"Il dialetto come lingua della poesia e della vita degli umili". Pasolini

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"Il dialetto come lingua della poesia e della vita degli umili". Pasolini
"Il dialetto come lingua della poesia
e della vita degli umili".
Pasolini associava la”scomparsa delle lucciole” alla fine della civiltà
contadina. Muoiono le lucciole perché avanza la società
neocapitalista. La lingua, o meglio, il linguaggio, si trasforma e
diventa mezzo di pura e semplice comunicazione. Diventa tecnico
(con tutti i suoi ismi) che, se unifica, comunque impoverisce
l’espressività. Dal dopoguerra a oggi la televisione ha certo
contribuito alla diffusione dell’italiano (contrastando un
analfabetismo endemico), fornendo un modello di comunicazione
unico ed unificante, mettendo però il bavaglio alla grande varietà
linguistica rappresentata dalla parlata locale, dal dialetto. I dialetti
hanno comunque continuato a vivere spostandosi su una sorta di
livello di comunicazione parallelo, necessariamente privato e
personale, del discorso poetico, divenendo sempre più una vera e
propria riserva di autenticità.
Inizia da queste premesse il viaggio di Salvatore Filocamo alla
riscoperta del suo tempo.
La sua poesia non è solo mezzo per parlare del suo mondo, ma è
corpo, linfa, nerbo, che veste il tessuto e vissuto popolare
vivificandolo ed estraendone gli umori essenziali.
La sua poesia non è mai urlata, non c’è mai astio nelle sue parole,
anche quando si scaglia contro i “signori” prepotenti, contro il
malaffare, contro la prevaricazione.
Non è mielosa, sdolcinata, quando parla di sentimenti veri, di
amicizia, di amore.
Non nostalgia di un tempo passato che si preferisce al presente;
ma dolorosa memoria dice Saverio Strati nella prefazione alla
prima edizione de “Ricchi e poveri
Noi invece pensiamo che non di rimpianto del tempo passato che si
vorrebbe ancora presente si tratti, (… quod perisse vides, perditum
ducas), perché la storia non si ripete mai, si ripropone e sempre con
connotazioni diverse, ma proprio di nostalgia, dolore del ritorno
(nostos – ritorno e algos – dolore), perché ciò che è stato bello ha
diritto di vivere nella nostalgia del ricordo, mai nel rimpianto.
Non c’è rimpianto nella poesia di Filocamo perché il poeta è
consapevole che nel passato può più agire.
Non è certo un depresso che vive abbarbicato nel passato, ma un
uomo che con i suoi versi lo ricorda e lo usa, quasi un flashback, per
raccontarci e regalarci le sue esperienze, i suoi sogni, le sue
sensazioni, in sostanza il suo vissuto
Spesso la nostalgia di Salvatore Filocamo diventa tristezza, saudade
brasiliana, disìo dantesco. Una tristezza che lo riporta indietro nel
tempo, che lo aiuta e ci aiuta a metterci in sintonia con quel che
eravamo in passato, che cuce e fonde fatti, pensieri e forma perché
possano servire a contemplare il passato e ad avere fiducia nel
futuro.
Ed ecco che ci appare il mondo suo più intimo, più profondo, più
emotivo e quindi più emozionante, cucito sulle tradizioni e sulla
cultura natale.
E’ la sua storia.
Di un uomo che ha vissuto sulla propria pelle la miseria, la povertà,
la disoccupazione, l’arroganza del padrone di turno che censurava il
suo desiderio di far acculturare i figli.
Di un uomo che ha avuto nella sua vita un solo grande amore, e che
amore!
Parlando della sua Francesca estasiato, dal più profondo del cuore
grida
Mo chi criscisti ed eu ti canuscia
Non sacciu cchiù dormiri e no mangiari;
mi sazziu, beni meu, guardadu a tia
e cchiù ti guardu cchiù bella mi pari.
Che non ha nulla da invidiare al grido di Catullo per la sua Lesbia
Amata nobis quantum amabitur nulla.
La storia di padre, severo ma presente, con il pallino della cultura,
cosciente che nella vita ogni gradino o gradone si conquista col
sacrificio, con lo studio, con la perseveranza e, soprattutto, con
l’inflessibilità verso se stessi e con la comprensione verso gli altri.
Coniugare il vivere civile col vissuto quotidiano. Ha insegnato ai figli
e ai nipoti che pensiero ed azione dovevano essere, per loro (e vale
per tutti noi), un unicum inscindibile, per poter vivere da cives e non
da sudditi.
Ma ndaju na curuna chi m'adorna,
cu tant'affettu, sti capilli janchi:
di figghji e di niputi na culonna,
e su' cchjù riccu d'i cchjù grossi banchi.
La storia di un uomo che lascia in eredità a tutti un concetto di
dignità che travalica il valore semantico della parola per diventare
monito e incitamento a chi nella vita lotta e alla fine può uscire
vittorioso o sconfitto, ma sempre e comunque vincente.
Dopo averlo conosciuto e letto (ma non ancora studiato a fondo) mi
piace cucirgli addosso una frase di Che Guevara: Ogni uomo vero
deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualunque altro
uomo.
Penso che ne sarebbe felice. Perché lui è vissuto così,
metaforicamente, con le guance gonfie.
Salvatore Filocamo è vissuto a cavallo di un’epoca, il ‘900, in cui la
gente nella prima metà parlava “solo” dialetto e non conosceva
l'italiano, per passare poi, nella seconda metà, a una situazione in
cui i più parlano solo italiano e una minoranza il dialetto.
A questo punto sorge spontaneo l’interrogativo: come lo dobbiamo
considerarlo il dialetto? Come un oggetto ormai inutile e obsoleto,
superato dalla tecnologia più moderna o come un antico
monumento che... è pur sempre bello?
Salvatore Filocamo ci dimostra che è indispensabile recuperare ciò
che fortunatamente ancora resta del nostro dialetto. In tutti i
convegni a cui partecipava, in tutte le occasioni in cui si parlava di
poesia, i suoi interventi erano univoci: spendersi perchè questo
microcosmo dialettale non andasse sciupato o perduto, perché tutti
potessimo beneficiare di questa risorsa in più, che ci permette di
organizzare il pensiero in modo più efficace e con termini più
appropriati. Ci dice, oserei dire ci obbliga, con la sua produzione
letteraria, in un mondo globalizzato ed omogeneizzato, in cui molti
italiani (soprattutto i giovani (erano il suo pallino) parliamo ormai
l’ingliano, a non perdere le nostre radici, la nostra origine (che non è
traducibile in italiano…), la nostra forza creativa che attinge
significato e peso dal nostro passato “vissuto in dialetto”.
Ascoltiamo il messaggio che ci consegna con i suoi versi il poeta;
ascoltiamo la realtà, la memoria, il sentire del corpo, le emozioni, il
pensiero inconscio che il passato ci manda nel nostro dialetto.
Crescerà la consapevolezza di far parte di una società di cui
comunque siamo eredi, l’unica in cui le parole parlino e abbiano
un’anima, che racconta delle radici e dell’appartenenza ad un
territorio che ha fatto la storia del mondo e che dopo tre millenni,
nonostante tutto e tutti, lo illumina e la cui essenza è narrata dai
suoni e dalle parole di uomini e donne che hanno abitato ed abitano
quei luoghi. Non c’è insegnamento che possa rimpiazzare
l’apprendimento e la conservazione di una lingua che comunque
scrittori e poeti come Filocamo faranno sentire sempre come lingua
viva’.
Il mio augurio è che si prosegua sulla strada di recuperare se non
l'uso del dialetto, impresa che andrebbe (forse...) contro la storia,
almeno la conservazione delle sue ultime tracce, ancora molto
cospicue. Non si tratta di conservare per i posteri un materiale
inerte, ma una documentazione, spesso solo orale, depositata di
modi dialettali, del giudizio sulle vicende storico-sociali delle età
trascorse, che la gente umile non era in grado di affidare alle
scritture. Il dialetto è il mezzo più efficace per descrivere le
condizioni di vita delle classi inferiori. È sempre stato così. Speriamo
che continui ad esserlo. O, in alternativa, che non ci siano più le
classi così dette inferiori… Illusione, dolce chimera sei tu …