Guscio di noce

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Guscio di noce
GUSCIO DI NOCE
Nella darsena di un grazioso paese tinteggiato dal sole con colori decisi e puliti come
di smalto c’erano centinaia di barche. A camminare sul molo sembrava d’essere in
una foresta di alberi leggeri più dei pioppi, mossi da un vento misterioso, in un
intreccio di funi come tele di ragni contro l’azzurro del cielo.
Gli scafi snelli e bianchi delle barche da turismo fronteggiavano gli scafi panciuti dei
gozzi da pesca, e sembrava di sentire gli uni vantarsi delle lunghe crociere a toccare
porti esotici e coste lontane, e gli altri rispondere narrando mille e mille avventure
tra onde gigantesche e piovre e balene affrontate nell’oceano.
In un angolo del molo una barchetta poco più grande di un guscio di noce guardava
con ammirazione i lussuosi natanti e gli imponenti pescherecci, e ascoltava avida i
loro racconti. Era una barchetta giovane, di buona fattura: un bel legno rossastro
per lo scafo, un palo tenace, elastico il giusto come albero, una stoffa leggera e
resistente come vela. Sebbene tanto piccola da sembrare un giocattolo, tuttavia la
barchetta doveva essere stata certo costruita da una mano competente che ne
aveva curato ogni dettaglio.
La barchetta non sapeva bene che cosa fosse stata né dove, prima di essersi
ritrovata lì, in quel molo, a scaldarsi al tiepido sole primaverile, a dondolarsi allegra
sull’acqua, a lasciarsi carezzare dal vento. Il mare si apriva davanti a lei, immenso,
affascinante, temibile. Giorno dopo giorno il tramonto l’addormentava tra sogni di
viaggi fantastici e l’alba la destava nel desiderio sempre più forte di partire, di
slanciarsi verso l’orizzonte, di prendere il largo, di andare.
Al diavolo tutti quegli scafi bianchi e lustri e quei gozzi possenti: “Sei troppo
piccola! La prima onda di mare aperto ti capovolgerà! La prima balena che incontrerai
nell’oceano ti ingoierà”, e dai a prenderla in giro e a chiamarla Guscio di Noce.
I giorni passavano, giunse l’estate. Anche le barche da turismo ormeggiate lungo il
molo presero a uscire di mattina, incrociando i pescherecci che rientravano carichi
nel porto: stavano fuori per un giorno, per un fine settimana, per un mese. Guscio di
Noce invece se ne stava là, in quell’angolo, a sognare, a fremere, a temere. Il vento
gonfiava un poco la sua vela ed ecco che lei si sentiva pronta; ma subito dopo
l’ormeggio la tirava nuovamente indietro e la paura la schiacciava contro il molo. “E
se poi mi rovescio? E se un mostro marino mi divora?”
Finché un giorno qualcuno – una mano benevola o dispettosa, chissà? – sciolse
l’ormeggio, al brezza leggera del mattino si irrobustì fino a diventare vento, e il
vento soffiò nella vela di Guscio di Noce che si staccò dal molo e si diresse verso la
bocca del porto. “Noooo! Aiutoooo!” gridò Guscio di Noce. Ma ormai era fatta, era
fuori. Fuori dal porto, via dall’acqua ferma e dalle certezze di sempre. Sotto di lei il
fondale prese ad animarsi e colorarsi: centinaia di pesci e alghe d’ogni tipo, che
bello! Metro dopo metro si sentiva più sicura: prese confidenza col timone e capì
come virare di bordo e di babordo, imparò a cazzare la vela e ad andare di bolina.
Scoprì che molto di quello che imparava a fare in realtà era già dentro di lei: era lei.
Dopo alcune miglia percorse senza una direzione precisa, così, tanto per
impratichirsi un po’, frugò tra i ricordi dei racconti ascoltati e dei sogni sognati
quando era ormeggiata nel porto; vi ripescò una méta e puntò verso quella méta con
decisione: la spiaggia bianca di quel paese lontano, con quel relitto di nave pirata , il
cui racconto ascoltato con trepidazione alcuni mesi prima le aveva fatto battere
forte il cuore e riempito i sogni di notte. Lì! Voleva andare lì! Sarebbe andata lì!
Arrivò l’autunno: il vento prese ad essere più impetuoso, le onde più alte; cominciò a
fare freddo, e talora anche a piovere. Di tanto in tanto la corrente la trascinava con
sé e Guscio di Noce perdeva la rotta. Ma non appena nel cielo tornavano a splendere
le stelle, subito Guscio di Noce riprendeva a navigare verso la sua méta. Fece
amicizia con i delfini che nuotavano spesso al suo fianco; imparò a conoscere le
creature del mare, a rispettare le orche e a guardarsi dalle piovre e dagli squali.
Il suo viaggio sembrava non finire mai: giorni limpidi come quelli trascorsi in
primavera e in estate si alternavano a giorni in cui il cielo aveva il colore ed il peso
del piombo e il freddo le ghiacciava il legno dello scafo e le tagliava la vela. In un
giorno di inverno il mare si alzò come mai aveva fatto prima, e Guscio di Noce si
ritrovò in cima ad un’onda alta più di un grattacielo. Giusto il tempo di avere paura, e
l’onda la sbatté giù: Guscio di Noce si capovolse, sentì il suo albero tendersi e poi
flettersi, la vela si strappò. Ma poi anche quel finimondo ebbe termine, ed
incredibilmente tornò il sole.
Tramortita, semi-incosciente ma ostinata riprese la rotta e proseguì il suo viaggio.
Si svegliò una mattina sulla spiaggia di un atollo; all’interno della barriera corallina
l’acqua era di un azzurro cielo, trasparente e calma. La sabbia bianchissima.
La destarono le voci eccitate di due bambini: due bambini minuscoli che le giravano
attorno, che salivano nello scafo e prendevano posto a poppa con la mano sopra la
barra del timone, o si slanciavano dalla prua verso arrembaggi immaginari. Armati di
spade di legno, con una benda di traverso su un occhio, i due piccoli giocavano ad
essere pirati e sognavano grandi avventure. E lei, Guscio di Noce, era la loro nave; il
legno del suo scafo, cotto dal sole e dal sale, raccontava loro delle miglia e miglia
percorse, delle creature che le erano state amiche e compagne di viaggio, dei mostri
marini affrontati e sconfitti; la sua vela ormai lacera parlava loro del vento e delle
onde possenti che l’avevano percossa ma non abbattuta.
Un paese lontano, una spiaggia bianca, il relitto di una nave pirata: un racconto, un
sogno, la sua vita. Con ostinazione e coraggio il suo sogno era diventato realtà.
(Eli ’ 07)