Vivere il calcio tra colore, passione e spettacolo televisivo

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Vivere il calcio tra colore, passione e spettacolo televisivo
VIVERE IL CALCIO TRA COLORE, PASSIONE E SPETTACOLO TELEVISIVO: ASPETTI SOCIOLOGICI
Napoli, 28.10.2014
Linee guida della relazione
Luca Bifulco
Dipartimento di Scienze Sociali
Università degli Studi di Napoli Federico II
Il rapporto 2014 dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive ci aiuta, nel suo insieme e a
prescindere dalle valutazioni sui singoli aspetti analizzati, a considerare con maggiore lucidità e capacità di
comprensione una serie di potenti idee calcificate e stereotipate sul tema della sicurezza negli stadi.
In primo luogo, il rapporto ci narra tra le righe che lo stadio non è un luogo demoniaco, come troppo
spesso viene dipinto, ma uno spazio in cui generalmente – salvo infrequenti ma, purtroppo, drammatiche e
spesso altisonanti occasioni – si vivono momenti e rituali legati allo sport, alla passione e alla festa. Il calcio
è un fattore identitario molto forte che segna l’appartenenza, il sentirsi legati ad una comunità di destino
contraddistinta dai risultati e dalla storia sportiva condivisa. E siccome le appartenenze incidono
sull’autostima, sulle gratificazioni personali, sulla qualità delle relazioni sociali, esse rappresentano in
definitiva parte di una ricerca di benessere.
Altro aspetto da considerare: la passione e l’identificazione dei tifosi sono fenomeni eterogenei. Esistono
diverse tipologie di tifosi e diversi livelli di identificazione a cui corrispondono comportamenti e
atteggiamenti differenti. Ogni aspetto può differire: dal modo in cui si vede di solito la partita (tv, stadio, da
soli, in compagnia, ecc.) fino al modo di viverla, con maggiore o minore attaccamento, tensione, furore
agonistico, ecc. Analogamente, la violenza organizzata è solo una delle tipologie di comportamenti devianti
che possono avere luogo nel mondo del calcio, e presumibilmente nemmeno la più frequente. Nel novero di
simili comportamenti possono infatti essere contemplate azioni in genere spontanee – come il lancio di un
oggetto in campo, una colluttazione improvvisa o un’invasione – a volte legate a singoli individui, altre
volte contagiose, magari connesse agli eventi della partita. Ecco, per tutta quest’ampia gamma
comportamentale non esiste una spiegazione unitaria, ma matrici causali differenti, da analizzare con la
dovuta specificazione. Così come le spiegazioni universali non possono non contemplare le variazioni locali,
economiche, culturali, politiche. La natura e le caratteristiche della devianza e dalla violenza legata al calcio
sono infatti sempre influenzate dalle peculiarità sociali, storiche, del territorio e dei contesti in questione.
Eppure, non aveva torto Norbert Elias – uno dei più riconosciuti sociologi contemporanei:1 in definitiva,
lo stadio, come tutto ciò che è legato allo sport moderno, rimane un luogo che accompagna e capace
potenzialmente di fortificare il processo di civilizzazione della società moderna. In estrema sintesi, la nostra
società è civilizzata nella misura in cui è un mondo sostanzialmente pacificato (con livelli di insicurezza
meno alti di quelli che percepiamo), dove è forte la ripugnanza nei confronti della violenza, specie rispetto al
passato, e che prescrive il controllo e la moderazione di comportamenti e pulsioni in molti contesti
quotidiani, lavorativi, pubblici, ecc. Lo stadio rimane un luogo di relativa e benvenuta liberazione delle
emozioni e del loro sfogo – comunque sempre bilanciato ed entro certi limiti, tranne in casi estremi – e
(…dovrebbe rimanere) quel luogo di espressione catartica delle identità, finanche di partecipazione al
discorso pubblico (non a caso nel Novecento è stato spesso un importante sito di contropotere nei paesi a
basso livello di democraticità, accompagnandone i processi di democratizzazione).
In effetti, a ben guardare, sulla violenza in generale le nostre opinioni sono infarcite di luoghi comuni – il
più delle volte frutto di rappresentazioni mediatiche e poco attenti ad un’effettiva osservazione del reale –
oggi smentiti in buona parte dalla ricerca sociologica in ambito micro (parliamo delle aggressioni fisiche
vere e proprie, non di una astratta predisposizione alla violenza).2 Giusto a titolo esemplificativo, pensiamo
erroneamente che la violenza sia frequente e che scatti molto facilmente, che magari basti avere una buona
motivazione (tipo l’odio), che la violenza sia duratura (mentre l’aggressione fisica, quando ha luogo sul serio
e non ci si limita a minacce, aggressività mimetica o al massimo qualche spintone, dura poco e spesso –
1
Cfr. Norbert Elias, Eric Dunning, Sport e aggressività. La ricerca di eccitamento nel «loisir», il Mulino, Bologna,
1989; Norbert Elias, Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna, 1988.
2 Cfr Randall Collins, Violence. A Micro-sociological Theory, Princeton University Press, Princeton, 2008.
purtroppo non sempre – con un’efficacia molto relativa), che quelle lotte tutti contro tutti siano la regola
(mentre le persone effettivamente impegnate sono poche – anche nei conflitti collettivi – e la stragrande
maggioranza dei partecipanti rappresenta un pubblico inoperoso, sebbene funga da incentivo). Perfino
l’appartenenza a categorie di persone specifiche – anche quelle con uno stile e una cultura di gruppo che
magari considera il temperamento aggressivo come fattore di orgoglio – non ci dà un’indicazione predittiva
assoluta e rimane una valutazione semplicistica del rapporto causa-effetto. Se è vero che ci possono essere
elementi subculturali che considerano un’indole combattente, dura e virile come indicatore di prestigio,
anche locale, di definizione delle gerarchie di gruppo e di supremazia contro gli altri gruppi, l’innesco della
violenza e la sua escalation non possono che essere profondamente legati anche a fattori situazionali e
interattivi. E alla situazione partecipano sempre tutti gli attori sociali coinvolti, la cui interazione, ovvero
l’insieme di azioni e reazioni, è sempre un coefficiente da comprendere e analizzare approfonditamente.
Per questo ben venga (e già si sta lavorando molto su questo aspetto) tutto ciò che funge da elemento di
demilitarizzazione del contesto calcistico, che non ingabbia i tifosi ed evita una condizione a loro disagevole,
che incentiva una presenza decisa ma discreta delle forze dell’ordine e una maggiore visibilità degli steward,
ecc. Ora, se gli steward, per fisionomia e appartenenza, possono di sicuro essere un disincentivo
all’aggressività, va anche detto che in alcuni contesti specifici può capitare, però, che rappresentino un argine
non sempre efficace nei confronti di fenomeni – anche sostanzialmente micro – di prepotenza locale. Per
questo, sarebbe presumibilmente utile potenziare ulteriormente (nel loro reclutamento) un legame con chi
lavora nei territori, li conosce, si sporca le mani, interagisce con i contesti in cui nasce la base del tifo e può
interfacciarsi tutta la settimana con simili realtà (si pensi ad un certo associazionismo più o meno di
frontiera). È insomma fondamentale lavorare congiuntamente sui due livelli, culturale e situazionale, che
hanno la medesima rilevanza.
Ulteriore discorso da non sottovalutare in merito alle questioni legate alla sicurezza negli stadi è
l’incidenza dei media.3 Essi partecipano alla costruzione della rappresentazione pubblica e della percezione
collettiva del fenomeno, e non sono semplicemente agenti neutri di informazione e descrizione. Anzi, il
sensazionalismo, la spettacolarizzazione e i toni esagitati, enfatici, le opinioni snocciolate basate su semplici
impressioni e non su ragionamenti che valutano dati ed evidenze empiriche e rigorose, finiscono per
alimentare i contenuti delle convinzioni della maggioranza della gente – che non ha a che fare direttamente
col fenomeno. Le controindicazioni sono diverse. Oltre ad un’esasperazione possibile e deleteria dei toni, per
esempio, conseguenza negativa è l’incremento del “panico morale”, di una preoccupazione eccessiva e
stereotipata che può finire per creare paradossalmente le condizioni più utili all’emergere del fenomeno della
violenza (configurazione dello stadio come campo da battaglia, etichettamento e cristallizzazione del ruolo
del deviante interiorizzata anche dallo stesso, ecc.) e addirittura a criminalizzare comportamenti che al di
fuori dello stadio e in altri contesti verrebbero trattati con decisa indulgenza (ad es. l’accensione di un
bengala). Non dimentichiamo che se lo stadio si struttura nell’immaginario condiviso come teatro di scontro,
per una certa subcultura la cosa potrebbe essere addirittura stimolante. D’altronde, per alcune frange di tifosi
una raffigurazione negativa, pugnace, può essere addirittura più piacevole dell’anonimato sociale. In fondo,
il calcio è un rituale, e un rituale ha ruoli centrali e ruoli periferici che forniscono gratificazioni
corrispondenti e proporzionate allo status. Il pubblico ha in genere uno status periferico (rispetto ai calciatori
ad esempio), e questa forma di protagonismo in negativo per alcuni potrebbe essere ben vista.
Per i comportamenti violenti legati al calcio – lo ripetiamo: non frequenti, ma purtroppo nemmeno assenti
– non si può prefigurare una soluzione unica e definitiva. È chiaro, però, che le misure punitive – seppur utili
in diversi casi – da sole non bastano. A queste, infatti, è necessario abbinare interventi proattivi e preventivi,
anche di matrice culturale più ampia. Si tratta di interventi che possono avere effetti sul lungo periodo. Un
lavoro dunque più complesso, perché i risultati non sono immediatamente visibili, non permettendo così un
consenso facile e immediato, specie da parte dell’opinione pubblica. Anzi, il rischio nel breve periodo è
duplice: produrre reazioni a breve o comportamenti dissonanti di gruppi ostili che potrebbero far gridare
all’inutilità di certe misure; alimentare, di conseguenza, il dissenso rumoroso di chi si ferma a richieste
morali di punizione.
Ma questa prospettiva di lungo periodo ha senso specie nella misura in cui si intende non fermarsi al
microcosmo dell’ambiente stadio, cercando invece di avere una qualche incidenza sul territorio e sulla
società nel suo complesso. Proprio sfruttando le potenzialità del calcio. Una prospettiva del genere, solo
apparentemente utopica, dovrebbe essere così protesa ad ampliare la dimensione della festa – peraltro già
decisamente presente – in modo da incoraggiare, magari con iniziative collaterali, un’atmosfera lieta e
3
Cfr. Steve Frosdick, Peter Marsh, Football Hooliganism, Willan Publishing, Cullompton, 2005, pp. 113-124.
comportamenti più apprezzabili (fornendo ai tifosi comfort, facilitazioni, attività a latere, ecc.). Uno sforzo
ingente, certo, e difficile da realizzare nel breve, ma che potrebbe avere nel tempo un ritorno sia economico
sia di riappropriazione del territorio da parte della cittadinanza con la sua voglia d’espressione identitaria.
Proprio per rimanere su questa lunghezza d’onda, varrebbe così la pena di rispolverare alcune indicazioni
fornite dal rapporto del 2002 di Manuel Comeron, “The prevention of violence in sport”, commissionato dal
Consiglio d’Europa, evidenziandone – a dire il vero – la portata complessiva più che formalizzarsi sulle
specifiche linee d’intervento.4 Ad esempio, nella forse infelice espressione del “fan coaching” può risiedere
un’idea di per sé molto flessibile e diversificabile a seconda dei contesti. Declinata nella nostra situazione si
può tradurre in: incentivare i club ufficiali di supporter, creare canali di supporto continui tra organizzatori
degli eventi calcistici e i fan, ma anche lavorare quotidianamente nei territori delle tifoserie con attività
educative, di recupero, ricreative, creando un legame tra club, autorità locali, associazioni di volontari,
cittadinanza e tifosi attraverso un continuo intervento di promozione socio-culturale (ovviamente ci vogliono
fondi, energie, tempo, coraggio…). Significa, in ultima istanza, responsabilizzare tutti gli attori coinvolti,
dalla politica alla tifoseria fino agli stessi club. Questi ultimi potrebbero avere un ruolo più forte, incidendo
sulla comunità, sul suo sviluppo sociale e culturale, cosa che alla lunga potrebbe comportare anche un ritorno
economico. Nell’auspicio, per ora solo avveniristico, delle “fan embassies” (nome, è vero, alquanto goffo) si
nasconde invece l’idea di lavorare sull’accoglienza dei tifosi, specie quelli in trasferta, perché il clima sia
sempre di accettazione, confortevole, festoso. Anche per rispondere alle varie esigenze che un turista e
visitatore potrebbe avere, con un indiscutibile potenziale vantaggio economico complessivo.
Interventi che, allo stato attuale, possono sembrare distanti nello spazio e nel tempo, ma che porterebbero
sempre più a disconoscere – soprattutto nella percezione collettiva – il calcio e lo stadio come i luoghi dove
il protagonismo è di chi pone in essere comportamenti aggressivi.
4
Manuel Comeron, The prevention of violence in sport, Council of Europe Publishing, Strasburgo, 2002.