Da “abbacchio” a “zucca barucca”

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Da “abbacchio” a “zucca barucca”
2 Sabato, 18 febbraio 2012
Idee e opinioni
A
✎ L’opinione |
nche in Sanità le risorse
non sono infinite.
Il cittadino lo sente
quotidianamente alla Tv,
alla radio e lo legge sui giornali.
Se ne accorge poi sulla propria
pelle, anzi nel proprio portafogli,
quando deve sborsare fior di euro
per l’odiato ticket, oppure quando
il suo medico di base gli spiega che
la tale prestazione non è rimborsata
dal sistema sanitario nazionale,
cioè non è mutuabile. La crisi
è ovunque, è planetaria, ma in
Medicina configgono in particolare
alcuni elementi: da un lato la
limitatezza delle risorse finanziarie,
dall’altro l’aumento della vita
media e la crescita esponenziale
della tecnologia a disposizione,
nonché la raffinatezza delle cure
da mettere in campo. Quindi
abbiamo sempre meno soldi per
più persone, che vivono più a lungo
e per le quali la scienza sforna
mezzi diagnostici e terapeutici
raffinatissimi e costosissimi. Gli
operatori sanitari, ed in particolare
i medici, sono da anni coinvolti in
prima persona nel contenimento
di Mario Guidotti
La nuova Sanità e le sue risorse,
che non sono infinire
delle risorse finanziarie, tanto che
anche nell’ultima stesura del codice
di deontologia medica è entrato
con prepotenza l’articolo 6 (Qualità
gestionale e professionale) che
cita specificatamente “il medico
agisce…tenendo conto dell’ uso
appropriato delle risorse”. Quindi
l’attenzione al bilancio non è un
gesto speculativo, mercantile,
ma morale, etico, fondante la
buona sanità e quindi la buona
società. Certo, a volte sotto sotto
cresce il sospetto dell’imbroglio.
Pensiamo: ci negano il tal farmaco
o ci fanno pagare il ticket per fare
cassa, per arricchire qualcuno.
No, quei soldi risparmiati sono
destinati alle cure di altri, o alla
prevenzione, o alla ricerca. Il
bilancio corretto è etica, sia chiaro
per tutti. Ma il punto è: come
perseguire il bilancio in pareggio
scontentando il meno possibile
gli utenti e salvaguardando il più
possibile le fasce più fragili della
società? L’unica certezza è che
non si può più dare tutto a tutti. E
non solo perché siamo in tempi di
vacche magre, ma parchè siamo
in tanti, viviamo più a lungo e
disponiamo di tecnologia sempre
più avanzata e raffinata. L’ultimo
parolone destinato ad entrare nelle
orecchie è farmacogenomica. Sta
a significare come le medicine
debbano essere in linea con
la genomica appunto, cioè il
corredo genetico, insomma il DNA
dell’individuo cui sono destinate.
A ognuno la propria malattia ed il
suo specifico farmaco. Eccellente,
grandissima innovazione. Ma
riuscite ad immaginare quanto
possa costare in futuro a tutto
il sistema di welfare questo
approccio alla Medicina? Non
potendo più dare tutto a tutti, si
tratta di assegnare il meglio a chi
serve. Quindi la parola d’ordine
diventa “appropriatezza”. Di uso,
di assegnazione, di distribuzione.
Di attività diagnostica e curativa,
medica e chirurgica. Come fanno
gli altri Paesi occidentali, vicini di
casa e a volte nostri modelli per
organizzazione? Alcuni assegnano
le risorse in base all’appropriatezza
scientifica: curo in modo avanzato
solo i soggetti con patologie in cui
vi è evidenza di utilità e quindi
di possibile guarigione. In altre
parti vi è una quota di Sanità
“pesante”, come i trapianti, i grandi
interventi o le terapie costosissime
a carico dello Stato, il resto a carico
dei cittadini che se lo possono
permettere in base al reddito. Della
serie: se guadagno decorosamente
posso comprarmi l’antibiotico per
la bronchite con i miei soldini. Un
altro modello interessante è una
Sanità gratuita o meno in base ai
comportamenti. Io Stato ti avverto
di che cosa è pericoloso, se lo fai e ti
ammali ovviamente ti curo, ma poi
ti mando il conto. Esempi. Fumi? Ti
paghi le cure per gli effetti del fumo.
Eccedi nel bere e nel mangiare?
Lo stesso. Scii fuori pista? Se ti fai
male ti mandiamo la fattura di
salvataggio e cure. E via sborsando
in base alle varie trasgressioni.
Certo, sono tutte soluzioni
antipatiche, ma prepariamoci
perché prima o poi ci arriveremo e
come in Medicina prevenire, cioè
anticipare e prevedere i problemi
che ci cascheranno addosso come
macigni, è meglio che curare.
COLPO D’OCCHIO | di Piero Isola
Da “abbacchio”
a “zucca barucca”
D
a abbacchio a
conoscenza più approfondita
Sono i due estremi in cui
zucca barucca, o
prosegue poi di pari passo con
si collocano le migliaia e
se volete, ancor
lo studio e l’approfondimento
più giù, a zuccotto,
dell’italiano. Una pizza e un
migliaia di parole della
zugo, zuppa. Sono questi gli
lambrusco possono far sorgere
tradizione gastronomica
estremi in cui si collocano le
“voglia d’italiano” più di cento
migliaia e migliaia di parole
incontri culturali.
italiana che l’Accademia
della tradizione gastronomica
Al di là della pizza e del
della Crusca si accinge a
italiana che l’Accademia della
lambrusco, nomi ormai
catalogare
Crusca si accinge a catalogare
inflazionati in Italia e all’estero, è
per sfornare quello che sarà
che resta difficile anche per noi
“L’italiano in cucina”, ossia il vocabolario storico
italiani raccapezzarci nell’immensa giungla di
della lingua della gastronomia. Progetto ambizioso,
voci gastronomiche che caratterizzano – più di
impresa difficile, per cui questa volta la Crusca ha
altre – la nostra lingua, particolarmente ricca e
dovuto giocoforza impastarsi (nel senso migliore) con
generosa (si pensi solo ai contributi regionali, se non di
la... farina, materia principe della Barilla. L’azienda di
ambito più strettamente locale) di parole collegate alla
Parma collaborerà al progetto attraverso l’Academia
cucina o comunque all’alimentazione. Siamo in periodo
Barilla (ha preferito così, con una c, secondo l’usanza
di Carnevale: ebbene noi in Italia per designare la stessa
arcaica) da lei fondata nel 2004 e divenuta in pochi
cosa, che poi sarebbero quelle strisce di pasta, fritte
anni un sicuro riferimento per la promozione e la
(ma oggi la dietologia consiglia di passarle al forno) e
valorizzazione della cultura gastronomica italiana nel
cosparse di zucchero, abbiamo non uno, ma una serqua
mondo. Non solo gli industriali pastai parteciperanno
di vocaboli: bugie, cenci, chiacchiere, crostoli, frappe,
al progetto, anche alcuni atenei italiani (La Sapienza e
gale, galani, intrigoni, sfrappole. Né basta, perché
la Lumsa di Roma, l’Università di Torino, l’Università
altrove le chiamano ancora altrimenti.
per stranieri di Siena).
Ben venga un vocabolario che metta in ordine
E a proposito di stranieri è il caso di ricordare che
tale materia, vasta quante sono le specialità, e le
l’amore per la nostra lingua nasce in molti popoli
denominazioni, della tradizione gastronomica italiana.
di altri Paesi proprio a incominciare dall’incontro
La Crusca e soci, nella prima fase del progetto, hanno
con i nostri prodotti gastronomici, il cui desiderio di
cominciato a selezionare cento testi di cucina, a
partire dal fondamentale di Pellegrino Artusi “L’arte di
mangiar bene - Manuale pratico per le famiglie”, i quali
poi saranno analizzati e acquisiti in formato testuale
per costituire una banca dati consultabile in rete. Da
qui, prima di arrivare al traguardo finale, di lavoro
difficile ce ne vuole. Ma la gloriosa Accademia della
Crusca sembra aver preso lena dopo il “salvataggio”
del settembre scorso, grazie a un emendamento alla
“manovra” approvato unanimemente in commissione
Bilancio del Senato. È di questi giorni la pubblicazione
del volume “Italia linguistica: gli ultimi 150 anni. Nuovi
soggetti, nuove voci, un nuovo immaginario”, che
ripercorre le vicende post unitarie e dove si parla tra
l’altro (San Remo imminente) anche delle canzoni che
hanno fatto l’italiano.
◆ L’innocuodi don angelo riva
Bene comune: liberalizzazioni e dintorni/2
S
i torna a parlare, proprio in questi giorni, di
liberalizzazioni: gli orari dei negozi, le concessioni dei tassisti, la vendita di farmaci al
banco, l’abolizione degli ordini professionali. Un altro tema sul quale continuare le nostre
brevi riflessioni sul bene comune (cfr. n. 6 del Settimanale). Anche qui, infatti, ci sarebbe bisogno di
idee politiche mentalmente aperte, e non arroccate
su ideologismi; e, da parte dei cittadini, di sincera
propensione a preferire lo “spirito di corpo” allo
“spirito di casta”.
C’è chi sostiene che liberalizzare sia un bene a prescindere. Un po’ è vero: la creatività (dei singoli e
delle cosiddette “economie civili”), l’inventiva, la
propensione al rischio, il merito, potrebbero ricevere stimolazione dalla competitività di un mercato sanamente libero, e invece rischiano di soffocare
nel groviglio di regolamenti e pastoie burocratiche,
che mortificano la libera iniziativa e facilmente si
traducono in sacca di privilegio per le cosiddette
“caste”. A questa prima ragione – economica ma
anche antropologica – se ne aggiunge poi una se-
conda, assai spendibile sul piano della propaganda: l’atteso calo delle tariffe. E’ questo il miracoloso
elisir dello sviluppo promesso dai mentori delle
liberalizzazioni ad oltranza. Ma le cose sono un
po’ più complesse.
Prendiamo la questione degli orari dei negozi. C’è il
rischio concreto che una liberalizzazione selvaggia
premi oltremisura la grande distribuzione, penalizzando i piccoli negozi, che non possono permettersi una rotazione d’orario full time. Se così fosse, non si andrebbe verso un mercato più libero e
competitivo, bensì verso una forma di concorrenza
sleale, un oligopolio cammuffato, dove gli squali
della grande distribuzione farebbero polpette dei
pesciolini del piccolo negozio a conduzione familiare. E davvero calerebbero i prezzi? E i neo-disoccupati della piccola distribuzione non finiranno
per azzerare il vantaggio delle nuove assunzioni
da parte dei supermercati? Senza dire, poi, della
ricaduta culturale e spirituale del “negozi sempre
aperti”. Argomento sottaciuto, ma che a noi non
può non stare a cuore. Il tempo dell’uomo non è
solo per il lavoro, ma anche per la festa, il riposo,
la famiglia, il sollievo spirituale, la manutenzione
delle relazioni. L’ideologia delle liberalizzazioni
non rischia di immolare tutto questo sull’altare del
dio-denaro e del dio-PIL?
C’è poi la liberalizzazione degli ordini professionali: medici, avvocati, notai, commercialisti…Secondo molti, corporazioni ad alto tasso di immunizzazione rispetto alla libera concorrenza; e, soprattutto, una spiccata propensione a blindare al rialzo i
minimi tariffari. Certo, un po’ meno di “catenaccio”
– da parte delle “caste” – sarebbe quantomai auspicabile. Ma attenti a non buttar via l’importante
funzione di formazione, di controllo e di garanzia
che tali ordini esercitano sui propri iscritti, senza
della quale rischieremmo di avere in circolazione
molti più professionisti a buon mercato, ma di dubbia professionalità (e qui, in verità, potrei parlare
di me stesso, non iscritto all’albo dei giornalisti…).
Insomma, avanti pure con le liberalizzazioni. Ma
cum grano salis, e al riparo da semplificazioni figlie
dell’ideologia più che della verità.