Prime considerazioni intorno alla “azione collettiva risarcitoria a
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Prime considerazioni intorno alla “azione collettiva risarcitoria a
Prime considerazioni intorno alla “azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori”, la c.d. “class action” italiana. 1. L’introduzione dell’azione collettiva. Con il voto favorevole del Senato della Repubblica di venerdì 21 dicembre 2007 su di un testo emendato dalla Camera dei Deputati è stato approvato in via definitiva il disegno di legge finanziaria per il 2008 (l. 24 dicembre 2007, n. 244)1. Fra i molteplici e diversi suoi contenuti, la legge finanziaria 2008, come è noto, reca anche, all’art. 99, l’introduzione di una “disciplina dell’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori” che, sin dal suo improvviso e affrettato apparire nel complesso articolato normativo a metà del novembre scorso, ha evocato in molti la discussa e assai popolare nozione della “class action”, vale a dire in una traduzione letterale, dell’“azione di categoria”2. Era almeno dalla tarda estate del 2007 che – dopo mesi di intensa discussione dentro e fuori del Parlamento – si attendeva (o si temeva) come imminente l’approvazione di una delle proposte di riforma legislativa pendenti 1 Pubblicata sulla GURI n. 300 del 28 dicembre 2007. Con questo atto è stato tradotto in legge il “Disegno di legge finanziaria per il bilancio annuale e pluriennale dello Stato 2008”, AS 1817, approvato il 15 novembre 2007. Il 19 novembre il testo del d.d.l. era stato trasmesso alla Camera dei Deputati, dove aveva assunto il n. C 3256. 2 Da ultimo, per questo (indebito) accostamento, v. Il Sole 24 ore del 24 dicembre 2007, p. 32, che così titolava, a grandi caratteri, l’approvazione della disciplina in esame: “Class action con filtro per le associazioni”. Fortemente critico a tal riguardo è il giudizio di A. SANTA MARIA, nell’articolo apparso sul Sole 24 Ore del 25 novembre 2007, dal titolo: “Proposta senza appigli comunitari” nel quale, in particolare vengono opportunamente messe in luce che quelle differenze di fondo esistenti nel sistema procedurale statunitense rispetto al nostro rendono di per sé assai problematica la ripetizione in questo di uno strumento processuale di portata deterrente in analogia con quello statunitense. Del resto, il testo legislativo approvato definitivamente dal Parlamento ha, almeno, il merito di evitare di adoperare il termine americano, preferendo attenersi alla struttura del procedimento disciplinato e parlando, quindi, di “azione collettiva … a tutela dei consumatori” (così la rubrica dell’art. 99 l. fin. cit. e il primo, inutile comma dello stesso). in Parlamento in materia di tutela giurisdizionale collettiva,3 presentate dalla stampa con la celebre denominazione made in USA. Come spesso da noi, l’“imminenza” della riforma era poi andata pian piano smorzandosi, dileguandosi nelle brume autunnali, nonostante qualche vampa improvvisa (come il ben noto “V-Day” grillesco, in cui una delle parole d’ordine fu proprio l’approvazione di una forma di class action anche in Italia), tanto che un precedente emendamento proposto in Commissione al d.d.l. finanziaria 2008 per introdurvi anche una disposizione sull’azione collettiva era stato prudentemente ritirato dai suoi stessi proponenti ai primi di novembre, pare su sollecitazione del Governo. Dopo mesi di oblio e alcuni segnali apparentemente volti a rimandare ad altra occasione il suo ingresso nel mondo del diritto positivo italiano, il 15 novembre 2007, su proposta dei Sen. della maggioranza Bordon e Manzione, suoi originari proponenti in Commissione, è stato in extremis reinserito nel d.d.l. finanziaria, in “dirittura d’arrivo” in aula, l’art. 53-bis contenente l’impegno a istituire e disciplinare l’azione collettiva risarcitoria a tutela dei consumatori, quale nuovo strumento generale di tutela, conformemente ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria volti ad innalzare i livelli di tale protezione, demandandone la realizzazione ad un allegato contenente il nuovo art. 140-bis cod. cons. (legge 6 settembre 2005, n. 206). 2. Sintesi della nuova disciplina. L’art. 140-bis cod. cons., nel testo precipitosamente approvato dal Senato a metà novembre (la cronaca parlamentare ha persino registrato il curioso caso di un Senatore di minoranza in lacrime per averlo erroneamente votato!), è stato in seguito emendato in più parti dalla Camera, per ricevere, infine, la definitiva approvazione del Senato nella seduta mattutina del 21 dicembre scorso. In una succinta visione del contenuto finale del nuovo articolo, meno prolisso di quello originariamente approvato a novembre (basti dire che i commi dell’art. 140-bis cod. cons. sono stati dimezzati, passando da 12 a 6), vengono definiti: - l’azione giurisdizionale posta a “tutela degli interessi collettivi dei consumatori” e diretta all’“accertamento del diritto al risarcimento dei danni e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti”, proponibile nei confronti di una “impresa”, nella cornice di “rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 del codice civile, ovvero in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali”, sempre che si sia in presenza 3 Cfr. il testo proposto dal Governo, sottoscritto dal ministro Bersani, risalente al luglio 2006 (AC 1495), che ha funto da canovaccio, attraverso l’emendamento Bordon-Manzione approvato in Senato il 15 novembre 2007, delle disposizioni che qui si commentano. Vedi, inoltre, “Disposizioni per l'introduzione della class action” (Benvenuto, AS 679); “Modifiche all'art. 140 del codice del consumo” (Maran, AC 1289); “Nuove norme in materia di azione collettiva” (Fabris AC 1330); “Disciplina dell'azione giudiziaria collettiva” (Poretti e Capezzone AC 1443); “Introduzione dell'art. 141-bis del codice di cui al decreto legislativo 6 sett. 2005” (Buemi, Turci, Fluvi, Tolotti e altri, AC 1662) a ripresa di una proposta di legge licenziata dalla Camera nel luglio 2004; “Introduzione del sistema processuale dell'azione collettiva risarcitoria” (Pedica, Grillini, Crapolicchio, AC 1834, AC 1882, AC 1883). 2 di una lesione dei “diritti di una pluralità di consumatori e di utenti” (art. 140bis, comma 1°); - la competenza per materia del tribunale, che giudicherà in composizione collegiale art. 2, comma comma 448 l. fin. cit., che modifica in tal senso l’art. 50-bis c.p.c., aggiungendovi un n° 7-bis); - la competenza territoriale del “foro dell’impresa” convenuta, dovendo la domanda proporsi, per l’appunto, “al tribunale del luogo in cui ha sede l’impresa” (art. 140-bis, comma 1°); - la legittimazione a promuovere tale azione in giudizio delle associazioni consumeristiche iscritte nell’elenco ministeriale di cui all’art. 139 cod. cons., nonché degli “altri soggetti di cui al comma 2”, che si identificano in ogni altra associazione o comitato, purché “adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere” (ibid., commi 1° e 2°); - la facoltà dei singoli consumatori e utenti, desiderosi di approfittare della tutela collettiva promossa dalle associazioni esponenziali o dagli “altri soggetti” di cui sopra, di comunicare in iscritto al soggetto proponente l’azione “la propria adesione all’azione collettiva”, che può essere spiegata lungo tutti i due gradi del giudizio di merito, “fino all’udienza di precisazione delle conclusioni” in grado d’appello (comma 2°, seconda frase); - la virtù dell’atto introduttivo dell’azione collettiva, come pure dei singoli atti di adesione spiegati dai consumatori e dagli utenti individuali nel modo appena descritto, di interrompere il corso della prescrizione “ai sensi dell’art. 2945 del codice civile” (comma 2°, terza frase); - la previsione di una cognizione sommaria e preliminare del “tribunale” (non è specificato se già in composizione collegiale o nella sola persona del giudice istruttore) in sede di prima udienza, volta ad una pronuncia di ammissibilità della domanda di tutela collettiva secondo i criteri, non meglio chiariti, della manifesta infondatezza, del conflitto d’interessi e della ravvisata inesistenza “di un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo” (comma 3°, prima frase); - la reclamabilità davanti alla Corte d’Appello, in forma camerale, dell’ordinanza con cui il tribunale si sia pronunciato sull’ammissibilità dell’azione (ibid., seconda frase); - la facoltà del giudice di “differire la pronuncia” stessa “quando sul medesimo oggetto è in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente”(ibid., terza frase); - l’onere, a cura del soggetto che ha proposto l’azione collettiva, di dare “idonea pubblicità” ai relativi contenuti, in caso di ammissione dell’azione collettiva a procedere nel merito (ibid., quarta frase); - la disciplina del contenuto della sentenza collettiva di accoglimento della domanda, la quale, accertando l’illiceità delle condotte contestate all’impresa convenuta, deve “determina[re] i criteri in base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli consumatori o utenti che hanno aderito all’azione collettiva”, giungendo, ove possibile secondo le risultanze degli atti del giudizio, a precisare il minimum che ogni singolo danneggiato ha diritto di ricevere dall’impresa responsabile dell’illecito (comma 4°, prima e seconda frase); 3 3. - la facoltà, per l’impresa giudicata responsabile dell’illecito collettivo, di proporre a ciascun avente diritto, con atto scritto comunicato agli interessati e depositato in cancelleria entro 60 giorni dalla “notificazione della sentenza”, il pagamento di una somma, la cui accettazione “in qualsiasi forma” data dal consumatore o utente “costituisce titolo esecutivo” (comma 4°, terza frase); - l’espressa previsione per cui la sentenza resa nell’azione collettiva “fa stato” non soltanto fra l’associazione o il comitato proponente e l’impresa convenuta, ma “anche nei confronti dei consumatori e utenti che hanno aderito” ad essa nelle forme già illustrate, facendo salva l’azione individuale dei consumatori o utenti rimasti comunque estranei al giudizio collettivo, per non avervi aderito ab initio o per non esservi successivamente intervenuti (comma 5°); - in caso di mancata tempestiva emissione della spontanea proposta dell’impresa responsabile o di sua mancata accettazione da parte dei destinatari entro 60 giorni dalla comunicazione, l’istituzione, a cura del Tribunale autore della sentenza di un’apposita “unica” camera di conciliazione, istituita per “la determinazione delle somme da corrispondere o da restituire ai consumatori o utenti che hanno aderito”, e composta, paritariamente, da avvocati indicati dalle parti in causa e presieduta da un avvocato cassazionista nominato dal Presidente del tribunale (comma 6°); - la “quantificazione” da parte della camera di conciliazione, in un verbale sottoscritto dal presidente avente valore di titolo esecutivo, degli estremi del risarcimento di spettanza dei singoli danneggiati, già aderenti o intervenuti al giudizio di cognizione,“che ne fanno domanda” (comma 6°, seconda e terza frase); - l’esperimento, in alternativa, su concorde richiesta del proponente l’azione collettiva e dell’impresa convenuta e per provvedimento del Presidente del tribunale, di una procedura di “composizione non contenziosa … presso uno degli organismi di conciliazione” previsti nel d. lgs. relativo al c.d. “rito societario” (artt. 38, 39 e 40 d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), con sede nel comune in cui siede il tribunale adito (comma 6°, quarta e quinta frase). Considerazioni critiche di ordine generale. Le disposizioni contenute nel testo appena riassunto, nonostante i correttivi e le semplificazioni apportati alla Camera dei Deputati e accolti dal Senato, seguitano a prestare il fianco a varie considerazioni critiche. Innanzitutto, a dispetto delle dichiarazioni e dei primi commenti riportati dalla carta stampata 4, l’azione collettiva “generale”, introdotta dall’art. 140-bis cod. cons. 5, più che una class action della quale costituisce soltanto una lontana imitazione, sembra piuttosto essere il frutto di quel disegno di generalizzazione ed estensione del modello processuale “europeo-continentale”, già oggi 4 Cfr., ancora, i titoli e il contenuto dell’articolo di G. NEGRI, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2007, “Class action con filtro per le associazioni”, cit., p. 32. 5 Il comma 3 dell’art. 99 l. fin. cit. prevede che la procedura di tutela collettiva diverrà applicabile “decorsi centottanta giorni dalla data di entrata in vigore” della legge finanziaria stessa, vale a dire dal 1° gennaio 2008: la nuova procedura sull’azione collettiva risarcitoria dovrebbe essere dunque applicabile a partire dal 29 giugno 2008. 4 disciplinato dagli artt. 139 e ss. cod. cons. e, nella sostanza, importato in Italia nel settore della tutela dei consumatori per effetto degli obblighi di adattamento ed attuazione della legislazione comunitaria, in ossequio ai principi dell’attuale Titolo XIV (già XI) del Trattato CE. L’uso, vuoi a scopo semplificatorio vuoi per fini propagandistici, del termine “class action” per definire il contenuto della nuova riforma processuale italiana in esame finisce per ingenerare confusione e per alimentare, secondo i casi, aspettative o timori, le une e gli altri ingiustificati e privi di sostanza. Non è un caso che gli autori del nuovo articolo 140-bis cod. cons. abbiano scelto di rubricare la norma “azione collettiva risarcitoria”, giusta una dizione senz’altro tecnicamente più appropriata, ben nota al nostro ordinamento 6 e designante uno schema processuale già collaudato nel diritto interno italiano: quello, appunto, dell’azione collettiva o associativa di ascendenza tedesca (la Verbandsklage prevista dalla legge tedesca sulle condizioni generali di contratto del 1976, modello dell’attuale legislazione comunitaria in materia). Molteplici sono i motivi, attinenti alle diversità in generale del sistema processuale civile statunitense rispetto al nostro, che concorrono nel non rendere facilmente traducibile lo strumento processuale di una “vera” class action nel nostro ordinamento giuridico7. Innanzitutto, hanno un ruolo importante le ben più ampie competenze attribuite al giudice statunitense nella conduzione del processo che, nello specifico di una class action, in forza della sua elevata preparazione in tema di analisi economica, gli consentono di gestire e anche orientare “secondo giustizia”, in piena autonomia, l’intera fase preliminare del procedimento sino al momento cruciale della “certificazione” della “categoria” o “classe”. Inoltre, vi è l’istituto della “discovery” che, nel sistema americano, impone a ciascuna delle parti di produrre, nella fase iniziale, determinata dal giudice nei tempi e nei contenuti e sotto il suo continuo controllo che si estrinseca anche in tempestive ordinanze, ove richiesto da una delle parti, tutti i documenti in loro possesso attinenti alla causa (e non solo quelli che ciascuna parte ritenga opportuno produrre nel proprio interesse), con un sistema, quindi, di per sé idoneo a consentire una piena conoscenza dei documenti rilevanti alla parte sulla quale grava l’onere della prova (con sensibile beneficio nei riguardi della posizione degli attori in una class action). Nel processo civile statunitense, poi, per restare agli aspetti che ci sembrano più significativi, vi sono ancora: l’interrogatorio dei testimoni, gestito da ciascuna delle parti a trecentosessanta gradi, in via diretta e in sede di controinterrogatorio; la possibilità che, con la sentenza di condanna che conclude il procedimento, vengano erogati i c.d. “punitive damages” nei confronti della parte responsabile dell’illecito, se riconosciuta colpevole di aver 6 Cfr. la rubrica dell’art. 13 d. lgs. 22 maggio 1999, n. 185, di “attuazione della direttiva 97/7/CE relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza”, oggi trasfuso nel Cod. cons. Sulle ingenti difficoltà di tradurre in termini giuridici nostrani l’istituto della class action statunitense a causa delle notevoli differenze “sistemologiche” inerenti ai due ordinamenti giuridici, si veda l’ampia e approfondita analisi di C. CONSOLO, “Class actions fuori dagli USA? (Un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima)”, Riv. dir. civ., 1993, I; 609 e ss., passim. Sullo stesso tema e dal medesimo Autore (insieme a R. B. CAPPALLI) si veda già, in lingua inglese, “Class Action for Continental Europe: A Preliminary Inquiry”, in 6 Temple Int’l and Comp. L.J., 217 (1993). 7 5 agito con dolo o colpa grave; il fatto che l’azione civile per danni sia decisa da una giuria popolare; il regime delle impugnazioni per cui, ove espressamente ammesso a seguito di un esame preliminare di “possibile” fondatezza condotto dal giudice, l’appello é di regola limitato ad un solo ulteriore grado di giudizio, con conseguente sensibile compressione dei tempi dell’intero processo rispetto alla concreta durata media di una causa italiana8. Nello specifico, lo strumento dell’azione collettiva italiana, oltre che “spuntata” per le ragioni di ordine generale sopra richiamate, si presenta come fortemente riduttivo rispetto ad una vera azione di categoria sia dal punto di vista dei soggetti coinvolti, attori e convenuto: esclusivamente identificati, i primi, in associazioni di categoria o comitati9 in rappresentanza dei “consumatori” e negli “utilizzatori”, da una norma volutamente collocata nel codice del consumo e, il secondo, in un’“impresa” o in una “serie di imprese”, sia anche ratione materiae, in considerazione dei limitati contenuti per i quali viene consentita questa nuova forma di tutela processuale. Ciò non di meno, l’azione collettiva risarcitoria ha in comune con la “class action” statunitense la ratio ad esse sottesa, volta alla migliore tutela, perseguita con l’una e con l’altra, di interessi collettivi. Su tali basi, quando utile per una migliore comprensione della nostra legge, non mancheremo, nel prosieguo, di mettere a confronto con le nostre, sia pure per sottolinearne le diversità, le soluzioni adottate dalle regole statunitensi sulla class action attualmente in vigore, tenendo conto che diverse delle modifiche introdotte recentemente in quel sistema rispondono all’esigenza, particolarmente sentita nell’opinione pubblica, di mitigare le asperità di uno strumento, considerato ormai, nello stesso paese dove ha avuto origine, non scevro di pericolosità, in una valutazione comparativa di interessi pubblici, rendendone più equilibrata l’utilizzazione10. A. SANTA MARIA, Proposta senza appigli comunitari, loc. cit. In tale articolo, nel mettere in evidenza tali profonde differenze strutturali, l’autore ricordava anche che la Commissaria per la protezione del consumatore, Meglena Kuneva, in un suo intervento alla Conference on Collective redress, dal titolo “Healthy markets need effective redress” tenuto a Lisbona il 10 novembre 2007, si è dichiarata contraria all’introduzione in Europa di una qualsiasi forma di class action e, comunque, un’eventuale azione collettiva comunitaria dovrebbe non avere il carattere punitivo della class action statunitense e in particolare, andrebbero opportunamente scoraggiate le azioni legali temerarie. 8 9 E’ noto che questo doppio passaggio è del tutto inesistente in relazione alla class action che viene proposta da avvocati, nell’interesse dei loro clienti, attuali e potenziali, portatori di un interesse collettivo o di classe. A tale riguardo sono espressamente previste forti cautele demandate al giudice fra le quali, in primis, stanno la verifica e la valutazione, rimesse alla piena discrezionalità del giudice, in merito all’idoneità dell’avvocato di rappresentare adeguatamente la difesa degli interessi collettivi in considerazione. 10 Negli anni più recenti, due sono state le grandi riforme che, a livello federale, hanno investito o condizionato la class action rule per arginarne – almeno in votis - le vere o presunte “degenerazioni”. Si tratta, per la precisione, delle numerose modifiche ed aggiunte apportate il 1° dicembre 2003 alla stessa Rule 23 Fed. R. Civ. Proc. (la disposizione processuale federale a carattere generale che definisce i presupposti e disciplina gli aspetti peculiari dei procedimenti in forma di class action intentati davanti ai giudici federali) e del successivo Class Action Fairness Act del 2005, con il quale il Congresso degli Stati Uniti ha approvato, dopo un’elaborazione e una discussione parlamentare più che decennali, ,una riforma dei criteri giurisdizionali interni attributivi delle cause in forma di class action, rispettivamente, ai giudici statali ovvero a quelli federali. Gli Amendments del 2003 hanno investito, in particolare, (a) la fase preliminare della c.d. class certification (lo stato del procedimento in cui la corte federale adita valuta se l’azione proposta in forma di class action possa legittimamente e convenientemente procedere in tale forma), regolando in dettaglio 6 Su di un piano diverso, osserviamo che, come del resto avviene per la class action nei riguardi del sistema processuale americano e del diritto privato statale (interno o anche esterno) applicabile – e ciò, nonostante le dettagliate regole che la disciplinano - il nuovo strumento italiano non ha e, con le sue poche disposizioni, non si può neppure pensare possa avere, una sua autonoma vita né da un punto di vista processuale né tanto meno sotto profili di ordine sostanziale, collocandosi nell’insieme del sistema e restando tributario tanto delle norme, generali e speciali, del diritto privato, applicabili alla situazione giuridica in considerazione in funzione dei consueti rinvii internazionalprivatistici, quanto delle regole, ordinarie o speciali, del diritto processuale civile italiano, sotto quest’ultimo profilo, determinando qualche ulteriore problema che un attento legislatore avrebbe potuto evitare. 4. Riferimenti al diritto comunitario L’inciso contenuto nel comma 445 dell’art. 2 della legge finanziaria, conformemente ad una prassi ormai di rito osservata dal nostro legislatore, richiama i “principi stabiliti dalla normativa comunitaria”, ai quali il nuovo strumento vuole adeguarsi. Si osserva sin d’ora che, in generale, l’introduzione in Europa di una qualsiasi forma di class action che ricalchi il modello dell’istituto statunitense non soltanto non è nemmeno allo studio, ma è addirittura oggetto di espresse manifestazioni di contrarietà da parte della Commissione europea11. Va detto, tuttavia, che la stessa Commissione sta vagliando l’ipotesi di introdurre in sede comunitaria un meccanismo di collective redress (per la verità, concetto vago e non meglio precisato12) a favore dei consumatori per i casi di violazione delle la selezione dell’avvocato difensore della classe, (b) la disciplina della definizione non contenziosa della lite (conciliazione, rinunzia agli atti, ecc.), precisandone le forme e le garanzie a favore dei membri assenti della classe e (c) il regime della liquidazione degli onorari e delle spese, rafforzando i poteri di vigilanza e di sindacato del giudice. Il Class Action Fairness Act del 2005 (CAFA).è intervenuto, invece, sulle norme legislative federali in materia di giurisdizione, estranee al corpo delle Federal Rules of Civil Procedure, e ha esteso la giurisdizione dei giudici federali attribuendo a questi ultimi giurisdizione su tutte le class action di valore aggregato superiore ai 5 milioni di dollari e in cui almeno un membro della classe o uno degli avversari della classe siano fra loro cittadini di Stati diversi degli Stati Uniti ovvero fra i membri della classe o fra i suoi avversari vi siano cittadini di Paesi stranieri o Stati esteri. Esso ha conferito espressamente ai giudici federali il potere di declinare la propria giurisdizione a favore di quella dei giudici statali in presenza di fattori soggettivi ed oggettivi di intenso collegamento della lite con uno specifico foro statale, ovvero, in casi di legame ancora più stretto, ha reso tale devoluzione obbligatoria. La legge ha anche introdotto alcune disposizioni volte a tutelare i “consumatori” nei casi di conciliazioni collettive comportanti prestazioni risarcitorie “in natura” (c.d. coupon settlements), onde sottoporre a limitazioni e supervisione giudiziale gli onorari difensivi, evitare discriminazioni fra membri di differente provenienza geografica, favorire l’attuazione di provvedimenti amministrativi generali o legislativi per risolvere i problemi di carattere collettivo all’origine della controversia. 11 Si rinvia al già citato discorso della Commissaria Kuneva reso il 10 novembre 2007, già cit. nella nota 8. La Commissaria Kuneva, nel citato discorso del 10 novembre 2007, ha indicato i dieci benchmarks che dovrebbero informare il c.d. collective redress. 12 7 regole poste a protezione di questi ultimi nonché di violazione delle norme sulla concorrenza13. Soltanto per completezza si segnala che, a livello comunitario, esistono specifici strumenti legislativi volti a semplificare la possibilità per i consumatori di tutelare i propri interessi collettivi14. In primo luogo, la Direttiva 98/27/CE del 19 maggio 1998 ha ravvicinato le legislazioni degli Stati membri istituendo provvedimenti inibitori uniformi a tutela degli interessi collettivi dei consumatori contemplati da una serie di specifiche direttive15. Inoltre, il Regolamento (CE) 861/2007 dell’11 luglio 2007 ha istituito un procedimento europeo per le controversie di modesta entità16. 5. Il problema della competenza giurisdizionale dei giudici italiani. L’art. 140-bis, al primo paragrafo, indica nel tribunale del luogo in cui ha sede l’impresa,17 il giudice competente avanti al quale promuovere l’ “azione collettiva risarcitoria” per l’accertamento del diritto al risarcimento del danno e V. la Comunicazione della Commissione del 13 marzo 2007 (EU Consumer Policy Strategy 2007-2013), cfr. in particolare p. 11. Cfr., altresì, il citato discorso della Commissaria Kuneva del 10 novembre 2007 nonché quello reso al convegno di Lovanio sul collective redress del 29 giugno 2007. Con specifico riferimento alle norme antitrust, si segnalano la domanda H e le opzioni 25 e 26, a p. 9 del Libro Verde della Commissione del 19 dicembre 2005 (Azioni di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie): “dovrebbero esistere procedure speciali per introdurre azioni collettive e tutelare gli interessi dei consumatori? In tal caso, che forma potrebbero assumere tali procedure?”. V., infine, il Commission Staff Working Paper, allegato al sopra citato Libro Verde , pp. 52-56. 13 14 Con il Libro Verde dell’8 febbraio 2007, Revisione dell’acquis relativo ai consumatori, la Commissione si è prefissa di rivedere otto direttive volte a tutelare i consumatori (85/577/CEE, 90/314/CEE, 93/13/CEE, 94/47/CE, 97/7/CE, 98/6/CE, 98/27/CE e 99/44/CE) al fine di realizzare il c.d. “mercato interno dei consumatori”. Alla fine del riesame – sostiene la Commissione – dovrebbe essere in teoria possibile dire ai consumatori dell’UE “Ovunque vi troviate nell’UE o ovunque facciate acquisti a partire dall’UE non fa nessuna differenza: i vostri diritti essenziali sono gli stessi”. 15 In GUCE L 166 dell’11 giugno 1998, p. 51, più volte modificata. L’Allegato I della Direttiva 98/27/CE rinvia alle seguenti direttive in materia di tutela dei consumatori: 85/577/CEE, 87/102/CEE, 89/552/CEE, 90/314/CEE, 92/28/CEE, 93/13/CEE, 94/47/CE, 97/7/CE, 99/44/CE, 2000/31/CE, 2002/65/CE, 2005/29/CE e 2006/123/CE. 16 In GU L199 del 31 luglio 2007, p. 1. 17 Il riferimento alla “sede dell’impresa” quale criterio di competenza (apparentemente) esclusivo dell’azione collettiva, frutto di un emendamento approvato dalla Camera dei Deputati nell’ultima lettura del d.d.l. finanziaria, è stato presumibilmente dettato dal lodevole scopo di estendere al di là delle sole società il campo d’applicazione della futura procedura. Ciò, si immagina, a causa delle critiche sollevate dai primi commentatori del d.d.l. licenziato al Senato il 15 novembre 2007 che alle società, appunto, aveva limitato i possibili convenuti della nuova azione. Non si può dire, tuttavia, che la scelta definitiva del legislatore sia stata particolarmente felice: al di là delle critiche alla persistente limitatezza dei soggetti convenibili in giudizio con l’azione collettiva (su cui si veda infra, nel testo), non si può fare a meno di rilevare l’evidente atecnicità ed improprietà dell’impiego di un termine qual è quello di “impresa”, che nel nostro ordinamento non designa un soggetto o una categoria di soggetti specifici, ma l’attività propria di quella categoria di soggetti che sono gli imprenditori di cui all’art. 2082 c.c. (cfr. artt. 2135, 2195, 2238 c.c.). Meglio sarebbe stato, allora, indicare negli imprenditori i potenziali convenuti delle azioni collettive, evitando inoltre di riferirsi ad una non meglio precisata “sede” che, già soltanto nel contesto societario, può designare luoghi distinti e separati, come la sede statutaria (v., ad es., l’art. 2328, co. 2°, n. 2 c.c.), quella amministrativa (cfr. art. 25, co. 1°, seconda frase, l. 218/1995), quella dell’azienda (cfr. art. 413, co. 2° c.p.c.) e via dicendo. In questo modo l’intendimento di identificare un foro esclusivo delle azioni collettive viene vanificato dalla equivocità del criterio prescelto, col rischio – già preannunciato da quanto dispone l’art. 46 c.c. in tema di sede delle persone giuridiche – di ottenere l’opposto effetto di moltiplicare i fori astrattamente competenti. 8 alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori. Trattasi evidentemente di un’indicazione della competenza per territorio in relazione alla quale, indicando quale foro competente soltanto quello dell’impresa convenuta, il legislatore della riforma ha trascurato che, in materia di tutela dei diritti dei consumatori, si è affermato in giurisprudenza un orientamento favorevole a ritenere l’inderogabilità del foro del consumatore di cui all’art. 33, comma 2°, lett. u), cod. cons., identificato in quello “di residenza o domicilio elettivo del consumatore”, che, in un’azione collettiva, ben avrebbe potuto essere individuato nel foro della sede dell’associazione o del comitato proponente l’azione collettiva. Anche sulla base di tale rilievo, contenuto nel primo paragrafo dell’art. 140bis, si dovrebbe ritenere soltanto facoltativo il foro dell’impresa convenuta determinato con tanta leggerezza nella nuova legge. Altro, poi, è il problema che si pone, anche in relazione all’azione di categoria, a monte di quello relativo alla determinazione della competenza e che attiene allo stabilire la competenza giurisdizionale del giudice italiano. 5.1 Nell’ambito dell’Unione Europea, innanzitutto, non v’è dubbio che la determinazione della competenza giurisdizionale del giudice italiano in tema di “azione collettiva”, il primo dei problemi che avrebbe dovuto correttamente porsi il legislatore, vada risolto sulla base del Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000 (Bruxelles I), come successivamente rettificato ed emendato.18 La nuova forma di azione, infatti, rientra de plano nel campo di applicazione del Regolamento (art. 1, paragrafo 1) e in nessun modo può essere ricompresa nelle esclusioni contenute nell’art. 1, paragrafo 2 del Regolamento de quo. Ne discende, pertanto, l’applicazione all’azione collettiva del criterio di base del “domicilio” o della “sede” del convenuto, persona fisica o giuridica che sia, nelle definizioni rispettivamente contenute negli artt. 59 e 60 del Regolamento. Ma, accanto al foro generale, vi sono fori speciali posti in deroga a quello e fori alternativi al medesimo. Sotto il primo profilo, vengono qui presi in considerazione i “contratti” conclusi dal “consumatore” “per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale”, nel senso ampio emergente dal Regolamento appena citato e, cioè, in relazione: (a) ad una vendita a rate di beni mobili materiali; (b) ad un prestito con rimborso rateizzato o ad un’altra operazione di credito, comuni con il finanziamento di una vendita sub a); 18 Pubblicato in GUCE L 12 del 16 gennaio 2001, pag. 1. Rettifica in GUCE L 307 del 24 novembre 2001, pag. 28, modificato dal Regolamento (CE) n. 1496/2002 della Commissione del 21 agosto 2002 (GUCE L 225 del 22 agosto 2002, pag. 13), dall’Atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica ceca, della Repubblica di Estonia, della Repubblica di Cipro, della Repubblica di Lettonia, della Repubblica di Lituania, della Repubblica di Ungheria, della Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della Repubblica di Slovenia e della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l’Unione europea (GUUE L 236 del 23 settembre 2003, pag. 33), dal Regolamento (CE) n. 1937/2004 della Commissione del 9 novembre 2004 (GUUE L 334 del 10 novembre 2004, pag. 3), dal Regolamento (CE) n. 2245/2004 della Commissione del 27 dicembre 2004 (GUUE L 381 del 28 dicembre 2004, pag. 10). 9 (c) in tutti gli altri casi, “qualora il contratto sia stato concluso con una persona le cui attività commerciali o professionali si svolgono nello Stato membro in cui è domiciliato il consumatore o sono dirette con qualsiasi mezzo, verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati che comprende tale Stato membro, purché il contratto rientri nell’ambito di tale attività” (art. 15, par. 1). In forza dell’art. 16, par. 1 e 2 dello stesso Regolamento, il consumatore ha la scelta fra citare l’altra parte contrattuale davanti ai giudici del proprio domicilio o a quelli del domicilio dell’altra parte, quest’ultima, invece, è comunque tenuta a citare il consumatore nel luogo del suo domicilio19. Poiché “i rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’art. 1342 codice civile” da consumatori o utenti, per restare alla formula della nuova legge, sono ricompresi negli articoli del Regolamento sopra menzionati, per le azioni collettive recuperatorie o di risarcimento nascenti da tali rapporti giuridici, in ipotesi di controparte straniera “comunitaria”, l’indicazione del foro dell’impresa potrà essere pacificamente disattesa dalle associazioni di consumatori o da comitati che ben potranno citare l’impresa in Italia, nel luogo dove risieda uno dei consumatori dagli stessi rappresentati. L’utilizzazione dell’espressione “consumatori e utenti” contenuta nel testo dell’art. 140-bis non deve trarre in inganno, essendo essa comunque riconducibile a situazioni giuridiche afferenti al consumatore in senso lato. Sotto un profilo lessicale, la distinzione si giustifica con il riferimento del primo termine, il “consumatore”, ai beni e del secondo, l’“utente”, ai servizi. Ma tale distinzione – lo ripetiamo – non va al di là della mera correttezza lessicale. Risulta evidente, infatti, sia dall’ampia formulazione dell’art. 15 del Regolamento (CE) n. 44/2001 sia dalle varie direttive attinenti alla materia20 che, tra i “contratti stipulati con i consumatori”, vengono comunemente ricompresi anche quei contratti che si concretizzano in un’offerta/acquisto di servizi. Nello stesso senso, del resto, sono le pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee nel caso Benincasa e nel caso Gruber nonché le conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs in quest’ultima causa21. In particolare, in più passaggi della sentenza Gruber, la Corte fa riferimento al trattamento comune riservato al consumatore in caso di “uso del bene o del servizio”22. 19 Sulla nozione di domicilio della persona fisica e di una società o altra persona giuridica si fa rinvio, rispettivamente, agli artt. 59 e 60 del Regolamento de quo. 20 V., ad esempio, la Direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, in GUCE L 95 del 21 aprile 1993. In particolare, v. gli artt. 2 e 4 nonché alcuni considerando della stessa da cui si desume che la nozione di “contratti stipulati con i consumatori” comprende anche l’offerta di servizi. In senso analogo, cfr. la Direttiva 97/7/CE del 20 maggio 1997 riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza, in GUCE L 144 del 4 giugno 1997, p. 19 (v. l’art. 2.1, definizione di “contratto a distanza”). 21 Cfr. la sentenza della Corte di giustizia del 3 luglio 1997, causa C-269/95, Benincasa, punti 11-19; le conclusioni dell’AG Jacobs del 16 settembre 2004, causa C-464/01, Gruber, punti 20-28 nonché la sentenza del 20 gennaio 2005 in quest’ultimo procedimento, in particolare ai punti 36 ss. Tali pronunce interpretano la nozione di “contratti conclusi da consumatori” ai sensi degli artt. 13-15 della Convenzione di Bruxelles (oggi artt. 15 ss. Regolamento (CE) 44/2001). Sul punto, v. anche GAMBARO –LANDI, Consumer Contracts and Jurisdiction, Recognition and Enforcement of Judgments in Civil and Commercial Matters, European Business Law Review, 5/2006, 1355. 22 V., in particolare, i punti 41, 42 e 45 della sentenza Gruber, cit. 10 5.2 La sottovalutazione, per non dire la totale noncuranza, da parte del legislatore della nuova azione collettiva, dell’esistenza di un diritto processuale civile intessuto anche di norme regolamentari comunitarie, come tali prevalenti e preminenti rispetto alle norme di diritto interno con quelle contrastanti, è dimostrato una volta di più dall’ulteriore previsione nel Regolamento CE 44/2001, fra i criteri speciali di giurisdizione, di criteri ad hoc relativi a controversie in materia di contratti di assicurazione. Fra questi, oltre che avanti al giudice del domicilio dell’attore, quando costui sia il contraente, l’assicurato o il beneficiario dell’assicurazione (art. 9, co. 1, lett. b Reg. 44/2001 cit.), la domanda può essere proposta - a scelta dell’assicurato - anche avanti al giudice nazionale del luogo in cui l’evento dannoso si è verificato, nei casi di assicurazione della responsabilità civile o sugli immobili ovvero di sinistri coinvolgenti mobili e immobili coperti dalla medesima polizza o, ancora, avanti al giudice del luogo in cui l’azione di danno contro l’assicurato sia già stata proposta (cfr. art. 11 Reg. cit.). Ancora una volta, dunque, nel caso di un’azione collettiva promossa in materia di contratti assicurativi e avente carattere “transfrontaliero” all’interno dell’Unione Europea, l’applicazione dei criteri speciali di giurisdizione previsti dagli artt. 9 - 11 Reg. CE 44/2001, senz’altro prevalenti sulle disposizioni difformi del diritto nazionale, sembrerebbe destinata a vanificare la scelta della “sede dell’impresa” convenuta quale criterio di competenza a vocazione esclusiva nel settore delle azioni collettive. Di fronte a questo ennesimo caso di “distrazione” legislativa rispetto alle conseguenze pratiche della sempre maggiore compenetrazione dell’ordinamento nazionale e di quello comunitario, le declamazioni di principio e le invocazioni dello stesso diritto comunitario e dei suoi sviluppi contenute nel “preambolo” delle disposizioni appena introdotte assumono un sapore quasi comico. 5.3 Sempre in relazione al diritto comunitario, le altre azioni collettive previste dalla nuova legge italiana, quelle, cioè, poste in essere “in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali”, nei confronti di un soggetto convenuto, persona fisica o giuridica che sia uno straniero “comunitario”, sono anche esse oggetto di un foro alternativo. Infatti, ai sensi dell’articolo 5 del Titolo II del Regolamento 44/2001, una persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere alternativamente convenuta, a scelta dell’attore, in un altro Stato membro, in particolare, “in materia di illeciti civili dolosi o colpevoli, davanti al giudice del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire” (punto 3) e ancora, “qualora si tratti di un’azione di risarcimento di danni o di restituzione, nascente da reato, davanti al giudice presso il quale è esercitata l’azione penale, sempre che secondo la propria legge tale giudice possa conoscere dell’azione civile” (punto 4). 5.4 La competenza “inderogabile”23 a favore del foro del consumatore o dell’assicurato nei termini sopra enunciati, o quella speciale del forum commissi 23 Fatte salve le soluzioni consentite nell’articolo 17 del Regolamento n. 44/2001. 11 delicti, l’una e l’altra oggetto di prescrizioni contenute in un regolamento comunitario, prevalgono – lo ripetiamo - su qualsiasi disposizione nazionale contrastante, anche se successiva. Con l’ovvia conseguenza che, nell’ambito dell’Unione Europea, il criterio contenuto nel paragrafo primo dell’art. 140-bis cod. cons. assume la semplice funzione, di per sé del tutto inutile, di richiamo al criterio generale del domicilio (sede) dell’impresa convenuta, senza in alcun modo poter escludere, quando ve ne siano le premesse, il ricorso agli altri criteri nel senso precisato. 5.5 L’esame nel caso della disciplina di diritto comune sulla giurisdizione non conduce a risultati diversi da quelli emersi in sede comunitaria, in funzione dell’espresso rinvio alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione di Bruxelles del 22 settembre dal 1986 e successive modificazioni contenute nell’art. 3, paragrafo 2, della legge 31 maggio 1995 n. 218, portante la riforma del sistema del diritto internazionale privato italiano. Infatti, in virtù dell’art. 68 del Regolamento 44/2001, “nella misura in cui il presente regolamento sostituisce, tra gli Stati membri, le disposizioni della Convenzione di Bruxelles ogni riferimento a tale convenzione si intende fatto al presente regolamento”. Ora le sezioni 2, 3 e 4 del titolo II del Regolamento de quo riguardano, rispettivamente, come si è visto, le competenze speciali, la competenza in materia di assicurazione, la competenza in materia di contratti conclusi con il consumatore e, pertanto, il richiamo alla Convenzione di Bruxelles nell’art. 3, par. 2, della l. 218/1995 è automaticamente sostituito con quello al Regolamento de quo, con la conseguenza di rendere la disciplina generale identica a quella di applicazione diretta fra gli Stati membri dell’Unione europea della normativa comunitaria sopra esaminata. 5.6 Si osserva ancora che l’individuazione del tribunale in formazione collegiale quale organo competente per conoscere delle domande di tutela giurisdizionale collettiva appare opportuna, in relazione alla verosimile complessità delle cause collettive – non solo oggettiva, ma anche soggettiva, visto il perdurante diritto dei singoli di intervenire in via litisconsortile, poco sensatamente sancito dall’art. 140-bis co. 2°, seconda frase. 5.7 Infine, è nostra opinione che l’opzione per il rito ordinario di cognizione disciplinato dagli artt. 163 e segg. c.p.c., sancita ormai in via generale per le controversie collettive a tutela di consumatori e utenti (alcuni disegni di legge in vena d’umorismo prevedevano tali cause il ricorso al rito societario, condannando la tutela collettiva dei consumatori ad un gratuito supplemento di complicazioni e costi…), renda urgente il problema di valutare la legittimità costituzionale dell’applicabilità del rito societario alle sole liti nelle “materie di al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, quando la relativa controversia è promossa da … associazioni rappresentative di consumatori …“, stabilita del tutto irragionevolmente dall’art. 1, lett. e) del d.lgs. 5/2003. 6. Il coordinamento della nuova azione risarcitoria con le altre disposizioni preesistenti a tutela del consumatore. 12 La collocazione di un procedimento che aspira ad essere, per bocca dei suoi stessi artefici, un “nuovo strumento generale di tutela nel quadro delle misure nazionali volte alla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti” (così l’art. 2, co. 445 l. fin. cit.) avrebbe meritato un più attento coordinamento con il diritto vigente in materia di tutela collettiva di consumatori e utenti. La soluzione ottimale avrebbe potuto consistere nell’inserire interamente nel corpo del codice di procedura civile la disciplina dell’azione collettiva. In alternativa, sarebbe stato opportuno quantomeno modificare e adeguare le disposizioni rilevanti dei codici generali (civile e di rito) per rendere conto delle novità che, sebbene non siano state introdotte ex novo con questa riforma, da essa sono risultate notevolmente ampliate per campo di applicazione e portata. Ciò anche in considerazione del fatto che il contenuto dell’art. 140-bis, pur essendo stato inserito nel Titolo II della parte V del codice del consumo, appare del tutto slegato dalle disposizioni circostanti relative alle azioni inibitorie a tutela dei consumatori (la cui menzione, peraltro, è stata inopinatamente cancellata dalla rubrica del Titolo II dall’art. 2, co. 449 l. fin. cit.). Ne consegue una situazione di incertezza, non sembrando possibile allo stato di riuscire a determinare se e quale parte delle disposizioni già vigenti per le inibitorie sarà ritenuta compatibile con le nuove disposizioni sulla c.d. “azione risarcitoria” e, pertanto se sarà dichiarata applicabile anche ad essa. Si pensi, per fare un solo esempio, alle astreintes irrogabili dal giudice ai sensi del comma 7° dell’art. 140 in caso di mancata ottemperanza alle inibitorie pronunciate a favore dei consumatori e degli utenti: può il giudice che dichiara la responsabilità dell’impresa convenuta e fissa i minimi di risarcimento individuale da liquidarsi successivamente comminare un’astreinte a carico dell’impresa che, entro un dato termine, boicotti ogni iniziativa volta a liquidare i risarcimenti individuali? 24. Gli artt. 2907, comma 2° e 2909 c.c., relativi, rispettivamente, all’impulso di parte della tutela giurisdizionale e ai limiti soggettivi del giudicato, l’art. 2945 c.c., riguardante, fra gli altri, l’effetto interruttivo degli atti introduttivi di un giudizio, come pure gli artt. 81 e 100 c.p.c., concernenti la legittimazione, l’interesse ad agire25, ben avrebbero potuto essere aggiornati per recare l’impronta dei “novelli” principi contenuti nella disciplina della generale azione collettiva risarcitoria. Nonostante le correzioni apportate alla Camera e, da ultimo, accolte dal Senato, il testo della riforma risente ancora molto della fretta precipitosa con cui è stato “cucito” nel già arlecchinesco tessuto della legge finanziaria, sicché può Non si comprende perché dal 1998 l’odierno art. 140 Cod. cons. (già art. 2 l. 281/1998) ammetta l’inibitoria a favore degli interessi collettivi dei consumatori virtualmente contro chiunque minacci o leda tali diritti, mentre il nuovo art. 140-bis limiti i soggetti contro cui proporre le c.d. azioni collettive risarcitorie alle sole “imprese”. Si tratta di un’altra irragionevole distinzione normativa su cui il Supremo Giudice Costituzionale sarà probabilmente presto chiamato a pronunciarsi. 24 25 Data la portata dell’art. 140-bis, co. 4° in merito al contenuto della sentenza che accoglie la domanda di tutela collettiva, forse una modificazione si sarebbe potuta apportare anche all’art. 278 c.p.c. in tema di contenuto delle sentenze di c.d. condanna generica, ancorché in dottrina si dubiti della riconducibilità a tale categoria delle sentenze collettive “di condanna” (cfr. S. CHIARLONI, “Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consumatori”, Riv. dir. proc. 2007, pp. 567 - 590, testo – integrato delle note – della relazione esposta al convegno AGIT di Roma e a quello di Pisa (disponibile anche all’indirizzo http: // judicium.it/news/ins_15_05_07/convegno % 20 Pisa / Chiarloni, %20convegno%20Pisa.html)). 13 essere in gran parte sottoscritto il giudizio dato “a caldo” da alcuni commentatori qualificati: ci troviamo al cospetto, se non proprio di un “mostro” capace di provocare “lo scardinamento del sistema processuale vigente e l’accelerazione della crisi della macchina della giustizia”26, certamente di un brutto intervento normativo, sgraziato e in più punti oscuro e lacunoso, destinato sin d’ora a una vita alquanto tribolata, piena di affanni e controversie, occasione di discussioni politiche, dibattiti dottrinali, contrasti giurisprudenziali e nuovi interventi correttivi del Parlamento. 7. L’ambito di applicazione soggettivo della nuova disciplina. Sul piano soggettivo, la scelta in favore di una legittimazione ad agire selettiva ed istituzionale, ristretta soltanto ad alcune associazioni di consumatori, anche “ulteriori” rispetto a quelle iscritte nell’elenco di cui all’art. 137 cod. cons., e ad altri indefiniti “soggetti portatori di interessi collettivi”, da designarsi per decreto ministeriale, è stata fortunatamente accantonata dalla Camera per i gravi problemi d’ordine costituzionale cui avrebbe dato luogo in punto di titolarità degli interessi collettivi, legittimità del potere governativo di determinarne i portatori autorizzati e indeterminatezza dei relativi criteri di scelta. Il campo di applicazione soggettivo della disciplina appare, ora, più ampio rispetto a quello originario, esteso com’è “anche [ad] associazioni e comitati” diversi da quelli iscritti nell’elenco ministeriale, purché ritenuti, nel caso concreto, “adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere”. Sembra, dunque, con un’importante novità, che sia abilitato ad agire collettivamente chiunque dia vita a comitati di consumatori o di utenti, costituiti ad hoc, dopo la commissione del fatto illecito e dannoso, la cui adeguatezza rappresentativa andrà perciò apprezzata dal giudice “sul campo”, vagliando il numero e la composizione degli aderenti, l’entità e la serietà degli interessi rappresentati, l’assenza di indizi di collusione o di conflitto d’interessi rispetto all’impresa convenuta in giudizio, ecc. Notevolmente restrittiva rispetto all’esperienza americana, nonostante l’accantonamento della precedente, assurda limitazione alle sole “società fornitrici di beni e servizi nazionali e locali”, appare l’indicazione dell’“impresa” come unico possibile soggetto “passivo” dell’azione collettiva. L’impiego di un termine dalla connotazione esplicitamente economica e funzionale inserisce nel novero dei potenziali convenuti forme di organizzazione giuridica diverse dalle società (si pensi alle fondazioni bancarie, in quanto in concreto esercitanti un’attività di impresa, alle associazioni temporanee d’impresa, ai consorzi, ai gruppi d’interesse economico europeo, alle associazioni o alle fondazioni private purché esercenti imprese ecc.), nonché altri soggetti giuridici svolgenti un’attività d’impresa anche se non in forma collettiva (imprenditori individuali). La dizione, tuttavia, implica tuttora l’esclusione di altri soggetti che non esercitano attività imprenditoriali in senso stretto, ma svolgono egualmente iniziative di carattere economico o tengono comunque condotte che sono 26 Così G. ALPA, loc.ult. cit. 14 dirette verso vaste classi di soggetti (sindacati, ordini professionali, associazioni fra professionisti intellettuali, ecc.), ovvero di altri soggetti ancora svolgenti attività criminali (cosche mafiose, ecc.). Ancor più distante dalla disciplina della class action statunitense, con una soluzione discutibile anche per il nostro sistema giuridico (alla luce del principio costituzionale di eguaglianza di trattamento di situazioni analoghe e del diritto inviolabile di azione e difesa giudiziaria dei diritti e degli interessi legittimi: cfr. artt. 3, 24 e 113 Cost.), è l’esclusione dalla disciplina dell’azione collettiva delle amministrazioni pubbliche. Se si considera che, almeno dal 1999, si riconosce in Italia un diritto soggettivo al risarcimento dei danni derivanti da violazione di un interesse legittimo degli amministrati da parte della pubblica amministrazione, è legittimo domandarsi se non fosse il caso di pensare a disciplinare un’ipotesi di “azione collettiva risarcitoria” anche in quest’ambito, dove si possono dare casi di condotte illegittime di autorità amministrative ricollegati ad alcune ipotesi di responsabilità privata da illecito (si pensi all’eventuale corresponsabilità omissiva dell’autorità di vigilanza sulla concorrenza e sui mercati rispetto agli illeciti commessi da un’impresa quotata, o all’omessa vigilanza della Banca d’Italia rispetto agli illeciti perpetrati da un intermediario finanziario o da un istituto di credito). Una delle class action federali più celebri, Brown v. Board of Education of the City of Topeka (1951-1954), che originò la decisione della Corte Suprema USA che pose fine alla segregazione razziale nelle istituzioni scolastiche di tutto il paese27, era originariamente un’azione intentata dinanzi alla Corte distrettuale federale del Kansas da alcuni genitori di studenti di colore contro il provveditorato agli studi della città di Topeka, reo di applicare la segregazione razziale nelle scuole locali in contrasto con la Costituzione federale, sia pur in ossequio ad una vecchia decisione della Suprema Corte degli Stati Uniti (resa in Plessy v. Ferguson28) e di leggi statali che avevano avallato la pratica di istituire scuole razziali “separate, purché eguali”. La possibilità di convenire in un giudizio di classe una administrative agency, sia essa espressione dei poteri locali, statali o federali, è in realtà risalente, posto che fra gli antesignani della attuale class action vi è la c.d. taxpayer’s suit, una sorta di azione popolare che negli Stati Uniti è (tuttora) promuovibile da qualsiasi contribuente di un ente territoriale impositore, diretta a sindacare l’impiego, da parte dell’ente stesso, delle entrate fiscali ottenute o a contestare in via generale la legittimità di un nuovo tributo dall’istituito ente. La scelta italiana, sotto tale profilo, appare riduttiva quanto miope. Basti pensare al fenomeno, attualmente balzato ai (dis)onori della cronaca nazionale, ma ormai cronicizzato da quasi un quindicennio, dell’impossibilità di smaltire i rifiuti urbani nelle aree urbane delle province campane. Un’eventuale iniziativa giudiziaria collettiva promossa da comitati ad hoc o da associazioni di tutela ambientale a risarcimento dei danni alla salute e all’ambiente provocati, potrebbe dirigersi contro le (poco solventi) imprese pubbliche, private o miste addette alla raccolta e alla distruzione o concentrazione dei rifiuti stessi, ma non 27 347 U.S. 483 (1954). 28 163 U.S. 537 (1896). 15 già contro gli enti pubblici (comuni, province, regione, Stato) cui si deve imputare, in ultima analisi, la disastrosa situazione esistente. In relazione al nuovo strumento italiano anche i possibili beneficiari dell’azione collettiva sono individuati in termini restrittivi. Si è già osservato più volte che il comma 1° dell’art. 140-bis cod. cons. parla di consumatori ed utenti, mentre anche il riferimento fatto di sfuggita agli “investitori”29, nel testo del comma 2° originariamente licenziato dal Senato, è stato soppresso. Sembrerebbero beneficiare della tutela collettiva, in tal modo, soltanto i titolari di un rapporto di consumo, di beni o servizi, attuale o potenziale ai sensi del cod. cons. Esclusi dalla categoria, dunque, oltre agli investitori, esplicitamente depennati dal legislatore, anche i lavoratori dipendenti di un’azienda, sia pure di grandi dimensioni. Escluse dalla tutela collettiva, più in generale, tutte le categorie di danneggiati che sorgono in conseguenza non di un previo rapporto di consumo, ma di un fatto illecito altrui, come le vittime di un disastro di massa (inquinamento dei suoli, dell’acqua o dell’aria, esposizione a materiali cancerogeni, ecc.). L’ambiguità dell’art. 140-bis, co. 1°, cod. cons., che si riferisce al “diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori e utenti” non soltanto nel contesto di rapporti contrattuali di serie, ma anche “in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali”, potrebbe però aprire la porta a interpretazioni estensive, nelle quali il consumatore o utente non appare più come una precisa figura giuridica (definita dall’art. 3, lett. a, cod. cons. o come risultante dalla giurisprudenza comunitaria in sede di applicazione del relativo criterio di giurisdizione), quanto piuttosto un tipo sociologico sostanzialmente equivalente al quisque de populo, vale a dire al singolo individuo vittima inerme delle conseguenze dannose di attività produttive o amministrative organizzate da soggetti professionali specializzati secondo gli schemi tecnici automatizzati e standardizzati propri della moderna società (post)industriale di massa. Nel sistema statunitense, la class action, propriamente parlando, non costituisce un remedy, vale a dire un distinto e peculiare provvedimento di tutela (al pari dei declaratory judgments, delle injunctions, delle diverse forme di damages), ma soltanto uno special procedural device, un congegno processuale speciale posto a servizio e ad ausilio dei rimedi giurisdizionali già esistenti, che esso applica su scala maggiorata e, per dir così, “all’ingrosso”, anziché “al dettaglio”. Per questo, tale azione trova applicazione, in linea di massima e salve le eccezioni espressamente stabilite con leggi speciali (come in tema di contenzioso finanziario federale), contro qualunque specie di condotta illecita “di massa”, perpetrata da qualsiasi genere di soggetto, pubblico o privato. In altri termini, non c’è alcun limite oggettivo alle violazioni tutelabili con una class action, né nei confronti di un’impresa, né di qualunque altro convenuto. Un’azione di classe può essere – ed è stata – proposta per reprimere la diffusione di informazioni false o non veritiere nel mercato dei prodotti 29 La tutela collettiva degli investitori sui mercati finanziari era stata, nel 2003, sull’onda dei recenti scandali Cirio, dei bond argentini e Parmalat, una delle ragioni delle proposte di legge che avevano introdotto la tutela collettiva “in via generale”. Cfr. I. BUFACCHI, “La strada peggiore”, Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2007, pp. 1 e 14. 16 finanziari (casi Enron e Worldcom30), per vietare l’impiego di trattamenti discriminatori o contrari ai principi costituzionali nelle scuole, nei luoghi di lavoro o nelle carceri, per sanzionare l’applicazione effettiva di prezzi di servizi pubblici superiori alle tariffe pubblicate (come nel noto caso della Yellow Cab Taxi Co.), per risarcire le vittime dirette o indirette dell’uso di prodotti industriali o di beni di consumo dannosi per la salute (es., l’amianto cancerogeno lavorato ed applicato nelle infrastrutture civili e nelle abitazioni, l’Agente Arancio impiegato senza cautele dagli avieri USA come defoliante nella guerra del Vietnam, il pericoloso contraccettivo femminile Dalkon Shield, il silicone cancerogeno impiegato nelle protesi estetiche mammarie, le sigarette assuefacenti e cancerose prodotte dalle multinazionali del tabacco senza ammonire i consumatori della pericolosità del prodotto, i modelli automobilistici immessi in commercio e risultati difettosi per un errore di progettazione o per un vizio nel processo produttivo in serie), per le vittime di disastri ecologici (Bhopal) o ancora per recuperare indebiti arricchimenti ai danni di vittime di persecuzioni (il caso delle banche svizzere nei confronti dei correntisti ebrei colpiti dall’Olocausto cui ha fatto seguito quello delle compagnie di assicurazione, tedesche, francesi, italiane e svizzere per gli assicurati vittime dell’Olocausto31), per risarcire i familiari di persone decedute in disastri civili evitabili o in gravi attentati terroristici (vittime dell’uragano Katrina e delle conseguenti alluvioni o ancora le vittime del World Trade Center). 8. Le limitazioni dell’utilizzazione della nuova azione collettiva ratione materiae. Sul piano oggettivo, tutelabili in via collettiva, come è ovvio, sono quei diritti che ledono “una pluralità di consumatori o di utenti”. Tali diritti, individuati dalla legge in via tassativa, riguardano, in primis, i “rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’articolo 1342 c.c.”: sembrerebbe, perciò, che, ove si tratti di rapporti contrattuali non rientranti nella nozione dei contratti standard (si pensi ai viaggiatori dei mezzi pubblici, rientranti piuttosto nella fattispecie dell’art. 1341 c.c., tuttora non considerata dalla norma) nessuna azione collettiva sia ammissibile; il che, nonostante le modifiche testuali apportate al testo originario, è palesemente un non senso 32. Anche a tale proposito sarebbe stato più opportuno che il legislatore, anziché rinviare all’articolo in questione, facesse diretto riferimento alla fattispecie oggetto dell’art. 1342 c.c., vale a dire ai “contratti conclusi mediante moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali”. Meglio ancora sarebbe stato riferirsi anche ai rapporti individuati dall’art. 1341 c.c., rappresentati dai contratti nei quali il regolamento contrattuale non è contenuto in moduli o formulari standard fatti sottoscrivere dal predisponente, ma in “condizioni generali di contratto predisposte da uno dei Quest’ultimo caso è stato seguito anche dal nostro Studio, attraverso l’Italian Desk di New York, nell’interesse di un istituto di credito italiano. 30 31 Altro caso al quale ha fattivamente partecipato l’Italian Desk del nostro Studio nell’interesse di una compagnia di assicurazione italiana. 32 Sul punto, cfr. G. ALPA, “Un mostro del diritto”, cit. 17 contraenti” e non sottoposte all’adesione delle controparti, onde evitare che tale genere di rapporti sfugga, senza valida ragione, alla disciplina dell’azione collettiva33. Il rinvio formale all’art. 1342 c.c. comporta un ulteriore, paradossale inconveniente, che si riallaccia a quanto già osservato sopra in merito alla noncuranza sostanzialmente mostrata dal legislatore per tutto ciò che concerne i rapporti del nostro diritto nazionale con il diritto comunitario. Infatti, la disciplina dell’art. 1342 c.c. (così come quella dell’art. 1341 c.c.) è attualmente poco indicata a fungere da punto di riferimento ideale della tutela del consumatore, posto che, almeno dal 199634, è stata in larga misura soppiantata dalla disciplina speciale delle clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore, contenuta nella Direttiva CEE 93/13 e negli artt. 1469-bis e seguenti (dal 2006 trasfusi negli artt. 33 e ss. cod. cons.) Appare singolare che, in un testo che ambisce a fornire ai consumatori una nuova forma di tutela giurisdizionale, il campo di applicazione della novella disciplina processuale sia in parte identificato richiamando disposizioni la cui applicazione alla categoria dei consumatori è da ritenere, nella migliore delle ipotesi, soltanto residuale35. In base all’art. 140-bis, poi, consumatori e utenti possono altresì esercitare l’azione collettiva per il risarcimento di danni spettanti ai singoli “in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali illecite o di comportamenti anticoncorrenziali”, la cui pertinenza rispetto agli aventi diritto, tuttavia, non è sempre chiara. Si pensi al caso in cui gli atti illeciti subiti dalle categorie considerate, pur provenendo da un’impresa, abbiano un collegamento soltanto indiretto con il c.d. rapporto di consumo o non abbiano alcun collegamento con esso, come nel caso di danno da prodotto difettoso, o di un danno collettivo cagionato da un disastro di massa. Sotto questo profilo, gli emendamenti correttivi introdotti dalla Camera non hanno dissolto i dubbi preesistenti: è credibile che, di fronte alla caduta di un aereo, al deragliamento di un treno, alla distribuzione di un alimento nocivo per la salute o all’esposizione collettiva ad un prodotto pericoloso, sia accordata una tutela diversa a seconda che si abbia a che fare con un passeggero o un consumatore pagante o, invece, con un terzo, egualmente feriti o deceduti a causa dall’incidente o dell’esposizione alla sostanza nociva, l’uno beneficiato dal “privilegio” dell’azione collettiva e l’altro no? Ci si chiede inoltre: quali comportamenti anticoncorrenziali potranno essere mai invocati dalle associazioni consumeristiche o dai comitati di consumatori o di utenti, posto che in questi casi il danno investirebbe, piuttosto che i primi, le imprese concorrenti? L’inclusione dell’art. 1342 e non dell’art. 1341 c.c. nel campo di applicazione della nuova disciplina dell’art. 140bis cod. cons. potrebbe condurre, ad esempio, alla poco ragionevole conseguenza di permettere la tutela risarcitoria collettiva dei titolari dell’abbonamento ad un servizio di trasporto pubblico urbano o interurbano (sottoscrittori, di regola, di un modulo prestampato al momento della stipula dell’abbonamento), ma ad escludere la medesima tutela ai semplici passeggeri occasionali di quello stesso servizio, titolari di un mero biglietto di viaggio e soggetti alle condizioni generali di trasporto predisposte dal vettore. 33 34 In forza della Dir. CE 93/13 del 5 aprile 1993, attuata in Italia con la l. 6 febbraio 1996, n. 52, che aggiunse al codice civile gli artt. 1469 da -bis a - sexies, poi in parte riassorbiti nel codice del consumo. 35 Cfr. G. GAZZONI, Manuale di diritto privato, XII ed., Napoli, 2006, pp. 905 e ss. 18 Paventiamo anche soltanto l’idea che l’originaria eccessiva limitatezza delle ipotesi in relazione alle quali sembra essere attualmente consentito l’esercizio dell’azione collettiva si possa prestare a futuri interventi legislativi comportanti non tanto le opportune (se non necessarie) correzioni al meccanismo di funzionamento del nuovo strumento qui evidenziate quanto allargamenti ed integrazioni ratione materiae, seguendo il deleterio esempio di quanto avvenuto in relazione alla legge n. 231 del 2001. 9. L’esercizio dell’azione collettiva e la prescrizione. La quarta frase del comma 2° dell’art. 140-bis sancisce che “l’esercizio dell’azione collettiva di cui al comma 1 o, se successiva, l’adesione all’azione collettiva, produce gli effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell’articolo 2945 del codice civile”. Si tratta di una disposizione di notevole importanza perché, facendo decorrere l’interruzione della prescrizione dall’atto individuale di adesione alla causa collettiva, implicitamente esclude l’effetto interruttivo collettivo della prescrizione da parte della domanda proposta dalle associazioni esponenziali o dai comitati previsti dal co. 1° e dal co. 2°, prima frase. Qui gli emendatori del testo novembrino approvato dal Senato hanno fatto un gran passo indietro rispetto alla soluzione accolta in quella sede, dove si prevedeva che “l’atto con cui il soggetto abilitato promuove l’azione collettiva … produce gli effetti interruttivi della prescrizione … anche con riferimento ai diritti di tutti i singoli consumatori o utenti conseguenti al medesimo fatto o violazione” (v. il co. 3° del testo del d.d.l. licenziato il 15 novembre 2007). La modifica appare il frutto di un eccesso di prudenza e di obbedienza ai dettami di un’interpretazione rigida dell’art. 24 Cost., ma è gravida di potenziali conseguenze negative per gli stessi consumatori e utenti i quali, pur venuti a conoscenza della pendenza dell’azione collettiva, si convincano di attendere la pronuncia in primo grado o l’appello per poi eventualmente prestare la propria adesione in extremis, senza sapere che, frattanto, il tempo corre e con esso il termine di prescrizione. Tale disposizione, poi, è anche in patente contraddizione con l’ampiezza dei termini concessi per aderire all’azione, durante i quali i diritti individuali dei consumatori sono esposti, appunto al rischio dell’estinzione per inattività: siamo ben lontani dal modello della class action americana36. Sarebbe opportuno, almeno, che il giudice, nel dare le prescrizioni opportune per le forme di “idonea pubblicità” dell’ordinanza di ammissione dell’azione collettiva previste nell’art. 140-bis, co. 3, quarta frase, indichi fra i “contenuti dell’azione” da comunicare alla massa dei consumatori o utenti coinvolti, anche l’avvertimento che, senza l’espressa adesione di ciascuno di essi, i termini di prescrizione seguiteranno a decorrere. 36 Nel diritto federale statunitense la proposizione di una class action ha sempre l’effetto di interrompere i termini di prescrizione dei diritti dei membri della classe interessata, e ciò a decorrere dal momento in cui il class complaint (la domanda di tutela collettiva) è proposto, prima ancora, cioè, che il giudice lo ammetta a procedere come tale. Questa regola – che appartiene al case law e non è riprodotta nei testi normativi in materia – vale anche per le procedure previste dalle singole normative degli Stati federati. Cfr. A. GIUSSANI, Studi sulle “class actions”, Padova, 1996, p. 295. 19 10. La prima fase del procedimento complesso. Il testo definitivamente approvato introduce, alla prima udienza davanti ad un non meglio definito “tribunale” (il collegio? Il giudice istruttore?), una sorta di “certification hearing”, un momento di pallida, infinitesima somiglianza del giudizio collettivo italiano con la class action americana. Il “tribunale” vi dovrebbe svolgere, attraverso un giudizio di ammissibilità della domanda di tutela collettiva, una sorta di “filtraggio” delle istanze presentate, alla luce di tre criteri ispiratori: 1) la non manifesta infondatezza della domanda, 2) l’inesistenza di conflitti d’interessi e 3) la verificazione della “esistenza di un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo”. Al di là di un evidente intento dissuasivo nei riguardi di iniziative vessatorie, ricattatorie o abusive da parte degli attori collettivi, nessuno dei tre criteri di giudizio esposti è descritto con adeguato dettaglio, lasciando ai giudici la piena discrezionalità di stabilire – anzi di “ravvisare”, per esprimerci come il legislatore – che cosa vada inteso per manifesta infondatezza della domanda, che cosa per conflitto d’interessi (fra associazione proponente e impresa convenuta? Fra membri dell’associazione stessa e la detta impresa? Fra difensore dell’associazione e convenuto?) e in che cosa, infine e soprattutto, consista l’esistenza di un interesse collettivo suscettibile di tutela adeguata 37. È certo soltanto che il giudice, nello svolgimento della sua delibazione preliminare, dovrà decidere “sentite le parti e assunte, quando occorre, sommarie informazioni”, senza dunque poter svolgere un’istruttoria vera e propria nel merito delle domande attrici; questa potrà avere inizio soltanto dopo l’ammissione delle stesse alla procedura collettiva. Si tratta, come è evidente, di espressioni vaghe, prive di qualsivoglia contenuto denotativo, il cui significato viene perciò “delegato” in toto all’opera dei commentatori e, soprattutto, alle determinazioni della giurisprudenza, senza neppure l’ombra di una indicazione di massima o di una direttiva da parte del frettoloso legislatore, anche soltanto in sede di Relazione alla legge. Anche nel diritto statunitense, la class action rule detta criteri e linee direttrici di tenore generico, rimettendosi, nella sostanza, ai consueti ampi poteri discrezionali del Giudice. Così, ad esempio, la Rule 23 (a)(1) si limita a stabilire che “uno o più membri”38 di una classe possono agire o resistere in giudizio in qualità di parti rappresentative della stessa quando “la classe sia così Secondo un primissimo commento alla disposizione, l’esistenza di un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela andrebbe esclusa “quando non c’è congruità tra lo strumento dell’azione collettiva e l’interesse che si intende far valere” (così, piuttosto enigmaticamente, G. NEGRI, “Class action con filtro”, ecc., cit.). Uno dei consulenti giuridici degli autori del testo riformato, A. Zoppini, richiesto di illustrare le ragioni del “filtro” preliminare introdotto alla Camera, ha spiegato i due elementi della non manifesta infondatezza e dell’interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela affermando che “non ogni controversia contro un’impresa è adatta a essere giudicata attraverso un’azione collettiva risarcitoria: deve trattarsi di una causa che effettivamente presenta elementi di serialità e che quindi consente di deflazionare il contenzioso civile”, aggiungendo che, per ammettersi un’azione in forma collettiva “deve … essere fondata la possibilità di accoglimento e deve effettivamente sussistere una omogeneità sostanziale delle pretese vantate” (G. NEGRI, “L’irretroattività è evidente”, Intervista a A. Zoppini, ne Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2007, a p. 32). 37 38 Non esiste, dunque, alcuna regola che stabilisca in uno soltanto il numero dei class representatives, i quali possono anche assommare a due o più, come del resto è esplicitamente ammesso sia dalla Rule 23 (a) (1), sia dalla Rule 23 (c)(4), che prevede la possibilità, per il Giudice, di suddividere la classe in sottoclassi, con conseguente nomina di altrettanti “rappresentanti”. 20 numerosa che il litisconsorzio di tutti sarebbe impraticabile”, senza precisare quale sia il numero di membri al di sopra del quale l’impraticabilità dovrebbe manifestarsi. Talora i giudici di merito hanno indicato in una o più dozzine, ovvero in una cinquantina o in un centinaio il numero minimo di persone necessarie a soddisfare il requisito della numerosità di cui alla subdivision (a)(1), ma si è perlopiù trattato di decisioni che ammettevano un’azione come class action in virtù del raggiungimento di tali soglie minime, il cui valore è puramente indicativo e non tassativo, posto che la stessa class action rule sembra porre l’accento non tanto sulla quantità minima per poter definire “troppo numerosa” una classe, quanto sul concetto di impraticabilità del litisconsorzio, che per ragioni contingenti può aversi anche in presenza di categorie assai ristrette. Ugualmente, la persona che agisce in qualità di rappresentante deve affermare la titolarità di pretese che siano “tipiche rispetto alle pretese … della categoria” e, al tempo stesso, deve dare affidamento di“proteggere in maniera corretta, leale ed adeguata gli interessi della classe” (Rule 23 (a)(3) e (a)(4)), così come il difensore della categoria deve essere idoneo a tutelare “in modo leale, corretto ed adeguato” gli interessi della classe (Rule 23 (g)(2)): nulla di preciso, tuttavia, si richiede circa, ad es., la solidità finanziaria del rappresentante e del difensore, l’organizzazione di quest’ultimo o la sua preparazione nelle materie controverse. Ancora una volta, i redattori della Rule 23 si sono limitati a dettare – e soltanto dal 200339 – alcuni lineamenti di massima, chiedendo al Giudice di tenere in considerazione, al momento della nomina del difensore di classe, l’opera già svolta nella preparazione dell’azione, la sua esperienza in materia di class action e nelle questioni di merito coinvolte, la sua conoscenza del diritto materiale applicabile. 40 Ribadiamo, per altro, che la convergenza della disciplina statunitense con quella italiana in relazione al tema qui in considerazione è soltanto apparente. Non va infatti dimenticato l’ampio potere discrezionale di cui il giudice americano generalmente gode con riguardo all’intera gamma di azioni civili41. 39 La riforma della class action rule disposta nel 2003 è stata sancita, in ossequio alle peculiari norme vigenti nel sistema federale americano in materia di disciplina del processo civile, con ordinanza della Corte Suprema resa il 27 marzo 2003, preceduta da una proposta formulata da un’apposita commissione tecnica mista (la Judicial Conference of the United States, composta da giudici, professori e professionisti legali e a sua volta assistita da un comitato permanente e da alcune sottocommissioni consultive suddivise per materia) e seguita dalla approvazione – tacita – del Congresso federale. Il testo così approvato è entrato in vigore, come detto, il 1° dicembre 2003. Non si dimentichi che una class action federale, quando non abbia ad oggetto diritti stabiliti immediatamente da leggi federali (federal law question), può avere luogo per ragioni di “diversità di cittadinanza” (interna od estera: c.d. ”diversity of citizenship) delle parti coinvolte. Ciò può comportare che davanti al foro federale si debbano applicare norme materiali di ordinamenti statali interni diversi da quello locale o, nei casi transnazionali, leggi materiali straniere. 40 41 In alcuni casi speciali, tuttavia, le leggi federali hanno introdotto più dettagliati requisiti di ammissibilità delle azioni di classe relative a particolari materie, quale quella dei titoli negoziabili su mercati regolamentati (public securities). Il Public Securities Litigation Reform Act of 1995 (PSLRA), infatti, ha introdotto una disciplina ad hoc per le class action in materia di violazione delle disposizioni federali sull’offerta e sul commercio di titoli negoziabili, stabilendo una più accurata e formalizzata selezione del c.d. lead plaintiff, l’attore in giudizio che litiga per conto dell’intera classe degli investitori defraudati o danneggiati dall’illecito finanziario, oltre ad una più rigorosa valutazione del difensore della classe. 21 10.1 L’ordinanza che pronuncia sull’ammissibilità dell’azione collettiva – e che, verisimilmente, dovrà anche pronunciarsi sulla “adeguata rappresentatività” delle associazioni o dei comitati di cui al co. 2° dell’art. 140-bis cod. cons. è reclamabile in Corte d’Appello nelle forme del giudizio camerale, cui difficilmente saranno applicabili – per incompatibilità funzionale – le disposizioni di cui agli artt. 737 e ss c.p.c. Anche qui il legislatore lascia aperte parecchie questioni: se in pendenza del reclamo contro un provvedimento di ammissione il procedimento di primo grado prosegua, resti sospeso ipso iure o possa esserlo a richiesta di parte; se la pronuncia della Corte d’Appello sul reclamo sia o no suscettibile d’impugnazione per cassazione (posto che sembra poter incidere in modo anche tendenzialmente definitivo sul diritto dell’entità proponente di agire in giudizio in forma collettiva); quali effetti abbia la dichiarazione d’inammissibilità sulla possibilità della stessa associazione di riproporre la domanda su nuove basi, ecc. 10.2 Altra novità introdotta dagli emendamenti apportati alla Camera è l’espressa limitazione degli effetti dell’azione collettiva a coloro, fra i consumatori ed utenti interessati, che vi abbiano aderito esplicitamente o che siano intervenuti nel giudizio (c.d. “opt-in”: v. art. 140-bis, comma 5° cod. cons.). Giova premettere che, nell’ordinamento statunitense, è stata compiuta la scelta opposta: in linea di principio e salvo limitate eccezioni, infatti, tutti i potenziali membri di una categoria diventano automaticamente membri della classe e sono vincolati dalle pronunce o dai settlements raggiunti al termine dell’azione collettiva, a meno che essi espressamente chiedano di essere esclusi dalla categoria entro un determinato termine (c.d. “opt-outers”)42. Desta perplessità, quindi, in generale, la scelta italiana che per ragioni di opportunismo processuale, può, di volta in volta, o restringere notevolmente l’ambito dei beneficiari della sentenza collettiva finale (lasciando i proponenti ad affrontare da soli l’avversario comune) o, al contrario, allargarlo a dismisura, anche in considerazione dei lunghissimi (troppo lunghi) termini concessi per aderire all’azione: permettere l’adesione degli interessati “anche nel giudizio di appello, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni” può voler dire che la composizione della “categoria” degli aventi diritto alla liquidazione del danno 42 In materia di class action, per “opt-in” e “opt-out” s’intendono due diversi e opposti modi – e relative procedure – di estensione agli absent class members (i membri della classe non costituiti nel giudizio) degli effetti del procedimento in forma di class action. Il meccanismo dell’opt-in, che fino al 1966 si riteneva applicabile alla più generica e residuale delle categorie di class action allora in vigore, la c.d. class action “spuria” – senza peraltro che il testo normativo allora vigente prevedesse alcuna espressa disciplina a riguardo – nega ai provvedimenti adottati sul merito dell’azione di categoria efficacia al di là delle parti presenti in giudizio dall’origine o successivamente intervenute attraverso l’opt-in. Il meccanismo dell’opt-out, viceversa, preferito al precedente ed espressamente regolato dai riformatori del 1966 onde evitare ingressi opportunistici nella causa compiuti all’ultimo momento, stabilisce per principio un’efficacia delle decisioni di merito assunte in una class action estesa a tutti coloro che rientrino nella definizione della classe compiuta con la class certification ad eccezione di quelli che, in via individuale, chiedano l’esclusione dalla classe (detti, perciò, opt-outers). A partire dalla riforma del 1966, dunque, il meccanismo dell’opt-in è stato sostanzialmente scartato, almeno a livello federale, in favore di quello dell’opt-out e, in alcuni casi (quelli rientranti nelle categorie (b)(1) e (b)(2) della Rule 23 Fed. R. Civ. P. ) di un’inclusione rigida e non derogabile delle persone rientranti nella definizione giudiziale della classe, il che ha fatto parlare di mandatory class action. 22 acclarato in forma collettiva, dopo anni di silenzio e quiete, potrebbe “esplodere” improvvisamente dopo la conclusione del giudizio di primo grado e la proposizione dell’appello, anche ad anni di distanza dall’introduzione dell’azione. Il rischio opposto è che, magari a causa di una pubblicità dell’azione collettiva “idonea” soltanto sulla carta (estremamente generica e sciatta in proposito è la previsione della quarta frase del comma 3° dell’art. 140-bis), ben pochi consumatori o utenti, effettivamente informati “dei contenuti dell’azione proposta”, finiscano per ignorare l’esistenza del processo, perdendo così un’occasione di tutela. 10.3 Nulla è detto, invece, dalla norma circa la facoltà di intervento ad adiuvandum di altre associazioni o altri comitati a tutela degli interessi collettivi dei consumatori o utenti coinvolti, che non dovrebbe essere esclusa perché, a differenza dell’intervento autonomo individuale, conforme alla ratio dell’istituto. Si noti, poi, che l’adesione all’azione collettiva, di per sé, non assicura agli aderenti il diritto di partecipare alla liquidazione del danno individuale eventualmente compiuta in sede “conciliativa” camerale o speciale ex art. 38 d. lgs. 5/2003. L’art. 140-bis, comma 6°, prima frase, infatti, esige da loro un’ulteriore atto di adesione, invitandoli a “fa[re] domanda” (senza spiegare né in quali modi, né in quali termini) perché anche i loro danni siano liquidati dai “conciliatori”. 10.4 Lascia perplessi, inoltre, la concessione, ai singoli membri del gruppo tutelato dall’associazione o dal comitato ammesso all’azione collettiva, di un vero e proprio diritto, “sempre ammesso”, di “intervento … per proporre domande aventi il medesimo oggetto” di quella collettiva (art. 140-bis comma 2°, seconda frase), diritto che sembra, da un lato, distinguere nettamente tali interventori dal novero dei meri aderenti all’azione collettiva (ibid., prima frase), ma che, dall’altro lato, li accomuna in un eguale destino con quelli (art. 140-bis, comma 5°). Non si spiega perché costoro, che agirebbero evidentemente all’interno della causa collettiva in via autonoma e individuale per tutelare il proprio diritto, debbano poter partecipare autonomamente al giudizio promosso dagli enti esponenziali, col rischio di creare contrasti, divisioni e complicazioni nell’opera di accertamento del giudice, a tutto danno del gruppo e a tutto vantaggio dell’avversario comune. Meglio sarebbe stato, anche per evitare interventi effettuati al solo scopo di disturbo (magari in collusione con il convenuto), prevedere soltanto l’alternativa fra mera adesione e azione individuale separata, semmai concedendo agli aderenti qualche strumento di supervisione e costante informazione dell’operato dell’associazione o del comitato proponenti l’azione e dei relativi difensori. 10.5 Un ultimo elemento di criticità che forse avrebbe potuto essere meglio ponderato riguarda la facoltà del giudice di “differire la pronuncia sull’ammissibilità della domanda [di tutela collettiva] quando sul medesimo oggetto è in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente”. La soluzione appare del tutto inedita nell’ordinamento italiano e sembra ispirarsi all’art. 16, primo comma, del Regolamento (CE) n. 1/2003 che 23 introduce per i giudici nazionali un esplicito vincolo di conformazione alle decisioni in materia di concorrenza riguardanti la medesima fattispecie adottate, o in corso di adozione da parte della Commissione europea. Tale regolamento, tuttavia, non contempla un analogo obbligo di sospensione in capo al giudice nazionale per il caso di procedimento pendente dinanzi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in applicazione delle norme comunitarie in materia di concorrenza)43. La disposizione in questione, inoltre, non fa chiarezza sulla sorte del giudizio collettivo nell’ipotesi in cui l’istruttoria davanti all’autorità indipendente sia stata avviata dopo la pronuncia sull’ammissibilità della domanda collettiva né sulla possibilità del giudice di disporre misure provvisorie a seguito del differimento di tale pronuncia44. 11. L’azione “risarcitoria” come azione di accertamento. Il nuovo testo dell’art. 140-bis cod. cons., a dispetto della perdurante indicazione dell’“azione collettiva risarcitoria” nella sua rubrica, ha assennatamente riconosciuto che la nuova azione così detta “risarcitoria” da esso disciplinata è, in verità, un’azione diretta al mero “accertamento del diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme”45. Si è preso atto, in sostanza, che il procedimento collettivo disegnato dalla disposizione sotto esame non è per nulla diretto ad ottenere né un provvedimento di condanna collettiva, né tantomeno un risarcimento dei danni di egual portata. Tutto ciò che potrà sortire dal compimento dell’azione collettiva sarà, piuttosto, un provvedimento di accertamento mero con il quale il giudice “determina i criteri in base ai quali deve essere fissata la misura dell’importo da liquidare in favore dei singoli consumatori o utenti”. Ne è prova il fatto che il valore di titolo esecutivo viene riconosciuto, dai commi 4° e 5°, soltanto alla proposta di risarcimento avanzata individualmente dall’impresa riconosciuta responsabile e accettata dal singolo avente diritto, ovvero dal verbale di conciliazione partorito dalla camera di conciliazione istituita dal presidente del tribunale su richiesta dei contendenti. È evidente che il provvedimento collettivo, descritto dal comma 4° della norma si limiterà ad accertare, da un lato, l’illiceità degli atti del convenuto in quanto per effetto di essi siano stati “lesi gli interessi di una pluralità di consumatori o di utenti”, come già avviene oggi nelle azioni collettive tipizzate dal nostro ordinamento (cfr. il vigente art. 140, comma 1°, lett. a cod. cons.) 46, 43 Analogamente, il giudizio civile ex art. 33 l. 287/1990 dinanzi al giudice ordinario è ritenuto indipendente rispetto a quello che si svolge dinanzi all’Autorità Garante. In questo senso, v. App. Milano 18 luglio 1995, in Foro it., 1996, I, 276 e App. Milano 16 maggio 2006. La facoltà per il giudice nazionale di disporre misure provvisorie dopo aver sospeso il procedimento per attendere una decisione della Commissione o delle Corti comunitarie è espressamente prevista al punto 14 della Comunicazione della Commissione relativa alla cooperazione tra la Commissione e le giurisdizioni degli Stati membri dell’UE ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, in GU C101 del 27 aprile 2004, p. 54. 44 45 In tale senso, già A. SANTA MARIA, “Proposta senza appigli comunitari”, loc. cit. 46 Sul punto si veda S. MENCHINI, “Azioni seriali e tutela giurisdizionale: aspetti critici e prospettive strumentali”,http://judicium.it/news/ins_15_05_07/convegno%20Pisa/Menchini,%20convegno%20Pis 24 aggiungendo soltanto, dall’altro lato, la novità della definizione dei “criteri in base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli” danneggiati individuali, con in più, ma soltanto “se possibile allo stato degli atti”, la possibilità di determinare “la somma minima da corrispondere a ciascun consumatore o utente”.47 Come è stato autorevolmente osservato in senso critico rispetto alle proposte di riforma sfociate nel nuovo art. 140-bis cod. cons.: “non si dovrebbe parlare di sentenze di condanna. Non di condanna generica perché la sentenza collettiva non è, non può essere titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale …. Meno che mai si potrebbe parlare di condanna in senso proprio, perché il relativo concetto rimanda di necessità all’applicazione di una sanzione esecutiva …. Né l’uno né l’altro tipo di sanzione sono applicabili nella c.d. sentenza collettiva risarcitoria”.48 12. Le successive fasi del procedimento complesso. Osservando l’ulteriore svolgimento del processo, successivo alla pronuncia della sentenza che decide sull’azione collettiva (sul cui regime d’impugnazioni e sull’effetto di queste sul prosieguo dell’azione nella sua fase concretizzatrice ancora nulla colpevolmente dice testo di legge, dal quale emerge soltanto che la sentenza è suscettibile di appello)49, sembra che, rispetto al testo licenziato a novembre dal Senato, si sia compiuto qualche sforzo di semplificazione, senza però riuscire a delineare con chiarezza il quadro complessivo della fase c.d. “liquidatoria”. La previsione di una camera “unica” di conciliazione come quella prevista dal lungo comma 6° “implica il rovesciamento della logica giuridica processuale, perché la conciliazione serve a prevenire le cause, altrimenti trattasi di una "camera di transazione"50. Non è dato prevedere l’effetto di tale procedura conciliativa sui tempi del giudizio, magari in pendenza di impugnazioni dall’esito incerto. Come, del resto, non è prevedibile la volontà dei singoli danneggiati, già aderenti alla fase di cognizione, di aderire alla successiva “conciliazione camerale” (comma 6°, prima frase) anziché procedere ad un giudizio individuale di condanna per proprio conto (su cui, ancora una volta, il testo legislativo mantiene un silenzio tombale)51. Non si capisce, poi, se a.html che nell’accertamento collettivo identifica, quale oggetto specifico, “non una situazione soggettiva, ma una questione di fatto e/o di diritto”. Tale possibilità era già prevista nel d.d.l. c.d. “Bersani” ed era stata stralciata dall’emendamento Manzione-Bordon del 13 novembre 2007. La Camera l’ha reintrodotta. 47 48 S. CHIARLONI, “Per la chiarezza di idee in tema di tutele collettive dei consumatori”, cit. supra n. 10. 49 L’esistenza del doppio grado di giurisdizione appare difficilmente compatibile con una causa collettiva, il cui scopo è di abbreviare i tempi della tutela, dissuadere le grandi organizzazioni d’impresa dall’approfittare della debolezza e della disorganizzazione dei singoli consumatori e di favorire, come recita ora la rubrica del Titolo II della Parte V del Codice del Consumo (cfr. art. 2, co. 449, l. fin. cit.), l’“accesso alla giustizia” di chi, altrimenti, difficilmente si attiverebbe in via individuale per proteggere i diritti conculcati da controparti tanto più facoltose e agguerrite. Anche in questo caso, il legislatore avrebbe fatto meglio a ponderare meglio le conseguenze delle proprie decisioni, eliminando un grado di giudizio e, magari, conferendo alle Corti d’Appello la competenza per materia sulle cause collettive, sull’esempio delle controversie in materia di nullità delle intese anticoncorrenziali. 50 Sul punto, v. G. ALPA, “Un mostro del diritto”, Il Sole 24 Ore di sabato 17 novembre 2007. 51 A. SANTA MARIA, “Proposta senza appigli comunitari” cit. 25 l’iniziativa individuale sia o no preclusa in pendenza della procedura conciliativa collettiva52, né quale sia la sorte dell’azione individuale di condanna ove la condanna collettiva, nel frattempo, risulti riformata o annullata in sede di gravame. Si aggiunga che, assai curiosamente, un legislatore così loquace sulla composizione amichevole successiva all’accertamento della responsabilità dell’impresa, tace del tutto sulla possibilità che il proponente l’azione collettiva e l’impresa convenuta addivengano ad un accordo conciliativo prima che il tribunale si pronunci sul merito della domanda, come potrebbero ben fare le parti di qualsiasi giudizio individuale (cfr. artt. 185 c.p.c. e 88 dispp. att. c.p.c.). Delle due l’una: o tale conciliazione è possibile, ma allora preoccupano l’assenza di una qualsiasi regola e la mancata indicazione di alcuno strumento volti a disciplinarne gli effetti e a verificarne la correttezza e l’idoneità a tutelare i diritti dei singoli consumatori, oppure, come sembrerebbe preferibile, stante il meccanismo conciliativo post sententiam appositamente disciplinato ed il silenzio del legislatore sulle conciliazioni in corso di causa, non deve sussistere la possibilità delle parti di raggiungere un accordo conciliativo finché il tribunale non abbia appurato la natura lecita o illecita della condotta rimproverata all’impresa o delle imprese convenute. Accantonata felicemente l’inutile previsione dell’esperibilità di un procedimento ingiuntivo da parte del consumatore-utente munito della “sentenza di condanna” collettiva “unitamente all’accertamento della qualità di creditore” nella successiva fase conciliativa collettiva, che, di fatto, complicava, anziché facilitare, l’accesso alla giustizia dei consumatori ed utenti, aggiungendo un’ulteriore, quanto superflua fase di accertamento individuale alle due collettive, la qualità di titolo esecutivo è oggi espressamente conferita a due soli atti: 1) il verbale di conciliazione redatto dalla camera “unica”53 e contenente la “quantifica[zione dei] modi [dei] termini e [dell’]ammontare da corrispondere ai singoli utenti”(art. 140-bis, co. 6, quarta frase), sempre che gli aderenti all’azione collettiva facciano domanda per poterne profittare54, e Secondo G. ALPA, loc. ult. cit., “la possibilità di proseguire l'azione giudiziaria nel caso che il consumatore rimanga insoddisfatto contraddice tutta la procedura svolta fino a quel momento”. 52 L’art. 140-bis, comma 6°, quinta frase, prevede, in alternativa alla conciliazione camerale, il ricorso agli organi e alle procedure conciliative stabilite negli artt. 38-40 d. lgs. 5/2003. Il verbale d’intesa sottoscritto dalle parti e dall’organo conciliatore previsto dalle norme suddette costituisce titolo esecutivo dopo l’omologazione ottenuta dal Presidente del tribunale nel cui circondario abbia sede l’organismo di conciliazione (art. 40, co. 8°, d. lgs. 5/2003). Il rinvio a tale ulteriore procedura conciliativa compiuto dal nuovo art. 140-bis comma 6° cod. cons. non specifica se e, se sì, quando l’adesione dei singoli consumatori alla conciliazione “di rito societario” debba avvenire. 53 54 Il nuovo testo del comma 6° dell’art. 140-bis non precisa né forme, né modi, né tempi di questa “domanda” di adesione al contenuto della conciliazione post causam. Pur appartenendo a un diverso testo normativo, può forse richiamarsi il principio di libertà vigente in materia di forme degli atti processuali e sancito dall’art. 121 c.p.c.: “gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”. Al fine di manifestare la volontà dei singoli consumatori di aderire al contenuto della conciliazione potrebbe dunque essere sufficiente l’invio alla sede della camera di conciliazione (presumibilmente, presso lo studio dell’avvocato cassazionista designato a suo presidente) di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento. 26 2) la proposta di pagamento “liberatorio” di cui ai commi 4°, terza frase e 6°, prima frase, dell’art. 140-bis, che l’impresa convenuta ha facoltà di avanzare agli aderenti all’azione collettiva entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza che accerta la sua responsabilità, purché accettata dai singoli consumatori destinatari “in qualsiasi forma” entro 60 giorni dalla comunicazione55. Non è più prevista l’“opportuna” pubblicizzazione della sentenza di condanna a cura e spese della parte convenuta, allo scopo di informare il maggior numero di consumatori e utenti interessati. Del tutto incomprensibile la previsione del comma 11°: dopo aver escluso, di fatto, una genuina azione risarcitoria collettiva e aver proclamato salvo, al comma 1°,“il diritto del singolo cittadino di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi conformemente a quanto previsto dall’art. 24 della Costituzione”, il legislatore introduce un’azione collettiva di nullità di contratti asseritamente viziati dalla diffusione di messaggi giudicati ingannevoli da non meglio precisate autorità competenti (l’Autorità Garante? Lo stesso giudice dell’azione collettiva?). Si tratta, con molta probabilità, di un’altra azione di mero accertamento della mendacità di messaggi pubblicitari diffusi da un’impresa, che il singolo consumatore dovrebbe poi invocare in via individuale per esimersi dall’osservanza di un contratto, provando però in concreto l’errore, (dovuto, in tal caso, al dolo di un terzo: c’è differenza tra produttore e distributore di un prodotto!) il nesso causale e, se si dovesse ritenere applicabile l’art. 1439, comma 2°, c.c., persino la conoscenza dell’inganno della controparte. Eliminata anche la sibillina disposizione sulle spese processuali che era contenuta nel soppresso comma 12°: la condanna alle spese del convenuto, infatti, è una regola generale nel nostro diritto processuale civile (art. 91 c.p.c.) che era del tutto inutile ribadire “fuori sede”. Inoltre, il prevedere “in ogni caso” percento del “valore della controversia”56 faceva pensare al patto di quota lite, il 55 Questa seconda, più spedita e diretta forma di liquidazione dei danni ai singoli consumatori aderenti all’azione collettivi o in essa intervenuti solleva alcuni gravi problemi che il tenore letterale della norma non chiarisce affatto: 1) può la proposta volontaria dell’impresa essere inferiore al minimum eventualmente determinato dal tribunale nella sentenza che ha definito il giudizio collettivo? 2) Essa deve essere rivolta individualmente ad ogni aderente dell’azione o può rivolgersi collettivamente e impersonalmente a tutti i consumatori interessati nelle forme dell’art. 1989 c.c.? 3) L’accettazione del consumatore individuale può essere sollecitata, anche individualmente, nelle forme del contratto unilaterale ex art. 1333 c.c.? 4) Quale effetto può avere l’accettazione incondizionata del consumatore su una proposta inferiore al minimo stabilito dal giudice rispetto al diritto minimo eventualmente riconosciutogli in sentenza? 5) Posto che la legge fa discendere dal fallimento dell’iniziativa “spontanea” di liberazione dell’impresa convenuta l’avvio della procedura giudiziale di conciliazione camerale, qual è la soglia minima di rifiuti o mancate accettazioni delle proposte volontarie di liquidazione che innesca l’apertura della conciliazione giudiziale ai sensi dell’art. 140-bis co. 6°, prima frase? 6) In caso di ricorso alla procedura conciliativa giudiziale per fallimento della soluzione volontaria del contenzioso, qual è la sorte delle proposte già accettate dai consumatori ed eventualmente già saldate loro dall’impresa? È evidente che il legislatore, nonostante alcuni sforzi di migliorare il testo disastroso risultante dall’approvazione senatoria del 15 novembre 2007, non si è tuttavia impegnato ad elaborare un’organica e puntuale definizione di quello che pure afferma essere un “nuovo strumento generale” di tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti, i cui livelli di tutela la riforma aspirerebbe ad “innalzare” (cfr. art. 2, comma 445 l. fin. cit.). Una riforma della portata e dell’importanza simbolica di quella approvata il 21 dicembre avrebbe richiesto ben altro dispendio di energie intellettuali, linguistiche e politiche e – soprattutto – ben altra serietà e durata d’impegni da parte del Governo e del Parlamento. 56 Difficile, poi, stabilire in anticipo il valore della controversia, posto che la quantificazione delle pretese individuali era (e in parte è ancora) differita ad un momento posteriore alla pronuncia della sentenza sul 27 cui divieto è stato recentemente abolito (l. 4 agosto 2006, n. 248), letteralmente avrebbe potuto essere interpretata come una possibilità di dover corrispondere ai difensori collettivi tale somma comunque, anche in caso di soccombenza delle associazioni consumeristiche, con quale incentivo sul ricorso al mezzo processuale che si va a introdurre, tutti possono vedere. 13. Considerazioni conclusive. Al termine del nostro esame, necessariamente frettoloso e meritevole di maggiori approfondimenti quasi quanto il testo legislativo commentato, l’art. 140bis, come approvato definitivamente il 21 dicembre scorso dal Senato, con gli emendamenti introdotti nel passaggio alla Camera, pur avendo perduto alcune delle più evidenti “mostruosità” che gli erano state infuse nel “colpo di mano” del novembre, appare ancora così seriamente lacunoso ed anche talmente denso di aspetti problematici irrisolti da non modificare quel giudizio complessivo, severo e critico, circa la sua inattitudine a fungere da “nuovo strumento generale”, inteso “ad innalzare i livelli di tutela” a favore dei consumatori e degli utenti italiani. Così com’è, nutriamo il forte timore che il testo riuscirà senz’altro a innalzare i livelli di caos del già confusionario sistema giuridico nostrano e ad aumentare vieppiù il già possente lavoro delle giurisdizioni, ordinaria e di legittimità costituzionale, con l’effetto generale di allungare ulteriormente la lunghissima durata media di un ordinario procedimento civile. Alberto Santa Maria Davide Pozzoli Edoardo Gambaro Con la collaborazione di Robert A. Horowitz, Esquire, e di Serena Boscia Montalbano, Esquire, Italian Desk at Greenberg Traurig, New York, NY. merito, la quale è la sola sede deputata dalla legge a liquidare le spese del giudizio (cfr. art. 91, comma 1° c.p.c.). 28