Prime considerazioni intorno alla “azione collettiva risarcitoria a

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Prime considerazioni intorno alla “azione collettiva risarcitoria a
Prime considerazioni intorno alla “azione collettiva risarcitoria a
tutela dei consumatori”, la c.d. “class action” italiana.
1.
L’introduzione dell’azione collettiva.
Con il voto favorevole del Senato della Repubblica di venerdì 21
dicembre 2007 su di un testo emendato dalla Camera dei Deputati è stato
approvato in via definitiva il disegno di legge finanziaria per il 2008 (l. 24
dicembre 2007, n. 244)1. Fra i molteplici e diversi suoi contenuti, la legge
finanziaria 2008, come è noto, reca anche, all’art. 99, l’introduzione di una
“disciplina dell’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori” che, sin dal suo
improvviso e affrettato apparire nel complesso articolato normativo a metà del
novembre scorso, ha evocato in molti la discussa e assai popolare nozione della
“class action”, vale a dire in una traduzione letterale, dell’“azione di categoria”2.
Era almeno dalla tarda estate del 2007 che – dopo mesi di intensa
discussione dentro e fuori del Parlamento – si attendeva (o si temeva) come
imminente l’approvazione di una delle proposte di riforma legislativa pendenti
1 Pubblicata sulla GURI n. 300 del 28 dicembre 2007. Con questo atto è stato tradotto in legge il “Disegno
di legge finanziaria per il bilancio annuale e pluriennale dello Stato 2008”, AS 1817, approvato il 15
novembre 2007. Il 19 novembre il testo del d.d.l. era stato trasmesso alla Camera dei Deputati, dove
aveva assunto il n. C 3256.
2 Da ultimo, per questo (indebito) accostamento, v. Il Sole 24 ore del 24 dicembre 2007, p. 32, che così
titolava, a grandi caratteri, l’approvazione della disciplina in esame: “Class action con filtro per le
associazioni”. Fortemente critico a tal riguardo è il giudizio di A. SANTA MARIA, nell’articolo apparso sul
Sole 24 Ore del 25 novembre 2007, dal titolo: “Proposta senza appigli comunitari” nel quale, in particolare
vengono opportunamente messe in luce che quelle differenze di fondo esistenti nel sistema procedurale
statunitense rispetto al nostro rendono di per sé assai problematica la ripetizione in questo di uno
strumento processuale di portata deterrente in analogia con quello statunitense. Del resto, il testo
legislativo approvato definitivamente dal Parlamento ha, almeno, il merito di evitare di adoperare il
termine americano, preferendo attenersi alla struttura del procedimento disciplinato e parlando, quindi,
di “azione collettiva … a tutela dei consumatori” (così la rubrica dell’art. 99 l. fin. cit. e il primo, inutile
comma dello stesso).
in Parlamento in materia di tutela giurisdizionale collettiva,3 presentate dalla
stampa con la celebre denominazione made in USA.
Come spesso da noi, l’“imminenza” della riforma era poi andata pian
piano smorzandosi, dileguandosi nelle brume autunnali, nonostante qualche
vampa improvvisa (come il ben noto “V-Day” grillesco, in cui una delle parole
d’ordine fu proprio l’approvazione di una forma di class action anche in Italia),
tanto che un precedente emendamento proposto in Commissione al d.d.l.
finanziaria 2008 per introdurvi anche una disposizione sull’azione collettiva era
stato prudentemente ritirato dai suoi stessi proponenti ai primi di novembre,
pare su sollecitazione del Governo.
Dopo mesi di oblio e alcuni segnali apparentemente volti a rimandare ad
altra occasione il suo ingresso nel mondo del diritto positivo italiano, il 15
novembre 2007, su proposta dei Sen. della maggioranza Bordon e Manzione,
suoi originari proponenti in Commissione, è stato in extremis reinserito nel d.d.l.
finanziaria, in “dirittura d’arrivo” in aula, l’art. 53-bis contenente l’impegno a
istituire e disciplinare l’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori,
quale nuovo strumento generale di tutela, conformemente ai principi stabiliti dalla
normativa comunitaria volti ad innalzare i livelli di tale protezione, demandandone la
realizzazione ad un allegato contenente il nuovo art. 140-bis cod. cons. (legge 6
settembre 2005, n. 206).
2.
Sintesi della nuova disciplina.
L’art. 140-bis cod. cons., nel testo precipitosamente approvato dal Senato
a metà novembre (la cronaca parlamentare ha persino registrato il curioso caso
di un Senatore di minoranza in lacrime per averlo erroneamente votato!), è
stato in seguito emendato in più parti dalla Camera, per ricevere, infine, la
definitiva approvazione del Senato nella seduta mattutina del 21 dicembre
scorso.
In una succinta visione del contenuto finale del nuovo articolo, meno
prolisso di quello originariamente approvato a novembre (basti dire che i
commi dell’art. 140-bis cod. cons. sono stati dimezzati, passando da 12 a 6),
vengono definiti:
-
l’azione giurisdizionale posta a “tutela degli interessi collettivi dei
consumatori” e diretta all’“accertamento del diritto al risarcimento dei
danni e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o
utenti”, proponibile nei confronti di una “impresa”, nella cornice di “rapporti
giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 del codice civile,
ovvero in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali
scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali”, sempre che si sia in presenza
3 Cfr. il testo proposto dal Governo, sottoscritto dal ministro Bersani, risalente al luglio 2006 (AC 1495),
che ha funto da canovaccio, attraverso l’emendamento Bordon-Manzione approvato in Senato il 15
novembre 2007, delle disposizioni che qui si commentano. Vedi, inoltre, “Disposizioni per l'introduzione
della class action” (Benvenuto, AS 679); “Modifiche all'art. 140 del codice del consumo” (Maran, AC 1289);
“Nuove norme in materia di azione collettiva” (Fabris AC 1330); “Disciplina dell'azione giudiziaria
collettiva” (Poretti e Capezzone AC 1443); “Introduzione dell'art. 141-bis del codice di cui al decreto
legislativo 6 sett. 2005” (Buemi, Turci, Fluvi, Tolotti e altri, AC 1662) a ripresa di una proposta di legge
licenziata dalla Camera nel luglio 2004; “Introduzione del sistema processuale dell'azione collettiva
risarcitoria” (Pedica, Grillini, Crapolicchio, AC 1834, AC 1882, AC 1883).
2
di una lesione dei “diritti di una pluralità di consumatori e di utenti” (art. 140bis, comma 1°);
-
la competenza per materia del tribunale, che giudicherà in composizione
collegiale art. 2, comma comma 448 l. fin. cit., che modifica in tal senso
l’art. 50-bis c.p.c., aggiungendovi un n° 7-bis);
-
la competenza territoriale del “foro dell’impresa” convenuta, dovendo la
domanda proporsi, per l’appunto, “al tribunale del luogo in cui ha sede
l’impresa” (art. 140-bis, comma 1°);
-
la legittimazione a promuovere tale azione in giudizio delle associazioni
consumeristiche iscritte nell’elenco ministeriale di cui all’art. 139 cod. cons.,
nonché degli “altri soggetti di cui al comma 2”, che si identificano in ogni altra
associazione o comitato, purché “adeguatamente rappresentativi degli
interessi collettivi fatti valere” (ibid., commi 1° e 2°);
-
la facoltà dei singoli consumatori e utenti, desiderosi di approfittare della
tutela collettiva promossa dalle associazioni esponenziali o dagli “altri
soggetti” di cui sopra, di comunicare in iscritto al soggetto proponente
l’azione “la propria adesione all’azione collettiva”, che può essere spiegata
lungo tutti i due gradi del giudizio di merito, “fino all’udienza di precisazione
delle conclusioni” in grado d’appello (comma 2°, seconda frase);
-
la virtù dell’atto introduttivo dell’azione collettiva, come pure dei singoli
atti di adesione spiegati dai consumatori e dagli utenti individuali nel
modo appena descritto, di interrompere il corso della prescrizione “ai sensi
dell’art. 2945 del codice civile” (comma 2°, terza frase);
-
la previsione di una cognizione sommaria e preliminare del “tribunale” (non
è specificato se già in composizione collegiale o nella sola persona del
giudice istruttore) in sede di prima udienza, volta ad una pronuncia di
ammissibilità della domanda di tutela collettiva secondo i criteri, non
meglio chiariti, della manifesta infondatezza, del conflitto d’interessi e della
ravvisata inesistenza “di un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai
sensi del presente articolo” (comma 3°, prima frase);
-
la reclamabilità davanti alla Corte d’Appello, in forma camerale,
dell’ordinanza con cui il tribunale si sia pronunciato sull’ammissibilità
dell’azione (ibid., seconda frase);
-
la facoltà del giudice di “differire la pronuncia” stessa “quando sul medesimo
oggetto è in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente”(ibid., terza
frase);
-
l’onere, a cura del soggetto che ha proposto l’azione collettiva, di dare
“idonea pubblicità” ai relativi contenuti, in caso di ammissione dell’azione
collettiva a procedere nel merito (ibid., quarta frase);
-
la disciplina del contenuto della sentenza collettiva di accoglimento della
domanda, la quale, accertando l’illiceità delle condotte contestate
all’impresa convenuta, deve “determina[re] i criteri in base ai quali liquidare la
somma da corrispondere o da restituire ai singoli consumatori o utenti che hanno
aderito all’azione collettiva”, giungendo, ove possibile secondo le risultanze
degli atti del giudizio, a precisare il minimum che ogni singolo danneggiato
ha diritto di ricevere dall’impresa responsabile dell’illecito (comma 4°,
prima e seconda frase);
3
3.
-
la facoltà, per l’impresa giudicata responsabile dell’illecito collettivo, di
proporre a ciascun avente diritto, con atto scritto comunicato agli
interessati e depositato in cancelleria entro 60 giorni dalla “notificazione della
sentenza”, il pagamento di una somma, la cui accettazione “in qualsiasi
forma” data dal consumatore o utente “costituisce titolo esecutivo” (comma
4°, terza frase);
-
l’espressa previsione per cui la sentenza resa nell’azione collettiva “fa stato”
non soltanto fra l’associazione o il comitato proponente e l’impresa
convenuta, ma “anche nei confronti dei consumatori e utenti che hanno aderito”
ad essa nelle forme già illustrate, facendo salva l’azione individuale dei
consumatori o utenti rimasti comunque estranei al giudizio collettivo, per
non avervi aderito ab initio o per non esservi successivamente intervenuti
(comma 5°);
-
in caso di mancata tempestiva emissione della spontanea proposta
dell’impresa responsabile o di sua mancata accettazione da parte dei
destinatari entro 60 giorni dalla comunicazione, l’istituzione, a cura del
Tribunale autore della sentenza di un’apposita “unica” camera di
conciliazione, istituita per “la determinazione delle somme da corrispondere o
da restituire ai consumatori o utenti che hanno aderito”, e composta,
paritariamente, da avvocati indicati dalle parti in causa e presieduta da un
avvocato cassazionista nominato dal Presidente del tribunale (comma 6°);
-
la “quantificazione” da parte della camera di conciliazione, in un verbale
sottoscritto dal presidente avente valore di titolo esecutivo, degli estremi
del risarcimento di spettanza dei singoli danneggiati, già aderenti o
intervenuti al giudizio di cognizione,“che ne fanno domanda” (comma 6°,
seconda e terza frase);
-
l’esperimento, in alternativa, su concorde richiesta del proponente l’azione
collettiva e dell’impresa convenuta e per provvedimento del Presidente del
tribunale, di una procedura di “composizione non contenziosa … presso uno
degli organismi di conciliazione” previsti nel d. lgs. relativo al c.d. “rito
societario” (artt. 38, 39 e 40 d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), con sede nel
comune in cui siede il tribunale adito (comma 6°, quarta e quinta frase).
Considerazioni critiche di ordine generale.
Le disposizioni contenute nel testo appena riassunto, nonostante i
correttivi e le semplificazioni apportati alla Camera dei Deputati e accolti dal
Senato, seguitano a prestare il fianco a varie considerazioni critiche.
Innanzitutto, a dispetto delle dichiarazioni e dei primi commenti riportati
dalla carta stampata 4, l’azione collettiva “generale”, introdotta dall’art. 140-bis
cod. cons. 5, più che una class action della quale costituisce soltanto una lontana
imitazione, sembra piuttosto essere il frutto di quel disegno di generalizzazione
ed estensione del modello processuale “europeo-continentale”, già oggi
4 Cfr., ancora, i titoli e il contenuto dell’articolo di G. NEGRI, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 24 dicembre
2007, “Class action con filtro per le associazioni”, cit., p. 32.
5 Il comma 3 dell’art. 99 l. fin. cit. prevede che la procedura di tutela collettiva diverrà applicabile
“decorsi centottanta giorni dalla data di entrata in vigore” della legge finanziaria stessa, vale a dire dal 1°
gennaio 2008: la nuova procedura sull’azione collettiva risarcitoria dovrebbe essere dunque applicabile a
partire dal 29 giugno 2008.
4
disciplinato dagli artt. 139 e ss. cod. cons. e, nella sostanza, importato in Italia nel
settore della tutela dei consumatori per effetto degli obblighi di adattamento ed
attuazione della legislazione comunitaria, in ossequio ai principi dell’attuale
Titolo XIV (già XI) del Trattato CE.
L’uso, vuoi a scopo semplificatorio vuoi per fini propagandistici, del
termine “class action” per definire il contenuto della nuova riforma processuale
italiana in esame finisce per ingenerare confusione e per alimentare, secondo i
casi, aspettative o timori, le une e gli altri ingiustificati e privi di sostanza. Non è
un caso che gli autori del nuovo articolo 140-bis cod. cons. abbiano scelto di
rubricare la norma “azione collettiva risarcitoria”, giusta una dizione senz’altro
tecnicamente più appropriata, ben nota al nostro ordinamento 6 e designante
uno schema processuale già collaudato nel diritto interno italiano: quello,
appunto, dell’azione collettiva o associativa di ascendenza tedesca (la
Verbandsklage prevista dalla legge tedesca sulle condizioni generali di contratto
del 1976, modello dell’attuale legislazione comunitaria in materia).
Molteplici sono i motivi, attinenti alle diversità in generale del sistema
processuale civile statunitense rispetto al nostro, che concorrono nel non
rendere facilmente traducibile lo strumento processuale di una “vera” class
action nel nostro ordinamento giuridico7.
Innanzitutto, hanno un ruolo importante le ben più ampie competenze
attribuite al giudice statunitense nella conduzione del processo che, nello
specifico di una class action, in forza della sua elevata preparazione in tema di
analisi economica, gli consentono di gestire e anche orientare “secondo
giustizia”, in piena autonomia, l’intera fase preliminare del procedimento sino al
momento cruciale della “certificazione” della “categoria” o “classe”.
Inoltre, vi è l’istituto della “discovery” che, nel sistema americano,
impone a ciascuna delle parti di produrre, nella fase iniziale, determinata dal
giudice nei tempi e nei contenuti e sotto il suo continuo controllo che si
estrinseca anche in tempestive ordinanze, ove richiesto da una delle parti, tutti i
documenti in loro possesso attinenti alla causa (e non solo quelli che ciascuna
parte ritenga opportuno produrre nel proprio interesse), con un sistema,
quindi, di per sé idoneo a consentire una piena conoscenza dei documenti
rilevanti alla parte sulla quale grava l’onere della prova (con sensibile beneficio
nei riguardi della posizione degli attori in una class action).
Nel processo civile statunitense, poi, per restare agli aspetti che ci
sembrano più significativi, vi sono ancora: l’interrogatorio dei testimoni,
gestito da ciascuna delle parti a trecentosessanta gradi, in via diretta e in sede di
controinterrogatorio; la possibilità che, con la sentenza di condanna che
conclude il procedimento, vengano erogati i c.d. “punitive damages” nei
confronti della parte responsabile dell’illecito, se riconosciuta colpevole di aver
6 Cfr. la rubrica dell’art. 13 d. lgs. 22 maggio 1999, n. 185, di “attuazione della direttiva 97/7/CE relativa
alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza”, oggi trasfuso nel Cod. cons.
Sulle ingenti difficoltà di tradurre in termini giuridici nostrani l’istituto della class action statunitense a
causa delle notevoli differenze “sistemologiche” inerenti ai due ordinamenti giuridici, si veda l’ampia e
approfondita analisi di C. CONSOLO, “Class actions fuori dagli USA? (Un’indagine preliminare sul
versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima)”, Riv. dir.
civ., 1993, I; 609 e ss., passim. Sullo stesso tema e dal medesimo Autore (insieme a R. B. CAPPALLI) si veda
già, in lingua inglese, “Class Action for Continental Europe: A Preliminary Inquiry”, in 6 Temple Int’l and
Comp. L.J., 217 (1993).
7
5
agito con dolo o colpa grave; il fatto che l’azione civile per danni sia decisa da
una giuria popolare; il regime delle impugnazioni per cui, ove espressamente
ammesso a seguito di un esame preliminare di “possibile” fondatezza condotto
dal giudice, l’appello é di regola limitato ad un solo ulteriore grado di giudizio,
con conseguente sensibile compressione dei tempi dell’intero processo rispetto
alla concreta durata media di una causa italiana8.
Nello specifico, lo strumento dell’azione collettiva italiana, oltre che
“spuntata” per le ragioni di ordine generale sopra richiamate, si presenta come
fortemente riduttivo rispetto ad una vera azione di categoria sia dal punto di
vista dei soggetti coinvolti, attori e convenuto: esclusivamente identificati, i
primi, in associazioni di categoria o comitati9 in rappresentanza dei
“consumatori” e negli “utilizzatori”, da una norma volutamente collocata nel
codice del consumo e, il secondo, in un’“impresa” o in una “serie di imprese”,
sia anche ratione materiae, in considerazione dei limitati contenuti per i quali
viene consentita questa nuova forma di tutela processuale.
Ciò non di meno, l’azione collettiva risarcitoria ha in comune con la “class
action” statunitense la ratio ad esse sottesa, volta alla migliore tutela, perseguita
con l’una e con l’altra, di interessi collettivi.
Su tali basi, quando utile per una migliore comprensione della nostra
legge, non mancheremo, nel prosieguo, di mettere a confronto con le nostre,
sia pure per sottolinearne le diversità, le soluzioni adottate dalle regole
statunitensi sulla class action attualmente in vigore, tenendo conto che diverse
delle modifiche introdotte recentemente in quel sistema rispondono
all’esigenza, particolarmente sentita nell’opinione pubblica, di mitigare le
asperità di uno strumento, considerato ormai, nello stesso paese dove ha avuto
origine, non scevro di pericolosità, in una valutazione comparativa di interessi
pubblici, rendendone più equilibrata l’utilizzazione10.
A. SANTA MARIA, Proposta senza appigli comunitari, loc. cit. In tale articolo, nel mettere in evidenza tali
profonde differenze strutturali, l’autore ricordava anche che la Commissaria per la protezione del
consumatore, Meglena Kuneva, in un suo intervento alla Conference on Collective redress, dal titolo
“Healthy markets need effective redress” tenuto a Lisbona il 10 novembre 2007, si è dichiarata contraria
all’introduzione in Europa di una qualsiasi forma di class action e, comunque, un’eventuale azione
collettiva comunitaria dovrebbe non avere il carattere punitivo della class action statunitense e in
particolare, andrebbero opportunamente scoraggiate le azioni legali temerarie.
8
9 E’ noto che questo doppio passaggio è del tutto inesistente in relazione alla class action che viene
proposta da avvocati, nell’interesse dei loro clienti, attuali e potenziali, portatori di un interesse collettivo
o di classe. A tale riguardo sono espressamente previste forti cautele demandate al giudice fra le quali, in
primis, stanno la verifica e la valutazione, rimesse alla piena discrezionalità del giudice, in merito
all’idoneità dell’avvocato di rappresentare adeguatamente la difesa degli interessi collettivi in
considerazione.
10 Negli anni più recenti, due sono state le grandi riforme che, a livello federale, hanno investito o
condizionato la class action rule per arginarne – almeno in votis - le vere o presunte “degenerazioni”. Si
tratta, per la precisione, delle numerose modifiche ed aggiunte apportate il 1° dicembre 2003 alla stessa
Rule 23 Fed. R. Civ. Proc. (la disposizione processuale federale a carattere generale che definisce i
presupposti e disciplina gli aspetti peculiari dei procedimenti in forma di class action intentati davanti ai
giudici federali) e del successivo Class Action Fairness Act del 2005, con il quale il Congresso degli Stati
Uniti ha approvato, dopo un’elaborazione e una discussione parlamentare più che decennali, ,una riforma
dei criteri giurisdizionali interni attributivi delle cause in forma di class action, rispettivamente, ai
giudici statali ovvero a quelli federali.
Gli Amendments del 2003 hanno investito, in particolare, (a) la fase preliminare della c.d. class
certification (lo stato del procedimento in cui la corte federale adita valuta se l’azione proposta in forma
di class action possa legittimamente e convenientemente procedere in tale forma), regolando in dettaglio
6
Su di un piano diverso, osserviamo che, come del resto avviene per la
class action nei riguardi del sistema processuale americano e del diritto privato
statale (interno o anche esterno) applicabile – e ciò, nonostante le dettagliate
regole che la disciplinano - il nuovo strumento italiano non ha e, con le sue
poche disposizioni, non si può neppure pensare possa avere, una sua autonoma
vita né da un punto di vista processuale né tanto meno sotto profili di ordine
sostanziale, collocandosi nell’insieme del sistema e restando tributario tanto
delle norme, generali e speciali, del diritto privato, applicabili alla situazione
giuridica
in
considerazione
in
funzione
dei
consueti
rinvii
internazionalprivatistici, quanto delle regole, ordinarie o speciali, del diritto
processuale civile italiano, sotto quest’ultimo profilo, determinando qualche
ulteriore problema che un attento legislatore avrebbe potuto evitare.
4.
Riferimenti al diritto comunitario
L’inciso contenuto nel comma 445 dell’art. 2 della legge finanziaria,
conformemente ad una prassi ormai di rito osservata dal nostro legislatore,
richiama i “principi stabiliti dalla normativa comunitaria”, ai quali il nuovo
strumento vuole adeguarsi.
Si osserva sin d’ora che, in generale, l’introduzione in Europa di una
qualsiasi forma di class action che ricalchi il modello dell’istituto statunitense non
soltanto non è nemmeno allo studio, ma è addirittura oggetto di espresse
manifestazioni di contrarietà da parte della Commissione europea11. Va detto,
tuttavia, che la stessa Commissione sta vagliando l’ipotesi di introdurre in sede
comunitaria un meccanismo di collective redress (per la verità, concetto vago e
non meglio precisato12) a favore dei consumatori per i casi di violazione delle
la selezione dell’avvocato difensore della classe, (b) la disciplina della definizione non contenziosa della
lite (conciliazione, rinunzia agli atti, ecc.), precisandone le forme e le garanzie a favore dei membri
assenti della classe e (c) il regime della liquidazione degli onorari e delle spese, rafforzando i poteri di
vigilanza e di sindacato del giudice.
Il Class Action Fairness Act del 2005 (CAFA).è intervenuto, invece, sulle norme legislative federali in
materia di giurisdizione, estranee al corpo delle Federal Rules of Civil Procedure, e ha esteso la
giurisdizione dei giudici federali attribuendo a questi ultimi giurisdizione su tutte le class action di
valore aggregato superiore ai 5 milioni di dollari e in cui almeno un membro della classe o uno degli
avversari della classe siano fra loro cittadini di Stati diversi degli Stati Uniti ovvero fra i membri della
classe o fra i suoi avversari vi siano cittadini di Paesi stranieri o Stati esteri. Esso ha conferito
espressamente ai giudici federali il potere di declinare la propria giurisdizione a favore di quella dei
giudici statali in presenza di fattori soggettivi ed oggettivi di intenso collegamento della lite con uno
specifico foro statale, ovvero, in casi di legame ancora più stretto, ha reso tale devoluzione obbligatoria.
La legge ha anche introdotto alcune disposizioni volte a tutelare i “consumatori” nei casi di conciliazioni
collettive comportanti prestazioni risarcitorie “in natura” (c.d. coupon settlements), onde sottoporre a
limitazioni e supervisione giudiziale gli onorari difensivi, evitare discriminazioni fra membri di
differente provenienza geografica, favorire l’attuazione di provvedimenti amministrativi generali o
legislativi per risolvere i problemi di carattere collettivo all’origine della controversia.
11
Si rinvia al già citato discorso della Commissaria Kuneva reso il 10 novembre 2007, già cit. nella nota
8.
La Commissaria Kuneva, nel citato discorso del 10 novembre 2007, ha indicato i dieci benchmarks che
dovrebbero informare il c.d. collective redress.
12
7
regole poste a protezione di questi ultimi nonché di violazione delle norme sulla
concorrenza13.
Soltanto per completezza si segnala che, a livello comunitario, esistono
specifici strumenti legislativi volti a semplificare la possibilità per i consumatori
di tutelare i propri interessi collettivi14. In primo luogo, la Direttiva 98/27/CE
del 19 maggio 1998 ha ravvicinato le legislazioni degli Stati membri istituendo
provvedimenti inibitori uniformi a tutela degli interessi collettivi dei consumatori
contemplati da una serie di specifiche direttive15. Inoltre, il Regolamento (CE)
861/2007 dell’11 luglio 2007 ha istituito un procedimento europeo per le
controversie di modesta entità16.
5.
Il problema della competenza giurisdizionale dei giudici italiani.
L’art. 140-bis, al primo paragrafo, indica nel tribunale del luogo in cui ha
sede l’impresa,17 il giudice competente avanti al quale promuovere l’ “azione
collettiva risarcitoria” per l’accertamento del diritto al risarcimento del danno e
V. la Comunicazione della Commissione del 13 marzo 2007 (EU Consumer Policy Strategy 2007-2013),
cfr. in particolare p. 11. Cfr., altresì, il citato discorso della Commissaria Kuneva del 10 novembre 2007
nonché quello reso al convegno di Lovanio sul collective redress del 29 giugno 2007. Con specifico
riferimento alle norme antitrust, si segnalano la domanda H e le opzioni 25 e 26, a p. 9 del Libro Verde
della Commissione del 19 dicembre 2005 (Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme
antitrust comunitarie): “dovrebbero esistere procedure speciali per introdurre azioni collettive e tutelare gli
interessi dei consumatori? In tal caso, che forma potrebbero assumere tali procedure?”. V., infine, il
Commission Staff Working Paper, allegato al sopra citato Libro Verde , pp. 52-56.
13
14 Con il Libro Verde dell’8 febbraio 2007, Revisione dell’acquis relativo ai consumatori, la Commissione si
è prefissa di rivedere otto direttive volte a tutelare i consumatori (85/577/CEE, 90/314/CEE,
93/13/CEE, 94/47/CE, 97/7/CE, 98/6/CE, 98/27/CE e 99/44/CE) al fine di realizzare il c.d. “mercato
interno dei consumatori”. Alla fine del riesame – sostiene la Commissione – dovrebbe essere in teoria
possibile dire ai consumatori dell’UE “Ovunque vi troviate nell’UE o ovunque facciate acquisti a partire
dall’UE non fa nessuna differenza: i vostri diritti essenziali sono gli stessi”.
15 In GUCE L 166 dell’11 giugno 1998, p. 51, più volte modificata. L’Allegato I della Direttiva 98/27/CE
rinvia alle seguenti direttive in materia di tutela dei consumatori: 85/577/CEE, 87/102/CEE,
89/552/CEE, 90/314/CEE, 92/28/CEE, 93/13/CEE, 94/47/CE, 97/7/CE, 99/44/CE, 2000/31/CE,
2002/65/CE, 2005/29/CE e 2006/123/CE.
16
In GU L199 del 31 luglio 2007, p. 1.
17 Il riferimento alla “sede dell’impresa” quale criterio di competenza (apparentemente) esclusivo
dell’azione collettiva, frutto di un emendamento approvato dalla Camera dei Deputati nell’ultima lettura
del d.d.l. finanziaria, è stato presumibilmente dettato dal lodevole scopo di estendere al di là delle sole
società il campo d’applicazione della futura procedura. Ciò, si immagina, a causa delle critiche sollevate
dai primi commentatori del d.d.l. licenziato al Senato il 15 novembre 2007 che alle società, appunto,
aveva limitato i possibili convenuti della nuova azione. Non si può dire, tuttavia, che la scelta definitiva
del legislatore sia stata particolarmente felice: al di là delle critiche alla persistente limitatezza dei
soggetti convenibili in giudizio con l’azione collettiva (su cui si veda infra, nel testo), non si può fare a
meno di rilevare l’evidente atecnicità ed improprietà dell’impiego di un termine qual è quello di
“impresa”, che nel nostro ordinamento non designa un soggetto o una categoria di soggetti specifici, ma
l’attività propria di quella categoria di soggetti che sono gli imprenditori di cui all’art. 2082 c.c. (cfr. artt.
2135, 2195, 2238 c.c.). Meglio sarebbe stato, allora, indicare negli imprenditori i potenziali convenuti
delle azioni collettive, evitando inoltre di riferirsi ad una non meglio precisata “sede” che, già soltanto
nel contesto societario, può designare luoghi distinti e separati, come la sede statutaria (v., ad es., l’art.
2328, co. 2°, n. 2 c.c.), quella amministrativa (cfr. art. 25, co. 1°, seconda frase, l. 218/1995), quella
dell’azienda (cfr. art. 413, co. 2° c.p.c.) e via dicendo. In questo modo l’intendimento di identificare un
foro esclusivo delle azioni collettive viene vanificato dalla equivocità del criterio prescelto, col rischio –
già preannunciato da quanto dispone l’art. 46 c.c. in tema di sede delle persone giuridiche – di ottenere
l’opposto effetto di moltiplicare i fori astrattamente competenti.
8
alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori. Trattasi
evidentemente di un’indicazione della competenza per territorio in relazione
alla quale, indicando quale foro competente soltanto quello dell’impresa
convenuta, il legislatore della riforma ha trascurato che, in materia di tutela dei
diritti dei consumatori, si è affermato in giurisprudenza un orientamento
favorevole a ritenere l’inderogabilità del foro del consumatore di cui all’art. 33,
comma 2°, lett. u), cod. cons., identificato in quello “di residenza o domicilio elettivo
del consumatore”, che, in un’azione collettiva, ben avrebbe potuto essere
individuato nel foro della sede dell’associazione o del comitato proponente
l’azione collettiva.
Anche sulla base di tale rilievo, contenuto nel primo paragrafo dell’art.
140bis, si dovrebbe ritenere soltanto facoltativo il foro dell’impresa convenuta
determinato con tanta leggerezza nella nuova legge.
Altro, poi, è il problema che si pone, anche in relazione all’azione di
categoria, a monte di quello relativo alla determinazione della competenza e
che attiene allo stabilire la competenza giurisdizionale del giudice italiano.
5.1
Nell’ambito dell’Unione Europea, innanzitutto, non v’è dubbio che la
determinazione della competenza giurisdizionale del giudice italiano in tema di
“azione collettiva”, il primo dei problemi che avrebbe dovuto correttamente
porsi il legislatore, vada risolto sulla base del Regolamento (CE) n. 44/2001 del
Consiglio del 22 dicembre 2000 (Bruxelles I), come successivamente rettificato
ed emendato.18 La nuova forma di azione, infatti, rientra de plano nel campo di
applicazione del Regolamento (art. 1, paragrafo 1) e in nessun modo può essere
ricompresa nelle esclusioni contenute nell’art. 1, paragrafo 2 del Regolamento
de quo.
Ne discende, pertanto, l’applicazione all’azione collettiva del criterio di
base del “domicilio” o della “sede” del convenuto, persona fisica o giuridica che
sia, nelle definizioni rispettivamente contenute negli artt. 59 e 60 del
Regolamento.
Ma, accanto al foro generale, vi sono fori speciali posti in deroga a quello
e fori alternativi al medesimo.
Sotto il primo profilo, vengono qui presi in considerazione i “contratti”
conclusi dal “consumatore” “per un uso che possa essere considerato estraneo alla
sua attività professionale”, nel senso ampio emergente dal Regolamento
appena citato e, cioè, in relazione:
(a)
ad una vendita a rate di beni mobili materiali;
(b)
ad un prestito con rimborso rateizzato o ad un’altra operazione di
credito, comuni con il finanziamento di una vendita sub a);
18 Pubblicato in GUCE L 12 del 16 gennaio 2001, pag. 1. Rettifica in GUCE L 307 del 24 novembre 2001,
pag. 28, modificato dal Regolamento (CE) n. 1496/2002 della Commissione del 21 agosto 2002 (GUCE L
225 del 22 agosto 2002, pag. 13), dall’Atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica ceca,
della Repubblica di Estonia, della Repubblica di Cipro, della Repubblica di Lettonia, della Repubblica di
Lituania, della Repubblica di Ungheria, della Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della
Repubblica di Slovenia e della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda
l’Unione europea (GUUE L 236 del 23 settembre 2003, pag. 33), dal Regolamento (CE) n. 1937/2004 della
Commissione del 9 novembre 2004 (GUUE L 334 del 10 novembre 2004, pag. 3), dal Regolamento (CE) n.
2245/2004 della Commissione del 27 dicembre 2004 (GUUE L 381 del 28 dicembre 2004, pag. 10).
9
(c)
in tutti gli altri casi, “qualora il contratto sia stato concluso con una
persona le cui attività commerciali o professionali si svolgono nello
Stato membro in cui è domiciliato il consumatore o sono dirette con
qualsiasi mezzo, verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati
che comprende tale Stato membro, purché il contratto rientri
nell’ambito di tale attività” (art. 15, par. 1).
In forza dell’art. 16, par. 1 e 2 dello stesso Regolamento, il consumatore
ha la scelta fra citare l’altra parte contrattuale davanti ai giudici del proprio
domicilio o a quelli del domicilio dell’altra parte, quest’ultima, invece, è comunque
tenuta a citare il consumatore nel luogo del suo domicilio19.
Poiché “i rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’art.
1342 codice civile” da consumatori o utenti, per restare alla formula della nuova
legge, sono ricompresi negli articoli del Regolamento sopra menzionati, per le
azioni collettive recuperatorie o di risarcimento nascenti da tali rapporti
giuridici, in ipotesi di controparte straniera “comunitaria”, l’indicazione del foro
dell’impresa potrà essere pacificamente disattesa dalle associazioni di
consumatori o da comitati che ben potranno citare l’impresa in Italia, nel luogo
dove risieda uno dei consumatori dagli stessi rappresentati.
L’utilizzazione dell’espressione “consumatori e utenti” contenuta nel testo
dell’art. 140-bis non deve trarre in inganno, essendo essa comunque
riconducibile a situazioni giuridiche afferenti al consumatore in senso lato.
Sotto un profilo lessicale, la distinzione si giustifica con il riferimento del
primo termine, il “consumatore”, ai beni e del secondo, l’“utente”, ai servizi. Ma
tale distinzione – lo ripetiamo – non va al di là della mera correttezza lessicale.
Risulta evidente, infatti, sia dall’ampia formulazione dell’art. 15 del
Regolamento (CE) n. 44/2001 sia dalle varie direttive attinenti alla materia20 che,
tra i “contratti stipulati con i consumatori”, vengono comunemente ricompresi
anche quei contratti che si concretizzano in un’offerta/acquisto di servizi.
Nello stesso senso, del resto, sono le pronunce della Corte di giustizia
delle Comunità europee nel caso Benincasa e nel caso Gruber nonché le
conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs in quest’ultima causa21. In particolare,
in più passaggi della sentenza Gruber, la Corte fa riferimento al trattamento
comune riservato al consumatore in caso di “uso del bene o del servizio”22.
19 Sulla nozione di domicilio della persona fisica e di una società o altra persona giuridica si fa rinvio,
rispettivamente, agli artt. 59 e 60 del Regolamento de quo.
20
V., ad esempio, la Direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con
i consumatori, in GUCE L 95 del 21 aprile 1993. In particolare, v. gli artt. 2 e 4 nonché alcuni considerando della
stessa da cui si desume che la nozione di “contratti stipulati con i consumatori” comprende anche l’offerta di servizi.
In senso analogo, cfr. la Direttiva 97/7/CE del 20 maggio 1997 riguardante la protezione dei consumatori in materia
di contratti a distanza, in GUCE L 144 del 4 giugno 1997, p. 19 (v. l’art. 2.1, definizione di “contratto a distanza”).
21
Cfr. la sentenza della Corte di giustizia del 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa, punti 11-19; le conclusioni
dell’AG Jacobs del 16 settembre 2004, causa C-464/01, Gruber, punti 20-28 nonché la sentenza del 20 gennaio 2005
in quest’ultimo procedimento, in particolare ai punti 36 ss. Tali pronunce interpretano la nozione di “contratti
conclusi da consumatori” ai sensi degli artt. 13-15 della Convenzione di Bruxelles (oggi artt. 15 ss. Regolamento
(CE) 44/2001). Sul punto, v. anche GAMBARO –LANDI, Consumer Contracts and Jurisdiction, Recognition and
Enforcement of Judgments in Civil and Commercial Matters, European Business Law Review, 5/2006, 1355.
22
V., in particolare, i punti 41, 42 e 45 della sentenza Gruber, cit.
10
5.2
La sottovalutazione, per non dire la totale noncuranza, da parte del
legislatore della nuova azione collettiva, dell’esistenza di un diritto processuale
civile intessuto anche di norme regolamentari comunitarie, come tali prevalenti
e preminenti rispetto alle norme di diritto interno con quelle contrastanti, è
dimostrato una volta di più dall’ulteriore previsione nel Regolamento CE
44/2001, fra i criteri speciali di giurisdizione, di criteri ad hoc relativi a
controversie in materia di contratti di assicurazione.
Fra questi, oltre che avanti al giudice del domicilio dell’attore, quando
costui sia il contraente, l’assicurato o il beneficiario dell’assicurazione (art. 9, co.
1, lett. b Reg. 44/2001 cit.), la domanda può essere proposta - a scelta
dell’assicurato - anche avanti al giudice nazionale del luogo in cui l’evento
dannoso si è verificato, nei casi di assicurazione della responsabilità civile o sugli
immobili ovvero di sinistri coinvolgenti mobili e immobili coperti dalla
medesima polizza o, ancora, avanti al giudice del luogo in cui l’azione di danno
contro l’assicurato sia già stata proposta (cfr. art. 11 Reg. cit.).
Ancora una volta, dunque, nel caso di un’azione collettiva promossa in
materia di contratti assicurativi e avente carattere “transfrontaliero” all’interno
dell’Unione Europea, l’applicazione dei criteri speciali di giurisdizione previsti
dagli artt. 9 - 11 Reg. CE 44/2001, senz’altro prevalenti sulle disposizioni
difformi del diritto nazionale, sembrerebbe destinata a vanificare la scelta della
“sede dell’impresa” convenuta quale criterio di competenza a vocazione
esclusiva nel settore delle azioni collettive.
Di fronte a questo ennesimo caso di “distrazione” legislativa rispetto alle
conseguenze
pratiche
della
sempre
maggiore
compenetrazione
dell’ordinamento nazionale e di quello comunitario, le declamazioni di principio
e le invocazioni dello stesso diritto comunitario e dei suoi sviluppi contenute nel
“preambolo” delle disposizioni appena introdotte assumono un sapore quasi
comico.
5.3
Sempre in relazione al diritto comunitario, le altre azioni collettive
previste dalla nuova legge italiana, quelle, cioè, poste in essere “in conseguenza
di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti
anticoncorrenziali”, nei confronti di un soggetto convenuto, persona fisica o
giuridica che sia uno straniero “comunitario”, sono anche esse oggetto di un
foro alternativo.
Infatti, ai sensi dell’articolo 5 del Titolo II del Regolamento 44/2001, una
persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere
alternativamente convenuta, a scelta dell’attore, in un altro Stato membro, in
particolare, “in materia di illeciti civili dolosi o colpevoli, davanti al giudice del luogo in
cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire” (punto 3) e ancora, “qualora si tratti
di un’azione di risarcimento di danni o di restituzione, nascente da reato, davanti al
giudice presso il quale è esercitata l’azione penale, sempre che secondo la propria legge
tale giudice possa conoscere dell’azione civile” (punto 4).
5.4
La competenza “inderogabile”23 a favore del foro del consumatore o
dell’assicurato nei termini sopra enunciati, o quella speciale del forum commissi
23
Fatte salve le soluzioni consentite nell’articolo 17 del Regolamento n. 44/2001.
11
delicti, l’una e l’altra oggetto di prescrizioni contenute in un regolamento
comunitario, prevalgono – lo ripetiamo - su qualsiasi disposizione nazionale
contrastante, anche se successiva. Con l’ovvia conseguenza che, nell’ambito
dell’Unione Europea, il criterio contenuto nel paragrafo primo dell’art. 140-bis
cod. cons. assume la semplice funzione, di per sé del tutto inutile, di richiamo al
criterio generale del domicilio (sede) dell’impresa convenuta, senza in alcun
modo poter escludere, quando ve ne siano le premesse, il ricorso agli altri criteri
nel senso precisato.
5.5
L’esame nel caso della disciplina di diritto comune sulla giurisdizione non
conduce a risultati diversi da quelli emersi in sede comunitaria, in funzione
dell’espresso rinvio alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione di
Bruxelles del 22 settembre dal 1986 e successive modificazioni contenute nell’art.
3, paragrafo 2, della legge 31 maggio 1995 n. 218, portante la riforma del
sistema del diritto internazionale privato italiano. Infatti, in virtù dell’art. 68 del
Regolamento 44/2001, “nella misura in cui il presente regolamento sostituisce,
tra gli Stati membri, le disposizioni della Convenzione di Bruxelles ogni
riferimento a tale convenzione si intende fatto al presente regolamento”.
Ora le sezioni 2, 3 e 4 del titolo II del Regolamento de quo riguardano,
rispettivamente, come si è visto, le competenze speciali, la competenza in
materia di assicurazione, la competenza in materia di contratti conclusi con il
consumatore e, pertanto, il richiamo alla Convenzione di Bruxelles nell’art. 3,
par. 2, della l. 218/1995 è automaticamente sostituito con quello al Regolamento
de quo, con la conseguenza di rendere la disciplina generale identica a quella di
applicazione diretta fra gli Stati membri dell’Unione europea della normativa
comunitaria sopra esaminata.
5.6
Si osserva ancora che l’individuazione del tribunale in formazione
collegiale quale organo competente per conoscere delle domande di tutela
giurisdizionale collettiva appare opportuna, in relazione alla verosimile
complessità delle cause collettive – non solo oggettiva, ma anche soggettiva,
visto il perdurante diritto dei singoli di intervenire in via litisconsortile, poco
sensatamente sancito dall’art. 140-bis co. 2°, seconda frase.
5.7
Infine, è nostra opinione che l’opzione per il rito ordinario di cognizione
disciplinato dagli artt. 163 e segg. c.p.c., sancita ormai in via generale per le
controversie collettive a tutela di consumatori e utenti (alcuni disegni di legge in
vena d’umorismo prevedevano tali cause il ricorso al rito societario,
condannando la tutela collettiva dei consumatori ad un gratuito supplemento di
complicazioni e costi…), renda urgente il problema di valutare la legittimità
costituzionale dell’applicabilità del rito societario alle sole liti nelle “materie di al
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, quando la relativa controversia è
promossa da … associazioni rappresentative di consumatori …“, stabilita del tutto
irragionevolmente dall’art. 1, lett. e) del d.lgs. 5/2003.
6.
Il coordinamento della nuova azione risarcitoria con le altre
disposizioni preesistenti a tutela del consumatore.
12
La collocazione di un procedimento che aspira ad essere, per bocca dei
suoi stessi artefici, un “nuovo strumento generale di tutela nel quadro delle misure
nazionali volte alla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti” (così l’art. 2,
co. 445 l. fin. cit.) avrebbe meritato un più attento coordinamento con il diritto
vigente in materia di tutela collettiva di consumatori e utenti.
La soluzione ottimale avrebbe potuto consistere nell’inserire interamente
nel corpo del codice di procedura civile la disciplina dell’azione collettiva. In
alternativa, sarebbe stato opportuno quantomeno modificare e adeguare le
disposizioni rilevanti dei codici generali (civile e di rito) per rendere conto delle
novità che, sebbene non siano state introdotte ex novo con questa riforma, da
essa sono risultate notevolmente ampliate per campo di applicazione e portata.
Ciò anche in considerazione del fatto che il contenuto dell’art. 140-bis, pur
essendo stato inserito nel Titolo II della parte V del codice del consumo, appare
del tutto slegato dalle disposizioni circostanti relative alle azioni inibitorie a
tutela dei consumatori (la cui menzione, peraltro, è stata inopinatamente
cancellata dalla rubrica del Titolo II dall’art. 2, co. 449 l. fin. cit.).
Ne consegue una situazione di incertezza, non sembrando possibile allo
stato di riuscire a determinare se e quale parte delle disposizioni già vigenti per
le inibitorie sarà ritenuta compatibile con le nuove disposizioni sulla c.d. “azione
risarcitoria” e, pertanto se sarà dichiarata applicabile anche ad essa. Si pensi, per
fare un solo esempio, alle astreintes irrogabili dal giudice ai sensi del comma 7°
dell’art. 140 in caso di mancata ottemperanza alle inibitorie pronunciate a favore
dei consumatori e degli utenti: può il giudice che dichiara la responsabilità
dell’impresa convenuta e fissa i minimi di risarcimento individuale da liquidarsi
successivamente comminare un’astreinte a carico dell’impresa che, entro un
dato termine, boicotti ogni iniziativa volta a liquidare i risarcimenti individuali?
24.
Gli artt. 2907, comma 2° e 2909 c.c., relativi, rispettivamente, all’impulso
di parte della tutela giurisdizionale e ai limiti soggettivi del giudicato, l’art. 2945
c.c., riguardante, fra gli altri, l’effetto interruttivo degli atti introduttivi di un
giudizio, come pure gli artt. 81 e 100 c.p.c., concernenti la legittimazione,
l’interesse ad agire25, ben avrebbero potuto essere aggiornati per recare
l’impronta dei “novelli” principi contenuti nella disciplina della generale azione
collettiva risarcitoria.
Nonostante le correzioni apportate alla Camera e, da ultimo, accolte dal
Senato, il testo della riforma risente ancora molto della fretta precipitosa con cui
è stato “cucito” nel già arlecchinesco tessuto della legge finanziaria, sicché può
Non si comprende perché dal 1998 l’odierno art. 140 Cod. cons. (già art. 2 l. 281/1998) ammetta
l’inibitoria a favore degli interessi collettivi dei consumatori virtualmente contro chiunque minacci o
leda tali diritti, mentre il nuovo art. 140-bis limiti i soggetti contro cui proporre le c.d. azioni collettive
risarcitorie alle sole “imprese”. Si tratta di un’altra irragionevole distinzione normativa su cui il
Supremo Giudice Costituzionale sarà probabilmente presto chiamato a pronunciarsi.
24
25 Data la portata dell’art. 140-bis, co. 4° in merito al contenuto della sentenza che accoglie la domanda di
tutela collettiva, forse una modificazione si sarebbe potuta apportare anche all’art. 278 c.p.c. in tema di
contenuto delle sentenze di c.d. condanna generica, ancorché in dottrina si dubiti della riconducibilità a
tale categoria delle sentenze collettive “di condanna” (cfr. S. CHIARLONI, “Per la chiarezza di idee in tema
di tutele collettive dei consumatori”, Riv. dir. proc. 2007, pp. 567 - 590, testo – integrato delle note – della
relazione esposta al convegno AGIT di Roma e a quello di Pisa (disponibile anche all’indirizzo http: //
judicium.it/news/ins_15_05_07/convegno % 20 Pisa / Chiarloni, %20convegno%20Pisa.html)).
13
essere in gran parte sottoscritto il giudizio dato “a caldo” da alcuni
commentatori qualificati: ci troviamo al cospetto, se non proprio di un
“mostro” capace di provocare “lo scardinamento del sistema processuale vigente e
l’accelerazione della crisi della macchina della giustizia”26, certamente di un brutto
intervento normativo, sgraziato e in più punti oscuro e lacunoso, destinato sin
d’ora a una vita alquanto tribolata, piena di affanni e controversie, occasione di
discussioni politiche, dibattiti dottrinali, contrasti giurisprudenziali e nuovi
interventi correttivi del Parlamento.
7.
L’ambito di applicazione soggettivo della nuova disciplina.
Sul piano soggettivo, la scelta in favore di una legittimazione ad agire
selettiva ed istituzionale, ristretta soltanto ad alcune associazioni di
consumatori, anche “ulteriori” rispetto a quelle iscritte nell’elenco di cui all’art.
137 cod. cons., e ad altri indefiniti “soggetti portatori di interessi collettivi”, da
designarsi per decreto ministeriale, è stata fortunatamente accantonata dalla
Camera per i gravi problemi d’ordine costituzionale cui avrebbe dato luogo in
punto di titolarità degli interessi collettivi, legittimità del potere governativo di
determinarne i portatori autorizzati e indeterminatezza dei relativi criteri di
scelta.
Il campo di applicazione soggettivo della disciplina appare, ora, più
ampio rispetto a quello originario, esteso com’è “anche [ad] associazioni e
comitati” diversi da quelli iscritti nell’elenco ministeriale, purché ritenuti, nel caso
concreto, “adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere”.
Sembra, dunque, con un’importante novità, che sia abilitato ad agire
collettivamente chiunque dia vita a comitati di consumatori o di utenti, costituiti
ad hoc, dopo la commissione del fatto illecito e dannoso, la cui adeguatezza
rappresentativa andrà perciò apprezzata dal giudice “sul campo”, vagliando il
numero e la composizione degli aderenti, l’entità e la serietà degli interessi
rappresentati, l’assenza di indizi di collusione o di conflitto d’interessi rispetto
all’impresa convenuta in giudizio, ecc.
Notevolmente restrittiva rispetto all’esperienza americana, nonostante
l’accantonamento della precedente, assurda limitazione alle sole “società fornitrici
di beni e servizi nazionali e locali”, appare l’indicazione dell’“impresa” come unico
possibile soggetto “passivo” dell’azione collettiva. L’impiego di un termine dalla
connotazione esplicitamente economica e funzionale inserisce nel novero dei
potenziali convenuti forme di organizzazione giuridica diverse dalle società (si
pensi alle fondazioni bancarie, in quanto in concreto esercitanti un’attività di
impresa, alle associazioni temporanee d’impresa, ai consorzi, ai gruppi
d’interesse economico europeo, alle associazioni o alle fondazioni private
purché esercenti imprese ecc.), nonché altri soggetti giuridici svolgenti un’attività
d’impresa anche se non in forma collettiva (imprenditori individuali).
La dizione, tuttavia, implica tuttora l’esclusione di altri soggetti che non
esercitano attività imprenditoriali in senso stretto, ma svolgono egualmente
iniziative di carattere economico o tengono comunque condotte che sono
26 Così
G. ALPA, loc.ult. cit.
14
dirette verso vaste classi di soggetti (sindacati, ordini professionali, associazioni
fra professionisti intellettuali, ecc.), ovvero di altri soggetti ancora svolgenti
attività criminali (cosche mafiose, ecc.).
Ancor più distante dalla disciplina della class action statunitense, con una
soluzione discutibile anche per il nostro sistema giuridico (alla luce del principio
costituzionale di eguaglianza di trattamento di situazioni analoghe e del diritto
inviolabile di azione e difesa giudiziaria dei diritti e degli interessi legittimi: cfr. artt.
3, 24 e 113 Cost.), è l’esclusione dalla disciplina dell’azione collettiva delle
amministrazioni pubbliche. Se si considera che, almeno dal 1999, si riconosce in
Italia un diritto soggettivo al risarcimento dei danni derivanti da violazione di
un interesse legittimo degli amministrati da parte della pubblica
amministrazione, è legittimo domandarsi se non fosse il caso di pensare a
disciplinare un’ipotesi di “azione collettiva risarcitoria” anche in quest’ambito,
dove si possono dare casi di condotte illegittime di autorità amministrative
ricollegati ad alcune ipotesi di responsabilità privata da illecito (si pensi
all’eventuale corresponsabilità omissiva dell’autorità di vigilanza sulla
concorrenza e sui mercati rispetto agli illeciti commessi da un’impresa quotata,
o all’omessa vigilanza della Banca d’Italia rispetto agli illeciti perpetrati da un
intermediario finanziario o da un istituto di credito).
Una delle class action federali più celebri, Brown v. Board of Education of the
City of Topeka (1951-1954), che originò la decisione della Corte Suprema USA che
pose fine alla segregazione razziale nelle istituzioni scolastiche di tutto il paese27,
era originariamente un’azione intentata dinanzi alla Corte distrettuale federale
del Kansas da alcuni genitori di studenti di colore contro il provveditorato agli
studi della città di Topeka, reo di applicare la segregazione razziale nelle scuole
locali in contrasto con la Costituzione federale, sia pur in ossequio ad una
vecchia decisione della Suprema Corte degli Stati Uniti (resa in Plessy v.
Ferguson28) e di leggi statali che avevano avallato la pratica di istituire scuole
razziali “separate, purché eguali”.
La possibilità di convenire in un giudizio di classe una administrative
agency, sia essa espressione dei poteri locali, statali o federali, è in realtà
risalente, posto che fra gli antesignani della attuale class action vi è la c.d.
taxpayer’s suit, una sorta di azione popolare che negli Stati Uniti è (tuttora)
promuovibile da qualsiasi contribuente di un ente territoriale impositore,
diretta a sindacare l’impiego, da parte dell’ente stesso, delle entrate fiscali
ottenute o a contestare in via generale la legittimità di un nuovo tributo
dall’istituito ente.
La scelta italiana, sotto tale profilo, appare riduttiva quanto miope. Basti
pensare al fenomeno, attualmente balzato ai (dis)onori della cronaca nazionale,
ma ormai cronicizzato da quasi un quindicennio, dell’impossibilità di smaltire i
rifiuti urbani nelle aree urbane delle province campane. Un’eventuale iniziativa
giudiziaria collettiva promossa da comitati ad hoc o da associazioni di tutela
ambientale a risarcimento dei danni alla salute e all’ambiente provocati,
potrebbe dirigersi contro le (poco solventi) imprese pubbliche, private o miste
addette alla raccolta e alla distruzione o concentrazione dei rifiuti stessi, ma non
27
347 U.S. 483 (1954).
28
163 U.S. 537 (1896).
15
già contro gli enti pubblici (comuni, province, regione, Stato) cui si deve
imputare, in ultima analisi, la disastrosa situazione esistente.
In relazione al nuovo strumento italiano anche i possibili beneficiari
dell’azione collettiva sono individuati in termini restrittivi. Si è già osservato più
volte che il comma 1° dell’art. 140-bis cod. cons. parla di consumatori ed utenti,
mentre anche il riferimento fatto di sfuggita agli “investitori”29, nel testo del
comma 2° originariamente licenziato dal Senato, è stato soppresso.
Sembrerebbero beneficiare della tutela collettiva, in tal modo, soltanto i
titolari di un rapporto di consumo, di beni o servizi, attuale o potenziale ai sensi
del cod. cons. Esclusi dalla categoria, dunque, oltre agli investitori, esplicitamente
depennati dal legislatore, anche i lavoratori dipendenti di un’azienda, sia pure di
grandi dimensioni.
Escluse dalla tutela collettiva, più in generale, tutte le categorie di
danneggiati che sorgono in conseguenza non di un previo rapporto di
consumo, ma di un fatto illecito altrui, come le vittime di un disastro di massa
(inquinamento dei suoli, dell’acqua o dell’aria, esposizione a materiali
cancerogeni, ecc.).
L’ambiguità dell’art. 140-bis, co. 1°, cod. cons., che si riferisce al “diritto al
risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori e
utenti” non soltanto nel contesto di rapporti contrattuali di serie, ma anche “in
conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di
comportamenti anticoncorrenziali”, potrebbe però aprire la porta a interpretazioni
estensive, nelle quali il consumatore o utente non appare più come una precisa
figura giuridica (definita dall’art. 3, lett. a, cod. cons. o come risultante dalla
giurisprudenza comunitaria in sede di applicazione del relativo criterio di
giurisdizione), quanto piuttosto un tipo sociologico sostanzialmente equivalente
al quisque de populo, vale a dire al singolo individuo vittima inerme delle
conseguenze dannose di attività produttive o amministrative organizzate da
soggetti professionali specializzati secondo gli schemi tecnici automatizzati e
standardizzati propri della moderna società (post)industriale di massa.
Nel sistema statunitense, la class action, propriamente parlando, non
costituisce un remedy, vale a dire un distinto e peculiare provvedimento di tutela
(al pari dei declaratory judgments, delle injunctions, delle diverse forme di
damages), ma soltanto uno special procedural device, un congegno processuale
speciale posto a servizio e ad ausilio dei rimedi giurisdizionali già esistenti, che
esso applica su scala maggiorata e, per dir così, “all’ingrosso”, anziché “al
dettaglio”. Per questo, tale azione trova applicazione, in linea di massima e
salve le eccezioni espressamente stabilite con leggi speciali (come in tema di
contenzioso finanziario federale), contro qualunque specie di condotta illecita
“di massa”, perpetrata da qualsiasi genere di soggetto, pubblico o privato. In
altri termini, non c’è alcun limite oggettivo alle violazioni tutelabili con una class
action, né nei confronti di un’impresa, né di qualunque altro convenuto.
Un’azione di classe può essere – ed è stata – proposta per reprimere la
diffusione di informazioni false o non veritiere nel mercato dei prodotti
29 La tutela collettiva degli investitori sui mercati finanziari era stata, nel 2003, sull’onda dei recenti
scandali Cirio, dei bond argentini e Parmalat, una delle ragioni delle proposte di legge che avevano
introdotto la tutela collettiva “in via generale”. Cfr. I. BUFACCHI, “La strada peggiore”, Il Sole 24 Ore, 16
novembre 2007, pp. 1 e 14.
16
finanziari (casi Enron e Worldcom30), per vietare l’impiego di trattamenti
discriminatori o contrari ai principi costituzionali nelle scuole, nei luoghi di
lavoro o nelle carceri, per sanzionare l’applicazione effettiva di prezzi di servizi
pubblici superiori alle tariffe pubblicate (come nel noto caso della Yellow Cab
Taxi Co.), per risarcire le vittime dirette o indirette dell’uso di prodotti industriali
o di beni di consumo dannosi per la salute (es., l’amianto cancerogeno lavorato ed
applicato nelle infrastrutture civili e nelle abitazioni, l’Agente Arancio impiegato
senza cautele dagli avieri USA come defoliante nella guerra del Vietnam, il
pericoloso contraccettivo femminile Dalkon Shield, il silicone cancerogeno
impiegato nelle protesi estetiche mammarie, le sigarette assuefacenti e
cancerose prodotte dalle multinazionali del tabacco senza ammonire i
consumatori della pericolosità del prodotto, i modelli automobilistici immessi in
commercio e risultati difettosi per un errore di progettazione o per un vizio nel
processo produttivo in serie), per le vittime di disastri ecologici (Bhopal) o
ancora per recuperare indebiti arricchimenti ai danni di vittime di persecuzioni
(il caso delle banche svizzere nei confronti dei correntisti ebrei colpiti
dall’Olocausto cui ha fatto seguito quello delle compagnie di assicurazione,
tedesche, francesi, italiane e svizzere per gli assicurati vittime dell’Olocausto31),
per risarcire i familiari di persone decedute in disastri civili evitabili o in gravi
attentati terroristici (vittime dell’uragano Katrina e delle conseguenti alluvioni o
ancora le vittime del World Trade Center).
8.
Le limitazioni dell’utilizzazione della nuova azione collettiva ratione
materiae.
Sul piano oggettivo, tutelabili in via collettiva, come è ovvio, sono quei
diritti che ledono “una pluralità di consumatori o di utenti”. Tali diritti,
individuati dalla legge in via tassativa, riguardano, in primis, i “rapporti giuridici
relativi a contratti stipulati ai sensi dell’articolo 1342 c.c.”: sembrerebbe, perciò,
che, ove si tratti di rapporti contrattuali non rientranti nella nozione dei
contratti standard (si pensi ai viaggiatori dei mezzi pubblici, rientranti piuttosto
nella fattispecie dell’art. 1341 c.c., tuttora non considerata dalla norma) nessuna
azione collettiva sia ammissibile; il che, nonostante le modifiche testuali
apportate al testo originario, è palesemente un non senso 32.
Anche a tale proposito sarebbe stato più opportuno che il legislatore,
anziché rinviare all’articolo in questione, facesse diretto riferimento alla
fattispecie oggetto dell’art. 1342 c.c., vale a dire ai “contratti conclusi mediante
moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati
rapporti contrattuali”. Meglio ancora sarebbe stato riferirsi anche ai rapporti
individuati dall’art. 1341 c.c., rappresentati dai contratti nei quali il regolamento
contrattuale non è contenuto in moduli o formulari standard fatti sottoscrivere
dal predisponente, ma in “condizioni generali di contratto predisposte da uno dei
Quest’ultimo caso è stato seguito anche dal nostro Studio, attraverso l’Italian Desk di New York,
nell’interesse di un istituto di credito italiano.
30
31 Altro caso al quale ha fattivamente partecipato l’Italian Desk del nostro Studio nell’interesse di una
compagnia di assicurazione italiana.
32
Sul punto, cfr. G. ALPA, “Un mostro del diritto”, cit.
17
contraenti” e non sottoposte all’adesione delle controparti, onde evitare che tale
genere di rapporti sfugga, senza valida ragione, alla disciplina dell’azione
collettiva33.
Il rinvio formale all’art. 1342 c.c. comporta un ulteriore, paradossale
inconveniente, che si riallaccia a quanto già osservato sopra in merito alla
noncuranza sostanzialmente mostrata dal legislatore per tutto ciò che concerne
i rapporti del nostro diritto nazionale con il diritto comunitario. Infatti, la
disciplina dell’art. 1342 c.c. (così come quella dell’art. 1341 c.c.) è attualmente
poco indicata a fungere da punto di riferimento ideale della tutela del
consumatore, posto che, almeno dal 199634, è stata in larga misura soppiantata
dalla disciplina speciale delle clausole vessatorie nel contratto tra professionista
e consumatore, contenuta nella Direttiva CEE 93/13 e negli artt. 1469-bis e
seguenti (dal 2006 trasfusi negli artt. 33 e ss. cod. cons.) Appare singolare che, in
un testo che ambisce a fornire ai consumatori una nuova forma di tutela
giurisdizionale, il campo di applicazione della novella disciplina processuale sia
in parte identificato richiamando disposizioni la cui applicazione alla categoria
dei consumatori è da ritenere, nella migliore delle ipotesi, soltanto residuale35.
In base all’art. 140-bis, poi, consumatori e utenti possono altresì esercitare
l’azione collettiva per il risarcimento di danni spettanti ai singoli “in
conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali illecite o di
comportamenti anticoncorrenziali”, la cui pertinenza rispetto agli aventi diritto,
tuttavia, non è sempre chiara. Si pensi al caso in cui gli atti illeciti subiti dalle
categorie considerate, pur provenendo da un’impresa, abbiano un
collegamento soltanto indiretto con il c.d. rapporto di consumo o non abbiano
alcun collegamento con esso, come nel caso di danno da prodotto difettoso, o di
un danno collettivo cagionato da un disastro di massa. Sotto questo profilo, gli
emendamenti correttivi introdotti dalla Camera non hanno dissolto i dubbi
preesistenti: è credibile che, di fronte alla caduta di un aereo, al deragliamento di
un treno, alla distribuzione di un alimento nocivo per la salute o all’esposizione
collettiva ad un prodotto pericoloso, sia accordata una tutela diversa a seconda
che si abbia a che fare con un passeggero o un consumatore pagante o, invece,
con un terzo, egualmente feriti o deceduti a causa dall’incidente o
dell’esposizione alla sostanza nociva, l’uno beneficiato dal “privilegio”
dell’azione collettiva e l’altro no?
Ci si chiede inoltre: quali comportamenti anticoncorrenziali potranno
essere mai invocati dalle associazioni consumeristiche o dai comitati di
consumatori o di utenti, posto che in questi casi il danno investirebbe, piuttosto
che i primi, le imprese concorrenti?
L’inclusione dell’art. 1342 e non dell’art. 1341 c.c. nel campo di applicazione della nuova disciplina
dell’art. 140bis cod. cons. potrebbe condurre, ad esempio, alla poco ragionevole conseguenza di
permettere la tutela risarcitoria collettiva dei titolari dell’abbonamento ad un servizio di trasporto
pubblico urbano o interurbano (sottoscrittori, di regola, di un modulo prestampato al momento della
stipula dell’abbonamento), ma ad escludere la medesima tutela ai semplici passeggeri occasionali di
quello stesso servizio, titolari di un mero biglietto di viaggio e soggetti alle condizioni generali di
trasporto predisposte dal vettore.
33
34 In forza della Dir. CE 93/13 del 5 aprile 1993, attuata in Italia con la l. 6 febbraio 1996, n. 52, che
aggiunse al codice civile gli artt. 1469 da -bis a - sexies, poi in parte riassorbiti nel codice del consumo.
35 Cfr.
G. GAZZONI, Manuale di diritto privato, XII ed., Napoli, 2006, pp. 905 e ss.
18
Paventiamo anche soltanto l’idea che l’originaria eccessiva limitatezza
delle ipotesi in relazione alle quali sembra essere attualmente consentito
l’esercizio dell’azione collettiva si possa prestare a futuri interventi legislativi
comportanti non tanto le opportune (se non necessarie) correzioni al
meccanismo di funzionamento del nuovo strumento qui evidenziate quanto
allargamenti ed integrazioni ratione materiae, seguendo il deleterio esempio di
quanto avvenuto in relazione alla legge n. 231 del 2001.
9.
L’esercizio dell’azione collettiva e la prescrizione.
La quarta frase del comma 2° dell’art. 140-bis sancisce che “l’esercizio
dell’azione collettiva di cui al comma 1 o, se successiva, l’adesione all’azione
collettiva, produce gli effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’articolo
2945 del codice civile”. Si tratta di una disposizione di notevole importanza
perché, facendo decorrere l’interruzione della prescrizione dall’atto individuale
di adesione alla causa collettiva, implicitamente esclude l’effetto interruttivo
collettivo della prescrizione da parte della domanda proposta dalle associazioni
esponenziali o dai comitati previsti dal co. 1° e dal co. 2°, prima frase. Qui gli
emendatori del testo novembrino approvato dal Senato hanno fatto un gran
passo indietro rispetto alla soluzione accolta in quella sede, dove si prevedeva
che “l’atto con cui il soggetto abilitato promuove l’azione collettiva … produce
gli effetti interruttivi della prescrizione … anche con riferimento ai diritti di tutti
i singoli consumatori o utenti conseguenti al medesimo fatto o violazione” (v. il
co. 3° del testo del d.d.l. licenziato il 15 novembre 2007).
La modifica appare il frutto di un eccesso di prudenza e di obbedienza ai
dettami di un’interpretazione rigida dell’art. 24 Cost., ma è gravida di potenziali
conseguenze negative per gli stessi consumatori e utenti i quali, pur venuti a
conoscenza della pendenza dell’azione collettiva, si convincano di attendere la
pronuncia in primo grado o l’appello per poi eventualmente prestare la propria
adesione in extremis, senza sapere che, frattanto, il tempo corre e con esso il
termine di prescrizione.
Tale disposizione, poi, è anche in patente contraddizione con l’ampiezza
dei termini concessi per aderire all’azione, durante i quali i diritti individuali dei
consumatori sono esposti, appunto al rischio dell’estinzione per inattività: siamo
ben lontani dal modello della class action americana36.
Sarebbe opportuno, almeno, che il giudice, nel dare le prescrizioni
opportune per le forme di “idonea pubblicità” dell’ordinanza di ammissione
dell’azione collettiva previste nell’art. 140-bis, co. 3, quarta frase, indichi fra i
“contenuti dell’azione” da comunicare alla massa dei consumatori o utenti
coinvolti, anche l’avvertimento che, senza l’espressa adesione di ciascuno di essi,
i termini di prescrizione seguiteranno a decorrere.
36 Nel
diritto federale statunitense la proposizione di una class action ha sempre l’effetto di interrompere i
termini di prescrizione dei diritti dei membri della classe interessata, e ciò a decorrere dal momento in
cui il class complaint (la domanda di tutela collettiva) è proposto, prima ancora, cioè, che il giudice lo
ammetta a procedere come tale. Questa regola – che appartiene al case law e non è riprodotta nei testi
normativi in materia – vale anche per le procedure previste dalle singole normative degli Stati federati.
Cfr. A. GIUSSANI, Studi sulle “class actions”, Padova, 1996, p. 295.
19
10.
La prima fase del procedimento complesso.
Il testo definitivamente approvato introduce, alla prima udienza davanti
ad un non meglio definito “tribunale” (il collegio? Il giudice istruttore?), una
sorta di “certification hearing”, un momento di pallida, infinitesima somiglianza
del giudizio collettivo italiano con la class action americana. Il “tribunale” vi
dovrebbe svolgere, attraverso un giudizio di ammissibilità della domanda di
tutela collettiva, una sorta di “filtraggio” delle istanze presentate, alla luce di tre
criteri ispiratori: 1) la non manifesta infondatezza della domanda, 2)
l’inesistenza di conflitti d’interessi e 3) la verificazione della “esistenza di un
interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo”.
Al di là di un evidente intento dissuasivo nei riguardi di iniziative
vessatorie, ricattatorie o abusive da parte degli attori collettivi, nessuno dei tre
criteri di giudizio esposti è descritto con adeguato dettaglio, lasciando ai giudici
la piena discrezionalità di stabilire – anzi di “ravvisare”, per esprimerci come il
legislatore – che cosa vada inteso per manifesta infondatezza della domanda, che
cosa per conflitto d’interessi (fra associazione proponente e impresa convenuta?
Fra membri dell’associazione stessa e la detta impresa? Fra difensore
dell’associazione e convenuto?) e in che cosa, infine e soprattutto, consista
l’esistenza di un interesse collettivo suscettibile di tutela adeguata 37.
È certo soltanto che il giudice, nello svolgimento della sua delibazione
preliminare, dovrà decidere “sentite le parti e assunte, quando occorre, sommarie
informazioni”, senza dunque poter svolgere un’istruttoria vera e propria nel
merito delle domande attrici; questa potrà avere inizio soltanto dopo
l’ammissione delle stesse alla procedura collettiva.
Si tratta, come è evidente, di espressioni vaghe, prive di qualsivoglia
contenuto denotativo, il cui significato viene perciò “delegato” in toto all’opera
dei commentatori e, soprattutto, alle determinazioni della giurisprudenza,
senza neppure l’ombra di una indicazione di massima o di una direttiva da
parte del frettoloso legislatore, anche soltanto in sede di Relazione alla legge.
Anche nel diritto statunitense, la class action rule detta criteri e linee
direttrici di tenore generico, rimettendosi, nella sostanza, ai consueti ampi
poteri discrezionali del Giudice. Così, ad esempio, la Rule 23 (a)(1) si limita a
stabilire che “uno o più membri”38 di una classe possono agire o resistere in
giudizio in qualità di parti rappresentative della stessa quando “la classe sia così
Secondo un primissimo commento alla disposizione, l’esistenza di un interesse collettivo suscettibile di
adeguata tutela andrebbe esclusa “quando non c’è congruità tra lo strumento dell’azione collettiva e
l’interesse che si intende far valere” (così, piuttosto enigmaticamente, G. NEGRI, “Class action con filtro”,
ecc., cit.). Uno dei consulenti giuridici degli autori del testo riformato, A. Zoppini, richiesto di illustrare le
ragioni del “filtro” preliminare introdotto alla Camera, ha spiegato i due elementi della non manifesta
infondatezza e dell’interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela affermando che “non ogni
controversia contro un’impresa è adatta a essere giudicata attraverso un’azione collettiva risarcitoria: deve
trattarsi di una causa che effettivamente presenta elementi di serialità e che quindi consente di deflazionare il
contenzioso civile”, aggiungendo che, per ammettersi un’azione in forma collettiva “deve … essere fondata
la possibilità di accoglimento e deve effettivamente sussistere una omogeneità sostanziale delle pretese
vantate” (G. NEGRI, “L’irretroattività è evidente”, Intervista a A. Zoppini, ne Il Sole 24 Ore del 24 dicembre
2007, a p. 32).
37
38 Non esiste, dunque, alcuna regola che stabilisca in uno soltanto il numero dei class representatives, i
quali possono anche assommare a due o più, come del resto è esplicitamente ammesso sia dalla Rule 23
(a) (1), sia dalla Rule 23 (c)(4), che prevede la possibilità, per il Giudice, di suddividere la classe in
sottoclassi, con conseguente nomina di altrettanti “rappresentanti”.
20
numerosa che il litisconsorzio di tutti sarebbe impraticabile”, senza precisare quale
sia il numero di membri al di sopra del quale l’impraticabilità dovrebbe
manifestarsi.
Talora i giudici di merito hanno indicato in una o più dozzine, ovvero in
una cinquantina o in un centinaio il numero minimo di persone necessarie a
soddisfare il requisito della numerosità di cui alla subdivision (a)(1), ma si è
perlopiù trattato di decisioni che ammettevano un’azione come class action in
virtù del raggiungimento di tali soglie minime, il cui valore è puramente
indicativo e non tassativo, posto che la stessa class action rule sembra porre
l’accento non tanto sulla quantità minima per poter definire “troppo numerosa”
una classe, quanto sul concetto di impraticabilità del litisconsorzio, che per ragioni
contingenti può aversi anche in presenza di categorie assai ristrette.
Ugualmente, la persona che agisce in qualità di rappresentante deve
affermare la titolarità di pretese che siano “tipiche rispetto alle pretese … della
categoria” e, al tempo stesso, deve dare affidamento di“proteggere in maniera
corretta, leale ed adeguata gli interessi della classe” (Rule 23 (a)(3) e (a)(4)), così
come il difensore della categoria deve essere idoneo a tutelare “in modo leale,
corretto ed adeguato” gli interessi della classe (Rule 23 (g)(2)): nulla di preciso,
tuttavia, si richiede circa, ad es., la solidità finanziaria del rappresentante e del
difensore, l’organizzazione di quest’ultimo o la sua preparazione nelle materie
controverse. Ancora una volta, i redattori della Rule 23 si sono limitati a dettare
– e soltanto dal 200339 – alcuni lineamenti di massima, chiedendo al Giudice di
tenere in considerazione, al momento della nomina del difensore di classe,
l’opera già svolta nella preparazione dell’azione, la sua esperienza in materia di
class action e nelle questioni di merito coinvolte, la sua conoscenza del diritto
materiale applicabile. 40
Ribadiamo, per altro, che la convergenza della disciplina statunitense con
quella italiana in relazione al tema qui in considerazione è soltanto apparente.
Non va infatti dimenticato l’ampio potere discrezionale di cui il giudice
americano generalmente gode con riguardo all’intera gamma di azioni civili41.
39 La riforma della class action rule disposta nel 2003 è stata sancita, in ossequio alle peculiari norme
vigenti nel sistema federale americano in materia di disciplina del processo civile, con ordinanza della
Corte Suprema resa il 27 marzo 2003, preceduta da una proposta formulata da un’apposita commissione
tecnica mista (la Judicial Conference of the United States, composta da giudici, professori e professionisti
legali e a sua volta assistita da un comitato permanente e da alcune sottocommissioni consultive
suddivise per materia) e seguita dalla approvazione – tacita – del Congresso federale. Il testo così
approvato è entrato in vigore, come detto, il 1° dicembre 2003.
Non si dimentichi che una class action federale, quando non abbia ad oggetto diritti stabiliti
immediatamente da leggi federali (federal law question), può avere luogo per ragioni di “diversità di
cittadinanza” (interna od estera: c.d. ”diversity of citizenship) delle parti coinvolte. Ciò può comportare
che davanti al foro federale si debbano applicare norme materiali di ordinamenti statali interni diversi
da quello locale o, nei casi transnazionali, leggi materiali straniere.
40
41 In alcuni casi speciali, tuttavia, le leggi federali hanno introdotto più dettagliati requisiti di
ammissibilità delle azioni di classe relative a particolari materie, quale quella dei titoli negoziabili su
mercati regolamentati (public securities). Il Public Securities Litigation Reform Act of 1995 (PSLRA), infatti,
ha introdotto una disciplina ad hoc per le class action in materia di violazione delle disposizioni federali
sull’offerta e sul commercio di titoli negoziabili, stabilendo una più accurata e formalizzata selezione del
c.d. lead plaintiff, l’attore in giudizio che litiga per conto dell’intera classe degli investitori defraudati o
danneggiati dall’illecito finanziario, oltre ad una più rigorosa valutazione del difensore della classe.
21
10.1 L’ordinanza che pronuncia sull’ammissibilità dell’azione collettiva – e che,
verisimilmente, dovrà anche pronunciarsi sulla “adeguata rappresentatività”
delle associazioni o dei comitati di cui al co. 2° dell’art. 140-bis cod. cons. è
reclamabile in Corte d’Appello nelle forme del giudizio camerale, cui
difficilmente saranno applicabili – per incompatibilità funzionale – le
disposizioni di cui agli artt. 737 e ss c.p.c.
Anche qui il legislatore lascia aperte parecchie questioni: se in pendenza
del reclamo contro un provvedimento di ammissione il procedimento di primo
grado prosegua, resti sospeso ipso iure o possa esserlo a richiesta di parte; se la
pronuncia della Corte d’Appello sul reclamo sia o no suscettibile
d’impugnazione per cassazione (posto che sembra poter incidere in modo
anche tendenzialmente definitivo sul diritto dell’entità proponente di agire in
giudizio in forma collettiva); quali effetti abbia la dichiarazione d’inammissibilità
sulla possibilità della stessa associazione di riproporre la domanda su nuove
basi, ecc.
10.2 Altra novità introdotta dagli emendamenti apportati alla Camera è
l’espressa limitazione degli effetti dell’azione collettiva a coloro, fra i
consumatori ed utenti interessati, che vi abbiano aderito esplicitamente o che
siano intervenuti nel giudizio (c.d. “opt-in”: v. art. 140-bis, comma 5° cod. cons.).
Giova premettere che, nell’ordinamento statunitense, è stata compiuta la
scelta opposta: in linea di principio e salvo limitate eccezioni, infatti, tutti i
potenziali membri di una categoria diventano automaticamente membri della
classe e sono vincolati dalle pronunce o dai settlements raggiunti al termine
dell’azione collettiva, a meno che essi espressamente chiedano di essere esclusi
dalla categoria entro un determinato termine (c.d. “opt-outers”)42.
Desta perplessità, quindi, in generale, la scelta italiana che per ragioni di
opportunismo processuale, può, di volta in volta, o restringere notevolmente
l’ambito dei beneficiari della sentenza collettiva finale (lasciando i proponenti ad
affrontare da soli l’avversario comune) o, al contrario, allargarlo a dismisura,
anche in considerazione dei lunghissimi (troppo lunghi) termini concessi per
aderire all’azione: permettere l’adesione degli interessati “anche nel giudizio di
appello, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni” può voler dire che la
composizione della “categoria” degli aventi diritto alla liquidazione del danno
42 In materia di class action, per “opt-in” e “opt-out” s’intendono due diversi e opposti modi – e relative
procedure – di estensione agli absent class members (i membri della classe non costituiti nel giudizio)
degli effetti del procedimento in forma di class action. Il meccanismo dell’opt-in, che fino al 1966 si
riteneva applicabile alla più generica e residuale delle categorie di class action allora in vigore, la c.d.
class action “spuria” – senza peraltro che il testo normativo allora vigente prevedesse alcuna espressa
disciplina a riguardo – nega ai provvedimenti adottati sul merito dell’azione di categoria efficacia al di
là delle parti presenti in giudizio dall’origine o successivamente intervenute attraverso l’opt-in. Il
meccanismo dell’opt-out, viceversa, preferito al precedente ed espressamente regolato dai riformatori del
1966 onde evitare ingressi opportunistici nella causa compiuti all’ultimo momento, stabilisce per
principio un’efficacia delle decisioni di merito assunte in una class action estesa a tutti coloro che rientrino
nella definizione della classe compiuta con la class certification ad eccezione di quelli che, in via
individuale, chiedano l’esclusione dalla classe (detti, perciò, opt-outers). A partire dalla riforma del 1966,
dunque, il meccanismo dell’opt-in è stato sostanzialmente scartato, almeno a livello federale, in favore di
quello dell’opt-out e, in alcuni casi (quelli rientranti nelle categorie (b)(1) e (b)(2) della Rule 23 Fed. R. Civ.
P. ) di un’inclusione rigida e non derogabile delle persone rientranti nella definizione giudiziale della
classe, il che ha fatto parlare di mandatory class action.
22
acclarato in forma collettiva, dopo anni di silenzio e quiete, potrebbe
“esplodere” improvvisamente dopo la conclusione del giudizio di primo grado
e la proposizione dell’appello, anche ad anni di distanza dall’introduzione
dell’azione. Il rischio opposto è che, magari a causa di una pubblicità dell’azione
collettiva “idonea” soltanto sulla carta (estremamente generica e sciatta in
proposito è la previsione della quarta frase del comma 3° dell’art. 140-bis), ben
pochi consumatori o utenti, effettivamente informati “dei contenuti dell’azione
proposta”, finiscano per ignorare l’esistenza del processo, perdendo così
un’occasione di tutela.
10.3 Nulla è detto, invece, dalla norma circa la facoltà di intervento ad
adiuvandum di altre associazioni o altri comitati a tutela degli interessi collettivi
dei consumatori o utenti coinvolti, che non dovrebbe essere esclusa perché, a
differenza dell’intervento autonomo individuale, conforme alla ratio dell’istituto.
Si noti, poi, che l’adesione all’azione collettiva, di per sé, non assicura agli
aderenti il diritto di partecipare alla liquidazione del danno individuale
eventualmente compiuta in sede “conciliativa” camerale o speciale ex art. 38 d.
lgs. 5/2003. L’art. 140-bis, comma 6°, prima frase, infatti, esige da loro
un’ulteriore atto di adesione, invitandoli a “fa[re] domanda” (senza spiegare né in
quali modi, né in quali termini) perché anche i loro danni siano liquidati dai
“conciliatori”.
10.4 Lascia perplessi, inoltre, la concessione, ai singoli membri del gruppo
tutelato dall’associazione o dal comitato ammesso all’azione collettiva, di un
vero e proprio diritto, “sempre ammesso”, di “intervento … per proporre domande
aventi il medesimo oggetto” di quella collettiva (art. 140-bis comma 2°, seconda
frase), diritto che sembra, da un lato, distinguere nettamente tali interventori
dal novero dei meri aderenti all’azione collettiva (ibid., prima frase), ma che,
dall’altro lato, li accomuna in un eguale destino con quelli (art. 140-bis, comma
5°). Non si spiega perché costoro, che agirebbero evidentemente all’interno
della causa collettiva in via autonoma e individuale per tutelare il proprio
diritto, debbano poter partecipare autonomamente al giudizio promosso dagli
enti esponenziali, col rischio di creare contrasti, divisioni e complicazioni
nell’opera di accertamento del giudice, a tutto danno del gruppo e a tutto
vantaggio dell’avversario comune. Meglio sarebbe stato, anche per evitare
interventi effettuati al solo scopo di disturbo (magari in collusione con il
convenuto), prevedere soltanto l’alternativa fra mera adesione e azione
individuale separata, semmai concedendo agli aderenti qualche strumento di
supervisione e costante informazione dell’operato dell’associazione o del
comitato proponenti l’azione e dei relativi difensori.
10.5 Un ultimo elemento di criticità che forse avrebbe potuto essere meglio
ponderato riguarda la facoltà del giudice di “differire la pronuncia
sull’ammissibilità della domanda [di tutela collettiva] quando sul medesimo oggetto è
in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente”.
La soluzione appare del tutto inedita nell’ordinamento italiano e sembra
ispirarsi all’art. 16, primo comma, del Regolamento (CE) n. 1/2003 che
23
introduce per i giudici nazionali un esplicito vincolo di conformazione alle
decisioni in materia di concorrenza riguardanti la medesima fattispecie adottate,
o in corso di adozione da parte della Commissione europea. Tale regolamento,
tuttavia, non contempla un analogo obbligo di sospensione in capo al giudice
nazionale per il caso di procedimento pendente dinanzi all’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato (in applicazione delle norme comunitarie in
materia di concorrenza)43.
La disposizione in questione, inoltre, non fa chiarezza sulla sorte del
giudizio collettivo nell’ipotesi in cui l’istruttoria davanti all’autorità indipendente
sia stata avviata dopo la pronuncia sull’ammissibilità della domanda collettiva né
sulla possibilità del giudice di disporre misure provvisorie a seguito del
differimento di tale pronuncia44.
11.
L’azione “risarcitoria” come azione di accertamento.
Il nuovo testo dell’art. 140-bis cod. cons., a dispetto della perdurante
indicazione dell’“azione collettiva risarcitoria” nella sua rubrica, ha
assennatamente riconosciuto che la nuova azione così detta “risarcitoria” da
esso disciplinata è, in verità, un’azione diretta al mero “accertamento del diritto al
risarcimento del danno e alla restituzione delle somme”45.
Si è preso atto, in sostanza, che il procedimento collettivo disegnato dalla
disposizione sotto esame non è per nulla diretto ad ottenere né un
provvedimento di condanna collettiva, né tantomeno un risarcimento dei danni
di egual portata. Tutto ciò che potrà sortire dal compimento dell’azione
collettiva sarà, piuttosto, un provvedimento di accertamento mero con il quale
il giudice “determina i criteri in base ai quali deve essere fissata la misura dell’importo
da liquidare in favore dei singoli consumatori o utenti”. Ne è prova il fatto che il
valore di titolo esecutivo viene riconosciuto, dai commi 4° e 5°, soltanto alla
proposta di risarcimento avanzata individualmente dall’impresa riconosciuta
responsabile e accettata dal singolo avente diritto, ovvero dal verbale di
conciliazione partorito dalla camera di conciliazione istituita dal presidente del
tribunale su richiesta dei contendenti.
È evidente che il provvedimento collettivo, descritto dal comma 4° della
norma si limiterà ad accertare, da un lato, l’illiceità degli atti del convenuto in
quanto per effetto di essi siano stati “lesi gli interessi di una pluralità di
consumatori o di utenti”, come già avviene oggi nelle azioni collettive tipizzate
dal nostro ordinamento (cfr. il vigente art. 140, comma 1°, lett. a cod. cons.) 46,
43 Analogamente, il giudizio civile ex art. 33 l. 287/1990 dinanzi al giudice ordinario è ritenuto
indipendente rispetto a quello che si svolge dinanzi all’Autorità Garante. In questo senso, v. App. Milano
18 luglio 1995, in Foro it., 1996, I, 276 e App. Milano 16 maggio 2006.
La facoltà per il giudice nazionale di disporre misure provvisorie dopo aver sospeso il procedimento
per attendere una decisione della Commissione o delle Corti comunitarie è espressamente prevista al
punto 14 della Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le
giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, in GU
C101 del 27 aprile 2004, p. 54.
44
45
In tale senso, già A. SANTA MARIA, “Proposta senza appigli comunitari”, loc. cit.
46 Sul punto si veda S. MENCHINI, “Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti critici e prospettive
strumentali”,http://judicium.it/news/ins_15_05_07/convegno%20Pisa/Menchini,%20convegno%20Pis
24
aggiungendo soltanto, dall’altro lato, la novità della definizione dei “criteri in
base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli” danneggiati
individuali, con in più, ma soltanto “se possibile allo stato degli atti”, la possibilità
di determinare “la somma minima da corrispondere a ciascun consumatore o
utente”.47
Come è stato autorevolmente osservato in senso critico rispetto alle
proposte di riforma sfociate nel nuovo art. 140-bis cod. cons.: “non si dovrebbe
parlare di sentenze di condanna. Non di condanna generica perché la sentenza collettiva
non è, non può essere titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale …. Meno che mai si
potrebbe parlare di condanna in senso proprio, perché il relativo concetto rimanda di
necessità all’applicazione di una sanzione esecutiva …. Né l’uno né l’altro tipo di
sanzione sono applicabili nella c.d. sentenza collettiva risarcitoria”.48
12.
Le successive fasi del procedimento complesso.
Osservando l’ulteriore svolgimento del processo, successivo alla
pronuncia della sentenza che decide sull’azione collettiva (sul cui regime
d’impugnazioni e sull’effetto di queste sul prosieguo dell’azione nella sua fase
concretizzatrice ancora nulla colpevolmente dice testo di legge, dal quale
emerge soltanto che la sentenza è suscettibile di appello)49, sembra che, rispetto
al testo licenziato a novembre dal Senato, si sia compiuto qualche sforzo di
semplificazione, senza però riuscire a delineare con chiarezza il quadro
complessivo della fase c.d. “liquidatoria”.
La previsione di una camera “unica” di conciliazione come quella
prevista dal lungo comma 6° “implica il rovesciamento della logica giuridica
processuale, perché la conciliazione serve a prevenire le cause, altrimenti trattasi di una
"camera di transazione"50. Non è dato prevedere l’effetto di tale procedura
conciliativa sui tempi del giudizio, magari in pendenza di impugnazioni
dall’esito incerto. Come, del resto, non è prevedibile la volontà dei singoli
danneggiati, già aderenti alla fase di cognizione, di aderire alla successiva
“conciliazione camerale” (comma 6°, prima frase) anziché procedere ad un
giudizio individuale di condanna per proprio conto (su cui, ancora una volta, il
testo legislativo mantiene un silenzio tombale)51. Non si capisce, poi, se
a.html che nell’accertamento collettivo identifica, quale oggetto specifico, “non una situazione soggettiva,
ma una questione di fatto e/o di diritto”.
Tale possibilità era già prevista nel d.d.l. c.d. “Bersani” ed era stata stralciata dall’emendamento
Manzione-Bordon del 13 novembre 2007. La Camera l’ha reintrodotta.
47
48
S. CHIARLONI, “Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consumatori”, cit. supra n. 10.
49 L’esistenza del doppio grado di giurisdizione appare difficilmente compatibile con una causa
collettiva, il cui scopo è di abbreviare i tempi della tutela, dissuadere le grandi organizzazioni d’impresa
dall’approfittare della debolezza e della disorganizzazione dei singoli consumatori e di favorire, come
recita ora la rubrica del Titolo II della Parte V del Codice del Consumo (cfr. art. 2, co. 449, l. fin. cit.),
l’“accesso alla giustizia” di chi, altrimenti, difficilmente si attiverebbe in via individuale per proteggere i
diritti conculcati da controparti tanto più facoltose e agguerrite. Anche in questo caso, il legislatore
avrebbe fatto meglio a ponderare meglio le conseguenze delle proprie decisioni, eliminando un grado di
giudizio e, magari, conferendo alle Corti d’Appello la competenza per materia sulle cause collettive,
sull’esempio delle controversie in materia di nullità delle intese anticoncorrenziali.
50
Sul punto, v. G. ALPA, “Un mostro del diritto”, Il Sole 24 Ore di sabato 17 novembre 2007.
51
A. SANTA MARIA, “Proposta senza appigli comunitari” cit.
25
l’iniziativa individuale sia o no preclusa in pendenza della procedura conciliativa
collettiva52, né quale sia la sorte dell’azione individuale di condanna ove la
condanna collettiva, nel frattempo, risulti riformata o annullata in sede di
gravame.
Si aggiunga che, assai curiosamente, un legislatore così loquace sulla
composizione amichevole successiva all’accertamento della responsabilità
dell’impresa, tace del tutto sulla possibilità che il proponente l’azione collettiva e
l’impresa convenuta addivengano ad un accordo conciliativo prima che il
tribunale si pronunci sul merito della domanda, come potrebbero ben fare le
parti di qualsiasi giudizio individuale (cfr. artt. 185 c.p.c. e 88 dispp. att. c.p.c.).
Delle due l’una: o tale conciliazione è possibile, ma allora preoccupano
l’assenza di una qualsiasi regola e la mancata indicazione di alcuno strumento
volti a disciplinarne gli effetti e a verificarne la correttezza e l’idoneità a tutelare
i diritti dei singoli consumatori, oppure, come sembrerebbe preferibile, stante il
meccanismo conciliativo post sententiam appositamente disciplinato ed il silenzio
del legislatore sulle conciliazioni in corso di causa, non deve sussistere la
possibilità delle parti di raggiungere un accordo conciliativo finché il tribunale
non abbia appurato la natura lecita o illecita della condotta rimproverata
all’impresa o delle imprese convenute.
Accantonata felicemente l’inutile previsione dell’esperibilità di un
procedimento ingiuntivo da parte del consumatore-utente munito della
“sentenza di condanna” collettiva “unitamente all’accertamento della qualità di
creditore” nella successiva fase conciliativa collettiva, che, di fatto, complicava,
anziché facilitare, l’accesso alla giustizia dei consumatori ed utenti, aggiungendo
un’ulteriore, quanto superflua fase di accertamento individuale alle due
collettive, la qualità di titolo esecutivo è oggi espressamente conferita a due soli
atti:
1) il verbale di conciliazione redatto dalla camera “unica”53 e contenente la
“quantifica[zione dei] modi [dei] termini e [dell’]ammontare da corrispondere ai singoli
utenti”(art. 140-bis, co. 6, quarta frase), sempre che gli aderenti all’azione
collettiva facciano domanda per poterne profittare54, e
Secondo G. ALPA, loc. ult. cit., “la possibilità di proseguire l'azione giudiziaria nel caso che il consumatore
rimanga insoddisfatto contraddice tutta la procedura svolta fino a quel momento”.
52
L’art. 140-bis, comma 6°, quinta frase, prevede, in alternativa alla conciliazione camerale, il ricorso
agli organi e alle procedure conciliative stabilite negli artt. 38-40 d. lgs. 5/2003. Il verbale d’intesa
sottoscritto dalle parti e dall’organo conciliatore previsto dalle norme suddette costituisce titolo
esecutivo dopo l’omologazione ottenuta dal Presidente del tribunale nel cui circondario abbia sede
l’organismo di conciliazione (art. 40, co. 8°, d. lgs. 5/2003). Il rinvio a tale ulteriore procedura
conciliativa compiuto dal nuovo art. 140-bis comma 6° cod. cons. non specifica se e, se sì, quando
l’adesione dei singoli consumatori alla conciliazione “di rito societario” debba avvenire.
53
54 Il nuovo testo del comma 6° dell’art. 140-bis non precisa né forme, né modi, né tempi di questa
“domanda” di adesione al contenuto della conciliazione post causam. Pur appartenendo a un diverso
testo normativo, può forse richiamarsi il principio di libertà vigente in materia di forme degli atti
processuali e sancito dall’art. 121 c.p.c.: “gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme
determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”. Al fine di
manifestare la volontà dei singoli consumatori di aderire al contenuto della conciliazione potrebbe
dunque essere sufficiente l’invio alla sede della camera di conciliazione (presumibilmente, presso lo
studio dell’avvocato cassazionista designato a suo presidente) di una lettera raccomandata con avviso
di ricevimento.
26
2) la proposta di pagamento “liberatorio” di cui ai commi 4°, terza frase e 6°,
prima frase, dell’art. 140-bis, che l’impresa convenuta ha facoltà di avanzare agli
aderenti all’azione collettiva entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza
che accerta la sua responsabilità, purché accettata dai singoli consumatori
destinatari “in qualsiasi forma” entro 60 giorni dalla comunicazione55.
Non è più prevista l’“opportuna” pubblicizzazione della sentenza di
condanna a cura e spese della parte convenuta, allo scopo di informare il
maggior numero di consumatori e utenti interessati.
Del tutto incomprensibile la previsione del comma 11°: dopo aver
escluso, di fatto, una genuina azione risarcitoria collettiva e aver proclamato
salvo, al comma 1°,“il diritto del singolo cittadino di agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti e interessi legittimi conformemente a quanto previsto dall’art. 24 della
Costituzione”, il legislatore introduce un’azione collettiva di nullità di contratti
asseritamente viziati dalla diffusione di messaggi giudicati ingannevoli da non
meglio precisate autorità competenti (l’Autorità Garante? Lo stesso giudice
dell’azione collettiva?). Si tratta, con molta probabilità, di un’altra azione di
mero accertamento della mendacità di messaggi pubblicitari diffusi da
un’impresa, che il singolo consumatore dovrebbe poi invocare in via
individuale per esimersi dall’osservanza di un contratto, provando però in
concreto l’errore, (dovuto, in tal caso, al dolo di un terzo: c’è differenza tra
produttore e distributore di un prodotto!) il nesso causale e, se si dovesse
ritenere applicabile l’art. 1439, comma 2°, c.c., persino la conoscenza
dell’inganno della controparte.
Eliminata anche la sibillina disposizione sulle spese processuali che era
contenuta nel soppresso comma 12°: la condanna alle spese del convenuto,
infatti, è una regola generale nel nostro diritto processuale civile (art. 91 c.p.c.)
che era del tutto inutile ribadire “fuori sede”. Inoltre, il prevedere “in ogni caso”
percento del “valore della controversia”56 faceva pensare al patto di quota lite, il
55 Questa seconda, più spedita e diretta forma di liquidazione dei danni ai singoli consumatori aderenti
all’azione collettivi o in essa intervenuti solleva alcuni gravi problemi che il tenore letterale della norma
non chiarisce affatto: 1) può la proposta volontaria dell’impresa essere inferiore al minimum
eventualmente determinato dal tribunale nella sentenza che ha definito il giudizio collettivo? 2) Essa
deve essere rivolta individualmente ad ogni aderente dell’azione o può rivolgersi collettivamente e
impersonalmente a tutti i consumatori interessati nelle forme dell’art. 1989 c.c.? 3) L’accettazione del
consumatore individuale può essere sollecitata, anche individualmente, nelle forme del contratto
unilaterale ex art. 1333 c.c.? 4) Quale effetto può avere l’accettazione incondizionata del consumatore su
una proposta inferiore al minimo stabilito dal giudice rispetto al diritto minimo eventualmente
riconosciutogli in sentenza? 5) Posto che la legge fa discendere dal fallimento dell’iniziativa “spontanea”
di liberazione dell’impresa convenuta l’avvio della procedura giudiziale di conciliazione camerale, qual
è la soglia minima di rifiuti o mancate accettazioni delle proposte volontarie di liquidazione che innesca
l’apertura della conciliazione giudiziale ai sensi dell’art. 140-bis co. 6°, prima frase? 6) In caso di ricorso
alla procedura conciliativa giudiziale per fallimento della soluzione volontaria del contenzioso, qual è la
sorte delle proposte già accettate dai consumatori ed eventualmente già saldate loro dall’impresa? È
evidente che il legislatore, nonostante alcuni sforzi di migliorare il testo disastroso risultante
dall’approvazione senatoria del 15 novembre 2007, non si è tuttavia impegnato ad elaborare un’organica
e puntuale definizione di quello che pure afferma essere un “nuovo strumento generale” di tutela dei diritti
dei consumatori e degli utenti, i cui livelli di tutela la riforma aspirerebbe ad “innalzare” (cfr. art. 2,
comma 445 l. fin. cit.). Una riforma della portata e dell’importanza simbolica di quella approvata il 21
dicembre avrebbe richiesto ben altro dispendio di energie intellettuali, linguistiche e politiche e –
soprattutto – ben altra serietà e durata d’impegni da parte del Governo e del Parlamento.
56 Difficile, poi, stabilire in anticipo il valore della controversia, posto che la quantificazione delle pretese
individuali era (e in parte è ancora) differita ad un momento posteriore alla pronuncia della sentenza sul
27
cui divieto è stato recentemente abolito (l. 4 agosto 2006, n. 248), letteralmente
avrebbe potuto essere interpretata come una possibilità di dover corrispondere
ai difensori collettivi tale somma comunque, anche in caso di soccombenza delle
associazioni consumeristiche, con quale incentivo sul ricorso al mezzo
processuale che si va a introdurre, tutti possono vedere.
13.
Considerazioni conclusive.
Al termine del nostro esame, necessariamente frettoloso e meritevole di
maggiori approfondimenti quasi quanto il testo legislativo commentato, l’art.
140bis, come approvato definitivamente il 21 dicembre scorso dal Senato, con
gli emendamenti introdotti nel passaggio alla Camera, pur avendo perduto
alcune delle più evidenti “mostruosità” che gli erano state infuse nel “colpo di
mano” del novembre, appare ancora così seriamente lacunoso ed anche
talmente denso di aspetti problematici irrisolti da non modificare quel giudizio
complessivo, severo e critico, circa la sua inattitudine a fungere da “nuovo
strumento generale”, inteso “ad innalzare i livelli di tutela” a favore dei
consumatori e degli utenti italiani.
Così com’è, nutriamo il forte timore che il testo riuscirà senz’altro a
innalzare i livelli di caos del già confusionario sistema giuridico nostrano e ad
aumentare vieppiù il già possente lavoro delle giurisdizioni, ordinaria e di
legittimità costituzionale, con l’effetto generale di allungare ulteriormente la
lunghissima durata media di un ordinario procedimento civile.
Alberto Santa Maria
Davide Pozzoli
Edoardo Gambaro
Con la collaborazione di Robert A. Horowitz, Esquire, e di Serena Boscia
Montalbano, Esquire, Italian Desk at Greenberg Traurig, New York, NY.
merito, la quale è la sola sede deputata dalla legge a liquidare le spese del giudizio (cfr. art. 91, comma 1°
c.p.c.).
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