Menthalia Magazine

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Menthalia Magazine
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Reg. Trib. di Napoli N. 27 del 6/4/2012
numero 3 - Anno I/giugno 2012
in questo numero
© Nunzio Figliolini
Appunti sulla Poesia
Vis à Vis con Cristiano Minellono
Diciamolo con i gomitoli (Speciale Guerrilla Knitting)
Andy Warhol. Alla corte dell’imperatore
Dialetto che passione
La fine del mondo: tenetevi liberi per il giorno...
Un “Ulisse” tutto da ridere
Green è trend
Curiosità
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numero 3 - giugno 2012
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Registrazione al Tribunale di Napoli
N. 27 del 6/4/2012
Direttore Responsabile: Fabrizio Ponsiglione
Direttore Editoriale: Stefania Buonavolontà
Art Director: Marco Iazzetta
Grafica & Impaginazione: Menthalia Design
Hanno collaborato in questo numero:
Stefania Buonavolontà, Martina Dragotti,
Roberto Gaudioso, Rosalba Iazzetta,
Riccardo Michelucci, Stefania Stefanelli
Menthalia srl direzione/amministrazione
80125 Napoli – 49, Piazzale V. Tecchio
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Tutti i marchi riportati appartengono ai legittimi proprietari
È buffo pensare a come possa essere cambiato oggi, con l’avvento dei social network, il significato della parola condivisione. Se dico condivido, tutti penseranno subito ad un nuovo link sulla mia bacheca...
Ma per metterla in pratica la condivisione, quella vera, è necessaria molta più forza di quella che ci vuole per spingere un
tasto su una tastiera del computer.
L’ignoto, il diverso, il nuovo sono concetti che si portano
sulle spalle una storia fatta di diffidenza, disapprovazione e
pregiudizio.
Tuttavia, accettare le differenze, è una prova di sicurezza in se
stessi: cedere al compromesso, inteso come mediazione, trovare un accordo, avvicinarsi, mettersi in discussione non è da
deboli. Bensì dimostra grande intelligenza. Penso che trovare
i codici comunicativi giusti per arrivare ad aprire “lucchetti
mentali” sia più coraggioso e onorevole che arrendersi alla
chiusura e al non dialogo. È troppo semplice, e molto spesso
conveniente, sentenziare e classificare gli altri, e resta sicuramente più ardua l’impresa di non gettare la spugna e accogliere una sfida, perché una mente che si apre al dialogo,
una barriera che cade, un pensiero accettato e non per
forza condiviso sono sempre una vittoria.
Che cosa è, se non questo, il concetto di comunicazione? Certamente comunicare serve a trasferire informazioni, a condividere significati, ma
la primordiale essenza del comunicare risiede
nell’apertura agli altri. Troppo spesso ci focalizziamo sul mittente, su noi stessi, costruendo
castelli di sabbia che ci ritroviamo ad ammirare
da soli.
L’ apertura è sempre un arricchimento, ma non
per forza un cambiamento. Anche condividere
le novità e le differenze a prescindere sarebbe
un’imprudenza, in quanto implicherebbe una
mancanza di nerbo e di carattere... perché scegliere tutto equivale a non scegliere.
Non sono in vena di moniti in questo numero...
Piuttosto riflettevo con la penna in mano, domandando a me stesso, e a voi, se la meta da raggiungere
sia poi così importante, se per raggiungerla si rischia di
perdere il tragitto.
Marco Iazzetta
General Manager
MENTHALIA
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numero 3 - giugno 2012
Appunti sulla Poesia
di Roberto Gaudioso, Poeta e scrittore – Africanista – Attivista in Human Rights
I poeti difendono il portale che conduce
all’intuizione, sono coraggiosi “guerrieri
della luce”, il loro compito è afferrare le
parole dure e plasmarne il senso. La poesia è l’arte di utilizzare in modo particolarmente sintetico ed espressivo la lingua
assecondando la Forma, la quale trova la
sua costituzione per lo più in ritmi e suoni.
La poesia fa della lingua quotidiana un linguaggio speciale, una costruzione ritmica
e metaforica, cioè fa quello che le altre arti
fanno con i loro “mezzi” rendendo il loro
linguaggio universale. A differenza di queste, però, il mezzo che usa la poesia è lo
strumento più inflazionato del mondo: la
lingua.
Roland Barthes descrive il dramma della
scrittura con queste parole:
«Davanti alla pagina bianca, nel momento
di scegliere le parole che devono segnalare
con chiarezza la sua posizione nella Storia e attestare che egli ne accetta i dati, lo
scrittore avverte una tragica disparità tra
ciò che fa e ciò che vede; sotto i suoi occhi il
mondo civile forma ora una vera Natura, e
questa Natura parla, elabora linguaggi vivi
da cui lo scrittore è escluso: al contrario, tra
le sue mani, la Storia mette uno strumento
decorativo e compromettente, una scrittura
ereditata da una Storia passata e diversa, di
cui egli non è responsabile, ma è la sola di
cui possa far uso.
Nasce così una tragicità della scrittura,
poiché lo scrittore, ormai cosciente, si deve
dibattere contro i segni ancestrali e onnipotenti che dal fondo di un passato estraneo gli
impongono la Letteratura come un rituale e
non come una riconciliazione».
Secondo Barthes, il poeta moderno cerca
parole che siano nuove, più dense o luminose.
Nella poesia moderna i concetti sono parole che riproducono la profondità e la
singolarità dell’esperienza, si tratta dell’arte
dell’invenzione. In questo senso sembrano
puntualissimi e precisi, nonostante la loro
enigmaticità, i versi del poeta italiano Giuseppe Ungaretti, nella seconda strofa di
“Commiato” in L’ Allegria:
[…] Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso
Questo scavo interiore testimonia e conferma le parole di Barthes a proposito della
poesia moderna. Il poeta moderno è colui
che affonda nell’abisso dell’esistenza, della vita, e porta alla luce parole più nuove,
più dense o luminose. La prima strofa del
“Porto sepolto” della stessa raccolta recita:
“
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
”
L’autentica poesia non è mai un modo
più elevato della lingua quotidiana. Vero
è piuttosto il contrario: che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata e
come logorata, nella quale a stento è dato
ancora percepire il suono di un autentico
chiamare.
In questo senso la poesia moderna e contemporanea appare come una chiamata che
si dissolve verso un linguaggio naturale o
sociale. Solo in questo modo, forse, la lingua poetica riesce ad essere se stessa, profondamente sempre presente perché mai
inoffensiva, perché mai compiuta, attraversa l’esistenza e tutte le sue componenti,
senza trionfare su queste, ma creando uno
spazio aperto, più ambiguo, inconcluso;
in queste istanze risiede la forza “politica”
della poesia. Ed è così che il poeta contemporaneo tenta di calarsi nella realtà, respingendo ogni accusa di astrattezza.
“
Naufrago nel mare del sogno
nell’intimo della foresta che s’infittisce
nel quale il pensare senza agire è tradire.
Euphrase Kezilahabi
”
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numero 3 - giugno 2012
Vis à Vis con Cristiano Minellono
di Martina Dragotti, Copywriting & Communication
lono
Cristiano Minel
lla
Autore di testi de
musica Italiana
Essere autore di testi. Ma cosa vuol dire?
Scrivere parole, dare voce ai pensieri, stare
dalla parte dei contenuti, parlare alla propria
penna ieri, alla tastiera oggi.
Chi scrive testi non è solo un cultore della
parola, ma è anche un buon osservatore. Per
scrivere del mondo, di ciò che accade, per
descrivere vite, raccontarle e farle amare,
occorre uno sguardo più lungo, che attraversi
le apparenze per cogliere l’essenza. È questo che
fa un autore, “confeziona pensieri”, ci racconta
Cristiano Minellono, grande autore della
musica italiana ed esperto di comunicazione.
A voi l’intervista...
Scrittore di testi musicali, autore di alcune
delle canzoni italiane più famose, scrittore
di programmi televisivi, coautore di libri,
attore teatrale, responsabile artistico in
Fininvest, scrittore di testi pubblicitari e
campione italiano di formula 3. Una personalità eclettica e creativa. Che giudizio
hai del panorama comunicativo di oggi?
In questa confusione di comunicazione sta
imperando il cattivo gusto.
La qualità della musica, della televisione e del
cinema in Italia è scaduta almeno dell’80%.
Gli interessi economici hanno prevaricato
il bisogno di avere prodotti di qualità, e il
risultato si vede.
La tua, dunque, è un’astensione di protesta?
Sì. Noi autori non abbiamo più la possibilità
di creare nuovi talenti. Non essendoci più i
grandi produttori cinematografici e discografici di una volta, non verranno più fuori
le Sofia Loren e i Mastroianni, né verranno
fuori i grandi registi del passato come Fellini,
Germi, Rossellini perché oggi nel cinema
comandano i finanziatori e la qualità ne paga
le conseguenze.
Nel panorama autorale televisivo accade
pressappoco la stessa cosa: invece di avere
due autori bravi come accadeva negli anni
’80, ci sono sette, otto autori neolaureati,
senza esperienza, pronti ad assecondare le
volontà del capo, senza cenni di esitazione.
Non esiste più la professione di autore, ci
si arrangia come si può...
L’autore sia musicale, cinematografico che
televisivo è sempre stato il padrone della
situazione, un programma televisivo o un
film si facevano come voleva l’autore adesso,
invece, si fa tutto come vuole chi mette i soldi.
E la qualità ne paga il prezzo...
Hai scritto testi per cantanti molto famosi,
sapere per chi dovesse essere scritta una
canzone ti ha mai condizionato?
Non è il caso di parlare di condizionamento.
Ero giustamente indirizzato, ovviamente se
sai che stai scrivendo per Adriano Celentano
è differente dal sapere che stai scrivendo per
Orietta Berti; scrivi spesso un testo in base
all’artista, rimanendo coerente con ciò che
egli rappresenta.
In maniera totalmente libera?
Se stai lavorando con un grande artista sì.
Sono spesso Le “mezze tacche” ad imporsi
maggiormente e ad avere più manie di
protagonismo!
Come avviene il tuo processo creativo?
Hai dei riti particolari, dei momenti che
preferisci?
Sì, per me quello della scrittura è un momento molto particolare. Se ho quindici giorni a
disposizione per scrivere un testo... lo faccio
generalmente negli ultimi due minuti che
ho a disposizione, la pressione mi rende più
creativo. Non mi è mai capitato di scrivere
una canzone partendo dal titolo, eccezion
fatta per “l’Italiano” ed un altro paio. Mi
metto lì, ascolto la musica, e la mia creatività
parte...
La canzone alla quale sei più legato?
Le canzoni che ho scritto con Umberto
Balsamo “Pace”, “Bugiardi noi”, o quelle con
Dario Farina per i Ricchi e Poveri: “Sei la
sola che amo”, “Dimmi quando”...
Ma comunque è difficile scegliere; sono
legato alle canzoni che ho scritto in base a
quello che rappresentano: “Il primo giorno
di primavera” è la mia prima vera canzone,
“L’italiano” è quella che ha avuto più successo
nel mondo e “Sei la sola che amo” è quella
che forse mi piace di più, ma che forse ha
venduto di meno...
Le canzoni che scrivi sono autobiografiche?
Mah, in certi casi lo sono... in altri no. Un
autore non può e non deve parlare della
propria vita come protagonista assoluto.
Deve farsi carico del sentire comune, di ciò
che accade intorno e riuscire a metterlo in
parole.
Spesso ho cercato di immaginare situazioni
nelle quali non mi sono mai trovato, vivi
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Lasciatemi canta
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un amore che magari è tranquillo, ma poi lo
proietti in altre situazioni, possibilità, sfaccettature. La cosa principale per un autore
è la fantasia.
Ho scritto “Il tempo se ne va” per Celentano,
che è la storia di un padre che si accorge che
la figlia è cresciuta, che oramai è una donna,
ed io non avuto una figlia femmina.
Ci vuole anche una grande capacità di osservazione.
Ti definisci un “confezionatore di pensieri”,
non per forza i tuoi. Ma spesso le tue parole
sono divenute universali, hanno creato
atmosfere e sensazioni in cui moltissime
persone si sono riconosciute.
Questo significa fare l’autore di mestiere.
Il segreto è non fare la canzone per te. La
canzone non deve essere un monumento a
te stesso o una creatura che comprendi solo
tu. La canzone deve essere per tutti, deve
riguardare tutti, per cui è necessario che
l’autore conosca e comprenda il momento
politico e sociale della nazione in cui lavora,
che senta la gente e che viva... in modo tale
da poter raccontare, non solo la sua vita, ma
soprattutto quella degli altri.
Non puoi esimerti, vogliamo un’aneddoto!
Ne avrai a centinaia da raccontare... ti va di
sceglierne uno da raccontare ai nostri lettori?
Era il 1984 e fui contattato da Freddy Naggiar
per scrivere il testo della canzone che Albano
e Romina avrebbero portato a Sanremo. Era
l’anno in cui Toto Cutugno era dato da tutti
per vincitore. L’ultimo giorno utile per l’invio
della canzone mi telefonò Albano, dicendomi
che ancora non aveva il testo. Io ero in sala
d’incisione, non avevo ancora scritto nulla
(di questo particolare, però, nessuno era a
conoscenza) e avevo con me soltanto un
foglio sul quale avevo annotato la metrica
della canzone. Dettai il testo della canzone
ad Albano per telefono, creandolo lì, su due
piedi. La canzone s’intitolava Ci sarà.
Come andò a finire? Vincemmo Sanremo!
Ma è una cosa prettamente italiana. All’estero sono numerose e molto richieste le
collaborazioni con autori importanti...
Difatti, la gente non si rende conto che non
essendoci più sul mercato autori come Bigazzi,
Minellono, Mogol, Calabrese, Beretta, Pallavicini, ovvero i grandi parolieri della musica
italiana, la canzone italiana è morta. All’estero,
invece, gli editori musicali fanno a gara per
accaparrarsi la firma di autori importanti.
In Italia, oggi, l’autore non viene preso in
considerazione...
Una parola può significare tantissime cose,
può avere diverse accezioni, è determinata
da un contesto o da un’emozione. La parola
utilizzata da uno scrittore è differente da
quella di uso comune; un autore la colloca
in quella posizione, le dà quella determinata
sfumatura per uno scopo preciso. Un autore
ha rispetto delle parole che usa. Com’è il
rapporto tra autore e parola nella scrittura
di un testo musicale?
In una canzone, la cosa molto importante è
che bisogna cercare di esprimere un concetto
ampio con poche parole, non viceversa. Ad
esempio con frasi del tipo: “accendere la luce,
la carta e la matita ed aspettar che il mondo
mi esca dalle dita” oppure “Quando il mondo
parla con la mia mano è lì che ti amo” esprimi
mille cose in un’unica frase... Bisogna riuscire
a catturare un momento, una situazione ed
esprimerla in un rigo.
Cristiano, ti vediamo molto attivo anche
sulla questione SIAE. Cosa ne pensi?
Penso che noi autori siamo stati vittime per
decenni di una rapina continua da parte
degli editori che hanno approfittato vergognosamente della situazione, prendendosi
il 100% dei diritti delle canzoni. Adesso è
giunto il momento che la SIAE torni in mano
agli autori, è nata come SIA, Società Italiana
Autori, e tale deve ritornare ad essere.
Ma in un’epoca legata fortemente all’apparenza, alla forma, che ruolo hanno i
contenuti? Quanto conta la parola?
La parola oggi conta poco, è mercificata,
svilita. Oggi le grandi case di produzione
pagano pochissimo gli autori, soprattutto
nel campo televisivo. L’arte nel nostro Paese
viene incredibilmente trascurata.
La cosa incredibile è che tutto ciò accade
proprio in un Paese conosciuto nel mondo
come il Paese dell’arte, della creatività.
Calcola che la professione di autore non viene
tutelata dalla legge, che non ci garantisce alcun
diritto.
Oggi non consiglierei ad un giovane di intraprendere questa carriera, a meno che non
abbia dei mezzi propri per potersi mantenere
e tanta, tanta passione.
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numero 3 - giugno 2012
Diciamolo con i gomitoli
di Stefania Stefanelli, Autrice e Sceneggiatrice Televisiva
A
vete presente la dolce nonnina che
sferruzza seduta sulla sua centenaria poltrona davanti al camino
con gli immancabili occhialetti sul naso?
Dimenticatela.
E dimenticate anche i cari vecchi murales.
Dimenticate quei ragazzi che armati di
bombolette e vestiti come modernissimi
rapper, creano il viso di Bob Marley sulle
squallide mura grigie delle periferie urbane, in poco tempo e sotto gli occhi di un
pubblico metà estasiato, metà infastidito.
Hanno fatto il loro tempo.
Oggi la street art è nelle mani di quella
nonnina che ha lasciato poltrona, camino e occhialetti e si è trasformata in una
specie di vendicatrice solitaria che la notte, mentre tutti dormono, va in missione
segreta per le strade della città a colorarle
con le sue creazioni fatte a maglia. Ed ecco
che al risveglio gli anonimi pali della luce,
le fontane arrugginite e le tristi statue nei
parchi appaiono diverse, ricoperte di creazioni colorate e, in una sola parola, vive.
Lo chiamano yarn bombing,
ovvero “bombardamento tessile”.
Le puriste di quest’idea sono le Guerrilla
Knitting, un gruppo di audaci signore di
mezz’età che vivono in Cornovaglia e che,
in totale anonimato, portano avanti il progetto di un autonomo abbellimento delle
città non per fama o guadagno, ma per il
gusto di sorprendere e di sorprendersi.
Non si sa mai quando colpiranno, ma scelgono sempre eventi importanti durante i
quali palesarsi e stupire tutti.
È pura poesia. L’idea di usare un’arte vecchia come il cucco per ritrasformare i
monocromatici paesaggi urbani in paesaggi naturali sui generis senza inquinarli
e senza rovinarli è quanto di più moderno
sia stato pensato negli ultimi decenni. (E
di certo molto più futurista del vandalo
che buttò inchiostro rosso nella fontana
di Trevi pensando di essere originale e che
invece rischiò di comprometterne funzionamento e colore per sempre).
La lana sembra quasi avvolgere ciò che copre e quegli strani accostamenti di colori
comunicano più allegria di quanto potrebbe fare una fiera di paese.
È un modo per riprendersi il territorio e
non è un caso che dopo il terremoto che
ha devastato L’ Aquila nel 2009 sia stato
subito promosso un evento denominato
“Mettiamoci una pezza – Una città ai
ferri corti” per riempire con lo sferruzzamento il vuoto lasciato dai crolli.
“
Comunicazione, colore,
lavoro artigianale,
iniziative sociali e un bel po’
di creatività
.
”
Ma anche un perfetto veicolo pubblicitario, che nelle mani giuste può
trasformarsi in un business serio.
E infatti il fenomeno sta spopolando grazie al collettivo Knitta Please fondato da
Magda Sayeg, un’intraprendente
texana che ha fatto di questo passatempo un vero e proprio mestiere,
pubblicizzando al massimo il lavoro
suo e del suo team ed arrivando a
lavorare su commissione in tutto il
mondo. Vanta collaborazioni con i
marchi Vodka, Smart Car, Mini Cooper,
esposizioni in numerosi musei, un web
store in cui acquistare t-shirt e cover per
telefoni cellulari rigorosamente fatti
a maglia, un sito internet (www.
magdasayeg.com) dove è possibile seguire passo passo i viaggi del
gruppo ed ammirare una galleria fotografica in cui troneggiano
immagini di interi bus ricoperti di
lana.
Bellissimi anche questi, senza dubbio.
Ma volete mettere l’emozione di svegliarsi e scoprire una nuova installazione
lì dove non ve la sareste mai aspettata?
Volete mettere il romanticismo dell’anonimato delle artiste ed il sospetto che la
cara vecchietta che compra la verdura
con voi al mercato sia in realtà una guerrilla girl?
Volete mettere il concetto
di “arte per l’arte”?
Eterna lotta tra ragione e sentimento, insomma.
In ogni caso, geniale.
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© www.magdasayeg.com
numero 3 - giugno 2012
Location: Bali, Indonesia
Location: Mexico City
Location: Paris, France
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numero 3 - giugno 2012
Andy Warhol.
Alla corte dell’imperatore
di Martina Dragotti, Copywriting & Communication
timeline
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1928 - Pittsburgh: nasce Andrew
Wahrola JR.
1949 - Carnegie Mellon University di
Pittsburgh: si laurea e si trasferisce a
New York.
1952 - Hugo Gallery di New York:
tiene la prima mostra personale.
1956 - Bodley Gallery: espone alcuni
disegni e presenta le sue
Golden Shoes in Madison Avenue.
1960 - Comincia a realizzare
i primi dipinti che si rifanno
a fumetti e immagini pubblicitarie.
1962 - Fonda la prima Factory.
1967 - Si lega al gruppo rock dei
Velvet Underground (di Lou Reed),
di cui finanzia il primo disco.
1968 - Rischia la morte, all’interno
della Factory, per l’attentato di
Valerie Solanas.
1980 - Diventa produttore della
Andy Warhol’s TV.
1983 - Espone al Cleveland
Museum of Natural History e gli
viene commissionato un poster
commemorativo per il centenario
del Ponte di Brooklyn.
1986 - Si dedica ai ritratti di Lenin
e ad alcuni autoritratti.
1987 - Muore durante una semplice
operazione chirurgica.
U
n giorno, correva l’anno 1962, Andy
Warhol si recò nell’appartamento di
Billy Name, suo amico fotografo, e
restò affascinato dal modo in cui era decorato: il color argento straripava dagli ambienti,
specchi rotti e patine in carta stagnola rivestivano gli spazi rimasti, ovunque si assaporava
uno stile proto-glam decadente.
Subito fu tutto chiaro, era così che voleva
fosse il suo loft appena preso in affitto al 231
East della quarantasettesima strada a Manhattan, passato alla storia come The Factory.
Ogni giorno, in quella Silver Factory (fabbrica d’argento) i cui rivestimenti di carta
stagnola ricoprivano finanche l’ascensore, il
folle Andy portava manciate di palloncini
argentei, che faceva galleggiare sul soffitto;
era un ambiente decadente e underground,
una sorta di laboratorio collettivo di idee e
progetti, una corte nella quale contaminazione, decontestualizzazione e sregolatezza diedero vita ad opere celebri ed intramontabili.
Nella Factory il buon proposito all’ordine del
giorno era quello di dissacrare il concetto di
opera d’arte: spettacolo, musica e arte erano
costantemente intrecciati e, mentre qualcuno
si dedicava ad un provino e qualcun altro era
impegnato in una serigrafia, qualcun altro...
si faceva di anfetamine.
“
Geniale, stravagante,
bizzarro, ironico...
”
questo e molto altro sarà Andy Warhol nel
panorama comunicativo degli anni a venire.
Una sera del 1965, nel quartiere del Greenwich Village di New York, al Cafè Bizarre,
una band musicale venne licenziata dagli organizzatori dopo l’esibizione: troppo volgari
e scandalosi quel Lou Reed e la sua banda
che si faceva chiamare Velvet Underground.
Andy, quella sera si trovava proprio lì, seduto ad un tavolo... e rimase folgorato: quei
folli erano perfetti per la Factory, erano la
sua arte trasposta in musica, erano in pieno
stile Warhol.
Messa a disposizione la Factory per le prove,
diventò il loro consulente estetico e produsse
il loro primo Lp. Fu così che le parole “Take
a Walk on the Wild Side” – fatti un giro nella zona selvaggia – diventarono il richiamo
persuasivo della Factory, il canto della sirena
con cui Warhol e la sua corte ammalieranno
la società americana da lì in avanti.
Un’arte senza confini che ha sugellato le
icone-simbolo del XX secolo: senza ricerca
estetica, pretese polemiche o biasimi, le opere di Warhol hanno contribuito in maniera
essenziale a fotografare lo spirito alienato e
psicotico della società di massa americana,
spersonalizzata, seriale, riproducibile, a scadenza...
Tuttavia incredibilmente democratica: il volto di Marylin Monroe come le Campbell’s
Soup, Elvis Presley, Mao Tse-tung e le lattine
di Coca-Cola divengono icone, nulla più che
oggetti di una narrazione documentaristica
di una storia che potrebbe intitolarsi “La società dell’immagine”.
“
Io vivo la mia vita alla luce del
sole. Sarò felice di dirvi quello
che sto facendo ogni minuto
di ogni singolo giorno
.
”
Questa frase mi appare più che mai attuale,
mentre scorro la bacheca ricolma di aggiornamenti di stato del mio social.
Quasi come se la sua visionaria e dissacrante
personalità avesse fatto un giro negli anni
duemila e avesse voluto preannunciare alla
società di massa americana di rifarsi il trucco, di indossare la maschera... perché di lì a
poco, ognuno avrebbe avuto i suoi quindici
minuti di popolarità.
© Patrizia Basile
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numero 3 - giugno 2012
Dialetto che passione
di Rosalba Iazzetta, Accounting Office
LA LINGUA – Buon giorno, fratello. Tu hai la cera rannuvolata.
IL DIALETTO – Me la vedo come in uno specchio, Signora, e mi duole di presentarmi a
Voi in quest’aspetto.
LA LINGUA – Perché mi chiami Signora? Altre volte ti dissi che mi piace essere chiamata
sorella. (…) Non siamo, tu ed io, rami dello stesso tronco? figliuoli della stessa madre?
legati ancora e per sempre da mille somiglianze e proprietà comuni?
C
osì scriveva De Amicis ne L’Idioma
gentile del 1905 chiamando la lingua “sorella del dialetto”, essendo
entrambi figli di uno stesso albero. Beh, a
centosette anni dalla pubblicazione di questo libro e a centocinquantuno dall’unione
del Bel Paese, i mille dialetti del nostro stivale sobbollono più vivi che mai.
In effetti, tra lingua e dialetto non vi è una
differenza di tipo linguistico ma di status;
la lingua ha una connotazione ufficiale negata al dialetto e dovuta a ragioni storiche
e sociali, infatti, una stessa forma espressiva può essere, secondo le epoche e le zone,
classificata come lingua o come dialetto,
tuttavia il loro rapporto insinua una subalternità ideologica impropria rispetto alla
realtà linguistica.
Nel terzo millennio tutti, o quasi, parlano
l’italiano, ma il dialetto risulta essere ancora un’importante risorsa, poiché alcune
parole mantengono il loro puro significato
solo se pronunciate nel dialetto originario,
e, provando a tradurle in italiano, perdono
gran parte dell’efficacia espressiva.
In tempi recenti, abbiamo assistito ad una
rivalutazione del vernacolo che assume
qualche carattere di nazionalità grazie
all’introduzione, in dizionari della lingua
italiana, di lemmi che un tempo appartenevano puramente al dialetto (il napoletano
inciucio, il romanesco malloppo, il genovese mugugno, la piemontese ramazza, per
citarne alcuni). Oggi questi termini
fanno parte del lessico comune e non
sono più percepiti come parole
dialettali. Anche nel mondo del web (pensiamo a social network,
blog e chat) assistiamo a passaggi dall’italiano al dialetto,
colorati e divertenti,
definiti dagli esperti
code mixing, quasi a
sottolineare un’ufficialità non uf-
ficiale, svincolata da ambiti non formali, e a
dimostrazione del fatto che il dialetto non
è appannaggio esclusivo della popolazione
anziana.
In ambito letterario, teatrale, cinematografico e musicale il dialetto risuona: note,
nei romanzi di Camilleri, le espressioni
tipicamente siciliane che sembrano colorare di profumi ed immagini le parole; le
commedie di Eduardo De Filippo, le opere
di Dario Fo e le bellissime canzoni del poeta De André, come Crêuza de mä, scritta
in genovese, o L’Ave Maria e Zirichitaggia,
scritte in dialetto sardo. Pensiamo ancora
alle espressioni prese in prestito dal dialetto da Pasolini, Sciascia e D’Annunzio, o
alle poesie dialettali di grande respiro nazionale di Trilussa, Belli, Cecco Angiolieri,
Di Giacomo e Porta. E come non citare i
bellissimi film di Troisi, nei quali ha sdoganato il dialetto napoletano rendendolo
accessibile a tutti, o personaggi come Sordi,
Fabrizi, Benigni, Gassman, Totò che hanno
reso familiari e nazionali espressioni tipicamente dialettali, che ci ritroviamo ad usare
in questa o quell’altra occasione e, talvolta,
anche in situazioni un po’ più ufficiali quasi
a voler rompere il ghiaccio per alleggerire
un contesto troppo formale.
Certo, la lingua italiana è meravigliosa anche perché, oltre che delle lingue classiche,
delle influenze straniere e delle varie dominazioni che ne sono state fonte rigogliosa,
si è arricchita di qualcosa di tipicamente
italiano: il dialetto, che con le proprie “piccole” radici che scorrono attraverso tutto lo
stivale, passa dall’estremo nord all’estremo
sud, e valorizza la nostra lingua con sensazioni, profumi, colori, immagini e sentimenti. In fondo, quasi a voler dire un’eresia,
la Divina Commedia non è stata scritta in
latino, lingua ufficiale del tempo, ma in
volgare con una lingua che attingeva dal
toscano, con inserimenti di lombardismi,
francesismi, latinismi, meridionalismi e
neologismi.
L
e scommesse sono aperte: a quando
la fine del mondo?! Maghi, profeti ed
esperti in finedelmondologia non fanno altro che sciorinare date e dati allarmanti
su pseudo catastrofi ed estinzione globale,
a causa di allineamenti planetari sospetti,
nubi tossiche, tettonica a zolle, placche e
apocalisse.
Ma la data più quotata,
“quella
che tutti temono
o attendono (a seconda che il loro
bicchiere sia mezzo vuoto o mezzo
pieno), è quella del 21-12-2012,
ad esclusivo copyright dei Maya .
”
Ad essere onesti i signori Maya erano tutt’altro che millantatori: a loro si devono i più
spettacolari centri urbani dell’antichità (Tikal, Palenque, Yaxchilán, Copán, Piedras
Negras, Uxmal, Tulum, Chichén Itzá, per
citarne alcuni), noti per le loro tecniche
aritmetiche e la scrittura, erano anche degli abili coltivatori rispettosi della terra e...
forse sì, è il caso di ammetterlo, leggermente
ossessionati dal tempo e dal suo scorrere.
Più ricercato e conosciuto rispetto a quelli di starlette desnude dal piglio artistico,
il Calendario Maya è un calendario molto
elaborato, basato su una concezione ciclica
del tempo. Ecco, allora, ben presto spiegata
la loro ossessione: un tempo ciclico comportava la dinamica del ritorno delle stesse
influenze e conseguenze, era necessario,
dunque, riuscire a calcolarlo.
Per questo, la civiltà Maya era attratta dall’attività degli astri, specialmente da quella del
sole, che si presentava sotto angoli che cambiavano a seconda dei diversi periodi dell’anno. E fu così che, grazie all’osservazione e alla
meticolosa registrazione di quanto accadeva,
i Maya riuscirono a determinare le date esatte dei solstizi, ovvero il giorno più corto e
quello più lungo dell’anno.
senza fare allarmismi,
“è Ecco,
proprio in quello più corto,
il 21 Dicembre 2012 – giorno del
solstizio d’Inverno – che secondo
i Maya sarebbe prevista
la visita della signora Fine,
che di cognome fa Del Mondo .
”
È forse per questa grande precisione e meticolosità che li caratterizza, che questa data
mette tanto timore? O, forse, per il bisogno
di sentirci tutti accomunati ad uno stesso
destino?
Ad ogni modo la profezia dei Maya è un
fenomeno che ha scatenato riflessioni e fenomeni che vanno dal bizzarro all’esoterico,
dal divertente allo stimolante, ad estensione
senza dubbio globale. Se Google rappresenta
l’unità di misura con la quale definire l’entità dei fenomeni sociali, ecco alcune cifre:
digitando Maya 2012 all’interno del motore
di ricerca appaiono circa 293 milioni di risultati, appena 200 milioni in più rispetto
alla voce Presidente USA.
Un’interessante iniziativa,
senza dubbio divertente,
è quella de laprofeziadeimaya.it
che ha avuto inizio il 21-06-2012,
a sei mesi esatti dalla presunta data X.
Lo spazio web permette agli utenti
di lasciare un proprio messaggio al
mondo, che verrà poi pubblicato in
un volume in cui ciascuno sarà
indicato come autore.
Il volume, come fa sapere
la redazione de laprofeziadeimaya.it,
sarà edito nel febbraio 2013,
fine del mondo permettendo!
pagina
12
®
numero 3 - giugno 2012
Un “Ulisse” tutto da ridere
di Riccardo Michelucci, Giornalista
E
rano ancora gli anni ‘50 quando il
commediografo americano Thornton Wilder definì “un pazzo” e “un
imprudente” il grande anglista fiorentino
Giulio De Angelis per aver intrapreso un’opera quasi proibitiva come la traduzione in
italiano di Ulysses, il capolavoro di James
Joyce.
Nel 1960, dopo anni di lavoro, e senza disporre di approfondite conoscenze della letteratura e della storia irlandese, De Angelis
fece uscire nella collana “Medusa” di Mondadori diretta da Elio Vittorini un’edizione
destinata a rimanere per oltre mezzo secolo
l’unica trasposizione in italiano. Le revisioni
e gli aggiornamenti che negli anni successivi hanno arricchito quel lavoro pionieristico
non sono bastate a evitare che uno dei testi
fondamentali del letteratura contemporanea giungesse fino ai giorni nostri legato a
canoni linguistici e interpretativi di un’altra
epoca.
Col passare del tempo, l’opera è divenuta un testo sempre meno leggibile da un
pubblico italiano di non specialisti. Ecco
perché era auspicabile che la scadenza
dei diritti d’autore sulle opere di Joyce –
caduta nel gennaio scorso – coincidesse
con un’occasione di rilettura critica del
grande romanzo dello scrittore dublinese.
A cogliere al volo tale opportunità, bruciando sul tempo anche la
concorrenza di editori
più specializzati, è stata
Newton Compton, che
ha dato alle stampe una
nuova edizione italiana
tradotta e curata da Enrico Terrinoni, corredandola con un apparato critico
paragonabile a quello delle
grandi edizioni annotate in
lingua inglese.
Docente di letteratura inglese all’Università di Perugia, già autore di numerosi
scritti su Joyce, Terrinoni
ha impiegato quattro anni
di lavoro per ultimare l’opera, e adesso basta sfogliare le
due edizioni per notare subito grandi differenze stilistiche
e lessicali.
“
La mia versione mira a rispettare la colloquialità del testo
– ci spiega – Ulysses è un libro
tutt’altro che inaccessibile,
è al contrario un libro comico,
con un linguaggio raramente aulico,
è un’opera intesa da Joyce
per il lettore comune
.
”
Già, il lettore comune. Proprio quello che
di fronte alla consistenza del volume e alla
scarsa punteggiatura tipica del flusso di
coscienza joyciano era solito scappare a
gambe levate, abbandonando il volume alle
prime pagine o, peggio, condannarlo per
sempre alla polvere delle librerie. A detta di
molti critici De Angelis non era riuscito a
cogliere fino in fondo lo humour di Joyce
mentre questa nuova traduzione, oltre che
essere resa in un italiano inevitabilmente
più moderno, cerca di riprodurre per quanto possibile tutta la comicità del libro, dando anche la giusta importanza alla componente linguistica e culturale irlandese.
A partire dall’ambiguità semantica del libro, nel quale l’autore gioca con una lingua
che non è soltanto l’inglese, ma anche l’irlandese del popolo, della Dublino operaia
e lavoratrice. Terrinoni è riuscito a cogliere
®
numero 3 - giugno 2012
appieno questi aspetti seguendo le orme di
illustri studiosi irlandesi come Declan Kiberd, Seamus Deane, John McCourt e altri,
che lavorano da anni per affermare il carattere popolare di Joyce, partendo dalla riscoperta linguistica e dalle potenzialità semantiche del suo capolavoro. Ma sostiene
che non avrebbe mai potuto tradurre Ulysses senza un apparato di solide conoscenze
critiche maturato in lunghi anni di lavoro
a Dublino, e gli studi condotti in Italia
nell’ambito della scuola joyciana di Giorgio
Melchiori, ora proseguita da Franca Ruggieri. “Melchiori fu uno dei consulenti di
De Angelis, entrambi grandi traduttori. Il
mio lavoro, grazie anche alla consulenza
di Carlo Bigazzi, tenta di emanciparsi da
quell’impresa pionieristica, ma non posso
non provare un debito di riconoscenza nei
loro confronti”.
Terrinoni aveva già curato la trasposizione
di opere di autori in lingua inglese come l’irlandese Brendan Behan e gli scozzesi Muriel
Spark e John Burnside, “ma con Joyce – sostiene – siamo su un altro pianeta.
Ulisse è un testo “plurale”
che richiede una miriade
di strategie traduttive.
Ogni episodio possiede la propria
tecnica, e gli stili con cui Joyce
si cimenta sono innumerevoli.
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13
La mia traduzione ha seguito il principio
dell’inclusività: quando un’espressione si
scompone in ramificazioni multiple, ci
vuole una resa molteplice, polisemica, per
creare un’ambiguità parallela a quella originale. È il lettore ad avere sempre l’ultima
parola”.
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pagina
14
®
numero 3 - giugno 2012
Green è trend
di Stefania Buonavolontà, Marketing & Communications
L
a coscienza ambientale si sta facendo sempre più strada, anche in Italia,
nel mondo dei consumatori ed una
maggiore domanda, per fortuna, stimola il
mercato dell’offerta, che inizia a rispondere
a tale esigenza.
L’interesse verso tematiche ecologiche da
parte dell’opinione pubblica cresce in
maniera interessante e la ricerca di informazioni – facilitata grazie ad internet – su quali siano i cambiamenti che il pianeta sta attraversando,
fornisce al cittadino gli strumenti
necessari per aprirsi ad una riforma
etico-ambientalista, in chiave propositiva e sensibile.
“
Ma cosa significa
Green Economy?
”
Sembra quasi un ossimoro ed invece è qualcosa di possibile, auspicabile e già praticato. Un’economia verde è un’economia il cui
impatto ambientale è contenuto entro dei
limiti accettabili. Tecnologia e conoscenza
scientifica sono punti fondamentali che
devono accompagnare la crescita e la diffusione di questo cambiamento. Oltre alle
fonti di energia rinnovabile, infatti, gioca
un ruolo fondamentale in questo contesto
l’impiego di tecnologie e tecniche in grado
di aumentare l’efficienza energetica dei
macchinari o delle abitazioni al fine di ridurre sprechi di energia e di risorse.
Un comportamento sostenibile è la
strada che può portare ad un benessere collettivo.
“
Anche pensando alle
vacanze: esistono, infatti,
strutture alberghiere ecosostenibili che rilassano il
turista e stressano meno
l’ambiente!
”
EcoWorldHotel è il primo Brand alberghiero ecosostenibile e il primo Marchio di
Qualità Ambientale per strutture ricettive
in Italia, che raggruppa oltre 120 tra hotel,
b&b, agriturismi, residence, alberghi diffusi, ecc..
Nel 2007, EcoWorldHotel ha redatto la
“Guida per le strutture ricettive ecosostenibili”, contenente i requisiti, nel rispetto
della normativa italiana ed europea, per ottenere il Marchio: 15 requisiti obbligatori e
75 facoltativi suddivisi in diversi ambiti; a
seconda degli interventi realizzati e, quindi,
del punteggio complessivamente raggiunto,
il diverso impegno ambientale che caratterizza ogni struttura viene indicato con un
numero crescente di Eco-foglie da 1 a 5,
proprio come le stelle nella classificazione
alberghiera.
“
Tra i diversi riconoscimenti
ricevuti in questi anni, il 25 marzo
2011 EcoWorldHotel è stato premiato per l’innovativo sistema di classificazione in Eco-foglie con il “Premio
Impresa Ambiente 2011”.
”
Questa magnifica iniziativa parte dal presupposto che si debba iniziare dal coinvolgimento responsabile e motivato degli
operatori turistici e dei loro ospiti per conquistare una risposta efficace al problema
della salvaguardia dell’ambiente.
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numero 3 - giugno 2012
Curiosità
Facecrooks: il libro delle facce, Non ci vedo più dalla fame.
si ma dei ricercati!
È falso!
S
icon facecrooks designed by antonmircea.com
©facecrooks
iamo in New Jersey e l’ispettore Mickey Bradley, sceriffo della contea di
Bergen, ha deciso di creare un sito internet. No, lo sceriffo non era stanco di accalappiare malviventi, anzi! Per acciuffarli
meglio, ha preso l’idea in prestito al Signor
Zuckerberg e ha creato il social network dei
ricercati.
Nel sito, infatti, al posto degli amici si archiviano delinquenti di ogni genere. L’idea è nata per istituire sul web una pagina
di allerta e di informazione al cittadino, in
particolar modo per i crimini informatici. I
visitatori del sito devono accettare specifiche condizioni d’uso, in base alle quali s’impegnano a non usare il sito per “intimidire
o molestare gli altri”.
Facecrooks, inoltre, invita gli utenti ad utilizzare il sito solo per le segnalazioni... e a
non improvvisarsi supereroi!
È
stato dimostrato che quando sentiamo quegli imbarazzanti brontolii
allo stomaco e siamo presi dalla voglia di assaltare il frigorifero, le nostre facoltà visive in realtà aumentano.
Ma solo nei confronti delle parole che hanno a che fare con il cibo, che ci appaiono
più nitide rispetto alle altre. Il processo
avviene a livello inconsapevole, afferma
Rémi Radel dell’Università Sophia-Antipolis di Nizza, in Francia, che per il suo
esperimento ha reclutato 42 studenti, metà
affamati e metà sazi. I soggetti affamati
hanno dimostrato di vedere le parole inerenti al cibo più chiaramente e hanno avuto
migliori risultati nel riconoscimento dei
termini culinari.
«È incredibile che gli esseri umani riescano a percepire immediatamente ciò di cui
hanno bisogno» ha commentato Radel «c’è
qualcosa in noi che seleziona le informazioni esterne per renderci la vita più facile».
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15
Scegli responsabilmente
le tue vacanze
Scegli EcoWorldHotel!
Prima Catena Alberghiera Italiana eco-friendly
Portale di prenotazioni alberghiere
Marchio di Qualità Ambientale Italiano
Gruppo d’Acquisto specializzato in forniture alberghiere
ecologiche, bio e certificate
Eco-shop, vetrina on-line per acquisti ecologici
a prezzi vantaggiosi
Green meeting ed eventi a basso impatto ambientale
Hotel, b&b, agriturismi, appartamenti, villaggi, residenze, wellness-resort, immersi in
suggestive località d’Italia (città d’arte, mare, montagna, lago, campagna, terme)
adatti a soddisfare diverse esigenze di turismo eco-sostenibile (leisure, culturale,
naturale, business, salute e benessere, sportivo, ecc.)
Non scegliere più solo in base alle stelle...
scegli in base alle Eco-Foglie!
Più eco-foglie ha una struttura,
meno impatta sull’ambiente..
www.ecoworldhotel.com
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