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22.07.2015
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Ringraziamenti
A Maurizio che da sempre è il primo a leggere quello che scrivo.
A Elena che ha reso un piacere il lavoro di redazione.
Testo: Silvana De Mari
Pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano
Illustrazione di copertina: Nicoletta Ceccoli
Progetto grafico copertina: Rocio Isabel Gonzalez
Progetto grafico interno: Romina Ferrari
www.giunti.it
© 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: settembre 2015
Ristampa
Anno
5 4 32 1
2018 2017 2016 2015
Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A – Stabilimento di Prato
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Silvana De Mari
Il Regno delle tigri bianche
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A mio padre,
che raccontava storie
dove gli erranti
non erano perduti.
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Il regno delle Sette Cime
I
l regno delle Sette Cime era piccolo, un’unica
valle tonda come una scodella, circondata da un
altopiano che si alzava in sette giganteschi pinnacoli verticali, quasi sempre al di sopra delle nuvole,
collegati gli uni con gli altri da vertiginosi ponti fatti di
corda e legno nero.
Le pendici erano interrotte da miriadi di cascate.
Ovunque il rumore dell’acqua accompagnava il passo
degli uomini. L’altopiano era verde di boschi fittissimi
di abeti e larici che si alternavano, ordinatamente scanditi, a terrazze coltivate e risaie, che con il loro azzurro
riflettevano il cielo.
Subito al di sotto delle nevi cominciavano i boschi di
quercia nera: un albero forte e magnifico, che riempiva il
mondo con la sua ombra, la sua bellezza, le sue ghiande
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e il legno, un legno più nero della notte che resisteva a
tutto, alla forza bruta degli elementi, a quella duttile e
micidiale dell’acqua, un legno talmente duro da resistere a un colpo di spada.
Anche il fuoco impiegava tempo per bruciarlo, e non
gli contagiava la violenza della fiamma, ma un lentissimo carbonizzarsi che lasciava il tempo di scappare o di
intervenire.
I ponti erano fatti di quercia nera, di quercia nera
erano fatte le solide e belle piccole case locali, addirittura gli scudi più leggeri, quelli dei mercenari e di tutti
coloro troppo pezzenti per un decente scudo di metallo.
Di quercia nera erano fatte le navi che solcavano il mare,
che nessuno del piccolo regno aveva visto, ma di cui tutti
sapevano: si trattava di una distesa smisurata di acqua salata, sempre in movimento, che si estendeva all’infinito
dall’altra parte del Deserto delle Torri Perdute.
In basso, lento e forte, scorreva il fiume, il Dovor, un
lungo nastro che accoglieva acqua pulita da tutte le vette,
pieno di trote e gamberi d’acqua dolce, circondato da
infiniti frutteti di albicocchi e meli.
Il fiume si impaludava a nord e si perdeva a sud, frammentandosi in una miriade di piccoli stagni su cui volavano gli aironi, aprendosi in limpidi laghi e laghetti, su cui
si affacciavano borghi di pescatori collegati tra di loro da
reti di canali su cui nuotavano i germani e si alzavano città
di pietra con i ponti ad arco tondo, che erano la fierezza
dei capomastri.
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Le cime, verticali, invalicabili, altissime erano coperte
da nevi perenni, che nemmeno il sole delle estati più
torride riusciva a intaccare.
Era l’unico luogo al mondo dove vivevano le tigri del
ghiaccio, candide, enormi, pericolose e splendide. Una
delle loro pelli valeva quanto tre giornate di buona terra.
Le loro zanne si vendevano a peso d’oro.
Periodicamente qualche avventuroso folle partiva
armato di balestra e di spada per catturarne una: tornavano tutti sempre con le mai vuote e l’anima piena
di terrore.
Si trattava sempre di gente venuta da fuori: loro del
piccolo regno le tigri non le cacciavano. C’era come un
antico patto. Loro non cacciavano le tigri e le tigri non
uccidevano gli uomini. Mai. Cortesemente, mantenevano in una misura ragionevole i lupi, che quando venivano a razziare riempivano il mondo di paura e tristezza,
e che potevano uccidere. Abbassavano il numero anche
dei cinghiali, che a salsiccia e spezzatino erano una festa,
certo, ma per chiunque coltivasse patate e mais erano
una maledizione.
Quasi sempre quelle molto anziane venivano a morire a valle e allora si recuperavano pelle e zanne per
venderle a peso d’oro ai mercanti dei regni meridionali.
Le tigri bianche erano quindi una specie di nume
tutelare del regno, una sua ulteriore benevola unicità.
L’immagine del loro muso fiero con una quercia nera
sullo sfondo, si stagliava sullo stemma del piccolo regno.
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Al di sotto dei boschi, al di sopra dell’altopiano, si
aprivano le miniere di sale, con le loro lunghissime gallerie che si intrecciavano sotto le montagne: le nuove
brillavano nella luce come fossero state tappezzate di
diamanti, quelle vecchie ed esaurite erano state invase
dall’acqua e occupate da nugoli di moscerini e zanzare talmente fitti da essere solidi: potevano soffocare un
uomo o un cavallo che si avventurasse lì dentro senza la
protezione di una solida rete davanti al viso.
L’unico passaggio che apriva la valle era la Porta del
Cielo, a sud, altopiano tra le due cime maggiori, Althion
e Althios, che facevano da sentinella. Di lì si arrivava poi
alla città carovaniera di Kaam e al Deserto delle Torri
Perdute, estrema parte meridionale del regno, fatto di
sassi e capre, di silenzio ed eremiti, da sempre ospitati
negli impervi e cavi pinnacoli di granito rossastro che
si alzavano su un’arcigna e astiosa distesa fatta di nulla,
di vento e di cespugli che rotolavano. Si diceva che da
qualche parte il suo opaco color polvere fosse interrotto
dallo smeraldo della Valle degli Zampilli, non segnata su
nessuna mappa, che secondo alcuni aveva doni mistici,
secondo altri non esisteva nemmeno.
Il regno era piccolo, sensato e affettuoso. Era circondato da nemici rapaci, grossi, armati, feroci, alcuni rozzi,
altri raffinati: tutti, sia i bifolchi dell’ovest e del nord che
gli ingentiliti dell’est e del sud, con una scarsissima propensione al senso dell’umorismo e a qualsiasi contrattazione che portasse a una conclusione diversa dall’af-
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fermazione che tutto dovesse appartenere a loro e che,
quando questo non succedeva, c’era stato un errore.
A ovest c’erano le terre barbare, con, accuratamente divise in clan, tribù di caprai, pecorai, cammellieri e
predoni dai nomi impronunciabili.
A est, il regno delle Grandi Pianure, i cui abitanti
ampollosamente si definivano i Dorati. Ai piani alti, onestamente, l’oro c’era: spade con l’elsa istoriata, sete e
profumi. Ai piani bassi si disperdeva una sterminata folla
di morti di fame, tanfo di piscio, escrementi e forse qualche sparuta gallina, gente disposta a vendersi la madre
per un pugno di monetine o anche per meno.
A settentrione, la pianura diventava tundra, alle mandrie di vacche si sostituivano le renne, le coltivazioni
si perdevano nel mondo bianco delle nevi perenni, la
gente di nuovo era suddivisa in clan e tribù in costante
guerra tra di loro salvo quando si coalizzavano tutti per
presentarsi alla loro frontiera: grandi asce bipenni, corazze fatte di cuoio bollito, tanfo di piscio, escrementi e
maiali. Gente disposta a scannare la propria madre per
un paio di salsicce o anche meno.
A sud, dall’altra parte del deserto c’erano i mercanti.
Avevano i porti sul mare, qualche truppa di mercenari,
spesso erano l’ago della bilancia perché da loro passava
il ferro per fare gli aratri e le spade, il sale per condire la
vita, il pesce seccato per nutrirla nei lividi mesi invernali.
Tutti, chi per un motivo, chi per un altro, avevano
bisogno di quercia nera. Il prezioso legno cresceva solo
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sull’altopiano delle Sette Cime e solo il piccolo regno
aveva l’altitudine giusta, la giusta ombra, l’acqua necessaria.
Loro lo vendevano, e gli altri lo compravano, però negli ultimi cento anni a tutti era venuto in mente quanto
sarebbe stato bello averne a volontà e non pagarlo.
I monti e il coraggio proteggevano il regno.
Il coraggio degli uomini e quello del loro re, il loro
re Harin, il re Cavaliere.
A lui si doveva se il paese ancora esisteva, se il regno
continuava a resistere, disperso in un immenso assembramento di lupi e di iene, unico luogo dove era decente
vivere, dove la morte sopravveniva solo per accidente e
malattia, e non per il crudele capriccio di qualche osceno tiranno, di qualche cortigiano corrotto, di qualche
crudele capotribù.
Era Harin, il re, che con la sua intelligenza, il suo
coraggio, la cortese liberalità e un pizzico di scanzonata
allegria permetteva alla loro valle incantata di restare un
luogo dove la vita scorreva nella forza e nella decenza e
dove la morte non veniva mai data dal boia.
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Dartred
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artred aveva vissuto i suoi primi anni in quel
mondo pieno di calma e di luce, un mondo
che poi si sarebbe riempito di spigoli.
Suo padre nel regno aveva tre cariche: maestro d’arme, addetto alle cronache, ma soprattutto fabbro, figura
magica, potente e inquietante. Stava in mezzo alle fiamme, con il martello che cadeva contro l’incudine in una
miriade di scintille.
Il fabbro era il dio del fuoco, in un certo senso, il
dio della guerra che fabbricava spade, il dio della pace
che fabbricava paioli. Il fabbro era anche maniscalco:
era grazie a lui che i cavalli potevano correre, e grazie a
lui potevano rimanere chiusi nelle scuderie: fabbricava
cardini, gangheri e catenacci e le migliori serrature del
regno, e quindi le migliori chiavi.
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La chiave era un oggetto magico, in un certo senso,
misterioso e affascinante, ognuna legata per sempre
alla propria serratura e inutile da sola, dispersa nella
nostalgia dell’inutilità quando si perdeva, simile a tutte, ma mai uguale a un’altra. Una chiave che stava nel
palmo della mano poteva aprire cancellate enormi e
altrimenti inviolabili. La chiave era la grazia che dominava la forza.
Dartred lavorava nella fucina del padre e suo era il
compito di azionare il mantice: la noia e la ripetitività del
gesto gli lasciavano il tempo di ascoltare le cronache del
regno che il padre conosceva bene, perché le aggiornava. Compito che non erano in molti a contendersi: era
necessario saper scrivere, una dote difficile, senz’altro
molto rara.
E dato che, oltre a scrivere, sapeva anche leggere, d’abitudine le due cose sono legate, oltre che aggiornarli,
gli annali se li era anche letti.
Dartred aveva due soli fratelli, ben più piccoli di lui,
Tori e Ripi che non facevano veramente parte della
sua vita.
Lui stava sempre al castello con il padre, loro a casa
con la madre; lui era un fabbro, loro stavano nell’orto
mentre la madre seminava e potava: c’era nella loro famiglia questa netta divisione.
Si incontravano solo la sera, quando, finita la cena,
il padre metteva tutti al tavolo, anche i piccolissimi, per
nuovi racconti sulla storia del regno.
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Lui sapeva tutto, come il regno era nato, come era
sopravvissuto, chi lo circondava.
«I popoli sono sempre vissuti uno di fianco all’altro, ci
sono state scaramucce, certo, risse per i confini, ma nulla
di più. Ognuno era sulla sua terra e ne era contento.
Noi avevamo questa valle che è alta, impervia, e nessuno
ce la voleva togliere. Si sono succedute diverse dinastie,
fino a quando il trono è rimasto vacante, mezzo secolo
fa, per la più micidiale epidemia di peste dall’inizio dei
tempi. Tutta la famiglia reale annientata, tutto il mondo
sprofondato nel caos. Finalmente ritornò Lenor, il mago,
era il figlio di un aristocratico, partito giovanissimo per
il sud, dove aveva imparato le arti della guarigione. Lui
ha preso in mano la situazione, ha fatto sterminare i
topi, sterilizzare l’acqua dei pozzi, distribuito decotti
che abbattevano la febbre e lasciavano che lentamente
si riuscisse a guarire. La peste è stata uno spartiacque,
SPAR-TI-AC-QUE, cioè quello che divide tra un prima e
un dopo, tra un facile e un difficile. Tutti sono impazziti.
Forse non qui, da noi, ma oltre le frontiere sì. È come
se aver visto la morte in faccia avesse reso tutti peggiori.
Nessuno ci credeva che era stata solo sfortuna, una
malattia portata dai topi, ognuno accusava altri di aver
dato il contagio apposta, tutti si sono incarogniti, come
se avendo visto quanto la vita potesse essere dura e
breve e cattiva, altro non importasse che viverla senza
più nessuno scrupolo. Il cielo aveva rotto le regole, che
i figli seppellissero i padri, che si vivesse nella fiducia.
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Quindi nulla doveva più essere rispettato. Il mondo è
sprofondato nel caos. Le nostre frontiere erano sempre
state un posto dove le armi si usavano per cacciare i
cinghiali. Prima nessuno pensava di venire a dannarsi
l’anima per conquistare la nostra valle e depredare le
nostre querce nere. Ma dopo, invece, ci hanno pensato
e sono venuti. La Guerra della Peste è stata chiamata. Il
mago è diventato re, il re Mago, ha preso moglie che,
brava ragazza, ha messo al mondo una bella serie di
figlioli, sette, tutti maschi, tutti guerrieri, tutti bravi e,
meno l’ultimo, tutti morti, uno dopo l’altro. Le sei lapidi
che sono nel cortile interno della reggia, insieme a quella
della madre, che alla sesta morte non ha retto, è morta di
crepacuore. Però li hanno fermati, ondata dopo ondata,
li hanno inchiodati alla Porta del Cielo, non li hanno fatti
passare. Alla fine è arrivato lui».
«Harin?» chiedeva Dartred con il cuore che gli si gonfiava di orgoglio al solo nominarlo.
«Sì, re Harin, il nostro re, figlio di mago, guerriero
che ha visto morire uno dopo l’altro sei amati fratelli,
quello che ce l’ha fatta a fermare gli eserciti invasori,
a respingerli. Vinciamo noi, perché noi siamo piccoli
e forti, e loro sono grossi e figli di madre meretrice,
ME-RE-TRI-CE, ma non la dire, Dartred, quando c’è tua
madre, questa parola, basta che la sai tu».
Il padre raccontava della guerra, di come il re l’aveva
condotta: aveva creato un esercito micidiale dividendolo
in due parti.
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Da una parte la cavalleria e la fanteria, dette “pesanti”
sia per il peso dei lignaggi e dei nomi, che per quello delle corazze di vero acciaio, a proteggere l’ingresso nella
valle alla Porta del Cielo.
Dall’altra, su nelle montagne, i diseredati, gli ultimi
arrivati divisi in bande di venti, o trenta al massimo,
così che il gruppo potesse non farsi sentire mentre si
spostava nei boschi e potesse trovare rifugio con facilità
in una caverna, ma in numero sufficiente per affrontare una battaglia in un posto troppo impervio perché si
potesse schierare una vera armata.
Il loro numero poteva aumentare nei casi di necessità: erano uomini selvatici che convivevano con il gelo
e le tigri.
Era re Harin che aveva fatto costruire i ponti perché
tutti i villaggi potessero essere raggiunti dai messi e offrire i loro uomini in fretta quando la guerra incombeva.
E i ponti potevano essere ritirati, se mai i nemici fossero
arrivati.
Aveva moltiplicato i boschi di legno nero, ma li aveva posti in luoghi inaccessibili a chi non conosceva il
terreno, nascosti in valli invisibili, protetti da valichi
superabili solo in pochi difficili passi.
Aveva così reso talmente difficile accedere al
legno, che era più comodo comprarlo dal piccolo
regno che invaderlo per procurarselo, e sulla compravendita del legno aveva creato infine un geniale
gioco di alleanze.
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Tra i molti ricordi della sua infanzia, dovendo sceglierne uno con cui cominciare la sua storia, Dartred
avrebbe scelto l’annuncio della gravidanza della regina.
Come per ogni landa al mondo, infatti, anche il
regno delle Sette Cime aveva i suoi guai: Harin era un
grande re, un grandissimo guerriero, era un uomo pieno di giustizia e cortesia e benevolenza, ma non aveva
eredi.
Questa mancanza era il seme del mastodontico albero dell’assoluta catastrofe. La loro vita scorreva serena,
ma si sarebbe persa nella sciagura se l’erede non fosse
giunto, un erede maschio, possibilmente robustino e
non troppo tonto, in grado di tenere una spada e di
dare all’esercito ordini sensati, così che i lupi dell’oriente, le serpi del sud, le iene dell’occidente e gli orsi
del nord se ne restassero tutti nelle loro terre a farsi
gli affari loro. Doveva tenere bene in mano la spada,
perché tutti gli stramaledetti regni che circondavano la
loro quieta prosperità altro non aspettavano che quello,
un inciampo, un errore.
La mancata discendenza del re era l’inciampo, l’errore che non si potevano permettere.
La regina era carina, simpatica anche, dolce, affascinante, ma più gli anni passavano, più tutto il regno
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avrebbe fatto il cambio con una gelida megera che però
figliasse come una coniglia.
La notizia, quindi, si sparse lieta e felice e riempì rapidamente ogni casa e ogni focolare. Era un giorno d’estate, i papaveri coprivano il mondo, le anatre nuotavano
grasse sui canali.
Ci furono straordinari festeggiamenti fatti di minuscoli dolcetti con l’uvetta passa e i fichi secchi. E le madri
tirarono fuori dalle dispense i piccoli preziosi orci di
giuggiole immerse nel loro brodo fatto bollendole con
il miele.
L’erede nacque d’inverno, prima del tempo stabilito, come se avesse fretta di rovinare le speranze e le
illusioni.
Nacque uno scricciolo sottopeso, e, ancora peggio,
nacque femmina. Si temette per giorni per la salute della regina, in effetti a un certo punto tutti davano per
scontato che sarebbe morta e, anche per rassegnarsi in
fretta, molti fecero notare che non si sarebbe trattato di
una perdita irrisolvibile.
Lei era bella e simpatica, certo, una preziosa persona, una cara persona, una meravigliosa persona, ma
una volta defunta, con dolore e cordoglio, ovviamente, il re finalmente avrebbe potuto andarsi a cercare
la gelida e orrida megera che però figliasse come una
coniglia, figliasse tanto, un bambino all’anno, anche
uno ogni due anni, oppure ogni tre, ma non di più,
che ce ne fossero cinque o sei di principi in grado di
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reggere una spada, guidare un esercito o tenere testa
a un ambasciatore.
Davanti al terrore, persino la decenza si stemperava e,
mentre un vento gelido sferzava i vigneti rinsecchiti dal
gelo e la neve si accumulava contro le case, cominciavano silenziosi voti per la morte della regina.
Un cielo livido e astioso li punì con la peggiore delle notizie: la regina sarebbe rimasta viva, e incapace di
avere altri figli.
In tutto questo, di festeggiamenti per la nascita della
principessa, che era sempre un fagottino sottopeso in
bilico fra la vita e la morte, non si parlò nemmeno.
Solo quando la neonata compì tre mesi fu chiaro che
era fuori pericolo e finalmente una modesta festicciola
si fece. Si offrirono ovunque noci, nocciole e le eterne
giuggiole.
Fu reso noto il nome della principessa: era stata chiamata Haxen.
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