità dei prodotti all’appeal delle ricette
di casa nostra, dagli standard di sicurezza elevati alla
capacità di creare prodotti nuovi (specie di alta
gamma) devono fare i conti con le tradizionali debolezze della struttura industriale italiana. I protagonisti
del settore, con poche eccezioni, sono piccoli. Le imprese con più di 250 addetti producono solo il 31 per cento
Ogni giorno
in Italia
nasce un blog
dedicato al cibo.
Se ne contano
più di 25.000,
spesso a ruota
di trasmissioni
tv che a ogni
ora del giorno
e della notte
parlano
di alimentazione,
spesso
associandola
al turismo
o alla
gastronomia
In alto, da sinistra:
“trionfo” di prosciutti.
Undici crudi italiani
hanno ottenuto
la tutela Dop o Igp;
le colline
di Franciacorta
nel bresciano
del fatturato contro il 21 per cento che dipende da
aziende con meno di nove addetti, mentre in Francia e
in Germania i grandi gruppi generano la metà della
ricchezza totale. La dimensione ridotta non favorisce
la capacità di espansione all’estero, rende complessa
la possibilità di raccolta dei capitali necessari per gli
investimenti o, non meno importante, per fare lobby
nei confronti delle normative, sia quelle che ostacolano il made in Italy sia quelle, ancora più pericolose,
che non lo difendono dalle imitazioni. Anche nel food le
piccole dimensioni favoriscono il proliferare della pletora di interventi di Regioni, Comuni e altri enti più o
meno utili che spesso fanno a gara nell’intralciare più
che promuovere l’immagine sui mercati. Vero, ma non
era diverso il punto di partenza del fashion alla fine
degli anni Settanta. Le radici della food economy ormai sono ben salde. Anche se, come chiude il saggio di
Antonio Belloni, per sfruttare appieno le sue possibilità ci vorrebbe una mano politica salda. Anzi un redivivo Camillo Benso conte di Cavour che fece le prove
della sua straordinaria abilità di statista come amministratore della tenuta di Leri, da lui convertita in
moderna fabbrica agroalimentare. «Ci vorrebbe uno
come lui», commenta Belloni, «per orientare le scelte di
un settore ricco di opportunità verso le produzioni ad
alto valore aggiunto, generato da un mix di qualità,
tradizioni e capacità di racconto». Uno come Cavour
avrebbe capito che la carta vincente passa da un mix di
prosciutti, mozzarelle e passerelle di moda.
•
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