Leggi un estratto

Transcript

Leggi un estratto
Neretva
La fila di croci sembra non avere mai fine.
Croci bianche tutte uguali, incolonnate a presidiare il
loro metro di terra ai piedi della collina.
Le vedo scorrere come dei soldati in parata.
Questo è ciò che rimane, penso, mentre dal finestrino
aperto dell’automobile, l’aria calda di luglio mi accarezza il
volto. Non siamo indispensabili per nessuno, il vuoto che
lasciamo viene sempre riempito da qualcos’altro.
Estranea a ogni faccenda umana, la Neretva è un’apparizione luminosa. Da qualche chilometro, le anse del fiume ci accompagnano attraverso le colline: l’acqua è verde
scura, eppure tersa, priva di detriti, gelida anche d’estate.
La guardo scorrere e forse capisco cosa intendono quando
raccontano storie sullo spirito del fiume, forse intuisco
quale misteriosa forza si nasconda dietro questo incessante moto dall’alto verso il basso. Anche noi ci stiamo
muovendo, nonostante le croci bianche, nonostante la nostra inadeguatezza, andiamo avanti e più ci allontaniamo
dalla costa dalmata più sappiamo che non sarà semplice
tornare indietro.
Cerchiamo delle risposte ma non credo che le nostre
domande siano quelle giuste. Forse dovrei sparire anche io,
ignorare ogni scarto e ogni possibilità di fuga per abban9
[email protected]
26.11.2015
11:27
donarmi all’acqua che scorre, lasciando il mondo durante
un’ultima estate di meraviglia.
Ma non sono un uomo così coraggioso.
Respiro profondamente, una, due, tre volte.
La ripetizione mi conforta, sapere che a una cosa ne
seguirà sempre un’altra, e poi ancora senza interruzione,
seguendo un ritmo naturale che non può ammettere spazi
vuoti.
La strada ora è più ripida, il paesaggio sta cambiando,
l’ombra dei boschi ci avvolge e il mare diventa un ricordo
lontano. Nell’automobile entra l’aria dei primi monti Balcanici, gli aspri dirupi carsici dove trovavano rifugio i seguaci
del bano Domagoj, pirati ferocissimi che infestavano le coste della Dalmazia e dell’Istria veneziana.
Queste sono sempre state zone franche, luoghi segreti,
ultimi nascondigli, apparizioni di leggende. Ma arrivati a
questo punto non posso accontentarmi di pensieri fuggenti.
Ci fermiamo su uno spiazzo erboso per sgranchire le
gambe.
Sono le tre del pomeriggio, fa molto caldo, non c’è un
filo di vento e la vallata sembra deserta.
Viaggiamo solo noi, lungo la strada per Mostar.
Davide guida silenzioso, in bocca ha una sigaretta croata.
Durante questo viaggio parliamo poco. Siamo entrambi delusi, affaticati da una vita che consideriamo ingiusta.
Naturalmente ci stiamo sbagliando, a prescindere da ogni
scelta e da ogni responsabilità personale, abbiamo sempre
vissuto in un paesaggio umano scolpito dal privilegio. Per
capirlo siamo dovuti ripartire, vedere da vicino cosa significa essere vittime, essere braccati da un nemico che non
10
[email protected]
26.11.2015
11:27
concede quartiere. Ogni confronto è improponibile ma
adesso almeno l’orizzonte è diventato molto più semplice,
quasi ordinario.
Sebbene con un poco di ritardo, la nostra giovinezza
sta volgendo al termine, fra pochi mesi saremo entrambi
costretti a fare delle scelte importanti. Io sono a un passo
dalla laurea in Lettere, a conclusione di un percorso di studi
brillante sebbene troppo discontinuo. La discussione della
tesi certificherà la fine di ogni attesa e di ogni giustificazione. Davide invece deve decidere se intraprendere una nuova
strada che potrebbe essere rischiosa o anche solo inutile.
Per il momento abbiamo bisogno di tacere poi vedremo
cosa succede.
Le croci sono finite, non ci sono più ostacoli fra noi e la
fitta trama degli alberi. Mi piace tenere la testa fuori dal
finestrino, lo facevo anche da bambino. Annuso, osservo,
catturo il vento con le mani, creando forme tonde, immagino grandi natiche generose. Ma il paesaggio è immobile,
potenzialmente ostile, resiste un’obbligata tregua che sarebbe un errore scambiare per serenità. Non riesco a scorgere
nessun movimento, lo sguardo si perde dentro ai boschi,
uomini e bestie stanno tutti nascosti al riparo, in attesa della
frescura notturna.
L’interruzione dura pochi minuti, il tempo necessario
per attraversare il confine fra un paese e quello successivo,
quando siamo di nuovo costretti all’evidenza della guerra.
Comincia la distesa delle mezzelune.
Sono centinaia, candide, della stessa dimensione delle
croci, disposte nella stessa lingua di terra, alla stessa identica
distanza. Un altro cimitero, questo è islamico.
11
[email protected]
26.11.2015
11:27
E sembra non finire mai.
La guerra in Bosnia invece è finita da circa sette mesi, quando a Dayton, una sconosciuta cittadina militare
dell’Ohio, sotto lo sguardo colpevole degli Stati Uniti, della
Russia e della Comunità Europea, i belligeranti serbi, croati
e bosgnacchi, i bosniaci di fede musulmana, hanno firmato
l’accordo di pace che divide il paese i due zone amministrate
autonomamente: una dai serbi con capitale Banja Luka e
l’altra da una federazione formata da croati e bosgnacchi
con capitale Sarajevo. Almeno così dovrebbe essere, in realtà
sulle montagne si continua a sparare e i gruppi paramilitari
di tutte le fazioni sono armati e bellicosi. Questa è zona
di guerra, superate le postazioni dell’esercito croato che
controllano il confine alla fine della pianura, non abbiamo
ancora incontrato un’automobile civile lungo la strada, solo blindati militari dell’IFOR, la forza multinazionale della
NATO, schierata in Bosnia con il mandato di fare rispettare
la fragile pace e i nuovi confini.
Davide e io, a bordo di una vecchia Panda marrone con il
tettuccio apribile, viaggiamo solitari ma determinati a proseguire. Dobbiamo raggiungere Sarajevo, la capitale della
Bosnia Erzegovina in fiamme.
Fino a ieri sera eravamo ancora in Croazia. Trascorrevamo le vacanze in un’isola chiamata Hvar, celebre per la
bellezza del mare, il vino bianco, le coltivazioni di lavanda e le piantagioni di marijuana clandestine. Un luogo
riparato, dove la guerra ha fatto pochi danni, riuscendo
comunque a infiammare il nazionalismo di gente che
non ne aveva mai sentito il bisogno. Alloggiavamo in un
piccolo appartamento nel centro rinascimentale di Stari
Grad, insieme a due amiche di Milano che hanno preso
12
[email protected]
26.11.2015
11:27
un’altra decisione e quindi un’altra strada. È bastato un
incontro casuale a farci cambiare idea sul proseguimento
della nostra estate. Tre ragazzi di Sarajevo hanno affittato
la camera di fianco alla nostra. Li abbiamo incontrati sul
terrazzo comune, erano appena tornati dalla spiaggia. Al
più giovane di loro, Edin, mancava un braccio e aveva
mezza faccia devastata dalle ustioni.
«È stato il proiettile di un mortaio.»
Ci ha spiegato in inglese, leggendo la domanda nei nostri sguardi attoniti di ben cresciuti ragazzoni italiani senza
una macchia sulla pelle. Un proiettile qualsiasi dei migliaia
caduti durante l’interminabile assedio alla città è esploso a
tre metri da lui mentre tornava a casa da scuola. I suoi amici
erano fisicamente integri ma accomunati dal dolore della
giovinezza violata.
«Andate a Sarajevo, non restate qua.»
All’inizio non abbiano capito ma Edin ha insistito.
«In questo posto non servite a niente. Questa è una vacanza al mare, in un luogo turistico qualsiasi, ne avrete già
fatte tante. Andate a Sarajevo, andate e guardate quello che è
successo durante questi anni feroci, guardate quello che ci è
rimasto dopo la guerra civile. Guardate le ferite delle persone, i quartieri distrutti, l’ombra nera dei roghi, i crateri nelle
strade, i volti dei bambini, gli orfani senza casa, ogni cosa
dovete guardare. Noi dobbiamo rialzarci e abbiamo bisogno
dei vostri occhi.»
In questo posto non servite a niente, «Here, you are useless», così ha detto Edin. Non avevo mai pensato che la mia
vita potesse servire a qualcosa.
Al mattino presto siamo partiti, è stata una decisione
più semplice di quanto ci aspettassimo. Abbiamo percor13
[email protected]
26.11.2015
11:27
so l’isola di Hvar per tutta la sua lunghezza e al porto di
Sućuraj ci siamo imbarcati su un piccolo traghetto guarnito di luci colorate. Tornati sul continente, abbiamo deciso
di lasciarci a sud la bellezza perduta di Dubrovnik e le sue
anonime pizzerie seriali, per immergerci subito dentro alla
ferita aperta della Bosnia Erzegovina: la terra dei valorosi
Illiri, del Duca, dei Bogomili, dello zar Stefano Uroš IV
Dušan il conquistatore. La terra del Magnifico Sultano
Ottomano.
Trascorse due ore di viaggio, stiamo ancora guidando,
procediamo lungo la Valle della Neretva in direzione di Mostar. Mi vedo di nuovo viaggiare su queste strade, lontane
eppure così familiari, ripercorse lungo un tracciato disegnato da altri.
I ricordi possono ingannare, l’odore dell’estate balcanica
è più forte di sempre. Ma ho molto tempo per pensare, per
tentare di riannodare i fili sparsi della memoria.
Quando è stata la prima volta?
Quando è che la storia è ripartita tumultuosa senza chiederci il permesso? Come siamo arrivati a questo punto? Deve per forza esserci stato un inizio, una scintilla scatenante.
Sono passati tanti anni, ero piccolo allora.
Mio padre guidava il pulmino Volkswagen rosso.
Mia madre e mia sorella cantavano canzoni.
Era l’estate del 1981.
14
[email protected]
26.11.2015
11:27
Il decennio paradossale
I miei anni Ottanta cominciarono guardando un telegiornale dipinto di rosa. Passata la mezzanotte del 31 dicembre
1979, Mario Pastore leggeva quelle che avrebbero dovuto
essere solo piacevoli notizie di cronaca oppure curiosità
sparse per il mondo. Mario sfoderava un sorriso entusiasta
e si sforzava di apparire divertente ma, trattandosi dello
stesso giornalista serioso che ogni sera da anni ci raccontava
le miserie del mondo, il risultato era patetico anche per un
ragazzino di dieci anni.
I suoi occhiali erano rosa, la cravatta era rosa, perfino lo
sfondo dello studio era rosa.
«Ci lasciamo alle spalle un decennio difficile,» diceva
Pastore «oggi ne comincia uno nuovo, carico di speranze.»
Non immaginava quanto. E non poteva sapere quanto il
rosa sarebbe stato un colore invadente.
Ma procediamo con ordine.
Sono nato il 14 ottobre del 1969, il decennio difficile
lo ricordo avvolto nel brumoso tepore dei primi anni di
vita. Sono immagini dolci, sospese fra attese interminabili,
incanti quotidiani e improvvise rivelazioni di significato.
La mia fu un’infanzia spensierata, i miei genitori mi
amavano molto e, siccome non erano ancora diventati diffidenti nei confronti della vita, riuscirono a trasmettermi
15
[email protected]
26.11.2015
11:27
gran parte di quell’affetto. Sono cresciuto a Milano, in un
quartiere abbastanza tranquillo, formato da una manciata
di vie comprese fra piazzale Lotto e la Fiera Campionaria di
piazza Amendola. Un quartiere impiegatizio e piccolo-borghese (l’ultima grande fabbrica, l’Alfa Romeo del Portello,
cominciò a smobilitare nel 1974), di costruzione abbastanza
recente, senza un’identità riconosciuta e privo di evidenti
lacerazioni sociali, eppure confinante in tutte le direzioni
con periferie problematiche.
La circonvallazione era una frontiera, bastava attraversarla
per entrare in luoghi avventurosi, dalla fama sinistra e molto
spesso meritata, cosa che avrei scoperto crescendo, quando il
pericolo sarebbe diventato un’attrazione irresistibile.
Alloggiavamo all’ultimo piano di un caseggiato anni Quaranta. L’appartamento era modesto e sicuramente
mal tenuto ma avevano un grande terrazzo pieno di rose
dal quale, quando il cielo era terso, si vedevano le Alpi
Occidentali.
Mio padre Ferdinando era originario di Piacenza e lavorava come insegnante di educazione fisica nella vicina
scuola media Eugenio Colorni. Da giovane era stato giocatore di rugby in Serie A, prima nella sua città e poi a Parma,
ma di quel glorioso passato agonistico rimanevano poche
tracce, a parte i poco affidabili racconti e qualche sbiadita
fotografia di sorridenti giovanotti in tuta. Uomo buono, generoso, idealista, sebbene frenato da uno spesso sedimento
di moralismo provinciale, spiritoso, pigro e fatalmente privo
di nerbo, era troppo impegnato a rimpiangere la sua giovinezza e a fumare le sigarette che l’avrebbero ucciso, e le
avrebbe fumate tutte fino alla fine. Mia madre Giuliana, invece, era nata ad Alessandria, città inquieta e melanconica,
16
[email protected]
26.11.2015
11:27
precocemente impoverita, piuttosto lontana dai rassicuranti
canoni della provincia padana. Di quell’inquietudine Giuliana portava il segno quando giovane bellissima ragazza
fu costretta nel ruolo materno. Fatale fu l’incontro con mio
padre a Loano, una delle tante località turistiche meta delle
famiglie piccolo-borghesi dell’Italia Nord-occidentale che,
beneficiate dal boom economico, potevano permettersi la
villeggiatura al mare nella prudente accoglienza del Ponente ligure. Frutto di quell’incontro estivo fu una gravidanza
imprevista, un matrimonio repentino e infine la nascita di
mia sorella Paola. L’anno successivo, venni al mondo anche
io e i miei genitori decisero di trasferirsi a Milano, la città
al centro della pianura dove i giovani italiani confluivano
per lavorare.
Rimasta sola nella metropoli che non conosceva e senza
nessun aiuto da parte di parenti, amici o anche solo di mio
padre, Giuliana fece il possibile per crescerci sani.
Ma la famiglia Bertante non poteva prosperare con il
solo stipendio da insegnante, dilapidato da un padre spendaccione che usciva a cena con gli amici quasi tutte le sere.
Allora mia madre si mise all’opera e quando avevo circa
sette anni trovò lavoro come impiegata/traduttrice in una
fabbrica metalmeccanica del gruppo Ansaldo. Grazie a un
carattere tenace unito a una notevole capacità di adattamento, in pochi anni scalò tutti i gradini consentitigli dal
suo diploma, diventando segretaria dell’amministratore
delegato e presenza sempre più saltuaria nel mio orizzonte educativo.
I miei genitori si dicevano comunisti.
Mio padre era figlio di Giovanni Bertante, dirigente
17
[email protected]
26.11.2015
11:27
della Coldiretti, forte di un passato da partigiano socialista con il nome di battaglia Bruno e quindi nonno Bruno
per sempre. Mia nonna Gianna invece era una Tagliaferri,
donna elegante e austera originaria di Rivergaro, florido
paese posto sulle colline all’inizio della Val Trebbia. Nando
quindi crebbe in una famiglia laica, colta e senza problemi
economici, trascorrendo la sua giovinezza in provincia, favoleggiando le affascinanti atmosfere dell’esistenzialismo
francese e condividendo le speranze ma anche il fermento
politico del secondo dopoguerra che, specie lontano dalle
grandi città, riusciva a esaltare gli animi dei ragazzi più
sensibili, promettendo loro un futuro di grandi cambiamenti. Nella primavera del 1961, a poco più di vent’anni,
fu protagonista di una fuga ribelle a Parigi dove visse per
alcuni mesi da vagabondo, lavorò come manovale di fonderia alla Citroën e fu suo malgrado testimone della tensione sociale successiva al tentato colpo di Stato dell’OAS
in Algeria.
Tornato a casa si limitò a bighellonare per troppi anni
all’università di Giurisprudenza di Parma, finché non conobbe mia madre, durante la fatale villeggiatura a Loano.
Approdato a Milano in piena turbolenza postsessantottina con una moglie e due figli da mantenere, Nando era
già troppo vecchio per diventare un vero militante, quindi
pensò bene di posizionarsi nell’ampia area di simpatizzanti di Lotta Continua. Fu una scelta abbastanza indolore,
perlomeno non ebbe conseguenze legali (piuttosto diffuse
in quegli anni) che però gli permise di frequentare alcuni
ritrovi della sinistra rivoluzionaria, tra cui il RARO folk
club e la Trattoria del Teatro Officina. Locali vivaci, dove
conobbe quasi tutti i suoi amici che, più giovani di dieci
18
[email protected]
26.11.2015
11:27
anni, si dividevano fra i diversi gruppi politici: operaistileninisti-stalinisti-maoisti.
Di questo impegno politico che fu la caratteristica
principale del decennio, nonché la più rievocata, ricordo
bene due immagini: il poster in corridoio del volto tondo
di Mao Tze Dong, con tanto di cappellino verde militare, troneggiante sullo sfondo rosso della bandiera della
Repubblica Popolare Cinese, e poi, quasi riparata in un
angolo del soggiorno, una celebre fotografia in bianco e
nero di Giuseppe Pinelli.
Nel corso degli anni mi sarei affezionato di più al secondo uomo, imputando il culto del Grande Condottiero a una
svista collettiva generazionale. Un’idiozia oggi incomprensibile che non puoi sapere se nasca figlia delle illusioni che
ogni epoca porta con sé o sia un’altra traccia del conformismo della borghesia italiana, facile da sedurre con slogan
demagogici quanto portata a dimenticare in fretta.
Io credo più nella seconda ipotesi.
Nella nostra luminosa casa al sesto piano, tappezzata
di carta arancione, gironzolavo felice circondato da stoffe
indiane, lampade turcomanne, fischietti neri di mio padre
sparsi ovunque, strumenti a corda che nessuno sapeva
suonare, pugnali ricurvi e oggetti pittoreschi che non vedevo mai a casa dei miei compagni di scuola elementare.
Alcuni erano davvero molto belli, ancora non prosperava
l’industria dell’artigianato esotico, altri appartenevano al
vasto regno delle carabattole. Poi c’erano i libri, tantissimi e confusi nel disordine generale: gli Struzzi Einaudi,
i Feltrinelli e le stropicciate edizioni Bompiani di Albert
Camus (ricordo soprattutto lui perché ero affascinato dal
19
[email protected]
26.11.2015
11:27
nome) di fianco alla massiccia presenza delle prime raccolte annuali di Linus, quelle verde, blu e arancione. La
colonna sonora di ogni pomeriggio di festa era suonata
dagli Inti-Illimani, discografia completa, intervallata da
Violeta Parra, Alan Stivell, Bob Dylan, Joan Baez, Enzo
Jannacci, Ivan Della Mea (l’album Ringhera), Paolo Conte, Nanni Svampa che cantava Brassens, Jesus Christ Superstar, Canzoni della guerra civile spagnola, gli Stormy
Six de Un biglietto del tram (quello con Stalingrado e La
fabbrica), i Beatles del doppio album antologico 1962-66
con la copertina rossa – nella quale i quattro ragazzotti
di Liverpool, ancora ben pettinati, ci guardano dall’alto
di un balcone – e dai Tecun Uman, gruppo di folk sudamericano formato da talentuosi giovinastri amici di mio
padre, gravitanti nella allora effervescente zona di Brera.
Ricordo anche un unico, splendido, disco di Battisti, Umanamente uomo: il sogno, non so come sfuggito alla censura
della militanza ortodossa che lo considerava una sorta di
occulto fiancheggiatore dei fascisti.
Per la mia sensibilità non ancora inquinata da nessuna
sovrastruttura culturale, il lunghissimo e struggente ritornello de I giardini di marzo era la musica più bella che
avessi mai sentito e credo che molti adulti fossero d’accordo con me.
***
Non esiste nulla di più inaffidabile della memoria, mano a
mano che invecchiamo il passato rischia di essere idealizzato solo per il fatto di essere perduto, ogni gioventù diventa
unica e ogni epoca impareggiabile. Per ripensare a quegli
20
[email protected]
26.11.2015
11:27
anni preferisco allora concentrarmi sugli oggetti, ancora
materiale in un vasto mare di elaborazioni successive.
Il bambino sorridente ricorda il Motobécane.
A mio padre avevano regalato questo motorino francese.
Era azzurro, pesante, molto spartano e puzzolente, in
pratica una Gauloises fatta ciclomotore. Lo usava raramente, per piccoli spostamenti nel quartiere, ma sempre con molta gioia, come se quel libero gironzolare gli
ricordasse la sua giovinezza sui colli piacentini, gli anni
Sessanta spensierati, i juke-box, le balere, Jacques Brel e
il rock’n’roll.
A me sembrava un trabiccolo simpatico, forse perché
ce l’avevamo solo noi, o forse perché tutti i nostri mezzi
di trasporto sono sempre stati un poco buffi, perlomeno
se paragonati al gusto estetico del vicinato. Escludendo la
Cinquecento venduta quando non avevo neanche tre anni
e della quale non ho nessun ricordo, la prima automobile
in nostro possesso fu un Maggiolone verde chiaro, macchina divertente ma scomoda e che consumava pressappoco
come una Ferrari. Per questo motivo decidemmo di cambiarla con un veicolo altrettanto bello ma più adatto a una
famiglia: comprammo usato un pulmino Volkswagen rosso
fiammante, il glorioso Transporter, che ben presto divenne
famoso in tutto il quartiere. Il pulmino aveva un enorme
bagagliaio e nove posti a sedere sempre occupati da bambini urlanti ai quali non pareva vero di poter saltare dentro
all’abitacolo con il benestare degli adulti presenti, allora
non così attenti ai dispositivi di sicurezza automobilistica.
Grazie alla nota resistenza strutturale e all’abbondanza di
spazio del pulmino, ogni anno ci avventuravamo in vacanze
estive improvvisate, tipo partenza e via, all’oscuro di ogni
21
[email protected]
26.11.2015
11:27
meta; nel mese di luglio, quando il caldo è più intenso e le
piogge sono ancora lontane. Erano viaggi che cominciavano sempre alle prime ore del mattino, imboccando l’Autostrada del Sole: superato il cavalcavia, il grigio disordine
di piazzale Corvetto congedava la città, lasciando spazio
alla periferia industriale, alle campagne intorno al Lambro
e infine al Po. Poi le due corsie di cemento continuavano
diritte e inesorabili, tranciando in due la Pianura Padana,
circondate dalla secolare prosperità cerealicolo-zootecnica
e dall’odore di concime che ci accompagnava fino a Bologna (in Liguria non andammo mai, forse per dimenticare
la colpa dell’amore imprevisto). Il viaggio proseguiva valicando gli Appennini, in un percorso tortuoso attraverso
vallate verdissime e disabitate, fino a quando, come per incanto, compariva il mare all’orizzonte e la prima volta che
lo vedevi era sempre bellissimo, enorme e impossibile, e io
cantavo a squarciagola questa meraviglia che si rinnovava
ogni anno con un’emozione più forte. Usciti dall’autostrada
c’infilavamo in strade minuscole, percorsi casuali cadenzati da soste in riva al mare, menu turistici in fotocopia
e pisolini sotto gli alberi, durante i quali ci riposavamo e
cercavamo di rinfrescarci, sottraendoci per qualche ora alla
puzza di sigarette di mio padre, le temutissime Gauloises
azzurre, ricche di fetente tabacco Caporal e fumate senza
interruzione per tutto il tragitto. E i finestrini del pulmino
non potevano essere aperti perché a mia madre veniva il
mal di testa, oppure la cervicale che io immaginavo fosse
una specie di insetto o animale prensile attaccato alla base
del collo. Allora infilavo il viso nel piccolo vetro deflettore
con lo sguardo perso per ore, fantasticando di eroi e di
avventure, guerre e battaglie rocambolesche, in attesa di
22
[email protected]
26.11.2015
11:27
arrivare in un posto qualsiasi dove cominciare la vacanza.
La ricerca poteva essere molto lunga perché, in quanto
famiglia hippie comunista, non sopportavamo i luoghi del
turismo di massa e la meta finale del nostro viaggio era
spesso sconosciuta: potevamo finire in luoghi incantati e
ancora selvaggi – gli anni Settanta segnano il confine definitivo fra un’Italia per certi versi ancora arcaica e la sua
definitiva modernizzazione – come in località improbabili,
sporche, poco divertenti, prive di accoglienza e popolate
da indigeni ostili.
Eravamo esteticamente perfetti per quel tipo di viaggi:
mia madre sembrava una zingara con i capelli neri ondulati, il trucco pesante a evidenziare gli occhi scuri e i monili
d’argento sparsi per il corpo; mio padre invece esibiva un
fisico allenato, camicie a maniche corte con la tasca a sinistra per le sigarette e due bei baffoni ricurvi da tartaro;
mia sorella e io portavamo sempre i capelli lunghi e ci vestivamo come dei piccoli figli dei fiori, indossando vestiti
colorati provenienti dal Medio Oriente. A dare un’impronta ferina alla comitiva ci pensava la nostra cagna, un grosso esemplare bastardo di pastore tedesco, cattiva come la
peste ma fedele e protettiva come solo le cagne di pastore
possono essere. Seguendo il suggerimento di mia sorella la
chiamammo Furia, perché era tutta nera come il Cavallo
del West. Il nome fu una predestinazione e credo contribuì
ad aumentarne la ferocia.
Ne andavo molto fiero.
Il mese di agosto invece era riservato alle colline piacentine. I primi anni Settanta li trascorremmo fra gli incanti
nascosti della Val Trebbia al Camping Ponte Gobbo di Bobbio, proprio sotto il Ponte del Diavolo, quegli undici archi
23
[email protected]
26.11.2015
11:27
diseguali che i romani costruirono dopo avere assoggettato
le popolazioni celtoliguri a valle degli Appennini.
Di quelle vacanze ricordo solo l’acqua gelida del fiume
in cui a quattro anni imparai a nuotare, le partite a calcio
balilla sotto al porticato del bar, i furiosi temporali visti
dall’interno della tenda, i soldatini dell’Afrikakorps sparsi
fra l’erba e le canzoni degli ABBA.
Abbandonata la passione per il campeggio, negli anni
successivi fummo avvolti dall’immobile quiete delle colline
intorno a Castell’Arquato, dove nella grande casa contadina
ristrutturata da mio zio Guido il tempo si dilatava fino quasi a scomparire. Erano lunghe giornate fatte di ping pong,
partite a carte (grazie a quelle estati so giocare a tutti i giochi
possibili, dallo scopone scientifico al bridge), oppure battaglie interminabili a Risiko. E poi c’erano i fumetti: di ogni
tipo e qualità (li leggevano anche gli adulti), da Frigidaire
e Corto Maltese ai supereroi Marvel come L’Uomo Ragno,
I Fantastici Quattro, Thor e i Vendicatori, allora pubblicati
dall’improbabile Editoriale Corno. Ma erano anche giorni
di scoperta ed esplorazione, di terra e di acqua, colori accesi
e odori intensissimi.
I capelli sporchi sulla fronte nascondono il bernoccolo,
le ginocchia sbucciate fanno male ma non importa che
c’è il ruscello da attraversare e oltre la collina un mistero
bellissimo. I muri sono di pietra, il fuoco nei camini ricorda tutti gli inverni trascorsi ad aspettare il risveglio della
terra, la cucina è calda, accoglie generosa i lunghi salami
appesi, i funghi secchi, lo spumeggiante vino nero. Impugno il mio bastone intagliato dal coltello e vado incontro a
questo strano mondo fatto di materia che imbratta le mani,
in cerca di anfratti umidi, attimi magici, di volpi sempre
24
[email protected]
26.11.2015
11:27
più piccole di quanto ti aspetti, lepri secche e strafottenti,
rospi bitorzoluti, civette dagli occhi enormi e altri animali
mai visti prima, immerso nella calura che addormenta il
mondo, nei silenzi e nelle attese che non torneranno, accompagnato dal mio cane bellissimo e selvaggio, amato
con la gioia fisica dei bambini che non conosce mediazioni
né rinunce.
Vado incontro a queste notti nelle rocche antiche illuminate dalla luna, perdendomi felice nelle grandi feste
dell’Unità di paese Emilia, le ultime di un’epoca ed era il
Novecento, quando esisteva una traccia di comunità e ancora si poteva credere nell’ideale e nell’appartenenza o nelle
languide illusioni di entrambe.
Vado incontro alle strade sterrate nel buio profondo della campagna sotto cieli stellati che non ho più incontrato,
salutato dallo sbarlus di centinaia lucciole libere.
***
I miei risultati scolastici non erano esaltanti. Ragazzo intelligente e sveglio, talvolta persino ispirato, ma malato di
quell’ispirazione propria dei pazzi o dei visionari che fa temere ai genitori di crescere un esaltato fra le mura di casa,
mi distraevo con troppa facilità, ero manesco e avevo un
carattere che, usando un abusato eufemismo, veniva definito dalla mia maestra «un po’ troppo vivace». Maestra
anziana, ma forse aveva solo superato i cinquant’anni, poco
intelligente, cattolicissima e parecchio reazionaria.
Un mattino ebbe un malore in palestra durante l’ora
di ginnastica, noi bambini quasi non ce ne accorgemmo,
vedemmo solo i bidelli spaventati portarle un bicchiere
25
[email protected]
26.11.2015
11:27
d’acqua, prima dell’arrivo dell’ambulanza. Dimessa dall’ospedale, fu spedita in pensione anticipata, nella totale indifferenza di alunni e genitori. Al suo posto fu nominato
un giovane maestro sardo, motivato e progressista, che
ci indicò una nuova via all’insegnamento elementare per
noi davvero sorprendente. Ci parlava di Martin Luther
King e della lotta antisegregazionista negli Stati Uniti,
della Guerra del Vietnam appena conclusa, di fabbriche,
lotte sindacali, sfruttamento e lavoro minorile ma anche
di Goldrake e Happy Days e dei fiumi sotterranei che nascondono leggende.
Ricordo la sua commozione quando decise di cambiare
programma della lezione e per tutta la mattina ci raccontò
la storia di Elvis Presley, il famosissimo cantante che aveva
inventato il rock e che pochi mesi prima, in estate, era morto
triste, solo e abbandonato nella sua grande casa.
La mia scuola elementare era a QT8, oltre la circonvallazione esterna, a poche centinaia di metri da dove abitavamo.
QT8 (Quartiere Triennale 8) fu progettato nel 1947 da
Piero Bottoni durante l’Ottava Triennale. Allora Milano era
nel pieno della ricostruzione postbellica e, sebbene i bombardamenti alleati fossero stati massici e indiscriminati, le
ferite dovevano essere rimarginate senza lasciare traccia e
bisognava agire subito, cosa che un tempo i milanesi sapevano fare. Ammassando i detriti in una zona di campagna
della periferia ovest, crearono il Monte Stella; ed è esaltante
l’idea di costruire una collina in città, un’idea che porta con
sé la visione di un futuro radioso. Secondo Bottoni e gli altri
architetti il nuovo quartiere doveva lasciare ampio spazio
alla visione del cielo: sorsero villette a schiera con giardino
ma anche i primi prefabbricati italiani alti al massimo tre o
26
[email protected]
26.11.2015
11:27
quattro piani, circondati da verde, scuole e campi sportivi,
tutti pubblici, aperti e gratuiti.
A QT8 si sentiva arrivare la primavera.
Quando negli anni Sessanta, i «Favolosi anni Sessanta»,
le virtuose idee di progresso urbano furono accantonate in
nome della speculazione edilizia, di fianco alle villette con
giardino in pochissimo tempo costruirono anonimi palazzi
popolari alti otto piani, dando vita a un curioso amalgama
sociale, formato da sottoproletari appena emigrati dal Sud e
liberi professionisti radicali. La mia scuola elementare stava
proprio nel centro del nuovo quartiere.
Osservandola oggi (credo che sia un ITIS), si riconosce
subito come il classico stabile comunale anni Sessanta,
costruito con mattoni rosso-marrone stile working class
inglese, dalla forma squadrata, disposto su due piani e
con le scale di cemento che danno direttamente su un
piccolo parco.
Mi vedo bambino scorrazzare nel rettangolo di giardino che sembra enorme, giocare con le foglie in un tiepido
pomeriggio di autunno insieme a un compagno di nome
Pasquale, chissà che fine ha fatto Pasquale?
Poi ci richiamano, è un ordine secco, la voce della giovane maestra del doposcuola è troppo alta, dobbiamo uscire
subito. Sento che parla con una bidella, dice spaventata che
pochi minuti prima un signore di nome Renato Vallanzasca
ha telefonato per avvisarci della bomba, dice che è nascosta
da qualche parte nell’edificio. Sono scocciato perché devo
smettere di giocare ma allo stesso tempo penso che questo
signore sia stato gentile ad avvertirci e proprio adesso stanno arrivando in giardino tutti gli altri bambini. Pasquale e io
vediamo uscire i nostri compagni in fila per due. La maestra
27
[email protected]
26.11.2015
11:27
ripete che è pericoloso, che Vallanzasca è un bandito e che
dobbiamo tornare tutti a casa. Ma a casa mia al pomeriggio
non c’è nessuno e allora aspetto che arrivino gli altri genitori. La mamma di Roberta mi accompagna da mio padre
in palestra. Arriviamo mentre Nando sta allenando ai tiri
liberi la squadra di pallacanestro maschile della scuola media. Seduto sulla panchina dietro al canestro, accompagnato
dal suono della palla che rimbalza sul tabellone di legno, gli
racconto eccitato la storia della bomba; papà mi accarezza
la testa e sorride, poi soffia nel fischietto, urla il punteggio
e torna dai suoi studenti.
Quel sorriso paterno sarà per sempre legato a Renato
Vallanzasca, che, a essere onesti, durante la sua clamorosa
carriera criminale di bombe non ne mise mai nemmeno
una e che per me è rimasto una sorta di personaggio
leggendario.
Ma in quegli anni le storie cambiavano in fretta, bisognava prestare molta attenzione alle notizie che si sentivano
in giro.
Dopo che questo signore non fu più nominato – è noto che i nomi dei fuorilegge siano volatili come le loro
imprese – le introvabili bombe scolastiche cominciarono
a metterle le Brigate Rosse, perlomeno così giuravano al
telefono le voci sconosciute.
Virata la prima curva dell’esistenza, cominciano i problemi.
Alla fine del decennio la mia infanzia si avviava verso
la conclusione e quando capisci come funzionano le cose
non puoi più tornare indietro nel caldo bozzolo dell’indifferenza magica, dove all’occorrenza la realtà può diventare
inspiegabile e va bene lo stesso.
Compiuti dieci anni sapevo benissimo cosa facevano
28
[email protected]
26.11.2015
11:27
le Brigate Rosse. Sapevo che erano comunisti e che ammazzavano la gente. Avevo anche capito che fra le mura
di casa l’argomento non fosse molto popolare. Mio padre
era reticente e anche quando venivano a trovarlo i suoi
amici, di Brigate Rosse non si parlava mai se non a voce
molto bassa o, credo, approfittando della mia assenza. Ma
nonostante ogni maldestra cautela, noi famiglia Bertante
guardavamo tutte le sere il telegiornale e ogni volta era
un bollettino di guerra, con morti ammazzati, rapimenti
e rapine a mano armata che mettevano a ferro e fuoco le
città italiane.
Quando sequestrarono Moro, mi accorsi che Nando era
turbato dalla strage di via Fani e da tutti i fatti tragici che
seguirono, come se fosse combattuto fra emozioni contrastanti. Provava dolore per gli uomini della scorta e sincera
compassione per il vecchio politico, ma allo stesso tempo
la «geometrica potenza» delle BR evocava in lui qualcosa
di simile all’ebbrezza guerresca che si prova nei confronti
delle clamorose vittorie militari, emozione condivisa da
tutti i suoi amici e dai più temerari persino rivendicata
politicamente.
Con ogni probabilità, adesso negherebbero ogni cosa.
Per i miei genitori non fu possibile proteggermi da tutto
ciò che accadeva in quegli anni e forse non ci hanno nemmeno provato. Ma io, in quanto bambino, della burrasca
politica ricordo solo ciò che mi avvicinò fisicamente, obbligandomi a pormi delle domande che esigevano risposte
complesse.
Per forza di cose rimangono nella memoria immagini
folgoranti che saranno mie compagne per tutta la vita.
Alcune sono commoventi, altre semplicemente assurde.
29
[email protected]
26.11.2015
11:27
Come quella volta che, al mattino presto passando davanti
al Palalido, a metà del consueto percorso che mi conduceva
a scuola, fui costretto a dribblare bottiglie rotte, sampietrini
e decine di candelotti di lacrimogeni distribuiti sull’asfalto, segno tangibile della battaglia della sera prima, quando
gruppi organizzati di autonomi avevano cercato di sfondare
a un concerto qualsiasi di musica rock. E l’assurdità diventa
un vero e proprio modello interpretativo dell’esistenza se
penso a quando, avevo circa sette anni, piantai un capriccio
interminabile perché volevo a tutti costi andare in manifestazione insieme al mio papà.
«Non puoi,» mi disse lui con tono grave «oggi è troppo
pericoloso.»
Aveva ragione Nando, perché quella che per me doveva
essere solo una passeggiata in centro, dove avrei mangiato
con gioia infantile il panino con würstel e crauti alla Crota piemunteisa, fu invece la manifestazione del 14 maggio
1977, terminata con gli sconti in via De Amicis, durante i
quali ci fu la sparatoria che portò all’omicidio dell’agente
Antonio Custra. Sparatoria che, immortalata da una famigerata fotografia, divenne il simbolo degli anni di piombo,
contribuendo a enfatizzare la mitopoiesi di un decennio
paradossale. Nella consuetudine di storielle da raccontare
durante le serate trascorse con gli amici di famiglia, quella
del piccolo Alessandro che pianta una grana perché vuole
andare in manifestazione divenne una delle più apprezzate,
da sganasciarsi dalle risate davvero, superata solo da quella
capitatami al doposcuola nello stesso anno.
Non ricordo perché quel pomeriggio in aula ci fosse
una suora visto che la mia era una scuola statale ma ciò
nonostante, subito dopo il mortificante riposino, la sorella
30
[email protected]
26.11.2015
11:27
cominciò una predica anticomunista così implacabile da
pormi il dubbio sulla reale affidabilità dei miei genitori.
Stavo forse vivendo con degli sciagurati sovversivi?
Non potevo sopportare il dubbio a lungo. Nervosissimo
e tutto sudato mi alzai dalla sedia pronto alla confessione.
«Mio padre è comunista.»
«Adesso cosa faccio?»
I mie compagni si misero a ridere mentre la suora ci
rimase di sasso. Il suo mondo, le sue certezze, le sue scelte, il suo irriducibile anticomunismo venivano messi in
discussione dalla sfrontatezza di un bambino di otto anni. Fece immediata marcia indietro, dicendo con sguardo
imbarazzato che sicuramente molti comunisti italiani erano brave persone e non bisognava generalizzare, cosa che
peraltro aveva fatto fino a quel momento. Ma oramai era
troppo tardi.
Timidamente, si fece avanti il bambino di nome Carlo.
«Anche il mio papà è comunista.»
Disse balbettando, come se ammettesse una colpa. Subito però fu seguito da una bambina sorridente di nome
Lucia, contenta di poter partecipare a questo nuovo gioco.
Il timore che c’incuteva la suora era svanito insieme alla
sua sicurezza. Si fece avanti un altro, un altro ancora e via
di questo passo.
Nel giro di pochi minuti, quasi mezza classe era passata
all’opposizione, specchio abbastanza fedele della situazione
politica italiana.
Nulla di grave e nemmeno di così sorprendente. Durante
gli anni Settanta la contrapposizione politica era in ogni luogo, sia geografico che ideale, e talvolta era perfino sincera,
come possono essere sinceri i bambini, animati da quello
31
[email protected]
26.11.2015
11:27
spontaneo entusiasmo che in un attimo può trasformarsi in
cattiveria come in una sfacciata menzogna.
Per questo motivo rimasi piuttosto sorpreso quando, al
principiare del nuovo decennio, questa straordinaria ispirazione partecipativa svanì e tutti si convertirono alla nuova estetica garrula e disimpegnata degli anni Ottanta, anni
formidabili senza ombra di dubbio.
Gli anni della mia giovinezza.
32
[email protected]
26.11.2015
11:27