don Ulisse Caglioni Algeria

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don Ulisse Caglioni Algeria
Un impegno di oltre trent’anni: una presenza che diventa annuncio
LA MISSIONE DEL SILENZIO
CON ALCUNI CONFRATELLI DEL MOVIMENTO DEI FOCOLARINI DON ULISSE CAGLIONI, ORIGINARIO DI
PEDRENGO, È TESTIMONE DEL VANGELO IN UN PAESE MUSULMANO IN CUI LE VIOLENZE DI UNA GUERRIGLIA
SPIETATA RENDONO SEMPRE PIÙ PREZIOSA E NECESSARIA LA PRESENZA DELLA CHIESA.
E’ ripartito da pochi giorni, portando con sé il sogno e la speranza che in Algeria sia ancora
possibile costruire un mondo di pace in cui, sugli odi insensati e sulla violenza, abbiano la
meglio la ragione e il rispetto per ogni uomo.
“Dov’è l’Algeria?”, gli venne quasi spontaneo chiedersi quando i superiori del Movimento
ecclesiale a cui appartiene gli indicarono proprio quel Paese perché vi iniziasse una missione
del tutto nuova.
Sono passati più di trentaquattro anni da allora. Don Ulisse Caglioni sa bene ormai dov’è
l’Algeria, come ci si vive e come ci si muore, purtroppo. L’Algeria sta vivendo infatti tempi
davvero difficili. Anni di violenza e di morte che anche la Chiesa locale ha condiviso e
condivide con la popolazione, pagando un prezzo altissimo.
Ci sono singolari coincidenze tra le date importanti della storia personale di don Ulisse e le
date fondamentali delle vicende storico-politiche dell’Algeria: il suo ingresso nel Movimento
dei Focolarini, nel 1963, l’ anno successivo alla proclamazione dell’indipendenza dell’Algeria
dalla Francia; la partenza come missionario per questo Paese dell’Africa settentrionale nel
’66, appena un anno dopo il primo colpo di stato. E nell’85, poco prima dell’inizio di una crisi
socio-politica che non si è più arrestata, la sua ordinazione sacerdotale.
Era partito come laico e da laico aveva vissuto al servizio della Chiesa algerina per quasi
vent’anni. Ma quando il suo Vescovo gli chiese di diventare prete, offrendo alla Chiesa un
altro tipo di servizio, accettò e divenne don Ulisse.
UNA CHIAMATA IRRESISTIBILE
Aveva già fatto alcune esperienze e accarezzato qualche sogno per il futuro il giovane Ulisse,
prima di seguire quella chiamata irresistibile, avvertita una sera davanti alla chiesa di
Pedrengo, il suo paese. Irresistibile e definitiva: addio al lavoro, addio agli studi non ancora
ultimati, addio al progetto di formare una bella famiglia…
A dire il vero alla famiglia non ha rinunciato: l’ha solo dilatata, le ha dato le dimensioni del
Movimento dei Focolarini in cui scelse di entrare e una residenza un po’ più lontana del
previsto.
“Il mondo era grande e se fossi rimasto a Pedrengo mi sarebbe sembrato di restare
rinchiuso…Ero attratto anche dal sacerdozio, ma prima di tutto sentivo il bisogno di scegliere
Dio, di seguire Gesù. Se fosse stato necessario servirlo in modo diverso, non mi sarei tirato
indietro”. E così è stato.
CI SIAMO FIDATI DI DIO
“Sono partito per l’Algeria nel ’66 con due confratelli per fondare la prima comunità
focolarina in un paese arabo. Ci era stato chiesto di conoscere il mondo islamico ‘dal di
dentro’ e di portarvi l’ideale focolarino dell’unità, che altro non è se non l’impegno ad attuare
il testamento di Gesù: “Che tutti siano uno”.
L’inizio non è stato incoraggiante: chi ci accolse, un benedettino incaricato di fare le
consegne della struttura che stavamo ‘ereditando’, non ci prospettò un futuro roseo. Ma noi
ci siamo fidati di Dio. E, a dire il vero, fino alla metà degli anni 80, le difficoltà non sono state
molte: la più grossa quella di penetrare in quel mondo così diverso, così complesso.
Dal 1986 le cose sono cambiate e la situazione è precipitata. Sono iniziati anni di terrore che,
a partire da una manifestazione popolare nell’89 per la mancanza di pane, sono costati al
popolo algerino oltre 100.000 morti.
IL PREZZO DELLA FEDELTA’
Anche la Chiesa algerina ha pagato il prezzo della denuncia, del coraggio, della fedeltà. Un
prezzo molto alto: tra il ’94 e il ’96 sono state barbaramente stroncate diciotto vite:
sacerdoti, suore, i monaci trappisti di Tiberine, Mons. Claverie, il vescovo di Orano che mi
aveva ordinato e che aveva il torto di dire la verità ad alta voce, di parlare contro
l’intolleranza e la violenza che stava mettendo radici sempre più profonde. Dal ’96 ad oggi,
però, la Chiesa algerina non è stata più colpita. Nella politica dei gruppi armati estremisti c’è
stata una svolta che risparmia, per convenienza, gli stranieri, ma che continua a massacrare
la popolazione, in particolare la più esposta ai loro attacchi feroci e improvvisi, povera gente
isolata sulle montagne, incapace di difendere la propria vita”.
E’ cronaca anche di questi giorni. E non si vedono sbocchi.
“Da qualche anno non è facile vivere in Algeria. E’ un Paese blindato in cui si è costretti a
viaggiare con la scorta. Tempo fa di domenica mi recavo per celebrare la messa nel cantiere
di una grossa ditta italiana che stava costruendo una diga a 50 chilometri da Tlemcen, la
città in cui vivo. I 60 lavoratori del cantiere erano scortati da 150 persone armate! Ma io mi
arrischiavo ad andarci senza scorta. Da una telefonata ricevuta pochi giorni fa dai miei
confratelli ho saputo che anche fuori dal nostro Centro ora staziona la polizia”.
Perché restare?, viene spontaneo chiedersi.
IL DOVERE DI RESTARE
“Sono rimasto in Algeria per tanti anni quando tutto andava bene. Ora che la situazione è
delicata e rischiosa, non me la sento di venir via. E come me tanti altri cristiani, sacerdoti,
religiose, laici, hanno scelto di restare. Non sarebbe in linea con il Vangelo andarsene. Ed è
un dovere della Chiesa continuare a testimoniare l’amore di Dio. Gesù è venuto per tutti,
anche per i non cristiani ed è soprattutto a loro che ci invia come annunciatori di un
messaggio di salvezza.
E’ vero, noi siamo annunciatori silenziosi. In un mondo islamico non ci è permesso
annunciare Cristo e il suo Vangelo. Ma la nostra stessa presenza è già una forma di
annuncio: è fatta di testimonianza e di condivisione, di ascolto e di dialogo. Soprattutto di
rispetto reciproco e questo nel tempo ci ha permesso di costruire rapporti improntati alla
sincerità e alla chiarezza. Non abbiamo mai camuffato la nostra identità di cristiani, né l’
impegno di voler vivere la nostra fede e il Vangelo in mezzo a loro. Senza la pretesa di
‘convertirli’, anche perché ciò comporterebbe di fatto la loro esclusione dalla famiglia e dalla
società.
C’è voluto tempo, tanta pazienza e la dimostrazione di un amore disinteressato per
conquistare la loro fiducia. Ma ora la Chiesa in Algeria è vista come una porta aperta alla
diversità, è apprezzata e benvoluta. E gli algerini sono riconoscenti a noi cristiani che siamo
rimasti al nostro posto, nonostante tutto, a condividere rischi e speranze, a pregare con loro
e per loro, perché finisca questa tragedia senza senso”.
Da MISSIONDUEMILA, inserto mensile del settimanale diocesano “La Nostra Domenica”, aprile 2001