ANF Class action: più ombre che luci
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ANF Class action: più ombre che luci
ANF Class action: più ombre che luci A partire dagli anni Novanta, molteplici interventi normativi, la maggior parte dei quali di recepimento di direttive comunitarie, hanno rafforzato la tutela dei consumatori e degli utenti. Con disposizioni (sulla pubblicità ingannevole, sui contratti negoziati fuori dai locali commerciali, sulle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, sui diritti dei consumatori e degli utenti, sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi, sulla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza, sull’informazione dei consumatori e sull’indicazione dei prezzi, sull’azione inibitoria a tutela degli interessi dei consumatori, sulle garanzie di consumo e sulla sicurezza generale dei prodotti) di recente riordinate nel decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo). Senza contare che sono state inoltre emanate numerose disposizioni settoriali, ad esempio nel testo unico bancario, nel codice delle assicurazioni, nella disciplina dei vari servizi di interesse economico generale, nella normativa in materia di prodotti alimentari, nel settore dei servizi turistici. Di pari passo si è aperto il dibattito sulla opportunità di introdurre una speciale azione di risarcimento del danno, che consenta di discutere e risolvere in un singolo procedimento un alto numero di ricorsi con caratteristiche del tutto simili. Con la conseguente riduzione del costo complessivo dei ricorsi per le imprese e per i consumatori, e con la creazione di un effetto deterrente di comportamenti scorretti da parte delle imprese che hanno a che fare con un ampio numero di consumatori. Nel nostro ordinamento sinora l’azione è solo individuale: il singolo danneggiato può agire nei confronti del responsabile per ottenere il risarcimento del danno da esso subito. L’azione resta individuale anche laddove più azioni oggettivamente connesse vengano proposte congiuntamente in un unico processo o siano riunite successivamente dal giudice adito. I benefici ed i pericoli delle azioni risarcitorie collettive sono stati evidenziati ed analizzati da tempo. Da un lato si tratta di tutelare l’esigenza di efficiente funzionamento del sistema giudiziario e di una efficace tutela del consumatore. Anzitutto, la possibilità di intraprendere azioni collettive e di non sopportare individualmente gli oneri finanziari connessi, consentirebbe di dar voce a quella domanda risarcitoria che rimane inespressa quando il danno subito è di piccolo importo, vale a dire quando il costo dell’azione supererebbe il beneficio ipotizzato. Risponde poi a criteri di efficienza concentrare in un’unica azione controversie di identico contenuto, ciò che, oltre ad evitare la possibilità di un contrasto di giudicati, può risultare preferibile, rispetto ad una miriade di azioni individuali, anche per l’impresa convenuta. D’altro canto vi è il pericolo di introdurre illegittimi limiti al diritto di azione e di creare incentivi artificiosi alla litigiosità nei confronti delle imprese e degli intermediari finanziari. E’stato infatti rilevato che, in presenza anche di una probabilità minima di dovere pagare un risarcimento molto alto, il convenuto è comunque disposto a transigere, seppure le richieste di risarcimento possano apparire infondate. Così un management aziendale che sia neutro rispetto al rischio, in presenza di una probabilità di vincere pari al 90 per cento, sarà comunque disponibile a una transazione per un ammontare sino al 10 per cento dell’esborso che dovrebbe versare in caso di perdita (D.M. Becker, M.A. Lowenthal, The US class action experience, Cleary Gottlieb). Gli autori statunitensi che hanno affrontato l’argomento parlano infatti di ricatto legalizzato (legalized or judicial blackmail). Negli Stati Uniti, in base alle previsioni della Federal Rule of Civil Procedure 23, introdotta nel 1938 ma ampiamente modificata nel 1966, la class action può essere iniziata da uno o più soggetti che avrebbero diritto a promuovere un’azione individuale, in rappresentanza della classe. La Corte verifica se risultano presenti i requisiti previsti per la class action e, in tal caso, dichiara ammissibile l’azione, definendo al contempo la classe e le pretese (class certification). Poiché l’esito della class action è vincolante per i membri della classe, questi devono essere informati dalla corte circa l’avvio e il contenuto dell’azione e possono chiedere di esserne esclusi (c.d. opt out). La corte sceglie il class counsel e, se necessario, anche l’attore (plaintiff) che meglio rappresentino la classe. Dopo la fase di certificazione, ogni transazione, rinuncia volontaria o compromesso, vincolante per tutti i membri della classe, viene vagliato dalla Corte, che deve verificare, previa audizione, se l’esito sia equo, ragionevole e adeguato (fair, reasonable and adequate). In caso di transazione può essere concessa ai componenti della classe un’ulteriore occasione per dissociarsi. Quando l’azione giudiziaria sfocia in un processo, interviene una giuria popolare. Gli avvocati possono venire remunerati in proporzione al risarcimento ottenuto oppure su base oraria. Il sistema statunitense è stato spesso oggetto di un uso distorto, anche per la presenza di fattori incentivanti, quali i cosiddetti punitive damages, o le regole relative alla ripartizione delle spese processuali in caso di insuccesso dell’azione. L’esperienza statunitense mostra che la sola certificazione della classe da parte del giudice ha indotto le imprese a una transazione, anche in casi in cui era evidente l’assenza di un nesso di causalità tra l’utilizzo del prodotto e i danni lamentati dai ricorrenti. Pur essendo stati presentati numerosi disegni di legge, anche nella legislatura corrente, per la disciplina della class action, l’inserimento di un emendamento nella legge finanziaria per il 2008, approvata dal Senato, a sorpresa introduce nel nostro ordinamento questo istituto, con un modello che presenta parecchi punti di criticità, tanto che autorevoli membri del governo si sono affrettati a dire che parecchi punti andranno modificati, seppure dopo la sua approvazione. Il testo approvato dal Senato riserva la legittimazione ad agire in primo luogo alle associazioni dei consumatori inserite nel registro pubblico di cui all’articolo 137 del codice del consumo. Si tratta degli stessi soggetti che in base all’articolo 140 di detto codice possono esercitare le azioni inibitorie a tutela degli interessi collettivi dei consumatori. Prevede inoltre che possano con decreto del Ministro della Giustizia essere individuate ulteriori associazioni di consumatori, investitori e gli altri soggetti portatori di interessi collettivi. Si tratta di una previsione con margini troppo ampi di indeterminatezza, mentre il disegno di legge governativo (AC 1495), invece, individuava anche le associazioni rappresentative dei professionisti e le camere di commercio, vale a dire quei soggetti che, in forza dell’articolo 37 del codice del consumo, possono esercitare le azioni inibitorie limitatamente al caso di clausole vessatorie nei contratti tra professionisti e consumatori. Scompare dunque la possibilità della iniziativa individuale dei soggetti danneggiati della class action. Mentre, se uno dei rischi da evitare è quello che l’interesse del soggetto che promuove l’azione causi un eccesso di litigiosità, ben al di là di quanto sia giustificato dall’esigenza di tutela del soggetto debole nel rapporto contrattuale, demandare alle associazioni dei consumatori la legittimazione a proporre le azioni risarcitorie collettive, aumenta questo il rischio, creando veri e propri professionisti della class action. Il legislatore non introduce un nuovo modello processuale, per cui l’azione collettiva si introdurrà con le regole del processo ordinario di cognizione, salva la specifica disposizione che radica la competenza per territorio nel Tribunale del luogo ove ha la residenza il convenuto, e ciò all’evidente fine di evitare che si possa scegliere il Tribunale che mostri un atteggiamento di maggiore favore nei confronti delle azioni collettive. Regola recentemente introdotta anche dagli Stati Uniti con il Class Action Fairness Act.del 2005. Va negativamente rilevata la totale assenza nel procedimento di una fase di valutazione preventiva della ammissibilità dell’azione collettiva e, quindi, dell’esistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi che giustificano il ricorso a questo istituto in luogo delle ordinarie azioni individuali e della eventuale loro riunione in un unico processo. Andrebbe in particolar modo accertata l’esistenza di un unico fatto plurioffensivo; l’esistenza di una classe di soggetti danneggiati, che possano avanzare richieste comuni o quanto meno omogenee, con la possibilità di definirne oggettivamente i confini; la circostanza che detta classe sia molto numerosa cosicché risulterebbe antieconomico il ricorso alle azioni individuali; l’esistenza di questioni di fatto e di diritto comuni a tutti i danneggiati, adeguatamente dettagliate nella domanda introduttiva e sostenute con mezzi di prova; l’esistenza di circostanze che rendono l’azione collettiva lo strumento più idoneo ad assicurare un’efficiente ed equa trattazione della causa, tenuto conto del numero o della dispersione degli interessati e della complessità della procedura; l’esistenza di un fumus boni iuris delle argomentazioni addotte. Nulla di tutto questo è previsto nel testo approvato dal Senato. Al fine di rendere compatibile con la disciplina costituzionale (ovviamente inderogabile da parte della legge ordinaria), che non consente il tratto distintivo più rilevante della class action, vale a dire la risoluzione della controversia in modo unitario e con effetti tombali del giudicato anche nei confronti di chi non ha preso parte al giudizio, é stata prevista una doppia fase del procedimento giudiziario . Una prima fase (avviata dall’esercizio dell’azione collettiva ad opera di una o più associazioni dei consumatori) è costituita sostanzialmente da un giudizio di mero accertamento, che può concludersi con una sentenza di condanna generica. La seconda fase (avviata dall’esercizio delle azioni individuali di risarcimento da parte dei singoli consumatori) è invece costituita da un giudizio limitato alla determinazione in ogni singolo caso concreto del quantum debeatur, e può concludersi con una sentenza di condanna dell’impresa responsabile al pagamento del risarcimento, liquidato in base ai criteri fissati dal Giudice dell’azione collettiva. Tutti i consumatori facenti parte della classe possono giovarsi dell’accertamento positivo della responsabilità dell’impresa, mentre l’accertamento negativo della responsabilità non precluderebbe la proposizione successiva di nuove azioni da parte di altre associazioni legittimate ad agire né la proposizione di azioni individuali da parte dei singoli consumatori. Viene infatti espressamente garantita al singolo la possibilità di agire individualmente per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi, conformemente alle previsioni dell’art.24 della Costituzione. Così il legislatore finisce per introdurre una forma ibrida dell’istituto, che non elimina la possibilità che venga iniziata una molteplicità di azioni risarcitorie collettive e individuali nei confronti dello stesso convenuto, in relazione a una medesima fattispecie. Più azioni di classe potrebbero essere promosse, simultaneamente o successivamente, da associazioni dei consumatori munite di legittimazione attiva e diverse da quella che ha esercitato per prima l’azione. Non esiste infatti un meccanismo che imponga di chiamare in causa tutti i soggetti abilitati a promuovere l’azione collettiva, perché il processo si svolga anche nei loro confronti, né un meccanismo di pubblicità del procedimento il quale precluda, trascorso un dato termine, la proposizione, da parte degli enti legittimati, di ulteriori azioni collettive per la medesima causa contro l’impresa convenuta. In mancanza di siffatto meccanismo il comma 6 dell’art.140 bis (La definizione del giudizio rende improcedibile ogni altra azione ai sensi del presente articolo nei confronti dei medesimi soggetti e per le medesime fattispecie) non può essere interpretato nel senso di precludere l’azione anche ai soggetti che non hanno preso parte al giudizio definito, a pena di contrarietà rispetto all’art.24 più volte richiamato. Ma ciò che sembra più iniquo, se non in violazione dell’art.3 della Costituzione, è che il singolo cittadino che si ritiene danneggiato potrà utilizzare la sentenza di accoglimento della azione collettiva, ma potrà riproporre azione individuale nel caso in cui l’azione collettiva venga rigettata. Per di più la potrà proporre nel foro individuato con le ordinarie norme sulla competenza per territorio, non essendo tenuto a rispettare il foro della residenza del convenuto. A differenza che nel sistema statunitense, dunque, ove la sentenza emessa dalla Corte sulla class action preclude la proposizione di ulteriori azioni risarcitorie, anche individuali, nel sistema approvato dal Senato nella ipotesi di rigetto della domanda risarcitoria collettiva sarebbero riproponibili sia altre azioni collettive da parte di enti legittimati diversi, sia singole azioni individuali. E’ noto che gli ordinamenti giuridici che contemplano l’azione di classe prevedono sempre con favore la possibilità di soluzioni conciliative e stragiudiziali alla vertenza. A tal proposito l’art. 140 bis prevede la possibilità di accordi transattivi sia nella fase di accertamento della responsabilità, che in quella successiva a detto accertamento. Il comma 5 prevede che, in seno ad una azione collettiva, possa essere sottoscritto dalle parti un accordo transattivo nella forma della conciliazione giudiziale. Ma quale contenuto potrebbe avere detto accordo transattivo? In mancanza della previsione di qualsivoglia meccanismo di opt-in degli interessati, cioè della previsione della possibilità, dopo un’ampia e capillare pubblicità dell’avvenuta proposizione dell’azione, di partecipare al processo per gli interessati che volessero prendervi parte, beneficiando della speciale procedura propria di detta azione, e manifestando espressamente tale volontà in forme, modalità e termini che la legge dovrebbe analiticamente disciplinare, certamente le associazioni attrici non possono trovare accordo transattivo sulla misura del risarcimento. Non soltanto perché la norma espressamente riserva la determinazione del quantum alla successiva azione individuale degli interessati, ma anche perché, nel nostro ordinamento giuridico, è il danneggiato che deve fornire la prova dell’entità del danno, sia pur potendo il Giudice ricorrere a presunzioni o all’ausilio di consulenti tecnici. E non vengono introdotte norme che possano derogare questo principio. Viene poi prevista la costituzione di una camera di conciliazione, contestualmente alla pubblicazione della sentenza di condanna o della dichiarazione di esecutività del verbale di conciliazione, presso lo stesso tribunale presso cui si è svolta l’azione collettiva. La Camera di conciliazione, composta paritariamente dai difensori delle parti dell’azione collettiva e da un Presidente nominato dal Tribunale, definisce i modi, i termini e l'ammontare per soddisfare i singoli consumatori o utenti nella loro potenziale pretesa. Ma anche l’eventuale accordo raggiunto non vincola il singolo danneggiato che può, se il contenuto dell’accordo non lo soddisfa, agire individualmente per chiedere l'accertamento, in capo a se stesso, dei requisiti individuati dalla sentenza di condanna di cui al comma 4 e la determinazione precisa dell'ammontare del risarcimento dei danni riconosciuto ai sensi della medesima sentenza. Gravi perplessità desta la circostanza che, essendo la sentenza che definisce un’azione collettiva, esecutiva, secondo le ordinarie regole processuali, ma essendo certamente soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione, le liquidazioni del danno potrebbero aver luogo anche in presenza di una sentenza non passata in giudicato, con i conseguenti intuibili rischi in termini di pubblicità negativa ed uscita dal mercato, in relazione al grande impatto economico che normalmente presenta tale tipo di azione. Quanto alla regola per cui “la sentenza di condanna di cui al comma 4, unitamente all'accertamento della qualità di creditore ai sensi dei commi 7 e 8, costituisce ai sensi dell'articolo 634 del codice di procedura civile, titolo per la pronuncia da parte del giudice competente di ingiunzione di pagamento, richiesta dal singolo consumatore o utente, ai sensi degli articoli 633 e seguenti del medesimo codice di procedura civile”, francamente non se ne comprende, né condivide, l’utilità. In primo luogo sarebbe preferibile munire di forza esecutiva i verbali di conciliazione raggiunti presso l’apposita Camera, come già avviene nel nostro ordinamento in altri casi di transazione sottoscritta avanti organismi paritetici. In secondo luogo, poiché il Giudice adito dal danneggiato con azione individuale tendente alla liquidazione del danno non si limiterà all’accertamento del quantum, ma emetterà sentenza di condanna, non si comprende il riferimento al comma 8. In tutti i casi questa previsione contraddice la finalità del miglior funzionamento del sistema giudiziario, che è una di quelle che giustificano l’introduzione dell’azione di classe, poiché anzi produce una ingiustificata moltiplicazione dei procedimenti. Il testo prevede infine che in caso di soccombenza, anche parziale, del convenuto, lo stesso sia condannato al pagamento delle spese legali ma che, in ogni caso, il compenso dei difensori del promotore della azione collettiva massimo del 10 per cento del valore della controversia. non può superare l'importo Questa limitazione potrebbe far aumentare il ricorso al patto di quota lite, ormai legittimo ai sensi della legge 4 agosto 2006, n. 248. La possibilità di prevedere per i legali compensi parametrati al risultato raggiunto nel giudizio costituisce uno dei fattori che maggiormente hanno contribuito negli Stati Uniti alla degenerazione della class action, trasformandolo da strumento di tutela collettiva dei cittadini in arma di pressione e ricatto nei confronti delle imprese. Sarebbe pertanto preferibile eliminare una disposizione che incentiva il ricorso al patto di quota lite, e che peraltro non restituisce al danneggiato quanto dovesse pagare per la propria difesa. Infine nulla viene detto sulla decorrenza della nuova disciplina, in particolare se la stessa possa applicarsi ai fatti plurioffensivi posti in essere prima della sua entrata in vigore. In conclusione, il testo approvato dal Senato introduce un modello di class action che presenta il rischio concreto dell’impossibilità di addivenire a una conclusione definitiva della controversia e che gravemente contraddice la logica unitaria ed organica che dovrebbe sottostare all’istituto. E ciò sia in caso di condanna che di discolpa dell’impresa, per la riproponibilità di azioni collettive e per lo stillicidio delle azioni individuali dei consumatori che non hanno partecipato al giudizio collettivo. Direttivo Nazionale ANF