Focolai diffusi
Transcript
Focolai diffusi
Africa subsahariana Attacchi terroristici N Focolai diffusi ’Djamena tra giugno e luglio, Bamako a novembre, Ouagadougou a gennaio: la seconda metà del 2015 ha confermato, nel più sanguinoso dei modi possibili, che l’Africa resta uno dei fronti principali di attività dei gruppi islamisti radicali. L’estate di violenze vissuta dal Ciad ha visto oltre 60 persone perdere la vita in attacchi suicidi nella capitale, segno dell’escalation di violenza imposta dagli estremisti nigeriani di Boko Haram, capaci per la prima volta di colpire il paese. Nel tardo autunno, sono stati con ogni probabilità i Mourabitoun, gruppo guidato dall’inafferrabile Mokhtar Belmokhtar e legato ad Al Qaeda nel Maghreb islamico a mietere 20 vittime nell’assalto all’hotel Radisson Blu di Bamako. Rivendicazioni sono però arrivate anche da altri gruppi attivi in Mali, come il finora meno noto Front de libération du Macina. E ancora Belmokhtar e i qaedisti hanno rivendicato l’azione del 15 gennaio scorso contro l’hotel Splendid e il caffè Cappuccino di Ouagadougou, in Burkina Faso, dove i morti sono stati 30. Il radicarsi del fondamentalismo in Africa e la crescita delle sue capacità militari, però, non sono una novità: lo stesso Boko Haram si è dimostrato capace ormai da anni di andare oltre la sua area d’origine, lo stato nigeriano di Borno (dove ancora a fine gennaio almeno 85 persone sono rimaste vittime di attacchi nei pressi del capoluogo Maiduguri). Anche la regione dell’Estremo Nord camerunese e quella di Diffa in Niger sono state frequentemente bersaglio del gruppo, che nel solo 2014 era stato in grado di fare più vittime di ogni altro: 6.644, secondo uno studio dell’australiano Institute for economics and peace. All’altro estremo del continente, in Somalia, invece, Al-Shabaab continua a bersagliare la stessa capitale Mogadiscio; tra le azioni più eclatanti, quella dello scorso 22 gennaio, quando kamikaze e uomini armati di kalashnikov hanno preso di mira un ristorante sulla spiaggia della capitale: 19 i morti. «Quello dei gruppi estremisti armati in Africa – chiarisce Marco Massoni, analista geopolitico esperto del continente – è un fenomeno complesso, che dura da anni, anche se fino a poco tempo fa non è stato prioritario 48 Il Regno - at t ua l i t à 2/2016 per le cancellerie europee e occidentali, perché sembrava riguardare aree slegate dall’Europa e appariva possibile circoscriverlo alle zone d’origine». A moltiplicarsi sono inoltre i soggetti coinvolti, considerato che si fa sempre più importante la presenza di combattenti che si richiamano al cosiddetto Stato islamico, accanto e in contrapposizione ai gruppi qaedisti. Ma negli stessi contesti agiscono anche forze con un radicamento più locale «ad esempio il Front de libération du Macina, che cerca di sfruttare le frustrazioni presenti nella regione», continua Massoni. Reti internazionali, irredentismi locali In una certa misura, questo è vero anche per Ouagadougou, dove l’attacco, argomenta l’esperto «è un colpo portato contro una democrazia giovane, oltre che agli sforzi europei di ricostruzione e stabilizzazione delle strutture statali nell’area: il tentativo è anche di fare leva su irredentismi come quello di alcune popolazioni fulbé, sia pure con scarse possibilità di successo». A confermare che l’attacco degli uomini di Belmokhtar nella capitale del Burkina Faso non ha fortunatamente avuto gli effetti sperati è anche la testimonianza di Marco Alban, responsabile locale della ONG italiana Lvia. «Anche se i controlli in città, ai confini e lungo le strade sono aumentati, la vita quotidiana di Ouagadougou non è cambiata – dice –. È diminuita la presenza di stranieri, ma d’altra parte è stato tolto il coprifuoco notturno, anche come segnale di distensione». Episodi come questi, ribadisce ancora il cooperante «non spaventano la popolazione, anche perché gli obiettivi erano chiari: importante è che non si ripetano, come invece è successo a Bamako». La differenza con la capitale del Mali (già colpita prima dell’attacco al Radisson, a marzo scorso, quando il bersaglio fu il bar La Terrasse) è netta, prosegue Alban, che conosce bene la città. «Lì, la gente ha paura a uscire, a frequentare locali pubblici – testimonia –. Il clima è comprensibilmente molto più teso; a Ouagadougou invece c’è stata una reazione fin dal giorno successivo, ma questo, in Burkina Faso, ormai non stupisce più». Proprio la popolazione della capitale, infatti, è stata protagonista di massicce mobilitazioni almeno due volte nell’ultimo anno e mezzo: prima alla fine di ottobre 2014, costringendo alla fuga l’allora presidente Blaise Compaoré, padrone del paese per 27 anni (Regno-att. 8,2014,268; 20,2014,697); poi, a settembre scorso, contribuendo a far fallire il golpe del generale Gilbert Diendéré, fedelissimo del deposto uomo forte, che contava sul sostegno della guardia presidenziale. Marce e mobilitazioni per la pace hanno segnato anche i giorni immediatamente successivi all’azione di Al-Mourabitoun, in uno spirito di collaborazione tra musulmani (il 61% dei cittadini), seguaci delle religioni tradizionali e cristiani. A invitare alla calma, quando l’attacco era terminato da poche ore era stato, tra gli altri, il presidente della Conferenza episcopale cattolica, mons. Paul Ouedraogo: «L’estremismo si combatte tutti insieme – aveva dichiarato – bisogna impedire che chi vuole seminare discordia prevalga!». I componenti della comunità islamica, aveva aggiunto, «soffrono come tutti i burkinabé e come tutti sono addolorati di quel che è successo: insieme dobbiamo quindi lottare per estirpare questa radice della violenza, orrenda e immotivata, dalla società». Un compito per cui la società civile locale sembra ben attrezzata: «Al suo interno – argomenta ancora Marco Massoni – ha tutti gli strumenti per non fare proprie le influenze esterne: la convivenza tra confessioni e fedi è reale, per quanto qualcuno possa tentare di approfittare delle differenze». A giocare un ruolo decisivo, però, dovrà essere anche la classe politica uscita dalle prime elezioni del dopo Compaoré, che si sono finalmente tenute il 29 novembre, dopo un rinvio per il tentato golpe. Vincitore al primo turno delle presidenziali è stato Roch Marc Christian Kaboré, ex presidente dell’Assemblea nazionale, passato da qualche anno all’opposizione: al momento degli attacchi nella capitale, il suo governo era in carica da pochi giorni. «Ora bisogna sperare che le autorità statali riescano a riorganizzare il paese, anche se ci vorrà certamente del tempo: soprattutto il controllo dei confini va ripensato», nota anche Marco Alban. Proprio in un’area di frontiera, in effetti, erano stati rapiti nelle stesse ore dell’attacco allo Splendid e al bar Cappuccino due anziani cooperanti australiani, il dottor Ken Elliott e sua moglie Jocelyn. Il sequestro è stato rivendicato da un secondo gruppo maliano legato ad Al Qaeda, che ha dunque mostrato quanto il compito che attende i nuovi leader burkinabé sia allo stesso tempo delicato e urgente. Davide Maggiore