Giuseppe Antonelli Lingua - Università per Stranieri "Dante Alighieri"

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Giuseppe Antonelli Lingua - Università per Stranieri "Dante Alighieri"
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Lingua
di Giuseppe Antonelli
Una lingua in movimento:
le tendenze generali
La modernità linguistica comincia in Italia con gli anni sessanta. A cento anni di distanza dal raggiungimento dell’unità politica (1861, proclamazione del Regno d’Italia) e a mille da quello che è considerato il primo testo della lingua italiana (960, placito capuano), una fase storica di
discussioni sull’italiano è archiviata dalla monumentale Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini (1960) e un’altra è aperta dall’innovativa Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro (1963).
Gli anni dal 1958 al 1963 – quelli del boom economico, della televisione che entra nelle case degli italiani, della prima vera scolarizzazione
di massa – sono anche per la lingua un periodo di rapido cambiamento:
«uno dei momenti critici in cui i fenomeni di deriva sono ulteriormente
accentuati dalle condizioni materiali in cui avviene la trasformazione»
(Tesi, 2005, p. 248). È alla fine di questo periodo che Pier Paolo Pasolini, basandosi sul modello costituito dal pensiero di Gramsci 1, lancia
quella che verrà definita la «nuova questione della lingua».
A scatenarla è, nel 1964, un articolo intitolato Nuove questioni linguistiche, in cui Pasolini teorizza la nascita di un nuovo italiano “tecnologico”, modellato e alimentato non più dai letterati, ma dai protagonisti dell’economia neocapitalistica; e dunque irradiato non più dal classico asse Roma-Firenze, ma dall’industrializzato asse Torino-Milano: «la
nascente tecnocrazia del Nord si identifica egemonicamente con l’intera nazione, ed elabora quindi un nuovo tipo di cultura e di lingua effettivamente nazionali» (in Parlangèli, 1971 [1969], p. 97). Secondo Pasoli1. «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa
che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la
massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale» (Gramsci, 1975, p.
2346; è il paragrafo 3 del Quaderno 29, databile al 1935).
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MODERNITÀ ITALIANA
ni, l’affermarsi di questo italiano tecnologico avrebbe provocato – in un
sol colpo – il ripiegamento della lingua letteraria su un’anonima lingua
media e la scomparsa dei dialetti, irrimediabilmente legati a un mondo
rurale in via di estinzione. Tra i moltissimi interventi che seguirono (tutti, di fatto, critici verso le tesi pasoliniane), spicca quello di Italo Calvino, che capovolse il discorso di Pasolini insistendo su due punti. Uno:
lungi dall’essere appena nato, l’«italiano da un pezzo sta morendo»,
soffocato dall’ipocrisia dell’«antilingua» burocratica («l’italiano di chi
non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”»). Due: l’italiano è
destinato a sopravvivere solo se riuscirà «a diventare una lingua strumentalmente moderna» (ivi, pp. 173-6).
È da qui, dunque, che bisogna ripartire per cercare di capire come
quella sfida è stata vinta. Il decennio successivo (1965-74) è caratterizzato da una vivacissima riflessione sulla lingua e in particolare sul mutato
rapporto tra lingua e società. Un dibattito non solo accademico o ristretto all’élite intellettuale: «indicative di una larga richiesta di sociolinguistica sono le rubriche e le inchieste giornalistiche dedicate ai risvolti sociali del fenomeno linguistico» (Coveri, 1977, p. 267); come quelle tenuto dallo stesso Pasolini e da Umberto Eco nelle pagine del “Corriere della Sera”; da Maria Corti, Maurizio Dardano ed Enzo Golino nel
“Giorno”; da Tullio De Mauro in “Paese Sera” 2.
Una significativa svolta nell’ambito del rapporto tra lingua e utenti
è – nel 1975 – la presentazione delle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica promosse dal GISCEL (Gruppo di intervento e studio
nel campo dell’educazione linguistica, di cui fa parte anche De Mauro):
principi che influiranno profondamente sul modo di insegnare l’italiano
a scuola, e di riflesso sull’idea stessa di norma e di grammatica. In quegli anni, peraltro, lo svecchiamento linguistico investe anche i giornali
(dal 1976 “la Repubblica” impone «uno stile più narrativo e brillante»:
Gualdo, 2007, pp. 21-2), la pubblicità (personaggi come Pasquale Barbella, Annamaria Testa, Emanuele Pirella, Aldo Biasi «tra la fine degli
anni Settanta e gli anni Ottanta hanno modernizzato la comunicazione
italiana e il copywriting in particolare», Afribo, 2009), la televisione (il
1976 è l’anno in cui vengono liberalizzate le TV locali, mentre trasmissioni come Bontà loro e Domenica in inaugurano il tempo che Eco chiamerà
2. In Carrafiello (1977, p. 593) si censisce «tutto ciò che, sul linguaggio, è stato scritto
[...] da sette importanti quotidiani: “La Stampa”, “Corriere della Sera”, “Il Giorno” per il
nord; “La Nazione”, “Paese Sera”, “L’Unità” per il centro; “Il Mattino” per il sud» nei
bienni 1962-63 e 1972-73. Scorrendo l’indice degli argomenti, il più frequente risulta quello
degli anglicismi e in generale degli esotismi (21 articoli nel 1962-63; 28 nel 1972-73); seguono
i dialetti (rispettivamente 13 e 5), i neologismi (11 e 10), la didattica dell’italiano (5 e 9).
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della neotelevisione: cfr. Alfieri, Bonomi, 2008, pp. 11-2), anche le canzoni (con una notevole apertura verso alcuni tratti del parlato: cfr. Antonelli, 2010a, pp. 235-6).
Insomma, con Michele Cortelazzo (2000, p. 22), «si può davvero dire che il decennio di svolta per la storia recente dell’italiano sono gli anni Settanta». A confermarlo, anche il susseguirsi – nella seconda metà del
decennio – di bilanci a più voci (convegni, antologie, opere collettive):
Italiano d’oggi. Lingua italiana e varietà regionali (Italiano d’oggi, 1977),
La lingua italiana oggi: un problema scolastico e sociale (Renzi, Cortelazzo, 1977), La lingua italiana oggi (LLIO, 1980). Bilanci che possono essere
riassunti nella lucida sintesi di Dardano (1978, p. 243):
1 – Estendendosi a spese dei dialetti, l’italiano è diventato la lingua della nazione. Certo rimane del cammino da compiere, ma il processo di italianizzazione è in una fase avanzata [...]. 2 – I linguaggi tecnici e le varietà socioprofessionali hanno progredito rapidamente negli ultimi anni. Crescono i particolarismi; si alzano barriere. Al tempo stesso, molti elementi rifluiscono nella lingua comune, travasano da un settore all’altro [...]. 3 – L’influsso dell’inglese è
un fenomeno strettamente connesso con il punto precedente. Accanto agli
aspetti negativi (inutilità di molti anglismi, scarsa perspicuità) è opportuno ricordare quelli positivi: acquisto di calchi e di prestiti necessari a varie terminologie, incentivo a una più estesa formazione delle parole e a una sintassi più
snella [...]. 4 – I moderni mezzi di comunicazione di massa determinano la forma del messaggio. Talvolta – purtroppo – ne modificano anche il contenuto,
diventando essi stessi produttori di realtà [...]. Viviamo in un’epoca di transizione. L’uso che facciamo della nostra lingua riflette i progressi e le contraddizioni di un Paese che è mutato e continua a mutare.
Nella lingua di tutti i giorni, intanto, è ormai avviato il processo che in
una decina d’anni porterà a quell’«italiano dell’uso medio» descritto da
Francesco Sabatini (1985). Sancendo l’affermazione di quello che altri
chiameranno neostandard, il saggio di Sabatini chiude un periodo caratterizzato dalla difficile presa d’atto – da parte dei linguisti, ma ancor più
di tutti i parlanti colti – dei cambiamenti che la lingua italiana aveva subito (e subiva) nell’impatto con una massa sempre più ampia di parlanti. Titoli come Lingua in rivoluzione (Fochi, 1966), Il museo degli errori.
L’italiano come si parla oggi (Gabrielli, 1977), Prontuario della lingua selvaggia (Zingarelli, 1979), Ma che lingua parliamo? (Todisco, 1984) rendono bene il contrasto tra «una prepotente, vitale, inarrestabile espansione, quale la lingua italiana non aveva forse mai conosciuto nella sua storia» e l’«immagine di decadimento e di corruzione presentata non solo
da pubblicisti palesemente sprovveduti [...] ma anche da letterati e linguisti» (Lepschy, Lepschy, 1992, pp. 28-9).
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MODERNITÀ ITALIANA
Alla fine degli anni ottanta, l’italiano è ormai una lingua parlata da
quasi tutti gli italiani. Secondo un’indagine ISTAT del 1988, a parlare
esclusivamente in dialetto è rimasto il 14% della popolazione; una percentuale che pochi anni dopo risulta già dimezzata (7% secondo un’indagine ISTAT del 1995; cfr. D’Agostino, 2007, p. 55). L’importanza sempre
maggiore rivestita dai mezzi di comunicazione di massa (televisione su
tutti), la pressione sempre più forte dei linguaggi settoriali (specie quelli tecnico-scientifici), la progressiva internazionalizzazione del lessico su
base anglo-americana trasformano a poco a poco l’italiano da lingua moderna a lingua – se così si può dire – postmoderna.
Un ulteriore potente impulso al cambiamento verrà, alla metà degli
anni novanta, dall’avvento della telematica. Internet (con le e-mail, le
chat line, i blog, i social network) e il telefono cellulare (con gli SMS e l’instant messaging) arricchiranno il repertorio di nuove varietà trasmesse
(come quelle della radio, del telefono, della televisione), ma scritte. Anche alla nostra lingua si apriranno così nuove frontiere, legate a un uso
quotidiano scritto e non più solo parlato. Un’evoluzione imprevedibile
fino a pochi anni fa e in netta controtendenza rispetto alla prima tra le linee di sviluppo che hanno caratterizzato l’italiano degli ultimi decenni.
ORALIZZAZIONE
Dopo aver vissuto per secoli (compreso quello successivo all’Unità d’Italia) soprattutto come lingua scritta, tra gli anni sessanta e gli anni ottanta l’italiano conquista finalmente la dimensione parlata spontanea e
familiare che fino a quel momento era stata del dialetto. «Tra coloro che
conoscevano vent’anni fa l’italiano», nota De Mauro (in Beccaria, 1973,
p. 109), «la grande maggioranza ne aveva una conoscenza prevalentemente scritta [...], quindi era portata ad usare l’italiano secondo moduli stilistici di tipo formale, tendenzialmente scolastico». Nel giro di pochi decenni, lo sbilanciamento verso l’oralità – proprio anche della nuova educazione scolastica – porterà a capovolgere il tradizionale rapporto tra scritto e parlato. «Si è rovesciato il rapporto che c’era trent’anni
fa, quando l’italiano orale nazionale quasi non esisteva, era regionale, e,
invece, reggeva lo scritto», nota Maria Corti (in Todisco, 1984, p. 38), lamentando che nelle tesi di laurea, anche di studenti brillanti, «l’insufficienza va da errori di ortografia a un parlato riprodotto nello scritto che
risulta un italiano poverissimo».
Su un piano di diversa consapevolezza, la tendenza a simulare il parlato nello scritto permea in quegli anni lo stile dei giornali e di molta letteratura. Tutto era cominciato, ancora una volta, alla metà degli anni ses18
1. LINGUA
santa: «la lingua letteraria italiana, oggi, è irrequieta» – scriveva la stessa
Corti (2001 [1965], p. 93) – «in essa succede qualcosa. Il contraccolpo del
progressivo mutarsi di situazione nel settore della lingua parlata non può
non agire sul sistema nervoso letterario». Quanto ai giornali, l’espansione del parlato 3 parte alla fine degli anni sessanta dalla cronaca cittadina,
in cui la patina dialettale e gergale serve a dare ai resoconti un tono di volta in volta comico o patetico. Nel decennio successivo, orientandosi verso registri meno marcati, questa «tonalità parlata» diventa la cifra specifica dei quotidiani più innovativi.
Infine, complice la tecnica del «mosaico di citazioni» e la presenza
sempre più invadente delle interviste, la simulazione di parlato si afferma
come il principale strumento di “animazione” della scrittura (Dardano,
2008 [1994], p. 276). Non più solo scelte lessicali basse, ma anche strutture sintattiche anomale, interiezioni, intercalari, abbondanza di segnali
discorsivi che si cristallizzano in una manieristica stilizzazione dell’oralità
(cfr. Serianni, 2000, pp. 321-8). Tuttavia, la vivacizzazione, lo svecchiamento, l’avvicinamento al parlato che la lingua dei mass media italiani ha
conosciuto non sono serviti – o solo apparentemente – a coinvolgere i cittadini in un circuito d’informazione più maturo, utile alla società civile: il
passaggio «dalla vecchia retorica dell’oscurità alla nuova retorica della
brillantezza non ha cambiato, nella sostanza, il discorso dei giornali italiani» (Loporcaro, 2005, p. 71).
L’oralizzazione investe in questi anni anche i media orali, in cui si
passa in misura sempre più massiccia dallo scritto-parlato (cioè detto
sulla base di una traccia scritta, più o meno precisa: Nencioni, 1983
[1976]) al parlato-parlato: il parlato spontaneo, non pianificato. Quello
dei presentatori come Mike Bongiorno (che «rende movenze tipiche del
parlato più irriflesso»: De Mauro, 1970 [1963], p. 437) 4, ma anche dei
3. Che Dardano (1981 [1973], p. 253) mette in relazione «con il grande progresso dei
mezzi di registrazione della parola. La possibilità di riascoltare un discorso, un dialogo fa
sì che certi caratteri formali possano essere più facilmente ritenuti e successivamente immessi nella lingua scritta».
4. «Guardi, questa sera le dobbiamo dire due cose molto belle: la prima è che nell’evenienza che lei non raddoppi questa sera, c’è un gruppo di persone, che non so bene
quale gruppo sia, che le costruirà un appartamento che lei potrà andare ad abitare il giorno in cui si sposa». In effetti, il brano con cui De Mauro (1970 [1963], p. 437) esemplifica
questo «parlato informale standard, povero lessicalmente, sintatticamente precario»
(tratto da una puntata di Lascia o raddoppia? dell’11 febbraio 1956) presenta una «infilata
di che a cannocchiale», ma si mostra anche attento all’uso del congiuntivo, al rispetto della consecutio temporum, alla formalità del le. Siamo lontani, insomma, dal «basic italian»
attribuito a Mike Bongiorno da Eco (1963 [1961], p. 75): «il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi».
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MODERNITÀ ITALIANA
concorrenti che partecipano ai suoi quiz; e poi quello degli intervistati:
i politici, i cantanti, gli sportivi, e le tante persone qualunque che vengono coinvolte nelle inchieste e nei numerosi reportage prodotti dalla
RAI. Una componente, quella del parlato quotidiano, che si affaccerà
precocemente alla radio (la prima trasmissione con le telefonate degli
ascoltatori in diretta è Chiamate Roma 3131, 1969) 5 e tenderà a prendere il sopravvento nelle trasmissioni più o meno abborracciate delle prime radio e TV locali (dal 1976), e poi nella cosiddetta “TV verità” della
RAI 3 diretta da Angelo Guglielmi (dal 1987). Infine, dagli anni novanta,
invaderà definitivamente i teleschermi attraverso il proliferare dei talk
show, con la loro «conversazione spettacolarizzata» (Romano, 2010) e
dei cosiddetti reality, in cui assumerà le forme di un enfatico iperparlato (Antonelli, 2007, pp. 113-4) 6.
La progressiva perdita di terreno della scrittura, d’altra parte, è legata anche all’uso del telefono. «La differenza tra me e mia figlia», chiosava nel 1983 la linguista Maria Luisa Altieri Biagi, intervenendo a un convegno dell’Accademia della Crusca, «è scandita dal fatto che i miei epistolari amorosi erano per me importantissimi. Ho perfino desiderato che
i miei fidanzati partissero per avere questo tipo di contatto verbale. Invece mia figlia telefona, con grave danno delle finanze familiari, e, a parer mio, perdendo qualche cosa nel tipo di rapporto» (in Todisco, 1984,
p. 85). Negli stessi anni, d’altra parte, il semiologo Gian Paolo Caprettini assimilava la telefonata a una lettera simultanea: «la telefonata ha strette analogie con certe forme epistolari, anzi è l’attuale equivalente della
lettera» (Caprettini, 1985, p. 223). Era il trionfo della cosiddetta «oralità
secondaria»: all’interno «dell’attuale cultura tecnologica avanzata», scriveva Ong (1986 [1982], pp. 29-30), «una nuova oralità è incoraggiata dal
telefono, dalla radio, dalla televisione e da altri mezzi elettronici». L’analfabetismo di ritorno appariva come una china inesorabile; la scrittura
stessa veniva data per spacciata in molte prognosi autorevoli.
Negli ultimi vent’anni, però, lo sviluppo della telematica ha reso possibile inviare contemporaneamente testi scritti, immagini fisse e in movi5. «Bisogna per onestà ricordare che la radio RAI non ha aspettato il ’76 per instaurare un filo diretto col proprio pubblico. Basta in proposito citare una trasmissione famosa, Chiamate Roma 3131, in onda tutte le mattine a partire dal 7 gennaio 1969 (condotta da Gianni Boncompagni, Franco Moccagatta e Federica Taddei), continuata dal ’72 da
Dalla vostra parte, condotta da Guglielmo Zacconi e Maurizio Costanzo» (Maraschio,
1987, p. 207).
6. Significativo che anche quello messo in scena nelle fiction della neotelevisione non
venga più definito un parlato recitato (cfr. ancora Nencioni, 1983 [1976]), ma un «parlato-oralizzato» (Alfieri et al., 2010).
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mento, suoni; anche nei telefoni cellulari di ultima generazione la trasmissione della voce è diventato solo uno dei diversi impieghi. Così il concetto di audiovisivo è stato riassorbito all’interno di quello più ampio di
multimediale: l’evoluzione tecnologica ci ha abituati a una fruizione integrata della comunicazione, in cui la parola scritta ha riconquistato uno
spazio importante. «È con la rete, o meglio con le diverse forme di Comunicazione Mediata dal Computer (CMC), che la parola sembra davvero conoscere un poderoso ritorno» (Carlini, 1999, p. 40).
Chi pone l’accento sulla scrittura, parla di una «terza fase» – dopo
quelle dominate dalla scrittura alfabetica e dalla stampa – in cui all’intelligenza sequenziale si va sostituendo un’intelligenza simultanea, che
“guarda” invece di leggere (cfr. Simone, 2000, pp. 71-95). Chi invece si
concentra sul parlato, segnala lo sviluppo di un’oralità terziaria: «quella
dei sistemi multimediali, della realtà virtuale e della rete è un’oralità elettronica, come la “seconda”, ma si basa sulla simulazione della sensorialità, non più sulla trasmissione della sensorialità» (De Kerckhove, 2004).
SEMPLIFICAZIONE
Proprio la conquista di una dimensione parlata sempre più significativa
ha creato nell’italiano dell’uso diversi «punti di crisi soggetti a pressioni
di vario ordine (strutturale, tipologico, di contatto interlinguistico, diastratico, diatopico, diamesico) che nel complesso mirano ad una semplificazione del suo complicato sistema e fanno riemergere tratti dell’italiano non letterario già presenti nel passato» (Ramat, 1993, p. 35). Come ricorda Berruto (1987, pp. 42-3), il concetto di semplificazione è in linguistica un concetto comodo, ma rischioso: intuitivo, ma anche vago nei
suoi contorni. Nondimeno, la nozione può essere definita facendo riferimento allo scarto che esiste tra «le risorse messe a disposizione dalla
lingua e quelle effettivamente adoperate dai parlanti»: «l’italiano ha dovuto adattarsi alle esigenze di una più vasta massa di parlanti, ed ha così perduto un certo numero di proprietà che questi percepivano come
eccessivamente complicate» (Simone, 1993, pp. 64-5).
Le aree del sistema che sono state maggiormente investite dal movimento verso il neostandard sono senz’altro quella dei pronomi personali (lui, lei, loro come soggetto al posto di egli, ella, essi/esse; gli anche per
“a lei” e “a loro”); quella dei tempi verbali (uso sempre più frequente del
passato prossimo e sempre più raro del passato remoto, scomparsa definitiva del trapassato remoto 7, espansione dell’imperfetto controfattua7. Cfr. Telve (2005).
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MODERNITÀ ITALIANA
le in frasi come «se lo sapevo venivo» e del presente a spese del futuro
in frasi come «domani passo») 8.
Alcuni cambiamenti nell’uso dei modi verbali vanno interpretati nel
quadro di un più vasto mutamento. In particolare, «la scelta dell’indicativo nelle subordinate» al posto del congiuntivo 9 può essere considerata «un indicatore prezioso del movimento dell’italiano contemporaneo
verso la semplificazione profonda delle strutture sintattiche» (Tesi, 2005,
p. 231). Mettendo a confronto un campione di prosa argomentativa del
1913 (il Breviario di estetica di Benedetto Croce) e uno del 1985 (Sugli specchi e altri saggi di Umberto Eco), il rarefarsi del congiuntivo (da 19 casi
a 4) va di pari passo con la drastica riduzione del numero medio di proposizioni per periodo sintattico (da 7,8 a 3,5) e della profondità della subordinazione: l’italiano scritto contemporaneo «non scende oltre la soglia del 2° grado di subordinazione, se non in casi quantitativamente limitati o prossimi allo zero» (ivi, p. 233).
Dati analoghi emergono da confronti a campione sull’italiano dei
giornali. In base ai calcoli fatti da Bonomi (2002, pp. 249-50), il numero
di parole che costituiscono un periodo nei giornali di oggi è in media tra
20 e 25; negli anni cinquanta era maggiore di circa dieci punti, negli anni ottanta era poco meno di 28. Il numero medio di proposizioni per periodo è oggi 2,5 (2,39 nei quotidiani on line): una sessantina d’anni fa era
3,5. Si tratta – d’altra parte – di un fenomeno generalizzato, che ultimamente ha investito anche la scrittura letteraria, specie quella dei best seller. «Lo accompagnai in ospedale. Abbracciò forte la mamma. Le disse
parole di conforto. Poi portarono Stella. Lui la guardò in silenzio, confuso». Nel romanzo di Walter Veltroni, La scoperta dell’alba (pubblicato da Rizzoli nel 2006: oltre centomila copie vendute nei primi due giorni dall’uscita), la media – calcolata a campione – rimane al di sotto delle 10 parole per periodo; gran parte dei periodi è composta da una sola
proposizione; la subordinazione non scende mai oltre il primo grado.
Come si vede, la brevità dei periodi è spesso dovuta all’uso abnorme del
punto fermo. Un fenomeno già segnalato nella scrittura giornalistica di
fine anni sessanta (cfr. Frescaroli, 1968, pp. 21-3), poi dilagante a partire
dagli anni novanta (cfr. Gatta, 2004, pp. 269-71), che va inquadrato in un
più generale processo di semplificazione della punteggiatura.
A fronte di un ricorso sempre più frequente alla punteggiatura espressiva, infatti (punti esclamativi e punti di sospensione: L’Italia è una Re8. Per un sintetico ma articolato quadro dell’italiano contemporaneo, cfr. D’Achille
(2010 [2003]).
9. Nei limiti e nelle condizioni emerse da studi come Schneider (1999) e Lombardi
Vallauri (2003).
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pubblica fondata sui puntini di sospensione, scherzava Eco, 1992), sta prendendo piede un «estremismo interpuntorio» (Garavelli, 2003, p. 67). Ovvero un uso che privilegia il sistema bipartito virgola per pausa breve, punto fermo per pausa forte, a scapito della cosiddetta punteggiatura intermedia (due punti e punto e virgola). Non sarà un caso che il T9 di molti
telefoni cellulari offra in sequenza punto, virgola, trattino, punto interrogativo, punto esclamativo, apostrofo, chiocciola e solo in fondo alla lista i
due punti e il punto e virgola. Ma la tendenza è riscontrabile ben oltre i
confini della scrittura digitata. Se ancora nel 2001 tutti i libri finalisti al premio Strega usavano regolarmente il punto e virgola (con l’eccezione di Annalucia Lomunno, classe 1972: cfr. Serianni, 2001), nel suo best seller del
2008 – La solitudine dei numeri di primi, più di un milione di copie vendute a oggi solo in Italia – Paolo Giordano (classe 1982) usa soltanto punti fermi, virgole e qualche sparuto quanto inevitabile punto interrogativo.
ICONICITÀ
In compenso, due punti e punti e virgola sono molto usati negli emoticons, le “faccine” ottenute combinando trattini, parentesi e segni di punteggiatura che appaiono con grande frequenza nelle chat e nelle e-mail
informali, un po’ meno negli SMS (perché scomode da digitare sulla tastiera del telefono). Le faccine sono una delle tante soluzioni della scrittura digitata miranti a restituire gli aspetti non verbali del parlato faccia
a faccia: la mimica, appunto, ma anche l’intonazione e il volume della voce, la gestualità. Soluzioni che, da un punto di vista linguistico, si possono definire iconiche. Nella stessa direzione vanno le onomatopee come
smack, brrr, eccì, pruuuuuu!; la resa emotiva affidata all’uso del maiuscolo («c’è il PORCONE mascherato da docile PECORELLA»), all’iterazione
vocalica (ciaooo, arrivooooo), a trattini e asterischi (che servono a mettere *qualcosa* in particolare e-v-i-d-e-n-z-a).
Faccine escluse, non si tratta certo di novità. Moltissimi, ad esempio,
i punti di contatto che chat, e-mail e SMS presentano con le lettere di adolescenti degli anni ottanta. In quelle lettere, notava Dinale (2001, p. 57),
«compaiono numerosi elementi extralinguistici, che possono essere considerati gli equivalenti grafici di risorse espressive non-verbali quali sguardi, gesti, espressioni facciali». E segnalava la presenza di cumuli interpuntivi ispirati alla lingua dei fumetti e della pubblicità (??, !!!, !?!?); di
simbolismi iconici e fonici come onomatopee, acrostici, disegnini stilizzati («che 0 0 !» “che palle!”); di grafie espressive (come le più bbone o
ciaoooo); oltre al largo uso di sottolineature, alternanze stampatello/corsivo, freccette e molti altri espedienti grafici (frasi a raggiera, a festone, a
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MODERNITÀ ITALIANA
nuvoletta, a quadro). Una iconicità che deve molto – anche se non consapevolmente – a quella del linguaggio pubblicitario, in cui erano normali
fin dai decenni precedenti soluzioni come «cafffè Camerino, il caffè con
tre effe» e «la refrigerazione Costan brrrevetta il freddo» (più tardi anche
Brr Brancamenta o «siamo tutti soffffffici, soffffffici Fay») e spesseggiavano trovate grafiche come «perché seduti anziché S.D.R.A.I.A.T.I. fino agli
USA?» o «cin contriamo con Cin Soda» (cfr. Arcangeli, 2008, p. 58) 10.
Fin dagli anni settanta, d’altra parte, l’iconismo non ha riguardato
solo il modo di scrivere le parole, ma anche quello di organizzare e presentare i testi. «Con immagini e iconismi di varia natura, prima il rotocalco poi il quotidiano, hanno cominciato a mimare la “visibilità” e il
parlato-parlato della televisione» (Dardano, 2008 [1994], p. 250). Oggi è
normale che in una pagina di giornale «riepiloghi storici, argomenti collaterali, testimonianze, interviste, statistiche, glossari» (insieme a elementi visivi come foto e grafici e a microtesti come sommari, didascalie,
trafiletti, riquadri) si dispongano intorno al testo centrale secondo una
«struttura a stella» spiccatamente iconica (ibid.). Una tendenza che, fortemente condizionata dall’abitudine della lettura a schermo, coinvolge
ultimamente anche la scrittura professionale: basti pensare al corredo di
elenchi punti, rientri, frecce usato sull’esempio della scrittura-cartello
veicolata prima dalle diapositive e dai lucidi, poi dalle presentazioni in
power point.
L’ARCHITETTURA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO/1
A proposito di iconismo, per rendere anche visivamente l’evoluzione
dell’italiano in questi quarant’anni, si è scelto di riportare – in fondo a
ognuna delle tre parti in cui è strutturato questo contributo – uno schema sinottico (FIG. 1). Il primo è quello con cui Wandruska (1974, p. 6),
pur riconoscendo che «non è facile raffigurare la polifonia socio-culturale di una lingua umana senza incorrere in geometrizzazioni abusive»
(ivi, p. 5), prova a sintetizzare la situazione dell’italiano all’inizio degli anni settanta.
10. Un aspetto, questo, per cui si potrebbe risalire fino al futurismo, con la sua stretta interazione tra scrittura e arti visive che portava a soluzioni grafiche («fffiiiischia»,
«goonfio» in una Tavola parolibera di Francesco Cangiullo) o tipografiche («SOLE colossale blocco di sapone» nelle Rarefazioni e parole in libertà di Corrado Govoni) miranti a ricondurre le parole non tanto al senso, quanto ai sensi. Tra tutti, l’udito, come nella ben nota Fontana malata di Palazzeschi («Clof, clop, cloch, / cloffete, / cloppete, / clocchete, /
chchch») o nel marinettiano Zang rumb tumb («sulla spiaggia del silenzio bulgaro mare
agonie eleganti Nizza Menton Sanremo patapum-pluff ONDA fraaaaaah GHIAIA»).
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1. LINGUA
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L’architettura dell’italiano contemporaneo (Wandruska, 1974)
FIGURA
religioso
registro letterario
Poetoletti
LINGUA
filosofico
giuridico
ufficiale
medico
scientifico
tecnologico
sportivo
S TA N D A R D
ecc. ecc.
Te c n o l e t t i
locale
regionale
Regioletti
lingua parlata
familiare
popolare
gerghi
Socioletti
Dialetti
Adottando una terminologia che oggi ci appare datata 11, Wandruska colloca al di sopra della lingua standard un ventaglio di varietà settoriali che
scende dai poetoletti (facili all’arcaismo) verso i tecnoletti (i più ricchi di
«europeismi» e «internazionalismi»). Al di sotto si situano, invece, le varietà locali («utilissimo il termine regioletto»: ivi, p. 6) e quelle socialmente caratterizzate (socioletti, appunto), fino ai gerghi («si pensi ai tecnoletti-socioletti dei vari sottogruppi e sottoculti marginali [...] al gergo
hippy, a quello della droga...»: ivi, p. 10).
L’italiano nella società dei consumi:
gli anni settanta e ottanta
Il punto da cui partire per ricostruire la storia dell’italiano moderno è,
come s’è detto, il dibattito sorto alla metà degli anni sessanta intorno al11. E rifiutando, invece, quella destinata a diventare di uso generale: «Leiv Flydal sin
dal 1952 aveva proposto di nominare («sulla scia del dia-letto e del neologismo saussuriano dia-cronico») diatopico tutto ciò che è varietà regionale, diastratico i vari registri sociali; coniature non molto felici, e ancora meno felice diafasico, aggiunto da Eugenio Coseriu per designare i vari “tipi di modalità espressiva”» (Wandruska, 1974, p. 4).
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MODERNITÀ ITALIANA
le posizioni di Pier Paolo Pasolini. Raccogliendo in volume i principali
interventi di quella Nuova questione della lingua, Oronzo Parlangèli confuta recisamente l’assunto di Pasolini («cioè che in Italia non esiste una
vera e propria lingua nazionale»), ed esclama: «invece, la lingua nazionale esiste ed è vera!» (Parlangèli, 1971 [1969], p. 22). Ma l’affermazione,
qualche pagina più avanti, si rivela più che altro un auspicio: «una lingua italiana, dignitosa ma non pedante, vivace ma non sguaiata, è un traguardo che merita d’essere raggiunto. Quella lingua comune ci appare
quasi come un “miracolo”: ma si potrà raggiungere soltanto se gli Italiani leggeranno più libri, se i giornali saranno più diffusi e più facili, se la
TV sarà più istruttiva, ma soprattutto se nella scuola si insegnerà veramente l’italiano» (ivi, p. 36).
Solo alcune di queste condizioni si realizzeranno negli anni a venire.
Eppure, nel giro di due decenni, l’italiano riuscirà a diventare finalmente una vera lingua nazionale, superando quegli ostacoli che un secolo di
unità politica non era bastato a superare: «Uno è l’affermazione nei confronti del dialetto [...]. L’altro aspetto è l’affermazione di un italiano medio usuale, cioè di un modello linguistico per l’uso quotidiano della collettività» (Peruzzi, 1964 [1961], pp. 6-7).
DAL DIALETTO ALL’ITALIANO REGIONALE
Dal primo dei due aspetti ripartivano, nella loro descrizione dell’italiano contemporaneo, Giacomo Devoto e Maria Luisa Altieri Biagi (1979
[1968], p. 271):
In cento anni di unità nazionale la lingua della «repubblica letteraria» è diventata la lingua di tutti gli italiani [...]. È innegabile che il ruolo dei dialetti,
negli ultimi decenni, sia diventato di secondo piano. I dialetti non si pongono
più come alternativa: annacquano le loro caratteristiche più spiccate (lessicali, morfologiche, sintattiche, fonetiche) in un progressivo accostamento alla
lingua nazionale.
La progressiva diffusione della conoscenza dell’italiano implica un indebolimento dei dialetti sia sotto il profilo quantitativo (sempre meno
persone che si esprimono in dialetto o soltanto in dialetto), sia sotto il
profilo qualitativo (progressivo avvicinamento dei dialetti all’italiano) 12.
Il primo processo è quello più clamoroso ed evidente, con le maggiori
12. È quella che è stata definita la «trasfigurazione dei dialetti» (Francescato, 1986):
una tendenza che, nel giro di qualche decennio, ha portato a distinguere nettamente tra
dialetto «arcaico» e dialetto «moderno» (Marcato, 2002a, pp. 53-69).
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1. LINGUA
TABELLA 1
I sondaggi Doxa degli anni settanta e ottanta
– Domanda: Quando parla con i suoi familiari, lei che cosa fa di solito?
parlo con tutti i familiari in dialetto
parlo con tutti i familiari in italiano
con qualcuno parlo in dialetto e con altri in italiano
1974
1982
1988
51,3%
25,0%
23,7%
46,7%
29,4%
23,9%
39,6%
34,4%
26,0%
– Domanda: Quando lei parla fuori di casa, cioè con gli amici, con i compagni di lavoro, che cosa fa, di solito?
parlo sempre in dialetto
parlo più spesso in dialetto
parlo sia in dialetto che in italiano
parlo più spesso in italiano
parlo sempre in italiano
1974
1982
1988
28,9%
13,4%
22,1%
12,9%
22,7%
23,0%
13,1%
22,0%
15,2%
26,7%
23,3%
9,9%
19,5%
16,3%
31,0%
ricadute sociali. Se fino agli anni sessanta i dati sulla diffusione di italiano e dialetto possono essere ricavati solo indirettamente da altri fattori
(come l’alfabetizzazione o il livello di istruzione) 13, dal decennio successivo si comincia a disporre di dati statistici più o meno ampi.
I primi sono – nel 1974, 1982 e 1988 – quelli dei sondaggi Doxa (TAB. 1),
in cui veniva chiesto a un campione tra i mille e i duemila intervistati di
valutare il proprio modo di parlare. Per quanto riguarda il dialetto, si registra in quindici anni una diminuzione che è all’incirca del 10% fuori di
casa e del 12% in casa; per l’italiano un aumento del 12% fuori di casa e
del 9% in casa. Tuttavia, mentre nell’uso fuori di casa l’italiano supera il
dialetto già nel 1982, nell’uso in famiglia il dialetto risulta maggioritario
ancora alla fine degli anni ottanta.
Nello stesso 1988, però, dati diversi emergono da un’inchiesta dell’ISTAT basata sullo stesso meccanismo dell’autovalutazione, ma su un
campione molto più ampio. In questo caso, «il linguaggio abitualmente usato in famiglia» è solo o prevalentemente italiano per il 41,9%
degli italiani, solo o prevalentemente il dialetto per il 31,9%, sia italiano che dialetto per il 25%; «il linguaggio abitualmente usato con estra13. Secondo i calcoli di De Mauro (1970 [1963], p. 131), nel 1951 «per oltre quattro quinti della popolazione italiana il dialetto era ancora abituale e per quasi due terzi [...] era l’idioma d’uso normale nel parlare in ogni circostanza».
27
MODERNITÀ ITALIANA
nei» è solo o prevalentemente l’italiano per il 64,1%, solo o prevalentemente l’italiano per il 13,9%, sia l’uno che l’altro per il 20,3%. Una
situazione nettamente più sbilanciata a favore dell’italiano, che – stando così le cose – sarebbe la lingua di gran lunga più usata con gli estranei, ma anche (sia pure da meno di metà degli italiani) in famiglia 14. In
ogni caso, vale ancora – a quest’epoca – l’osservazione fatta quasi dieci anni prima da Manlio Cortelazzo (1980, p. 22): «i dialetti, lontanissimi dall’estinzione, continuano ad essere usati in circostanze diverse,
non come parlata esclusiva, ma in situazioni di diglossia e/o bilinguismo, con acquisti sempre più numerosi e fitti, e non solo nel lessico,
dall’italiano».
L’abitudine a parlare l’una e l’altra lingua porta a una permeabilità
sempre maggiore in entrambe le direzioni. Secondo i calcoli fatti da
Trifone (2011, pp. 157-60) sull’edizione digitale del GRADIT, più della metà
delle parole dialettali e regionali censite da quel vocabolario è entrata in
italiano dopo l’Unità (3.648 parole datate tra 1861 e 2000 contro le 2.386
dalle origini al 1860). In particolare, «nella seconda metà del Novecento,
dal 1951 al Duemila, si sarebbero diffuse nella nostra lingua 1.664 parole
dialettali o regionali». Anche se l’afflusso si affievolisce via via che il dialetto perde terreno sull’italiano:
dalla fase di transizione costituita dagli anni Cinquanta [691 parole], all’affermazione del consumismo con i suoi stili di vita e i connessi mutamenti sociolinguistici negli anni Sessanta [310 parole], al consolidamento dei processi paralleli di italianizzazione e sdialettizzazione negli anni Settanta [191 parole], fino al superamento del tabù dialettale da parte di una comunità di parlanti ormai largamente italofona negli anni Ottanta [260 parole] e Novanta [212 parole] (ivi, p. 159).
I confini tra lingua e dialetto tendono sempre più ad assottigliarsi. Già
nel 1959, Giovan Battista Pellegrini soffermava la sua attenzione sul
«settore che possiamo definire mediano tra “lingua e dialetto”», ovvero «tra i due poli opposti della lingua letteraria (o, meglio, italiano
standard) e del dialetto schietto (che tende a sparire)». In quel settore potevano individuarsi, «non senza difficoltà di separazione o d’individuazione», due varietà distinte: l’italiano regionale e le koinài dia-
14. «La discrepanza a favore dell’italofonia nei dati ISTAT rispetto a quelli Doxa si potrebbe in parte spiegare con la presenza della classe d’età più giovane, molto propensa all’italofonia. Nei sondaggi Doxa sono esclusi dall’intervista parlanti al di sotto dei quindici anni», nelle inchieste ISTAT si prende in considerazione la popolazione dai sei anni in
su (Berruto, 1994, p. 43).
28
1. LINGUA
lettali o dialetti regionali (Pellegrini, 1975 [1959], pp. 11-2). Ne veniva
fuori una stratificazione a quattro livelli – italiano, italiano regionale,
dialetto regionale, dialetto locale – che per diversi anni avrebbe rappresentato, con minime varianti, il modello condiviso del repertorio
linguistico italiano 15.
Tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, gli studi sull’uso del dialetto (Sornicola, 1977; Trumper, 1984; Berruto, 1985) mettono in evidenza la frequenza sempre maggiore, nel parlato spontaneo,
dei fenomeni di code switching e code mixing, cioè dell’abitudine ad alternare nel discorso le due varietà o a mescolarle anche all’interno di
una stessa frase. Il rapporto tra lingua e dialetto non è più descrivibile
in termini di contrapposizione, e neanche di gradatum a quattro o più
livelli, ma di continuum, ovvero di un insieme separato da una serie
tendenzialmente infinita di possibilità intermedie che sfumano l’una
nell’altra («continuum con addensamenti», lo definisce Berruto, 1987,
p. 29). Come dire che all’interno dei due estremi della dialettofonia e
dell’italofonia esclusiva (limitate sempre più a particolari contesti o situazioni), la comunicazione quotidiana informale è rappresentata ormai da una lingua in cui, in diversa forma e misura, italiano e dialetto
vengono mescidati.
Sempre in quegli anni, le varietà regionali – dapprima «considerate
una tappa intermedia verso la standardizzazione linguistica, un passaggio necessario nel lungo cammino che dalla dialettofonia porta all’italofonia» – conoscono una legittimazione culturale» tale da consentirne
«un “rilancio” prima del tutto imprevedibile» (Sobrero, 1978, p. 210). E
questo anche grazie alla rivoluzione avvenuta nella comunicazione radiotelevisiva:
con la fortuna e la proliferazione eccezionale delle emittenti locali uno strumento di comunicazione che sino a due-tre anni fa era unanimemente ritenuto
il principale fattore di standardizzazione linguistica si è radicalmente trasformato, offrendo all’ascoltatore la disponibilità ricettiva – e produttiva – di un italiano geograficamente connotato, che è, nella maggior parte dei casi, la varietà
usata dai presentatori e dagli annunciatori delle emittenti locali (ivi, p. 211).
«Le inchieste sull’italiano regionale» si avviano così a diventare «la fonte più utile per la conoscenza dell’italiano parlato» (Nencioni, 1989
[1973], p. 256) e, giunti agli anni novanta, «la vera realtà parlata dell’italiano sono gli italiani regionali» (Mengaldo, 1994, p. 98).
15. Sulla storia e l’evoluzione del concetto di italiano regionale, cfr. L’italiano e le regioni (2002; in particolare Marcato, 2002b, pp. 53-69) e D’Achille (2001).
29
MODERNITÀ ITALIANA
DALL’ITALIANO POPOLARE ALL’ITALIANO DELL’USO MEDIO
L’italiano regionale, dunque, non è solo la lingua di chi ha per lingua madre il dialetto: è anche – in condizioni d’informalità – una forma d’espressione delle persone colte 16. Questo lo differenzia nettamente dal cosiddetto «italiano popolare», varietà individuata per la prima volta da De
Mauro (1970a, p. 43: «il modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama lingua “nazionale”») e sistematicamente descritta da Cortelazzo (1976 [1972], p. 11), che la definisce «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto». Esemplificata quasi sempre con esempi di lingua scritta e suscettibile di essere applicata anche a testi prodotti nei secoli precedenti, l’etichetta individua – stavolta
sì – quella che oggi si definirebbe un’“interlingua”, vale a dire l’insieme di
“errori” comuni dovuti all’insufficiente conoscenza di una lingua diversa
dalla lingua madre. Questa matrice comune era enfatizzata sia da De Mauro (1970a, p. 43), che parlava esplicitamente di «italiano popolare unitario», sia da Cortelazzo (1976 [1972], p. 13): «sebbene sorto dalla multiforme matrice di innumerevoli varietà dialettali, l’italiano popolare presenta
sorprendenti caratteri comuni, che lo rendono, al di là delle superficiali variegature di provenienza locale, fondamentalmente unitario nella forma e
nella sostanza». Questa «impressione di unitarietà [...] è stata poi molto ridimensionata negli studi successivi» (D’Achille, 2011, p. 724), e all’etichetta di italiano popolare si è spesso preferita quella di italiano dei semicolti
(cioè di coloro che «pur essendo alfabetizzati, non hanno acquisito una
piena competenza della scrittura»: D’Achille, 1994, p. 40) 17.
Ancora per tutti gli anni ottanta, tuttavia, le nozioni di italiano regionale e italiano popolare tenderanno a confondersi e a essere identificate con l’«italiano tendenziale» (Mioni, 1983), ovvero con quello che in
proiezione si pensava sarebbe diventato l’italiano del futuro. Del futuro
forse, ma nel presente di quegli anni ancora un italiano scorretto, sbagliato, pieno di usi e costrutti tutt’altro che accettati dalla coscienza linguistica collettiva. Un italiano, insomma, al di sotto di quell’uso medio
che Sabatini (1985) descriveva sulla base di una ventina di fenomeni
grammaticali e microsintattici. Tra i principali: l’uso di lui, lei e loro in
funzione di soggetto 18; i tipi c(i) ho (“ci attualizzante”) e il caffè lo bevo
amaro per bevo il caffè amaro (“dislocazione”); il ci locativo al posto di
16. Cfr. almeno Sabatini (1985, p. 176); Telmon (1994, p. 609) e Avolio (1994, p. 574).
17. La definizione di semicolti è stata promossa da Bruni (1984, pp. 144-89).
18. All’altezza dei primi anni novanta, nel Lessico di frequenza dell’italiano parlato
(LIP), «il rapporto egli/lui è mediamente di 1/20 (ma egli è assente dai testi meno forma-
30
1. LINGUA
vi; la preferenza per questo rispetto a ciò e per siccome, perché, quando
nei confronti di poiché, giacché, allorché; la maggiore diffusione di costrutti con l’indicativo al posto del congiuntivo (penso che è bello) e il
presente al posto del futuro (domani parto); una generale estensione degli impieghi dell’imperfetto indicativo (come nel periodo ipotetico: se lo
sapevo non venivo). A un livello che ancora oggi risulta accettato solo in
registri informali (e comunque non nello scritto), anche l’uso di gli per
“a lei” e “a loro”; le forme ’sto e ’sta per questo e questa; l’uso di costrutti
come a me mi o il ragazzo che ci ho parlato ieri.
In molti casi – come lo stesso Sabatini faceva notare – si tratta di usi
attestati nella nostra lingua fin da epoca molto antica, a volte corrispondenti a tendenze del parlato che già dall’inizio dell’Ottocento cominciano a far breccia nello scritto 19. L’impiego di lui, lei e loro come pronomi
soggetto, ad esempio, è una delle novità introdotte da Alessandro Manzoni nella seconda edizione dei Promessi sposi (1840-42). I cambiamenti
rispetto al passato, dunque, non possono essere definiti in termini di
contraddizione, quanto piuttosto di avanzamento quantitativo e soprattutto qualitativo: nel senso, cioè, dell’ascesa di alcuni tratti prima relegati alle varietà più basse della lingua fino ai registri di maggior prestigio. Il fatto nuovo è proprio la conquistata accettabilità di quei tratti anche in contesti in cui prima non erano permessi: una «risalita verso la
norma (certamente orale, in gran parte anche scritta) di esiti, in genere
riscontrabili da tempo nella lingua italiana, fino ad ora considerati non
standard, normativamente non accettabili» (Cortelazzo, 1995, p. 109) che
fa di questo italiano dell’uso medio l’equivalente di un «neostandard»
(Berruto, 1987, pp. 23-4 e 62-5).
DALLA NORMA ALLA CONTESTAZIONE
In una lingua viva, d’altra parte, la norma è un concetto dinamico, in
continua evoluzione. La norma degli utenti – scriveva Antonio Gramsci
nei suoi Quaderni del carcere – è definita «dal controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla “censura” reciproca»: «tutto questo
complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè a stabilire “norme” o giudizi di correttezza o di
scorrettezza» (cit. in Tesi, 2005, p. 210). Nel secondo Novecento, svanito il potere modellizzante dei testi letterari, continuano ovviamente a esli), ella risulta definitivamente scomparso» (Sobrero, 1993, p. 414) e anche nei quotidiani
la preferenza per lui/lei/loro risulta schiacciante (Bonomi, 1993, pp. 182-5).
19. Tanto che Castellani (1991) li riconduceva all’«italiano normale» o «senz’aggettivi».
31
MODERNITÀ ITALIANA
sere tenuti in considerazione i testi normativi per definizione: grammatiche e dizionari. Ma le maggiori responsabilità nel plasmare la sensibilità normativa degli utenti spettano senz’altro alla scuola.
Proprio su quest’aspetto puntava polemicamente l’intervento di
don Lorenzo Milani, priore di Barbiana in Toscana. La sua Lettera a una
professoressa (1967) ebbe un impatto notevolissimo sulla cultura del
tempo, ponendo la questione linguistica al centro della scuola e dunque
della società. Convinto che la lingua svolga un ruolo determinante per
l’integrazione sociale dei poveri, don Milani denunciò la complessità e
l’artificiosità dell’italiano che si insegnava a scuola: «Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro». Non solo: la lingua aulica insegnata a
scuola era – a suo modo di vedere – dannosa per tutti: «Ai poveri toglie
il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose». Di qui
l’esigenza di «eliminare ogni parola che non usiamo parlando» e il sogno
di una lingua «che possa essere letta da tutti, fatta di parola d’ogni giorno». Infatti, «è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e
intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta
che parli» (Lettera, 1967, pp. 18, 104, 96).
Molto polemico nei confronti dell’insegnamento linguistico impartito a scuola era anche Tullio De Mauro, che già qualche anno prima aveva denunciato la scarsa capacità della scuola nel promuovere realmente
l’italofonia:
Se la situazione linguistica del paese si è andata modificando, se sempre crescente è stato di anno in anno il numero degli italofoni, ciò è dipeso non tanto
dall’azione della scuola, quanto da altri fattori: industrializzazione, migrazioni
interne, urbanesimo, allargamento del dibattito politico a ceti più vasti, adozione dei mezzi di informazione e di spettacolo di massa, hanno consentito e imposto a masse enormi di individui di varie regioni di venire a contatto fra loro e
di venire a conoscere la lingua comune (De Mauro, 1977 [1965], p. 21).
Di qui la battaglia sostenuta in prima persona da De Mauro (insieme ad
altri linguisti) perché quell’insegnamento fosse svecchiato nelle forme e
nei contenuti: «La scuola tradizionale ha insegnato come si deve dire una
cosa. La scuola democratica insegnerà come si può dire una cosa, in quale infinito universo di modi distinti di comunicare noi siamo proiettati
nel momento in cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa»
(De Mauro, 1977 [1974], p. 100).
Valga, come esempio dell’«italiano artificiale veicolato e codificato»
dalle grammatiche scolastiche di quegli anni e della perfetta convergen32
1. LINGUA
za tra «grammatica della società e grammatica della lingua», l’autodiacronia linguistica di Giuseppe Patota (2009, p. 87), nella quale si riporta
un brano della grammatica su cui il futuro linguista – dodicenne – studiava nel 1968:
Roberto e Mariolina Nerelli sono due fanciulli di dodici e di dieci anni. Roberto
è il primogenito, Mariolina la secondogenita. Essi abitano, con i loro genitori, a
Roma; il loro babbo è funzionario di una Compagnia Aerea e, per questo motivo, viaggia molto. La loro mamma non ha un lavoro extradomestico; ella è una
casalinga, accudisce alle faccende di casa con l’aiuto di una lavoratrice a ore e si
occupa particolarmente dell’educazione e dell’istruzione dei suoi due bambini.
Dopo la diffusione delle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica promosse dal GISCEL (1975), si registra, nel campo delle grammatiche
scolastiche, una vigorosa ventata innovativa e antinormativa 20. Il libro di
grammatica si apre alle nozioni teoriche – soprattutto a quelle dello strutturalismo, molto in voga in quegli anni – e rinuncia a dare indicazioni assolute su ciò che è giusto o sbagliato: «le “regole” di una “lingua”, le “leggi” che bisogna rispettare nel parlarle, non ci sono imposte da Dio, non
sono fissate per l’eternità», proclamava Raffaele Simone nel suo Libro d’italiano (Simone, 1976, p. 98). Il risultato è, come annota lo stesso Simone
(1980, p. 12), che «quanto alla scuola, fino a un decennio fa la si poteva
tranquillamente accusare di esser lei l’ostacolo più serio ad una seria diffusione dell’italiano. [...] Oggi le cose per fortuna non stanno più così».
Già con gli anni ottanta, però, le grammatiche scolastiche sarebbero tornate a un atteggiamento più tradizionalmente normativo, sia pure attento alle variazioni legate ai diversi contesti e ai diversi usi della lingua e
aperto alle acquisizioni della linguistica scientifica 21.
Si era ormai chiusa (con il cosiddetto “riflusso” verso i valori del privato: lavoro, guadagno, famiglia) la stagione contestataria aperta dal
maggio 1968. Una contestazione che in pochi anni era stata in grado di
cambiare in buona parte il costume linguistico degli italiani. «Moto di
democratizzazione “profonda”, il 1968 ha significato la conquista della
parola per categorie di subalterni e di emarginati; è nata la controinformazione; si è affermata una precisa esigenza di controllo sul linguaggio
20. «L’interesse e l’attenzione degli addetti ai lavori in linguistica nei riguardi dell’educazione linguistica sta crescendo con rapidità esponenziale» (Berruto, 1979 [1975],
p. 120). Per una rassegna critica delle grammatiche scolastiche disponibili in quegli anni,
cfr. Cardona, Simone (1971) e Bertinetto (1974).
21. «Abbiamo avuto da qualche anno a questa parte un ritorno ad antiche certezze:
lo studio della grammatica e dell’analisi logica, le ragioni della norma, i modelli da tener
presente nella pratica dei vari tipi di scrittura» (Dardano, 1994, p. 377).
33
MODERNITÀ ITALIANA
politico; sono caduti tabù sociali e linguistici» (Dardano, 1978, p. 244). E
c’è stato anche l’affacciarsi alla ribalta nazionale del linguaggio giovanile: una varietà generazionale che negli anni a venire avrebbe dato un importante contributo all’italiano colloquiale.
Fino alla seconda metà del Novecento, «che i figli [...] cercassero un
linguaggio diverso da quello dei padri non passava per la mente né ai genitori né ai professori» (Nencioni, 1988 [1983], p. 104). Se i primi cenni a
un gergo delle signorine snob risalgono addirittura al 1940 («Quel Giorgio mi piace un pozzo!», «Oggi mi sento racchia, racchissima», «Mi fa
un baffo»: cfr. Lauta, 2006, p. 10), è solo dai primi anni sessanta che si
avverte «presso le classi giovanili della media e dell’alta borghesia» una
«tendenza a sovvertire gli equilibri e i pudori della comunicazione verbale», dando vita a «un linguaggio che oscilla tra il burlesco e il cinico,
indulge a esibizionismi snobistici, a invenzioni grottesche, a vocaboli
stranieri, dialettali, furbeschi [...]. E lascio i casi di estrema libertà di linguaggio, di turpiloquio, di trivialità», come scriveva nel 1961 Alfredo
Schiaffini (cit. ivi, p. 9).
Dalla fine degli anni sessanta, in corrispondenza col primo momento
storico di vera contrapposizione generazionale, il linguaggio giovanile si
trasforma in un fenomeno di massa e tende a essere connotato in senso
contestatario. «Il controlinguaggio dei giovani» lo chiama addirittura Lanza (1974), un dizionarietto che raccoglie espressioni in uso ancora oggi come sfiga “sfortuna”, fuso “esaurito” o gasato “euforico, presuntuoso”, e altre scomparse presto come streppo “bidone, fregatura” o zippo “cafone”.
In realtà, a prevalere è già la funzione ludica e autoidentitaria; la stessa che,
scrostata da ogni implicazione politica, caratterizzerà i decenni successivi:
«l’intenzione non è tanto quella di non farsi capire, quanto quella di riconoscersi come appartenente al medesimo gruppo»; «se c’è contestazione,
questa non è certo ideologica, bensì linguistica, nelle forme dello stravolgimento, della parodia, del gioco» (Coveri, 1992, pp. 63-4).
Tra i portati linguistici del Sessantotto, c’è anche la detabuizzazione
del turpiloquio. Nei primi anni sessanta, le parolacce si potevano considerare ancora una caratteristica di «ambienti chiusi come scolaresche o
caserme», legate a «un tentativo di affrancarsi dalla repressione, analogo a quello del turpiloquio adolescenziale» (Galli de’ Paratesi, 1969
[1964], p. 58). Qualche anno dopo, sull’onda della contestazione, quei
«termini interdetti» sono ormai parole alla moda, che fanno tutt’uno coi
tic linguistici del cosiddetto sinistrese 22. Tra i lemmi dell’ironico dizio22. Scrive Giorgio Bocca nell’introduzione che «il sinistrese è una invenzione linguistica, collettiva e spontanea, di rapida e facile comunicazione, intesa a coprire la mancanza di idee generali e di prospettive per il futuro [...]. Esso è tutto una interlocuzione,
34
1. LINGUA
narietto intitolato Il piccolo sinistrese illustrato (Flores d’Arcais, Mughini, 1977), si possono trovare impegno, militanza, oggettivamente («è la parola chiave del terrorismo ideologico», ivi, p. 65), (il) personale è politico, revisionismo, ribadire («è un non dire pieno di forza, di energie, di
convinzione», ivi, p. 82), struttura e sovrastruttura, ma anche cazzate
(«parola magica che esorcizza», ivi, p. 24) e scopare. Basta sfogliare la raccolta Care compagne, cari compagni. Lettere a Lotta Continua (Lotta Continua, 1978) per rendersi conto dell’iteratività rituale con cui in effetti
vengono usate certe parolacce: «Mi riferisco alle varie cazzate fatte durante il percorso del corteo, “giustificate” da chi le ha fatte perché “si è
repressi”, incazzati, e c’è una grossa rabbia» (ivi, p. 25); «Io non parlo
delle altre femministe (per ora), ma di te che non capisci un cazzo» (ivi,
p. 75), «ha deciso di farla finita con questa vita merdosa e ruffiana» (ivi,
p. 128); «in mezzo ai casini ci sono sempre stato e sono sicuro che ci resterò» (ivi, p. 192), «con ribadita frociaggine» (ivi, p. 194); «Ma quanti
compagni hanno veramente capito che cazzo vuol dire questa storia del
personale e del politico?» (ivi, p. 324) 23.
DA CAROSELLO ALLA NEOTELEVISIONE
Il contagio della trasgressione arriva fino alla pubblicità, in cui si fa sempre più presente l’elemento del richiamo sessuale («Chiamami Peroni,
sarò la tua birra»; «Bionda naturale, forte e gentile. Un “corpo” morbido, caldo. Un profumo sottile e stimolante. Se vuoi è tua»: Grappa Stravecchia Ramazzotti) e si parafrasano le sacre scritture con allusioni ai limiti della blasfemia. È del 1973 la campagna di Emanuele Pirella con lo
slogan «Chi mi ama mi segua» stampato sulle tasche posteriori dei jeans
Jesus, e allo stesso decennio risalgono «Rispetta il piede tuo. È il comandamento di ogni buon sciatore [sic]» (scarponi Nordica), «Tratta gli
amici tuoi come te stesso» (brandy Stock 84) e «Non desiderare la Mini
d’altri» (Mini Morris).
un ripetitivo, una interiezione, un susseguirsi di parole onnicomprensive che ognuno può
interpretare a suo comodo» (in Flores d’Arcais, Mughini, 1977, pp. 8-9). Il fastidio per
certe espressioni stereotipate, peraltro, era emerso già all’inizio della stagione contestataria. Racconta Beccaria (1988, pp. 294-5) di una scritta «su una lavagna della facoltà di Architettura occupata nel ’68 a Roma», che recitava: «I signori oratori si astengano dal pronunciare le seguenti parole: a livello, strumentalizzazione, al limite, demistificazione, documento, sensibilizzazione, discorso – dico discorso –, momento, nelle strutture, non a
caso, nella misura in cui».
23. Cfr. Violi (1977) e, per un confronto col linguaggio giovanile degli anni ottanta,
Cortelazzo (1993).
35
MODERNITÀ ITALIANA
Una lingua, quella della pubblicità, che viene guardata con sospetto
non solo dai benpensanti, ma anche da chi le si accosta con sguardo scientifico. Secondo Maria Corti, «dal momento in cui la motivazione dell’ordine economico copre in pieno e sostituisce l’area dell’“informazione”, la
lingua diviene un mostro di pura “ridondanza”» (in Beccaria, 1973, p.
120). E l’idea di mostruosità torna nel giudizio di Maria Luisa Altieri Biagi: «ognuno di noi saprebbe elencare facilmente parecchi di quei mostri
linguistici che sono aperimio, digestimola, trissetante, simmenthalmente
buona, cin contriamo con Cin Soda, necessori per auto, oroelogio, ecc.
[...] Talvolta la crisi in cui il linguaggio pubblicitario mette la lingua è
una crisi totale» (Devoto, Altieri Biagi, 1979 [1968], p. 316). Per Tullio De
Mauro, invece, quello pubblicitario è un linguaggio subalterno, «sottomesso al triplice legame con l’immagine visiva, con gli usi linguistici già
affermati, con i fenomeni strutturali della società» (De Mauro, 1987
[1967], p. 57).
Dalla pubblicità scritta a quella trasmessa. «Voglio la caramella che
mi piace tanto e che fa dudududududududu Dufour» (Dolcevoglia,
1969), «Miguel son mi» (El merendero, 1969), «Brooklyn, la gomma del
ponte» (Scopriamo Brooklyn, 1974), «Oh no, su De Rica non si può»
(Silvestro, castellano maldestro, 1974), «Se una bella serata ti coglie di
sorpresa, Rexona deodorante non ti pianta in asso» (Non ti pianta in asso, 1975). La condanna non risparmia neanche una lingua pubblicitaria
che a noi suona oggi quasi ingenua, come quella di Carosello: anzi – trovandosi all’incrocio fra pubblicità e televisione – quel tipo di comunicazione viene visto come ancor più pericoloso, perché capace di sommare in sé un doppio potere di seduzione 24. Un modello, anche linguisticamente, diseducativo: «la pratica dello scrivere decade per la mancanza di occasioni e per l’assenza di modelli che non siano “Carosello”
(o i suoi sostituti) e i vari linguaggi tecnici di cui tutti si compiacciono.
I risultati sono ben noti: il lessico è povero e mal strutturato; la sintassi zoppica», scrive Dardano (1978, p. 166); ma nel frattempo Carosello
è diventato già un ricordo: l’ultima puntata è andata in onda il 1° gennaio 1977.
Il fatto è che negli anni settanta, per alcuni linguisti l’antilingua non
è più quella burocratica (come sosteneva Calvino dieci anni prima), ma
quella dei mezzi di comunicazione di massa:
24. «Carosello ha incontrato l’ostilità della sinistra marxista come dell’intellighenzia
elitaria, dei cattolici più intransigenti come dei laici più snob» (Dorfles, 1998, p. 87). Basti il giudizio espresso da Guglielmo Zucconi nel 1971: «Considero Carosello la più perniciosa trasmissione della TV. Perché? Perché offre un modello di vita assolutamente irreale, basato sul consumismo più sfrenato» (in Ballio, Zanacchi, 2009 [1987], pp. 141-2).
36
1. LINGUA
La lingua dei grandi mezzi di informazione di massa (lingua della cronaca, della televisione, della pubblicità) tende ad uniformare, a livellare, a standardizzare l’italiano d’oggi perché la lingua è [...] uno strumento (spesso alienante) accettato in formule già confezionate, non criticamente assorbite, da avidi e disarmati consumatori; un’antilingua che parla noi stessi, più di quanto siamo noi a
parlare la lingua (Beccaria, 1973, pp. 51-2).
Il rischio principale che viene individuato è quello dell’omologazione
espressiva legata alla nuova civiltà dei consumi 25. La pressione del mercato pubblicitario non sarà certo estranea – in effetti – al diffondersi delle radio e soprattutto delle televisioni private: significativo che nella terminologia anni settanta si parli di radio libere, in quella anni ottanta di
TV commerciali. La liberalizzazione dell’etere sancita nel 1976 è anche liberalizzazione degli spazi pubblicitari, il cui valore aumenta in maniera
direttamente proporzionale al séguito della trasmissione che interrompono. La cosiddetta neotelevisione (Eco, 1983) si lascia contemporaneamente alle spalle la spinta centralistica e quella educativa, addentrandosi sempre più nella dimensione del puro intrattenimento (quella che porta verso l’infotainment, l’edutainment, l’emotainment). Da questo momento in poi, non si cerca di risolvere lo scarto tra produzione culturale e consumo di massa alzando il livello della cultura di massa, ma abbassando quello dell’offerta culturale: un atteggiamento «populista e demagogico», che apre la «“fase demotica” della TV italiana».
Una delle conseguenze più importanti di questa “fase demotica”, particolarmente sul piano linguistico, è l’irruzione della gente comune sullo schermo, che
era iniziata con il telefono in radio: si moltiplica dunque un parlato non professionale, a cui – sempre per tensione demagogica – si adeguano anche i conduttori professionali della TV (Menduni, 2010, pp. 26-7).
Il risultato è che «i parlanti sono esposti ad un tipo di lingua non “ortodosso” da parte di emittenti che, anche quando non si tratta di quella ufficiale, essi finiscono con l’identificare almeno in parte con un modello»
(Galli de’ Paratesi, 1984, p. 53). L’esposizione è sempre più lunga, tanto
da arrivare a superare – per i bambini – le ore passate a scuola 26; ma il
25. Tipica, in questo senso, la posizione di Pasolini (1999 [1973], p. 291): «per mezzo
della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali» e ha imposto «i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende
che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo».
26. «La TV sta sconfiggendo la scuola? Secondo un’indagine del settimanale “Il Sabato” [...], il bambino italiano ha passato davanti alla televisione, nel 1987, tre ore e 20 mi-
37
MODERNITÀ ITALIANA
modello è ben diverso da quello normativo e sorvegliato dei programmi RAI, grazie al quale per vent’anni «la televisione è stata, giorno per
giorno, una scuola di usi linguistici italiani» (De Mauro, 1973, p. 114).
Ormai, più che una scuola, la televisione è diventata uno «specchio
delle lingue» (Simone, 1987), che riporta sullo schermo le diverse varietà di parlato esistenti nel paese. Così, attraverso quello che gli psicologi chiamano “ricalco”, si gratifica il narcisismo degli spettatori: “la
televisione parla come me”, deve pensare chi la guarda, “e io parlo come lei”.
L’ARCHITETTURA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO/2
Verso la fine degli anni ottanta, Gaetano Berruto (1987, p. 21) 27 ha sintetizzato sinotticamente l’architettura dell’italiano contemporaneo
(FIG. 2). Le nove varietà linguistiche individuate sono disposte lungo
gli assi complanari della diastratia (dal polo alto al polo basso), della
diamesia (dallo “scritto scritto” al “parlato parlato”, secondo la terminologia di Nencioni, 1983 [1976]) e della diafasia (dal polo “formale-formalizzato” al polo “informale”: cfr. De Mauro, 1970b). Vista la
particolare storia della lingua italiana, «la dimensione diatopica è stata messa sullo sfondo e considerata in un certo senso a priori» (Berruto, 1987, p. 20).
Per dar conto dei fenomeni di rinormativizzazione e di ristandardizzazione verificatisi nei decenni precedenti, al centro dello schema
si distingue tra la lingua di tradizione letteraria, modello ancora di
molti manuali e grammatiche (lo standard), e la concreta applicazione
di quel modello nell’uso dei parlanti (il neostandard). L’etichetta di
neostandard, pur trovandosi sopra alla linea che divide lo scritto dal
parlato, è considerata sovrapponibile a quella di «italiano regionale
colto medio» (ivi, p. 23), da non confondersi con l’italiano regionale
popolare (che qui appare nel settore in basso a destra, quello del parlato sub-standard) 28.
nuti di media al giorno, pari a 1.338 ore l’anno, contro le 850 passate a scuola» (Beccaria,
1988, p. 255).
27. Poi con minime modifiche in Berruto (1993, p. 12), da cui si riproduce lo schema.
28. Piuttosto diversa, qualche anno dopo, l’architettura proposta da Dardano
(1994, p. 370), in cui «non si riconosce un’identità propria al cosiddetto “italiano neostandard”, che qui non è considerato come una varietà centrale del sistema, ma piuttosto come un fascio di tratti che attraversa più di una varietà dell’italiano di oggi» e
«non è contemplato l’italiano popolare, la cui esistenza è affermata da alcuni studiosi
e negata da altri».
38
1. LINGUA
2
L’architettura dell’italiano contemporaneo (Berruto, 1987)
FIGURA
DI
AF
AS
IA
9. Italiano
burocratico
1. Italiano standard
letterario
2. Italiano neostandard
DIAMESIA
3. Italiano
parlato colloquiale
4. Italiano
regionale
popolare
D
IA
TO
PI
A
8. Italiano
tecnico-scientifico
DIASTRATIA
7. Italiano aulico formale
5. Italiano
informale-trascurato
6. Italiano
gergale
L’italiano nella società della comunicazione:
dagli anni novanta a oggi
Negli anni ottanta la comunicazione era già abbastanza di moda, ma
sentendo parlare di medium veniva ancora istintivo pensare ai fenomeni paranormali; del computer si aveva un’idea molto vaga – figuriamoci se ci s’immaginava che il nostro accesso al mondo sarebbe diventato un click sul mouse – e dicendo il cellulare ci si riferiva alla camionetta della polizia: nessuno poteva prevedere che pochi anni dopo
quel nome avrebbe identificato un oggetto-totem inseparabile da ognuno di noi. Quella era la civiltà dell’immagine, questa è la società della
comunicazione.
Basta interrogare l’oracolo di Google per avere la conferma che l’etichetta di «società della comunicazione» (presente il 30 settembre 2011
in 625.000 pagine tra quelle censite nella rete) ha ormai preso il sopravvento sull’altra, molto in voga già dagli anni sessanta (per la stringa «civiltà dell’immagine» solo 200.000 risultati). Lasciato alle spalle il dominio incontrastato degli audiovisivi – e nell’attesa di sapere dove ci porterà il «paradigma multimediale» –, stiamo vivendo appieno il dispie39
MODERNITÀ ITALIANA
garsi di quello che Raffaele Simone ha chiamato il «paradigma digitale»
(Simone, 2001) 29. Si tratta di «una rivoluzione iniziata con l’avvento dei
word processor e proseguita con la telematica»: «l’attuale primato della
scrittura [...] non è pensabile fuori dal contesto multimediale che ne ha
ridefinito il ruolo, poiché la scrittura è oggi solo uno dei tanti linguaggi
che le nuove tecnologie consentono di allineare, sovrapporre e contaminare» (Pistolesi, 2004, pp. 10-1).
LA RIVINCITA DELLA SCRITTURA
Nel novembre 2000, l’ISPO (Istituto per gli studi sulla pubblica opinione) svolgeva per conto di Poste italiane un’inchiesta sugli italiani e la
scrittura. Ne risultava che le uniche forme di scrittura quotidiana erano
– per gli italiani in età postscolare – gli appuntamenti sull’agenda e la lista della spesa. Per il resto, l’11% degli intervistati dichiarava di scrivere
lettere almeno una volta al mese, il 9% ogni due-tre mesi; tra i 18-29enni,
l’8% diceva di scrivere lettere personali tutti i giorni o quasi, il 9% e-mail,
il 39% messaggi con il cellulare. Era già cominciato il passaggio – decisivo – dall’epistola all’e-pistola (Schwarze, 2003).
Oggi, a dieci anni di distanza, quasi la metà degli italiani frequenta
Internet: più di un terzo la usa per mandare e ricevere e-mail, un quinto
per comunicare tramite i social network, poco meno per scrivere in chat,
blog o newsgroup (ISTAT, 2010). Ancora più numerosi gli italiani che usano un telefonino: l’85% nel 2009, il 79,5% nel 2011 secondo CENSIS (2011);
e sempre di più – tra questi – lo usano anche per scrivere: secondo un
sondaggio svolto dalla Astra ricerche, nel 2008 sfioravano già il 90% 30.
È evidente che negli ultimi anni si è verificato – nella storia della nostra lingua – un fatto decisamente nuovo: per la prima volta l’italiano si
ritrova a essere non solo parlato, ma anche scritto quotidianamente dalla maggioranza degli italiani. Una novità apparentemente paradossale,
visto che l’italiano è vissuto per secoli soltanto come lingua scritta. In
realtà clamorosa, se si pensa che l’italiano scritto è sempre stato una varietà tanto forte nella sua codificazione quanto debole nella sua diffusione, ostacolata prima dall’analfabetismo (ancora nel 1971 un terzo degli italiani non possedeva la licenza elementare: D’Agostino, 2007, p. 50),
29. L’idea di una «rivoluzione digitale» in atto era stata divulgata da Negroponte (1995).
30. Dai dati ISTAT (2006) risultava che, tra gli utenti del telefono cellulare – il 77,4%
delle persone con più di 6 anni –, quasi il 37% se ne serviva per inviare e ricevere SMS (con
punte tra il 70 e l’80% nella fascia 11-24 anni), poco più del 13% MMS (ma la percentuale
triplica fra i 15 e i 19 anni), solo il 2,2% e-mail.
40
1. LINGUA
poi dal dominio dei mezzi audiovisivi (la già citata «oralità secondaria»).
Ora invece, dopo aver conquistato l’uso parlato (a scapito del dialetto),
la lingua nazionale ha conquistato finalmente anche l’uso scritto di massa (a scapito del non uso). Nel primo caso il merito è stato in buona parte della televisione; nel secondo, tutto della telematica.
Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti: la straordinaria fortuna delle
varie forme di «neoepistolarità tecnologica» (la posta elettronica, gli SMS
e – su un piano diverso – le chat line e l’instant messaging) ha provocato un clamoroso ritorno alla comunicazione per iscritto. Moltissime persone che fino a poco tempo fa non scrivevano un rigo, oggi producono
incessantemente una mole impressionante – sia pure frammentaria e
quasi atomizzata – di testi digitati. E ciò comporta il venir meno delle
coordinate che avevano caratterizzato e condizionato la scrittura per secoli: se il testo diventa labile, la scrittura passa nella sfera dell’effimero;
se si scrive tanto spesso, scrivere diventa un gesto quotidiano, lontanissimo da quella solennità di cui si era sempre ammantato.
Resta da capire come tutto questo conviva con gli allarmanti dati sull’analfabetismo. Accanto agli analfabeti tradizionali (che l’ISTAT stima in
782.000), tende infatti a infoltirsi la schiera degli analfabeti “di ritorno”.
Dilaga, in particolare, quello che viene definito analfabetismo “funzionale”, ovvero l’incapacità di comprendere adeguatamente un testo. Secondo indagini svolte una decina d’anni fa nell’ambito della ricerca IALS
(International Adult Literacy and Lifeskills Survey), circa il 33% degli
italiani aveva serie difficoltà di lettura e scrittura (oltre che di conteggio)
e un altro 33% era poco al di sopra della soglia minima di competenza
linguistica; solo il 10% mostrava una competenza elevata. La situazione
– preoccupante anche per i diplomati e per i laureati – risulta confermata
dalla ricerca ALL (Adult Literacy and Life Skills) svoltasi nei primi anni
Duemila. E stime più pessimistiche (come quella dell’UNLA, l’Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo diretta da Saverio Avveduto:
cfr. De Mauro, 2010 [2004], pp. 242-3) arrivano a considerare tra gli analfabeti oltre un terzo della popolazione.
Stando ai risultati dei test OCSE-Pisa (2009), un quinto dei quindicenni italiani (il 21%) mostra «scarsi risultati in lettura»: vale a dire che
è «in grado di svolgere soltanto gli esercizi di lettura meno complessi come individuare una singola informazione, identificare il tema principale
di un testo, o fare un semplice collegamento con la conoscenza di tutti i
giorni». Non oltre 31. D’altra parte, gli italiani che leggono almeno un li31. Nel quadro di un generale «calo nella literacy dei quindicenni dei paesi più avanzati», l’Italia «ha visto peggiorare ulteriormente la propria posizione», che già nel 2000
era al di sotto della media (Tavosanis, 2011, p. 242).
41
MODERNITÀ ITALIANA
bro al mese superano a stento il 15% (AIE, 2010); quelli del tutto estranei
ai mezzi a stampa sono più del 45% (CENSIS, 2011).
Viene da chiedersi se saper digitare equivalga davvero a saper scrivere (o anche solo leggere). Tanto più che la vera differenza tra le due attività andrà cercata nella capacità di gestire testualità e sintassi (cfr. Pistolesi, 2008, 2011), non certo negli aspetti superficiali su cui si sofferma abitualmente la pubblicistica. Quasi tutti i tratti che nell’immaginario collettivo (in Italia e all’estero) caratterizzano la scrittura elettronica sono in
effetti di natura grafica o paragrafematica. Alcune sono rese grafiche che
– sul modello delle forme inglesi, da subito diventate internazionalismi
(per l’italiano, cfr. Fiorentino, Pellegrini, Perucci, 2007) – mirano a una
maggiore brevità o rapidità di esecuzione. Ciò vale sia per gli acronimi (il
tipo TVB per ti voglio bene) sia per le grafie simboliche (7imana, scem8 e
3mendo; su un piano diverso: c “ci, a noi” e t “ti, a te”, d “di”) o fonetiche (ke, riskiare) o contratte (nn “non”, cn “con”, cmq “comunque”) 32.
La presunta oralità della scrittura elettronica si esprime più che altro in una resa della pronuncia secondo criteri diversi da quelli dell’ortografia tradizionale. Si potrebbe distinguere tra errori volontari, legati
a intenzioni di tipo gergale; errori di battitura, il cui aumento va messo
in relazione con le nuove condizioni di scrittura e con lo statuto informale della lingua digitata; errori di competenza, dovuti cioè all’ignoranza della corretta ortografia (cfr. Tavosanis, 2007; 2011, pp. 73-5); ma è l’insieme dei tre fattori a creare le condizioni per una diffusa poligrafia (Fairon et al., 2006, p. 58). Da questo punto di vista, la scrittura elettronica
sembra riprodurre una situazione simile a quella che ha preceduto la diffusione della stampa e il conseguente fissarsi di una norma ortografica
(oltre che linguistica) condivisa. La libertà portata dalla scrittura elettronica nel rapporto tra pronuncia e grafia ha messo in moto un processo centrifugo che – se dovesse estendersi al di fuori degli usi neoepistolari – potrebbe creare le condizioni per una sorta di nuovo Medioevo ortografico (Lorenzetti, Schirru, 2006, pp. 74-5; Véronis, De Neef, 2006;
Baron, 2008).
È interessante che considerazioni analoghe siano state fatte dai paleografi a proposito dell’epistolografia popolare ottocentesca. Anche in
quel caso, l’avvicinarsi alla scrittura di una cerchia di persone molto più
vasta rispetto al passato (Petrucci, 2008, pp. 130-3) favorì una larga emersione di tratti substandard. «Efficacia e nettezza comunicativa sì», ma
«assente o incerta distinzione tra maiuscole e minuscole»; «nella grafia e
32. Per la diffusione internazionale di usi analoghi, mi permetto di rimandare ad Antonelli (2009a, 2009b).
42
1. LINGUA
nella separazione delle parole, tendenza a riprodurre la catena parlata»;
«difficoltà nel rendere determinati fonemi oppure, che è lo stesso, nell’uso di alcune consonanti e digrammi»: «a leggere gli autografi “popolari” otto-novecenteschi hai l’impressione che poco o nulla sia cambiato
dai tempi iniziali della diffusione dello scrivere volgare» (Bartoli Langeli, 2000, p. 166).
IL TRIONFO DELL’INFORMALITÀ
È difficile, insomma, trovare elementi che possano far parlare a ragion
veduta di una “nuova” lingua. La novità, più che linguistica, è sociolinguistica: la desacralizzazione della scrittura legata alle nuove tecnologie
ha alzato la soglia di tolleranza nei confronti di questi usi. È quello che,
riprendendo Baron (2008), è stato definito il whateverismo linguistico
(dall’inglese whatever), ovvero «l’atteggiamento per cui qualunque soluzione va bene» (Tavosanis, 2011, p. 94) 33: come notava già Sobrero
(2001, p. 52), «spensieratamente, si parla e si scrive “come viene”, senza
il minimo dubbio, senza un attimo di esitazione». Un atteggiamento
sempre più diffuso, che negli ultimi decenni (incoraggiato talvolta dagli
stessi linguisti: cfr. Sgroi, 2010) ha allargato progressivamente la sfera dell’informalità fino a comprendere rapporti interpersonali legati un tempo a registri più controllati.
Anche al di fuori dell’italiano digitato, l’idea di una comunicazione
che risulti più spontanea, diretta, “amichevole” (come si usa dire ricalcando l’inglese friendly) spinge verso il progressivo diffondersi di modi
del parlato nella scrittura giornalistica o verso l’abbassamento del tasso
di formalità nel discorso politico. Tutto questo, nel bene e nel male, sta
finendo col capovolgere la situazione che ha caratterizzato da sempre la
storia della nostra lingua: ancora «all’inizio del Novecento l’italiano risultava una lingua fortemente deficitaria per gli usi informali; all’inizio
del nuovo millennio l’italiano risulta tendenzialmente deficitario per gli
usi formali» (Cortelazzo, 2002, p. 100).
La dittatura del tu – inteso come modo di accorciare le distanze, non
solo comunicative – riguarda ormai i rapporti tra persone che si conoscono appena, tra colleghi di lavoro, con i clienti, con i destinatari dei
messaggi pubblicitari, con gli elettori («Arrivi a fine mese?» chiedeva lo
33. «Più che essere un’esibizione di estremismo linguistico, è un riflesso naturale dei
cambiamenti nella filosofia educativa, degli spostamenti negli obiettivi della società, della tendenza universitaria al relativismo filosofico, e della spinta a vivere a ritmi accelerati» (Baron, 2008, p. 169; la traduzione in Tavosanis, 2011, p. 94).
43
MODERNITÀ ITALIANA
slogan dell’Ulivo nella campagna elettorale del 2004) 34. E ha portato con
sé un deciso abbassamento del registro linguistico medio di tutti gli italiani; abbassamento di cui la televisione è specchio più che causa, sia pure – nell’ultimo periodo – specchio deformante, che spaccia per reali modalità espressive artefatte: il reality show, la real TV.
Come nota Segre (2010),
i giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri, e con ciò stesso si
mettono in condizione d’inferiorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel
parlare, che la scelta linguistica denota la loro attitudine a posizionarsi rispetto
ai propri simili [...]. La nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava
ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo.
Dopo la crisi dovuta agli scandali di Tangentopoli (1992), la politica ha
imparato ad adeguare il proprio linguaggio a quello del destinatario (come da sempre fa la pubblicità), allontanandosi progressivamente dalla
vecchia autoreferenzialità focalizzata sul mittente (il cosiddetto politichese). Abbandonato il paradigma della superiorità («tutti sanno il fascino che hanno per il volgo le parole difficili: non le intende, ma sono
di moda, piene di possibilità impensate, quindi tanto più attraenti quanto più avvolte nella nebbia», Benvenuto Terracini, in Baldini, 1992, p. 26),
la lingua dei politici punta tutto sul paradigma del rispecchiamento:
«forme espressive immediatamente comprensibili e registri informali in
grado [...] di attivare nei destinatari potenti sistemi di rispecchiamento
molto efficaci per la crescita del consenso» (Desideri, 1993, pp. 284-5).
Parole semplici per ribadire luoghi comuni in cui l’uomo della strada
possa riconoscersi, e un atteggiamento complessivo che mira a mimetizzare i meccanismi di persuasione (riconducibili alla funzione conativa del
linguaggio), cercando invece d’instaurare un contatto diretto, simile a
quello di una chiacchierata tra amici (funzione fàtica).
Parole semplici e in vari contesti – compresi talvolta quelli istituzionali – sempre più parolacce (ben note, e di grande fortuna giornalistica,
le intemperanze verbali di leader del centro-destra come Umberto Bossi
e Silvio Berlusconi; ma anche i manifesti del PSI nella campagna elettorale del 2008 recitavano: «Sono donna e sono incazzata», «Sono gay e sono
incazzato», «Sono giovane e sono incazzato»). Che ci piaccia o no, d’al34. Notava Renzi (2001, p. 368) che «questi cambiamenti sono dovuti, almeno in parte, al movimento del ’68 e alle sue appendici negli anni successivi. Come già altri movimenti rivoluzionari egualitari di sinistra (ma anche certi movimenti di destra) il ’68 ha portato con sé un’estensione del tu reciproco».
44
1. LINGUA
tronde, le parolacce fanno ormai parte del modo di esprimersi quotidiano e informale di quasi tutti gli italiani. Secondo uno studio del 2000, in
televisione si sentivano 70-100 parolacce al giorno; secondo un altro del
2003, una ogni 21 minuti (negli USA studi analoghi hanno raggiunto conclusioni non molto diverse); nel film campione d’incassi Natale sul Nilo
(2002) se ne contavano cento in cento minuti (Tartamella, 2006, pp. 32934). Nazional-popolare per nazional-popolare, nell’edizione 2008 del Festival di Sanremo, le parolacce che hanno risuonato sul palco dell’Ariston
sono state cinque: un paio nel solito Masini («la ricchezza più assurda della solita merda»; «è un paese l’Italia che c’ha rotto i coglioni»), un paio
nel brano rock degli Afterhours («inseguivi una cazzata», «se il tuo paese è una merda»), una in quello rap dei Gemelli Diversi («per ogni cuore
fatto a pezzi da una stronza»). Nell’edizione 2007 erano state altrettante,
ma pronunciate da cantanti di età ed estrazione molto diversa: oltre a Daniele Silvestri (che qualche anno prima ci scherzava su: «per non dire cazzo, dire in quanto donna io non ce l’ho», Amarsi cantando, 1994) e ai giovani Pietro Baù e Pier Cortese, anche Fabio Concato e persino Milva, che
cantava un testo dello scrittore best seller Giorgio Faletti.
Le doppie zeta anatomiche sono ormai prezzemolo a ogni minestra,
come confermano anche le intercettazioni telefoniche massicciamente
pubblicate dai giornali. Non c’è di che stupirsi, se teniamo conto che già
nel 1993 cazzo risultava al 722° posto tra i vocaboli più ricorrenti nel parlato degli italiani (dopo notare e prima di verde: LIP) e più di recente campeggiava nell’incipit di un romanzo vincitore al premio Strega («Svegliati! Svegliati, cazzo!», Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, 2007). Nel
frattempo, il telefonino – percepito ormai come una sorta di protesi – ha
portato con sé l’allargarsi indefinito della sfera del privato (si parla dei fatti propri in qualunque momento, in qualunque situazione, di fronte a
chiunque), con un conseguente allentarsi del senso del pudore linguistico. A ciò si aggiunge la facilità con la quale si possono cogliere, registrare
e diffondere situazioni comunicative che fino a poco tempo fa si sarebbero esaurite nella dimensione privata (la sindrome YouTube). Nell’èra della riproducibilità tecnologica a oltranza, il confine – anche linguistico –
tra privato e pubblico è diventato sempre più labile, consentendo un continuo sconfinamento della prima sfera nella seconda.
LA GLOCALIZZAZIONE DEL LESSICO
L’abbassamento del grado di formalità consiste anche nell’affioramento
di tratti regionali o dialettali. Colpisce, in proposito, la grande apertura
mostrata ultimamente dai maggiori dizionari italiani nei confronti di
45
MODERNITÀ ITALIANA
queste categorie: sono dialettismi o regionalismi oltre 600 tra le circa
12.000 voci comprese nell’appendice del GRADIT (tanto che Camilleri
raggiunge quasi Calvino per numero di citazioni) e molte fra le 4.000
giunte dello Zingarelli 2008 (tra le altre pizzino, ciulare, sbroccare, schiscetta). La causa immediata di questa apertura andrà vista nella notevole circolazione giornalistica dei dialettismi (legata a sua volta all’uso disinvolto dei virgolettati e del registro brillante). L’origine profonda,
però, va ricercata nella nuova immagine del dialetto, passato – in un contesto sociolinguistico completamente cambiato – da marca d’inferiorità
a segnale di confidenza, emotività, ironia nell’uso di persone che conoscono bene la lingua nazionale.
Nell’ultimo decennio, d’altra parte, i dialetti hanno riguadagnato un
certo spazio. Secondo l’inchiesta ISTAT del 2006 (TAB. 2), le persone che
dicono di sapersi esprimere solo in dialetto sono ormai meno del 7%,
ma si attesta fra il 32 e il 33% la quota di quelle che dichiarano di esprimersi sia in italiano sia in dialetto quando si trovano a parlare in famiglia
o tra amici 35.
TABELLA 2
L’uso del dialetto
1988
1995
2000
2006
In famiglia
Solo o prev. italiano
Solo o prev. dialetto
Entrambi
Altra lingua
41,5%
32,0%
24,9%
0,6%
44,4%
23,8%
28,3%
1,5%
44,1%
19,1%
32,9%
3,0%
45,5%
16,0%
32,5%
5,1%
Con amici
Solo o prev. italiano
Solo o prev. dialetto
Entrambi
Altra lingua
44,8%
26,6%
27,1%
0,5%
47,1%
16,7%
32,1%
1,2%
48,0%
16,0%
32,7%
2,4%
48,9%
13,2%
32,8%
3,9%
Con estranei
Solo o prev. italiano
Solo o prev. dialetto
Entrambi
Altra lingua
64,1%
13,9%
20,3%
0,4%
71,4%
6,9%
18,5%
0,8%
72,7%
6,8%
18,6%
0,8%
72,8%
5,4%
19,0%
1,5%
35. «Pare ora chiaro che negli anni Novanta da un lato la tendenza all’abbandono
della dialettofonia da parte della generalità della popolazione italiana [...] si sia arrestata,
o sia comunque diventata meno evidente; e dall’altro la collocazione sociolinguistica del
dialetto abbia conosciuto una rivalutazione», osserva Berruto (2002, p. 35). Più problematica l’interpretazione che di questi dati offre Trifone (2007, pp. 182-5).
46
1. LINGUA
«Insomma, un motto di molti parlanti nell’Italia alle soglie del terzo Millennio sembra essere “ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche
(ri)parlare dialetto”» (Berruto, 2002, p. 48). Dagli anni novanta si è verificato un importante recupero dei dialetti in funzione espressiva. Un’esperienza che ha interessato anche la letteratura (cfr. Antonelli, 2006, pp.
97-108) e si è dispiegata appieno nell’ambito della canzone. Qui l’opzione
per il dialetto è influenzata da precedenti recuperi d’autore (come quello
del genovese in Creûza de mâ di Fabrizio De André, 1984), ma soprattutto
dall’esigenza di una lingua alternativa all’italiano standard, ormai identificato con la lingua del potere, delle istituzioni, dei mezzi di comunicazione
di massa. «Accanto ad una canzone dialettale che recupera, aggiornandola,
la tradizione popolare della folk song, e accanto ad una canzone dialettale
“d’autore” come risposta al logoramento della canzone in lingua, si affacci[a] prepotentemente il dialetto delle posse, nate e sviluppatesi in tutta Italia» (Coveri, 1996, pp. 18): i veneti Pitura Freska, gli emiliani Modena City
Ramblers, i napoletani 99 Posse e Almamegretta, i pugliesi Sud Sound System, tanto per limitarsi a qualche nome. «Qui il dialetto, spesso reimparato dalle generazioni precedenti, con un fenomeno di interessante cortocircuito, si è per così dire gergalizzato, esprimendo i caratteri di una condizione giovanile marginale, protestataria e di opposizione» (ivi, pp. 18 e 20-1).
E, come nel linguaggio giovanile, anche nell’italiano di tutti i giorni
l’affiorare di elementi locali va di pari passo con l’uso sempre più frequente di anglicismi: una situazione che, con una parola alla moda, potremmo definire glocal. Ma davvero quella delle parole inglesi è un’invasione da temere? All’inizio degli anni settanta, l’incidenza degli anglicismi integrali era al di sotto dell’1% del patrimonio lessicale dell’italiano;
oggi – stando a quanto si può ricavare da tutti i principali dizionari dell’uso – non raggiunge il 2% (cfr. Antonelli, 2005, pp. 120-1). Il ritmo ricavabile sulla base delle datazioni del Sabatini Coletti mostra una notevole
accelerazione del flusso nell’ultimo periodo (1.611 anglicismi dal 1950 a oggi; di questi 1.015 – il 47% del totale – dopo il 1975): in media, negli ultimi decenni, più di trenta anglicismi nuovi all’anno. Ma già nell’edizione
2005 del Devoto Oli, gli anglicismi datati dal 2000 in poi sono ben 154 (tra
gli altri: black bloc, cluster bomb, info-point, money transfer, peer-to-peer,
showbiz, vibra-call, quattro diversi tipi di manager, sei prefissati con web-)
e nell’amplissimo lemmario del GRADIT, il 29% dei 2.602 vocaboli datati
tra 2000 e 2006 è inglese; percentuale che sale al 42% nelle 111 parole nuove dello stesso Sabatini Coletti e quasi al 50% nelle 125 dello Zingarelli
2009. Una progressione impressionante, se non fosse dovuta in buona parte a un’illusione ottica. Sull’ultima schiera di anglicismi, infatti, non è ancora passata la scure del tempo che ha già falcidiato i prestiti giunti nel
passato, come da sempre avviene nella storia delle lingue.
47
MODERNITÀ ITALIANA
Questa tara andrà fatta a maggior ragione guardando ai dizionari di
neologismi, in cui – prevedibilmente – l’incidenza dei prestiti angloamericani è molto superiore (circa dieci volte). Le raccolte di parole nuove relative agli ultimi quarant’anni, infatti, presentano una percentuale
di anglicismi non adattati oscillante tra il 10 e il 15%, senza che sia possibile individuare un costante incremento nel tempo (cfr. Antonelli,
2005, pp. 122-3). Aumenta invece esponenzialmente, dagli anni novanta
in poi, la presenza di composti e derivati italiani che muovono da una
base inglese (verbi come forwardare, killerare, meilare, drinkare o casi di
composizione “mista” come baby-bandito, influenza killer, porta-computer, provvedimento-shock, web-dipendente). Più di un quinto delle basi
(«elementi formanti») censite nei Neologismi quotidiani di Giovanni
Adamo e Valeria Della Valle – che raccoglie vocaboli del periodo 19982003 – è costituito da parole angloamericane.
Se è difficile calcolare quanti anglicismi passano o sono passati negli
ultimi anni per la nostra lingua, ancor più difficile è capire quanto la penetrazione delle parole inglesi sia giunta in profondità. La sensazione è
che il fenomeno si allarghi – come suol dirsi – a macchia d’olio, cioè in
modo esteso ma superficiale: abbastanza sistematico, ormai, nella comunicazione di massa, sicuramente più esteso di prima anche nella lingua di tutti i giorni, ma ancora molto lontano dall’intaccare il nucleo della lingua spontanea, della comunicazione familiare.
L’unico dato disponibile riguardo al parlato, in attesa che i nuovi studi in corso su campioni d’italiano orale giungano a compimento, è ancora quello offerto dal LIP (pubblicato nel 1993), nel quale gli anglicismi
contano 1.049 esempi (242 del solo okay): appena lo 0,2% del totale.
Un’ulteriore riprova della limitata capacità di penetrazione di questi prestiti è la loro scarsa presenza tra i vocaboli più ricorrenti nell’uso, anche
scritto. Le percentuali scendono drasticamente persino nell’italiano
giornalistico: nel VELI (in cui più di vent’anni fa erano stati raccolti i
10.000 vocaboli con fattore d’uso più elevato ricavati da fonti giornalistiche) gli anglicismi rappresentavano l’1,9%. Nel LEZ – creato nel 1994,
su testi scritti da e per bambini delle scuole elementari – sono lo 0,9%;
nel vocabolario di base individuato dal dizionario Sabatini Coletti lo
0,7%, in quello del GRADIT lo 0,5%. Un nucleo appena sfiorato dal fenomeno, se si pensa che in quest’ultimo dizionario, tra i vocaboli considerati “comuni” (dieci volte più numerosi di quelli di base), il tasso degli anglicismi scende addirittura al di sotto dello 0,08%.
Uno dei motivi della scarsa presenza di anglicismi nel parlato e nel
lessico di base va cercato nel fatto che molti di questi vocaboli appartengono alle terminologie di vari linguaggi tecnici o scientifici: quasi un
quarto per il Sabatini Coletti, più della metà per il GRADIT.
48
1. LINGUA
LO SPOSTAMENTO DEL PRESTIGIO
Questi dati lessicografici ci dicono che la gran parte degli anglicismi si
annida ancora nei lessici tecnico-scientifici, primo tra tutti quello dell’economia. Nel “Sole 24 Ore”, ad esempio, sono ormai normali – ad
apertura di pagina – passi come «Cai Chevreaux ha migliorato il rating
da outperform a underperform alzando il target price a 19 euro» (l’articolo è Italcementi: i conti record del 2005 sostengono il titolo, del 9 marzo 2006). Così non era ancora trent’anni fa, quando nel Dizionario dei
termini economici (DTE, 1970) su 680 voci indicizzate, solo 43 erano anglicismi integrali.
Dati simili ci confermano anche che – nella percezione collettiva –
il polo alto del repertorio linguistico non è occupato più dal tradizionale modello di stampo letterario o burocratico, ma dai linguaggi tecnico-scientifici. Il prestigio che un tempo era degli aulicismi oggi spetta ai tecnicismi: «questo moto linguistico non è specificamente italiano,
ma proprio dell’attuale fase di sviluppo delle società evolute e consumistiche, nelle quali i linguaggi tecnico-scientifici si mescolano con i linguaggi istituzionali» (Dardano, 1993, p. 324). Usati al di fuori del loro
specifico campo di pertinenza, tecnicismi e pseudotecnicismi servono a
dare un’idea di asciutta precisione e di aggiornata modernità. A giustificarne l’impiego esteso e spesso traslato non è l’originaria esigenza di
univocità e di referenzialità, ma anzi l’intenzione di affascinare e convincere chi legge o ascolta.
Quanto a prestigio, spicca in particolare quel miscuglio di tecnicismi
della tecnologia e della finanza che è il linguaggio aziendale. Negli ultimi anni anche in Italia l’aziendalese comincia a essere fatto oggetto di
sarcasmo e viene preso di mira dagli stessi esperti di comunicazione (tra
i vocaboli indicati come evitabili o da evitare ci sono integrazione e implementazione “realizzazione”, sinergie e problematiche, proattivo e ottimizzato, processare “lavorare, elaborare” e supportare “sostenere”). Ma è
un fatto che – tanto nelle grandi quanto nelle piccole aziende – i messaggi scambiati continuano a presentarsi fitti di passaggi dedicati all’analisi dei flussi di traffico in vista della valutazione delle azioni strategiche
necessarie per l’eliminazione delle eventuali criticità rilevate in fase d’implementazione (ovvero “per risolvere gli eventuali problemi che si dovessero presentare nel corso del lavoro”), in modo da definire le logiche
e le policy (“regole, condizioni”) di sviluppo formalizzando la comunicazione al management attraverso la predisposizione della reportistica direzionale (gli esempi sono tutti tratti da documenti reali). L’effetto è quello di uno stile anticomunicativo che spesso viene esportato tal quale nella comunicazione esterna: basta dare un’occhiata ai comunicati stampa
49
MODERNITÀ ITALIANA
diffusi attraverso la rete, pieni di interfacce e usabilità, di upgradare “aggiornare”, deliverare “consegnare”, ottimizzare; di soluzioni performanti “efficaci” e di case history (cfr. Antonelli, 2007, pp. 62-8 e bibliografia
ivi indicata).
Questo stesso spostamento di prestigio si registra, negli ultimi
vent’anni, anche nella lingua della politica. L’autorevolezza dell’oratore
si gioca ora su un terreno diverso: non più la perizia retorica d’impronta umanistica, ma la capacità di dominare i meccanismi dell’economia,
di sciorinare con cognizione di causa cifre, dati, statistiche. Si tratta, è
evidente, non di un fenomeno nuovo in sé, ma della sensibile accelerazione di un processo in atto da qualche tempo. La progressiva osmosi di
linguaggio politico e linguaggio economico era già stata segnalata da
Beccaria (1988, p. 207), il quale l’attribuiva al fatto che «i politici erano
un tempo per molta parte umanisti e avvocati. Oggi ci sono molti economisti»); e prima ancora da Dardano (1981 [1973], p. 162), che notava la
differenza con i politici della generazione precedente, come Togliatti e
De Gasperi, i quali «parlavano una lingua quasi priva di tecnicismi e ricca invece di parole comuni».
Negli ultimi vent’anni, però, questo carattere di tecnificazione economica e di corredo numerico ha colpito in maniera evidente tutti i
principali partiti e i principali personaggi politici. Alla fine degli anni
novanta se ne trova già ampia testimonianza nei discorsi alla Camera di
Romano Prodi, allora presidente del Consiglio («il tasso di inflazione
dei prezzi al consumo era il 4,5% nell’aprile 1996, è l’1,4 nel settembre
di quest’anno»; «Il differenziale dei tassi di interesse con la Germania
era oltre 4 punti percentuali nell’aprile dello scorso anno; oggi siamo tra
il mezzo punto e il punto», 1997). Ma anche nel documento politico presentato da Gianfranco Fini alla conferenza programmatica di Alleanza
nazionale (1998) e persino nell’oratoria tribunizia di Umberto Bossi che
arringa il popolo padano («L’Europa monetaria costerà cara perché dovrà essere aumentato continuamente il tetto di risorse della comunità
che raggiunge già ora l’1,27% dei PIL nazionali», «il Mezzogiorno italiano che già tra il 2001 e il 2003 vedrà ridursi del 20% il flusso del denaro dei fondi strutturali», 1998).
Al fascino della terminologia filosofica, giuridica e letteraria si è sostituito quello della terminologia finanziaria, che dà un’idea di oggettività e di efficienza manageriale. Al latino, si preferisce l’inglese (governance, welfare, blind trust); o meglio: al latinorum con cui Don Abbondio cercava di confondere le idee a Renzo si sostituisce l’inglesorum con
cui i ministri delle finanze cercano di abbagliare i cittadini (Stella, 2004):
deregulation, authority bancaria, bad bank, spoil system, venture capital.
Ed è significativo, perché mostra che il lessico tecnico di economia e fi50
1. LINGUA
nanza viene avvertito come il nuovo gergo dei politici, vedere il conduttore della trasmissione televisiva Maastricht-Italia, Alan Friedman che in
una puntata interrompe il sottosegretario al Tesoro, esortandolo a non
parlare «in politichese», solo perché ha usato termini come prodotto interno lordo e deficit (cfr. Antonelli, 2000, p. 218).
Alla luce di tutto questo, si può forse rivalutare uno specifico aspetto della profezia di Pasolini con la quale avevamo aperto questa sintesi.
L’italiano unitario tecnocratico non esiste oggi così come non esisteva
negli anni sessanta, ma è evidente che si sta verificando – adesso più che
mai – una decisa identificazione tra lingua del potere e lingua settoriale
dell’economia, che finisce col relegare ai margini del dibattito pubblico
i saperi umanistici e la tradizionale figura dell’intellettuale.
L’ARCHITETTURA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO/3
Sulla base dei cambiamenti intercorsi in questi anni, l’architettura dell’italiano contemporaneo potrebbe oggi essere ritoccata, apportando
qualche aggiornamento (il corsivo segnala le varietà assenti nello schema
di Berruto) (FIG. 3).
3
L’architettura dell’italiano contemporaneo (2010)
FIGURA
DI
AF
AS
IA
7. Italiano aulico formale
8. Italiano
tecnico-scientifico
9. Italiano
aziendale
A
I
P
O
T
IA
D
1. Italiano standard
scolastico
3. Italiano
parlato colloquiale
4. Italiano
regionale
DIASTRATIA
DIAMESIA
10. Italiano
digitato
D
IA
TO
PI
A
2. Italiano neostandard
giornalistico
5. Italiano
informale-trascurato
6. Italiano
popolare
51
MODERNITÀ ITALIANA
Già a un primo sguardo saltano agli occhi alcuni elementi di novità. Innanzi tutto il generale affollamento della zona centrale del grafico, indice di una notevole riduzione delle distanze tra le diverse varietà (ovvero
di una sostanziale medietà della lingua dell’uso). Poi altri fenomeni, tra
i quali:
a) la maggiore incidenza della diatopia, che (sia pure con un’interferenza più leggera, resa qui da un grigio chiaro) entra nel quadrante alto
della diastratia/diafasia e invade – in diamesia – il settore della lingua
scritta;
b) la risalita dell’italiano standard (ormai di fatto cristallizzato in quello scolastico) fin quasi a coincidere con l’italiano aulico formale (cfr. Serianni, Benedetti, 2009), e l’identificazione del nuovo standard con l’italiano di un buon articolo di giornale (cfr. Serianni, 2003);
c) ai piani alti, la promozione dell’italiano tecnico-scientifico a varietà
di massimo prestigio e la sostituzione dell’italiano burocratico con quello aziendale, misto di residui burocratici e di tecnicismi economici;
d) la netta distinzione tra italiano regionale e italiano popolare;
e) il sensibile avvicinarsi (fin quasi a sovrapporsi) di italiano parlato
colloquiale, italiano regionale e italiano informale trascurato;
f) la comparsa, nel quadrante in alto a destra, di una varietà scritta spiccatamente informale e diastraticamente trasversale: l’italiano digitato.
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