Sui futuri contingenti

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Sui futuri contingenti
La Cicuta On-line
Autore:
Sezione:
Ontologia
LORENZO AZZANO
Sui futuri contingenti
Il problema logico e metafisico dei futuri contingenti è uno dei più antichi e più ardui della storia
della filosofia. In questo breve articolo tenterò di darne un’analisi alla luce delle moderne
semantiche modellistiche, nonché metterne in luce le sostanziali ramificazioni filosofiche.
Un articolo di un filosofo che voglia definirsi serio dovrebbe sicuramente cominciare questo
articolo citando il famosissimo esempio della battaglia navale fatto da Aristotele, che fu il primo ad
occuparsi sistematicamente della faccenda. Io invece, che non ambisco alla serietà, prenderò come
punto di partenza la trama del film Terminator 2.
Nel film si viene a sapere che il 1 gennaio dell’anno 1997, Skynet, il malvagio computer a capo
delle macchine, dichiara guerra all’umanità e la conduce quasi all’estinzione; successivamente
manda nel passato un robot assassino per uccidere da bambino il futuro leader della resistenza
umana. La madre del bambino, Sarah Connor, si ritrova quindi a conoscere l’orribile futuro senza
poterlo evitare. Tuttavia un robot buono, interpretato da un austriaco dalla non indifferente massa
corporea e una stentata conoscenza della lingua anglofona, le dà la buona notizia che esistono i
futuri alternativi e che quindi lei, nel 1991, è libera di sventare la nascita del malvagio Skynet e
impedire la guerra.
Ora, consideriamo l’enunciato
a) Il 1 gennaio 1997, Skynet distruggerà l’umanità
Se accettiamo una qualche formalizzazione del principio tarskiano sulla verità, diremo che tale
enunciato è vero se si dà lo stato di cose combinatamente rappresentato dai costituenti di tale
enunciato. Fin qui, poco male, poiché il principio ontologico del Terzo Escluso (per cui o l’evento
avrà luogo oppure no) ci assicura la validità del principio semantico della Bivalenza (per cui
l’enunciato sarà vero o falso di conseguenza). Tuttavia l’enunciato a) mostra una complicazione in
più, e cioè la presenza di una coordinata temporale. La questione sembra essere meno importante se
la data descritta è di un giorno passato: ad esempio oggi, nel 2011, possiamo fortunatamente bollare
l’enunciato a) come falso, poiché nel 1997 nessun computer malvagio ha mai fatto niente.
Però bisogna tenere conto del fatto che a valutare questo enunciato nel film è Sarah Connor
nell’anno 1991, cioè in un momento precedente rispetto alla coordinata indicata. Sembra purtroppo
però che per i due principi visti prima, l’enunciato a) debba avere un valore di verità; dopo Frege
sappiamo inoltre che un valore di verità è assegnato eternamente, e quindi anche nel 1991.
Di conseguenza è un mero problema epistemico non conoscere la verità di a) nel 1991, perché di
fatto quell’enunciato è già vero o falso, il futuro è bloccato e il determinismo accettato. La
conclusione, così perentoria, scatta però da due precedenti righe di testo sature di presupposizioni e
1 ambiguità: da qui in poi l’articolo sarà un tentativo di scardinare l’argomento precedente, tramite
modelli e assiomi appositi. Una buona conoscenza di logiche e semantiche modali sarà necessaria.
Ora, consideriamo una visione lineare del tempo; il tempo come retta all’interno della quale gli
eventi sono rappresentati da punti geometrici ordinati linearmente da sinistra (il passato) a destra (il
futuro). Nel momento t viene pronunciato l’enunciato A riferentesi a un evento in t0, successivo a t.
Ha senso pensare che un enunciato possa avere fattori verità in un istante diverso rispetto a quello di
proferimento? Il paragone con la possibilità potrebbe essere illuminante: se ci domandiamo se un
evento è possibile, non lo andiamo a cercare nel mondo reale, bensì in un’altra situazione1. Allo
stesso modo, quando mi domando se Washington fu presidente degli USA, non cerco fattori di
verità adesso: prima opero la modalizzazione temporale, spostandomi in uno stato del mondo
precedente, e una volta lì cerco lo stato di cose che renderebbe vero il mio enunciato.
Di conseguenza da qualche parte in t0 ci saranno i fattori di verità di A (oppure non ci saranno, e
l’enunciato sarà falso). A questo punto l’enunciato A sarà vero o falso, e come ogni altro enunciato
non contenente termini indicali, possiederà eternamente la propria verità, anche nel momento di
proferimento t. Questo principio può essere formalizzato con l’aiuto di un po’ di logica temporale:
siano P ed F due operatori modali tali che P significa “è stato che” e F “sarà che”, le conclusioni
dell’argomento precedente possono essere riassunte così:
b) p → ¬P¬Fp
per cui appunto: se p, non è mai stato che non sarebbe stato p. Esattamente come per la prova
ontologica dell’esistenza di Dio, chiunque abbia un minimo di buonsenso si renderà conto che in
questa azione di risalita della verità dal futuro al passato c’è qualcosa che non va. O meglio, c’è una
presupposizione: in questo caso è l’eternalismo, e cioè l’idea che eventi passati e futuri esistano
tanto quanto i presenti (e possano quindi fungere da condizioni di verità); e fu probabilmente questa
conclusione a spingere il paraconsistentista J. Lukasiewicz a negare il principio di bivalenza per
enunciati al futuro della forma di a). La veridicità di questa posizione è stata spesso criticata, ma
anche se essa non è qui direttamente in discussione, vorrei proporre una controcritica: si dice spesso
che la motivazione di Lukasiewicz nascondesse una confusione fra l’ambito ontologico ed
epistemico, cioè fra condizioni di verità e verificabilità per quanto riguarda gli enunciati al futuro:
in questo caso, se Sarah Connor dice l’enunciato a) nel 1991, e poi Skynet non distrugge l’umanità,
avrebbe avuto tutte le ragioni per dire di aver detto, nel 1991, un enunciato falso, sebbene all’epoca
non avesse i mezzi per constatarlo. Io penso che la critica non centri l’obiettivo, poiché la
motivazione dei dubbi di Lukasiewicz (probabilmente), non era tanto l’accertabilità di enunciati al
futuro, quanto la sensatezza di pensare a situazioni che fungono da fattori di verità in maniera
retroattiva rispetto a enunciati precedentemente proferiti. Essa presuppone una visione sub specie
aeternitatis che forse consiste già in un’obiezione di principio a favore del determinismo.
Ora, si consideri la situazione di Sarah Connor nel 1991: qualcuno le viene a dire che fra sei anni un
malvagio robot dichiarerà guerra all’umanità. Una reazione istintiva della nostra eroina potrebbe
essere chiedere: è necessario che succeda? E cioè, non esistono altre possibilità?
1
Quale sia lo status ontologico di questa situazione, e se abbia senso cercare fattori verità altrove è tutta
un’altra questione, a mio parere molto destabilizzante. Si veda la conclusione di questo articolo.
2 Questo è il punto cruciale in cui si fondono le tematiche di modalità aletica e temporale: la
questione si sta cioè complicando, poiché ora non abbiamo più solo eventi futuri ma anche eventi
possibili, e dobbiamo cercare di capire quale sia la relazione fra i due: di entrambi ci si domanda se
esistano davvero, e se sì quale illusione cognitiva li separi dall’attuale (termine che in inglese,
actually, mantiene più la valenza aletica che quella temporale).
Dobbiamo però chiarire il significato del termine necessario, poiché l’uso che se ne fa
correntemente non corrisponde all’uso che ne faceva Aristotele nel De interpretatione, 9; egli
introduceva tale termine definendo la necessità l’inalterabilità propria del passato. Cosa si intende
per inalterabilità? Si intende che dall’istante t in cui è effettuata la valutazione di quell’enunciato,
esso sarà sempre vero in qualunque istante successivo ad esso. Consideriamo un enunciato del tipo
“Nel 49 a.C. Pompeo fu sconfitto nella battaglia di Farsalo”: quando Aristotele dice che questo
enunciato è necessario non vuole intendere che esso descrive un evento che non poteva non darsi;
sta piuttosto dicendo che tale enunciato sarà vero in ogni t posteriore all’istante in cui si trovano i
fattori di verità per la sua valutazione (cioè il 49 a.C). In questo senso è inalterabile.
Conseguentemente, secondo la valutazione aristotelica, quando il principio di bivalenza ci costringe
ad ammettere che un enunciato futuro è già verso, non ci stiamo impegnando nella sua necessità, ma
nel fatto che esso sarà inalterabilmente vero in ogni istante precedente. Il problema è che è crollata
l’asimmetria fra il passato o il futuro, non che la necessità è collassata sulla contingenza.
Questo già ci dovrebbe incamminare verso la soluzione. Ora abbiamo distinto una possibilità
temporale da una possibilità non temporale: secondo una possibilità temporale (quella di Aristotele)
è falso dire che qualcosa che una volta era possibile, e non è stata, ora è ancora possibile. Secondo
l’altro senso di possibilità, è esatto. Dal momento che vogliamo avvalerci del concetto di necessità
nella nostra nuova accezione (verità in ogni mondo possibile), possiamo stabilire l’importante
assioma c) , e cioè
c) Fp → ◊p
Dove ◊ è l’operatore di possibilità.2 Tutti gli eventi futuri, ammesso che tali entità esistano,
sembrano essere possibili, in qualche senso; mentre il contrario, e cioè che tutti gli eventi possibili
siano futuri, sembra falso. Con Fp stiamo però dicendo qualcosa di più che p è possibile: e cioè,
rispetto al momento di proferimento, non è che p sarebbe potuto accadere, bensì che p potrà
accadere.
La spiacevole conclusione di prima sembra ora evitata, poiché l’enunciato a) deve sì avere fattori di
verità, ma è un evento futuro, e quindi per c) è un evento possibile, e di conseguenza non
necessario. Esso può avvenire ma non è necessario: stiamo cioè passando da una visione lineare ad
una ramificata del tempo. Analizzando il problema dei futuri contingenti, in sostanza, non bisogna
mai dimenticare che questi futuri sono contingenti per ipotesi, per cui un appello a una qualche
versione necessitata del Terzo Escluso, e cioè
d) □ (p ∨ ¬p)
non deve essere confusa con la più problematica
2
Una regola contraria per ritradurre la modalità aletica in temporale è oggetto del celebre κυρειον λογος di
Diodoro Crono, così com’è proposto da Epitetto e formalizzato da A. Prior.
3 f1) □p ∨ □¬p
Non vale cioè nessuna proprietà distributiva dell’operatore di necessità. Informalmente significa,
come probabilmente era già stato notato dallo stesso Aristotele, che dire che è necessario che
avvenga un evento o che non avvenga, non significa dire che è necessario che avvenga un evento o
che sia necessario che non avvenga. L’assioma f1, alquanto sinistro, rappresenta un collasso della
modalità, tale per cui p ≡ □p3, e cioè l’affermazione dell’inesistenza della contingenza, e quindi
della scelta e della libertà. Se Aristotele fosse caduto o meno nella fallacia è qui di scarsissima
importanza, se non a livello filologico. Basta tuttavia per mostrare come l’appello al principio del
Terzo Escluso fatto all’inizio dell’articolo sia in realtà del tutto immotivato.
Se a livello generale la risposta può bastare, ci manca ancora un meccanismo formale e ricorsivo
per accertare verità e falsità di enunciati futuri. Se, come abbiamo visto, diverse interpretazioni
della modalità si intrecciano nella questione dei futuri contingenti, ciò di cui abbiamo bisogno è un
modello multimodale. Proporrò di conseguenza un modello sviluppato dal grande logico e filosofo
neozelandese Arthur Prior proprio per risolvere questa questione, e dopo tenterò di aggiungere un
po’ di farina del mio sacco modificando il funzionamento semantico dell’operatore temporale allo
scopo di mettere a tacere una
critica.
In questo modello, che chiamerò
Mm, il concetto di mondo possibile
è derivato rispetto a quello di
istante temporale, che invece è
primitivo. Eccolo qui, sotto la
forma di quadrupla ordinata:
Mm = <D, T, ≪, i>
D è il dominio di quantificazione, T
un insieme istanti t ordinati verso il
passato secondo la relazione ≪,
mentre i è la consueta funzione di
interpretazione. La relazione ≪
permette
l’esistenza
di
ramificazioni, nel senso che
disegnando un piano cartesiano in
cui un asse sia il tempo, mentre
l’altro lo spazio logico, cioè la
3
Questo è facilmente dimostrabile in ogni logica forte almeno quanto T; difatti, per la logica classica vale
che P Q ≡ ¬P → Q; quindi f1 è equivalente a ¬□p → □¬p, e dato che P → Q ≡ ¬P → ¬Q, sarà anche
che ¬□¬p →¬¬□p, e cioè ¬□¬p →□p. Visto che in T si ha che p→◊p, e cioè p→¬□¬p, e che
quindi, per la transitività della implicazione materiale (tale che se A → B e se B → C, allora A→C),
sarà che p→□p. Visto che in T vale anche che □p →p (regola di riflessività della relazione R), sarà
che p≡□p. 4 possibilità, potremo trovarci di fronte a situazioni del genere:
Ora, cos’è un mondo possibile, e come funzionano i nostri operatori? Un mondo possibile W è qui
un sottinsieme massimale di T, di istanti temporali quindi, i cui elementi siano però tutti
linearmente ordinati. Ogni W è quindi un percorso possibile completo. 4
La verità in Mm è quindi relativa all’istante t e al mondo possibile W in cui tale istante si trova. Il
funzionamento degli operatori temporali è molto semplice (li dò entrambi anche se ognuno è
definibile sulla base dell’altro):
Mm, t, W ⊩ Fp sse Mm, t1 ⊩ p per un t1 in W tale che t≪t1
Mm, t, W ⊩ Pp sse Mm, t1 ⊩ p per un t1 in W tale che t1≪t
Mentre l’operatore di necessità funzionerà così:
Mm, t, W ⊩ □p sse Mm, t, W1 ⊩ p per ogni W1 tale che t ∈ W1
Cosa stiamo dicendo, con questa clausola? Stiamo dicendo che un enunciato p è necessario se
descrive un evento che si dà in ogni percorso possibile che comprenda l’istante t non cui vogliamo
effettuare la valutazione. E’ una concezione di necessario molto più selettiva della necessità logica
o metafisica, e sembra rispondere più precisamente alla nozione di necessità fisica: è necessario ciò
che non può non essere dato come si è sviluppato il mondo sino ad ora. Si consideri la figura
precedente e il seguente modello per cui
t⊭p
t1 ⊩ p
t2 ⊩ p
t3 ⊩ p
t4 ⊭ p
Avremo quindi che □p vale in t1, in t2 e in t3, ma non in t, né in t4. Significa che per lo stato di cose
che è il mondo in t1, p è necessario e non ha senso ribadire che non è così perché p non si dà nel
momento t4, poiché t4 è su una ramificazione del tutto estranea a t1, rappresenta cioè un’altra
possibilità nello spazio logico.
Ora, c’era un problema scatenato dalla formula b), che qui ripetiamo
b) p → ¬P¬Fp
4
Come da me specificato altrove, questa è peraltro una buona tipologia di semantica modale diacronica, e
cioè che non consideri i mondi possibili come ricombinazione di stati di cose “congelate” in un dato istante
di tempo.
5 Il problema era costituito dall’apparente retroattività della verità di enunciati futuri: il modello che
abbiamo dato può benissimo accettare la verità di b), nel senso che se si dà che Mm, W, t ⊩ p (cioè
se p è vero nell’istante t del percorso W), allora sarà che per ogni istante t0, tale che t0 ∈ W, e che
t0≪t, varrà Fp, ma non ci sarà nessuna necessitazione, perché la contingenza è assicurata
dall’esistenza di percorsi possibili W0 tali che t0 ∈ W0, ma t ∉ W0.
Sembra che ci sia ancora qualcosa che strida però, in particolare nel rapporto fra le due famiglie di
operatori modali. E in particolare la domanda è questa: che senso ha ammettere la possibilità di
futuri alternativi (come uno in cui Skynet non nasce del tutto) se poi in ogni momento passato è
comunque temporalmente necessario, cioè ineluttabile, cioè vero del futuro, un particolare
avvenimento? Sembra cioè che il determinismo possa riproporsi su scala locale, per gli operatori di
temporalità, dopo essere sgusciato attraverso la contingenza assicurata dall’idea di mondo possibile
W come percorso.
Personalmente ritengo che questa critica scaturisca da un’errata concezione degli operatori aletici:
stabilire dei decorsi alternativi, ma poi dire che di fatto avverrà un particolare evento all’interno di
uno di questi decorsi, significa escludere l’esistenza degli altri percorsi, bollandoli come non
possibili: significa cioè porre una catena causale che va dal momento di proferimento a quello in cui
si manifesteranno i fattori di verità dell’enunciato proferito. Ma l’idea che ci siano due futuri
possibili significa proprio escludere la possibilità (perdonate il gioco di parole) di porre in anticipo
delle verità sul futuro: il futuro non si conosce, non per motivi epistemici, ma perché ancora non
esiste, se non nello status di possibile, insieme a molti altri futuri possibili.
Questo “determinismo locale” compare quando torniamo a pensare che necessario significhi
inalterabilmente vero in una serie ordinata di istante, com’era per Aristotele. La critica sorge perché
è difficile comprendere fino in fondo cosa significa per qualcosa essere possibile, e vi è l’istintiva
tendenza a bollarlo come attuale, appioppandogli quindi la definizione di futuro. Ma, per quanto
stabilito da c), dire che qualcosa è futuro significa dire che è possibile, e un evento possibile non
può fornire condizioni di verità per enunciati modalizzati temporalmente: dire che è vero che io
diventerò un ballerino poiché io potrei diventare un ballerino non è un’improprietà di linguaggio. E’
semplicemente sbagliato.
Aveva quindi ragione Lukasiewicz nel negare la bivalenza per gli enunciati al futuro? Potremmo a
questo punto inserire, sulla base di queste argomentazioni, una nuova regola semantica per Mm, e
cioè che
e) Mm, W, t ⊩ Fa sse ∃t0 tale che ∀W tale che t ∈ W allora t0 ∈ W, e t≪t0, varrà che
Mm, W, t0 ⊩ a
E cioè se l’istante t0 in cui si trovano i fattori per la verità di Fa non si trova dopo una ramificazione.
Questo dovrebbe risolvere il problema del cosiddetto determinismo locale, ma lascia aperte
parecchie questioni: ad esempio, la valutabilità di enunciati al futuro dipende dall’esistenza di futuri
non ramificati, cioè necessari? Ha ciò senso? Non lo so. So solo che la scelta di un modello
semantico che permetta di vedere le cose in maniera atemporale, sub specie aeternitatis, è un modo
per ignorare la spinosa questione sulla realtà del tempo e degli eventi possibili.
6 Ora, questo ci porta al cuore del problema: se l’ammissione della possibilità alternativa ci permette
di rompere il muro del determinismo, stiamo dicendo che in ogni processo causale le cause non
necessitano (fisicamente) i loro effetti. Commentando questo argomento aristotelico, Sorabji (1980)
arrivò alla mia stessa conclusione dicendo che “anche se è già vero che andrò a nuotare, io posseggo
ancora il potere di rendere falsa quest’asserzione”. E’ ciò che abbiamo difeso finora: ma se un
enunciato al futuro è già vero, questo potere è destinato a non manifestarsi, a diventare un mero
casus che si assicura la contingenza dell’enunciato senza poter di fatto, darci delle speranze che
esso sia prima o poi falsificato. Qualcosa di inutile, cioè.
Secondo Leibniz la verità dei futuri contingenti come a) è una necessità ipotetica (fondantesi su
premesse precedenti, e cioè appunto il percorso possibile finora), basata sul principio di ragion
sufficiente, per cui, come suggerito, dallo stabilire una catena causale sufficiente per scatenare
l’evento in questione. Naturalmente per Leibniz un enunciato come a) è contingente perché falso in
almeno un mondo possibile, ma il punto qui è che questo principio di ragion sufficiente “inclina
senza necessitare”, che è come dire, à la Hume, che nessuna causa necessita logicamente i suoi
effetti. Il problema della determinazione riaffiora nel campo della necessità fisica, e quindi la
controparte ontologica di quello spazio logico ramificato richiesto per Mm si basa sul presupposto
che, a parità di condizioni5, non si sia verificato un evento che invece aveva cause sufficienti per
verificarsi. L’idea contro cui lotta quest’intuizione è che due mondi non possono essere distinti per
un solo stato di cose: se differiscono per un singolo stato di cose devono differire anche per qualche
legge di natura (cosa che vogliamo evitare) o per qualche altro stato di cose che ha causato questa
divergenza. Ma di questo passo non arriveremo mai al punto di rottura. Nella sua difesa
dell’asimmetria temporale della dipendenza causale Lewis (1979) sosteneva che ci sono miracoli
“grandi” e “piccoli”: di fronte a questo problema sembrano invece tutti uguali, ugualmente
misteriosi e ugualmente pazzeschi.
Riassumendo: il legame che unisce le condizioni di stimolo dalle (possibili) manifestazioni deve
avere la “colla” per tenere insieme cause ed effetti ma al tempo stesso essere sufficientemente
debole da permettere l’intrufolarsi di un (miracoloso?) fattore di scelta; ma qual è questo filo sottile
che lega ciò che è presente-attuale con ciò che è futuro-possibile, ammesso che la distinzione
metafisica regga? Questo tema, proprio dell’ontologia delle disposizioni, è estremamente
complesso, e probabilmente ammette come unica soluzione una posizione tranchante rispetto a
parecchie nostre intuizioni. Per il momento volevo solo sottolineare come presupposizioni di tipo
metafisico sottostiano alla scelta di qualunque modello semantico.
5
A parità di condizioni poiché non si può effettuare un backtracking dei controfattuali: da qualche parte la
divergenza deve pur nascere.
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