Ragione, emozione, decisione

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Ragione, emozione, decisione
RAGIONE, EMOZIONE, DECISIONE
Postfazione
Decidere con chi stare
La tesi è questa: in mercati turbolenti, segmentati e dinamici, non è possibile per una
impresa organizzata in modo tradizionale, cioè monolitico, integrato e piramidale, cogliere
tutte le opportunità. In tale situazione occorre invece un approccio rovesciato, che non sia
basato sulla centralità dell’impresa, sulla gerarchia e su concetti vetero-capitalistici quali il
lavoro dipendente, la capacità di un vertice aziendale di dirigere e la capacità dei capi di
motivare i dipendenti; al contrario, l’approccio necessario è quello fondato sulla capacità
dell’imprenditore di collegarsi a tanti altri imprenditori (attuali o potenziali), di aiutarli a
crescere e di accettare i loro obiettivi personali. Dato poi che per un’impresa non è
possibile riconoscere le infinite opportunità che derivano da mercati e tecnologie diverse da
quelle tradizionali, da approcci finanziari invece che industriali e dalle capacità
imprenditoriali di personaggi dissimili da quelli dominanti all’interno dell’impresa stessa, la
strategia diventa quasi da investment bank, ovvero scommettere su un grande numero di
iniziative per riuscire alla fine ad ottenere risultati finanziari molto attrattivi, generati dal
valore di alcune di quelle iniziative che hanno avuto un successo straordinario. In sintesi,
bisogna decidere con chi stare e non che cosa fare, e poi aiutare il partner ad avere
successo in modo da condividere i risultati.
Anche i manager possono contribuire molto di più al successo della loro impresa se invece
di sentirsi “dipendenti” e “controllati” si sentono “imprenditori” e “aiutati”. La differenza non è
di poco conto: nel primo caso c’è inevitabilmente un conflitto di interessi fra il responsabile
dell’impresa, che si focalizza sul proprio successo e sui profitti, e ciascun manager che
invece vorrebbe avere forti incentivi al proprio sviluppo, guadagnare di più e accrescere la
propria immagine. Questi conflitti portano spesso i manager più bravi a lasciare l’azienda
per trovare una propria strada, impoverendo così l’azienda stessa.
L’alternativa vincente è di ribaltare il modo di funzionare dell’impresa: se questa infatti
decide di dedicarsi “al servizio” di ciascun collaboratore, invece che al suo sfruttamento, le
singole persone sono più motivate a prendere iniziative, a valutarle con giusta
preoccupazione dei rischi e a superare le difficoltà, perché ciascuna di loro (che si
presuppone sia capace) lavora per il proprio successo e, di conseguenza, “tira la volata”
anche al successo dell’azienda.
Questa filosofia di gestione deve però essere interiorizzata profondamente e non può
essere applicata con il cinismo di molti manager delle multinazionali che, da una parte,
proclamano l’importanza fondamentale delle risorse umane e, dall’altra, sono prontissimi a
licenziare chi non si conforma al loro volere. Gestire le aziende con un sincero interesse
per il successo degli altri è l’equivalente organizzativo dell’informatica distribuita, ed è la
filosofia indispensabile per gestire con successo le “aziende-rete”.
Gestire “per il successo degli altri” è in definitiva il modo migliore per assicurare anche il
successo della propria impresa, almeno quando le condizioni di contorno sono date da
mercati turbolenti, struttura concorrenziale in evoluzione e notevoli opportunità di
diversificazione.
I cinque concetti
Senza dover sempre risalire a Taylor, ma semplicemente osservando le imprese grandi o
piccole che oggi operano con qualche successo, si constata che cinque concetti gestionali
sono talmente diffusi ed accettati da non essere più nemmeno messi in discussione. Tali
concetti sono: gerarchia, burocrazia, distinzione fra azionista e management, decisionismo
centralizzato, ipocrisia. Si tratta delle pietre angolari su cui poggia il modo di funzionare
dell’azienda moderna, e a ciascuna di queste possono essere collegate anche le più
recenti innovazioni quali l’empowerment (responsabilizzazione con delega di relativo
potere), il delayering (riduzione dei livelli gerarchici) e l’organizzazione per processi
trasversali. Questi concetti sono profondamente radicati e hanno caratteristiche binarie, nel
senso che non ammettono variazioni fra 1 e 0: una persona è capo di qualcuno o non lo è,
ha delle azioni o non le ha, e così via.
1. Gerarchia
Gli organigrammi aziendali sono sempre disegnati con il concetto di piramide: ogni
dipendente deve avere un capo e l’azienda deve avere un solo amministratore delegato (il
caso di due amministratori delegati, peraltro raro, è più un meccanismo di limitazione del
potere che di rafforzamento del team di vertice). Per gestire la complessità si sono create
organizzazioni divisionali, holding a matrice e team di progetto, ma si ritiene sempre
importantissimo che, alla fine, ogni manager sia in grado di identificare il proprio vero capo,
quello “che conta”. Ne consegue che la preoccupazione fondamentale di ognuno è
soddisfare i desideri del capo, indipendentemente dal fatto che possano coincidere o meno
con le proprie aspirazioni o con il bene dell’impresa.
Dal concetto di gerarchia deriva il concetto di carriera, che consiste sostanzialmente
nell’essere il capo di un numero crescente di persone, e quello di “line” e di “staff”, che
consiste nel suddividere i manager fra quelli capaci di essere “capi a tutto tondo” e gli altri.
2. Burocrazia
L’azienda organizzata secondo il criterio gerarchico sviluppa nel tempo una gestione
burocratica, fatta cioè di regole generali, di suddivisione di compiti fra chi lavora e chi
decide, di spezzettamento dei processi aziendali. Inevitabilmente ogni persona sviluppa
l’incentivo a comandare sempre più persone (da cui perenni richieste di aumento degli
organici), si concentra solo sui propri compiti (nessuno ha la visione d’insieme tranne il
capo supremo), privilegia il rispetto delle procedure piuttosto che la sostanza degli
interventi (per esempio imparando a “fare il budget”, che peraltro ci si assicura di costruire
in modo da avere grandi riserve), e così via. La burocrazia è così pervasiva che si estende
persino alla pianificazione aziendale, la quale dovrebbe essere invece il momento di
massima creatività collettiva.
La burocrazia viene considerata un “male necessario” delle imprese: tutti ne riconoscono i
difetti, ma pensano anche che senza regole comuni ci sarebbe solo il caos. I rimedi sono
talvolta peggiori del male (ulteriori procedure per rendere più flessibili quelle burocratiche) o
vengono considerati come eccezioni, che non minano alla base il principio burocratico
(come quando si introducono task force temporanee).
3. Distinzione tra azionisti e management
I proprietari dell’impresa sono gli azionisti. Qualche volta si dice che lo sono anche gli
“stakeholders”, cioè i dipendenti, i fornitori, i distributori e la società in genere, ma lo si dice
più per darsi l’immagine d’impresa avanzata che per descrivere la realtà. Quando c’è da
decidere, le azioni contano e tutto il resto no: lo stakeholder dipendente può essere
licenziato, lo stabilimento chiuso, il fornitore cambiato. In particolare il manager, anche
quando è nominato amministratore delegato (quindi investitore e imprenditore), è
semplicemente un dipendente degli azionisti.
Qualche volta le azioni vengono parsimoniosamente distribuite ai dipendenti, meglio se
sotto la forma di “stock option”, in modo da qualificarle come benefit tassabile con
moderazione. Ma un manager con un pacchettino di azioni non è meno “dipendente” di
prima, e anche le migliaia di dipendenti ai quali è stato concesso di comprare azioni a
prezzi scontati nel corso di alcune recenti privatizzazioni (per esempio dell’Eni) non si
sentono certamente “co-padroni” dell’azienda.
Nelle imprese familiari, invece, il ruolo è invertito: uno è manager in quanto “padrone”,
indipendentemente dai meriti oggettivi. Dipendenti bravi possono essere così sottoposti al
dominio di persone meno brave, soprattutto quando all’imprenditore di prima generazione
si sostituiscono figli o nipoti. Tutto ciò è così diffuso da finire per sembrarci persino
normale.
4. Decisionismo centralizzato
Il capo è “quello che decide”, per cui chi è “più capo” decide di più, in quantità o in qualità.
La parola “decisione” evoca caratteristiche di virilità, di libertà e di potenza, per cui un capo
che “non decide” verrebbe inevitabilmente considerato un debole o un inetto.
La letteratura manageriale amplifica questa tipicizzazione del capo = decisore: da Welch a
Romiti, da Gerstner a Tatò, si illustrano le doti di un manager portando ad esempio la sua
abilità di prendere decisioni giuste, dure, rapide. Poiché i risultati ottenuti da tali manager,
prevalentemente in grandi aziende, sono buoni, se ne deduce che tale stile decisionale sia
appropriato in tutte le occasioni.
Se il decidere è così importante, così binario (non si può che decidere sì o no) e pieno di
simboli di potere, il delegare le decisioni deve per forza essere l’ultima ratio di un vero
capo. Per la verità spesso vengono delegate le decisioni che uno non è capace di
prendere, in modo da dare la colpa agli altri qualora i risultati non fossero positivi; in
genere, comunque, la delega è limitata allo stretto necessario ed in ogni caso sottoposta al
coordinamento e al controllo del capo.
Al decisionismo centralizzato corrispondono i comportamenti dei “sottoposti”, che
presentano al capo le informazioni in modo da preparare decisioni facili e gradite: a un
capo “tagliatore di teste” si presenteranno benchmark che dimostrano l’inefficienza
dell’azienda, a un capo pavido si nasconderanno i problemi concorrenziali, e così via.
In genere, il decisionismo centralizzato porta a decisioni di tipo “standard”: investire se il
ROI è superiore al 15%, ridurre le teste, sfruttare sinergie trasversali. Al limite, è meglio
correre il rischio di decisioni che poi si rivelano sbagliate, ma che sono state prese secondo
le logiche condivise dal proprio settore industriale, piuttosto che prendere centralmente
decisioni controcorrente le quali, se poi si rivelano sbagliate, espongono il capo al ludibrio
dei superiori. D’altra parte, a livello di vertice, non si hanno mai informazioni di prima mano,
quindi è veramente difficile prendere decisioni atipiche e contrarie alla logica che è stata
accuratamente predisposta dai sottoposti.
5. Ipocrisia
L’ipocrisia è l’olio necessario per far funzionare le grandi organizzazioni: bisogna “far finta”
d’essere d’accordo sulle politiche aziendali, di stimare i propri superiori, di credere nella
favoletta dell’azienda veramente interessata al benessere e allo sviluppo delle persone,
eccetera. Dichiarare il proprio disaccordo o dire veramente quello che si pensa (invece di
esprimere solo quello che fa aumentare la stima del capo per la propria persona) espone al
rischio di isolamento e di non fare carriera.
L’ipocrisia è talmente diffusa che, quando si effettua una diagnosi organizzativa, non ci si
può assolutamente basare su quello che le persone dicono o sulle procedure che
descrivono il modo ufficiale in cui l’azienda funziona. Si deve allora cercare di scoprire
come le persone si comportano veramente, quali sono le aspirazioni e i giudizi nascosti, e
quali le effettive molle che potrebbero cambiare gli atteggiamenti. L’analisi organizzativa
diventa così una specie di lavoro da detective, fra persone che mentono e che considerano
l’ipocrisia una virtù necessaria.
Questi cinque concetti non dominano solo nelle grandi aziende, ma anche nelle medie
imprese padronali. Di fatto, poiché molte aziende vanno bene, nel senso che realizzano
buoni profitti o quote di mercato elevate, si è venuta a creare la convinzione che ci sia una
correlazione fra risultati positivi e modo di funzionare gerarchico, burocratico, e così via. In
altre parole, si pensa che sia sufficiente introdurre in azienda un po’ di antidoti all’eccesso
di gerarchia e di burocrazia per “essere a posto”. Nessuno si chiede invece se la
correlazione non sia solo casuale, se i buoni risultati non derivino da qualche decisione
fortunata presa in un lontano passato da un bravo imprenditore, se non si siano nel
frattempo perse migliaia di opportunità di far meglio e se, nel contesto competitivo in cui si
dovrà operare in futuro, non ci sia qualche altro modo di organizzarsi, magari meno
tradizionale, ma più adatto a migliorare o a difendere i risultati ottenuti in passato.
L’ambiente competitivo
Gli anni ’50-’80 hanno visto una continua espansione dei mercati in tutti i paesi avanzati. In
tale periodo si sono consolidati quei concetti di gestione aziendale che oggi consideriamo
scontati, ma che non riconosciamo come funzionali unicamente alla gestione di mercati in
crescita e di grandi aziende in sviluppo. Attualmente, però, l’ambiente competitivo presenta
caratteristiche molto differenti dal passato, e i concetti di base per la gestione delle
aziende, di conseguenza, dovrebbero essere anch’essi profondamente diversi.
La stagnazione è la regola nella maggior parte dei mercati e dei settori industriali, che
vedono tassi reali di crescita inferiori persino alla crescita del PNL. In tali condizioni non è
tanto importante che l’organizzazione sia razionale e ordinata, ma soprattutto è vitale che il
costo organizzativo del funzionamento aziendale sia minimo: si può quindi fare a meno dei
sofisticati, ma costosi, sistemi di controllo di gestione, di pianificazione, di coordinamento
funzionale, di sviluppo organizzativo e simili, sempre che vi siano altri meccanismi (leggeri)
di governo quali, ad esempio, l’autocontrollo delle singole unità di business o di produzione.
Inoltre, nei mercati stagnanti conta soprattutto riuscire a dominare il mercato, e lo si può
fare solo integrandosi o alleandosi con i concorrenti, quindi è più importante saper fare e
gestire bene le alleanze o l’integrazione con i concorrenti che “comandare” sui propri
sottoposti.
La grande varietà di fornitori e distributori oggi esistente permette di riprogettare il
funzionamento dell’impresa integrando, in un “sistema di business”, persone e aziende
esterne all’impresa stessa, che hanno il vantaggio di costare di meno ed essere più
dinamiche. Al limite, l’impresa potrebbe consistere solo nell’idea del business, acquistando
dall’esterno produzione, servizi, logistica, distribuzione e tutto il resto. È evidente però che
la gestione di una costellazione di alleati è profondamente diversa dalla gestione di
dipendenti o di fornitori sottomessi all’impresa.
L’ipersegmentazione dei mercati e la focalizzazione delle imprese su di un unico prodotto
(o servizio, o tecnologia, o fase produttiva) portano ad una grande complicazione del
quadro competitivo, in quanto diventano migliaia gli operatori che, in un modo o nell’altro,
possono avere un impatto sul valore aggiunto dell’impresa. Sempre più spesso, allora, le
strategie di business non possono essere formulate al centro semplicemente perché a quel
livello manca la conoscenza di tutti i dettagli necessari a prendere le decisioni, mentre, per
contro, delegare le decisioni strategiche alla periferia dell’impresa è rischioso, specie se in
tali sedi non sono disponibili capacità imprenditoriali provate o motivazioni collegate al
successo dell’impresa stessa.
Le opportunità di business sono oggi maggiori di quanto non lo siano state negli ultimi
trent’anni: di fronte ad aziende che si terziarizzano, che vendono i business marginali per
concentrarsi sul core business e che non sono capaci di vedere i piccoli concorrenti
emergenti, esistono, con un mercato dei capitali affamato di nuove iniziative, moltissime
opportunità di rivitalizzare aziende in perdita e di iniziare nuovi business. I capitali che sono
stati investiti nei “private equity fund” negli Stati Uniti (attualmente si viaggia intorno ai 100
miliardi di dollari l’anno) hanno avuto risultati nettamente migliori di quelli ottenuti dalle
grandi corporation. La crescita della "new economy", testimoniata dall’aumento di valore
del NASDAQ, è stata ancora maggiore di quella dei mercati tradizionali. Quindi le
opportunità di investimento ci sono state, ma non sono state colte dalle aziende “normali”.
Da tutto questo consegue, con sufficiente evidenza, che in un ambiente competitivo,
turbolento e pieno di micro-opportunità, i concetti organizzativi tradizionali non sono adatti
ad avere successo.
La gerarchia viene vista come un ostacolo allo sviluppo personale dei manager più bravi,
che sono tentati di mettersi in proprio o andare in aziende che permettano di aumentare il
valore del proprio “curriculum vitae”. Mentre negli ultimi trent’anni erano le grandi aziende
ad attirare e trattenere i migliori, oggi questi vanno verso le piccole aziende in crescita, le
nuove iniziative nel campo del software, le società di consulenza e di merchant banking, i
private equity fund, gli start up di Internet e, soprattutto, verso le aziende che remunerano
con azioni i propri dirigenti. Tutte le indagini sulle aziende più attraenti e sulla destinazione
dei migliori laureati delle business school dimostrano come l’impresa tradizionale abbia
perso l’appeal che aveva una volta. Inoltre, la maggior parte dei “casi di successo” esaltati
dalla letteratura manageriale fa riferimento a personaggi che si sono “messi in proprio”
(dimenticando peraltro tutti quelli che così facendo sono falliti). Di conseguenza, la quota di
intelligenza e capacità imprenditoriali disponibile in un dato paese va diminuendo
(comunque lentamente) nelle aziende tradizionali e organizzate gerarchicamente a
vantaggio delle piccole o medie aziende e delle nuove iniziative imprenditoriali.
La burocrazia è diventata un freno intollerabile in un ambiente che cambia con rapidità, che
presenta ogni giorno un nuovo concorrente piccolo e snello, e che offre al consumatore
servizi tagliati su misura. La crescente potenza delle soluzioni informatiche basate su
Internet mina alla base i vecchi concetti burocratici, perché clienti e fornitori possono ora
dialogare direttamente con l’azienda e fra di loro attraverso reti telematiche, quindi
l’impiegato ottuso ma necessario, che era l’elemento centrale dell’organizzazione
burocratica, viene ormai “bypassato” e reso inutile.
La distinzione tradizionale tra azionista e management viene rifiutata dai manager migliori,
che vogliono “sentirsi padroni”, almeno in parte, dell’impresa alla quale dedicano la propria
vita professionale: non è soltanto un problema di metodo di remunerazione (stock option
invece che stipendio), ma esiste anche una notevole componente emotiva nel “sentirsi
padroni”.
Il decisionismo centralizzato diventa impossibile in aziende che operano in decine di aree
geografiche differenti, che servono molti segmenti di mercato attraverso canali diversi e
che forniscono prodotti o servizi complessi. Il vertice aziendale ha l’impressione di prendere
le decisioni più importanti (ad esempio, approvare un grande investimento), ma in realtà la
decisione è già stata presa dai manager di periferia, che conoscono bene la situazione e
sanno quale documentazione sarà necessaria per “far passare” la decisione. In queste
condizioni l’unica cosa veramente importante è avere in periferia un management migliore
di quello centrale e opportunamente motivato. Purtroppo, però, il concetto di gerarchia
comporta spesso una scelta di collaboratori che non possano “fare concorrenza” al capo,
per cui la qualità manageriale scade andando verso il basso o verso la periferia e, di
conseguenza, le decisioni vengono prese in realtà da persone incompetenti.
L’ipocrisia aziendale, che serve a tenere insieme le imprese lente e burocratiche, viene
rifiutata dai manager migliori, che hanno l’opportunità di andare a lavorare in ambienti
dinamici e nei quali conta “che cosa è giusto fare” (non “chi ha ragione”, visto poi che
questi è normalmente la persona con lo stipendio più alto).
Se nel nuovo contesto competitivo i vecchi concetti dell’organizzazione aziendale sono
superati, perché le aziende non li cambiano?
La ragione è che oggi ogni azienda è costruita in coerenza con tali concetti: i vertici hanno
fatto carriera secondo i princìpi dell’organizzazione gerarchica, l’ipocrisia è entrata nel
sangue di tutti, non si sopporta l’idea di perdere il potere di decidere (inteso in senso
tradizionale), la burocrazia è rassicurante, e spesso perfino l’azionista non desidera il
cambiamento, soprattutto quando è più interessato al controllo che all’aumento del valore
del proprio investimento. La risposta tipica delle imprese vecchie alle sfide del nuovo
contesto competitivo è infatti cercare di migliorare il funzionamento, non di riprogettarsi:
fioriscono così i piani di reengineering, di downsizing, di empowerment e di
terziarizzazione, ma non si affronta seriamente il problema di come rendere coerenti con i
fini dell’impresa le aspirazioni dei migliori manager e dei potenziali alleati.
Il successo degli altri
In un mondo pieno di opportunità collegate a un modo di pensare non tradizionale, bisogna
riprogettare l’impresa facendo in modo che i manager bravi e capaci di pensare in modo
nuovo abbiano molto più spazio e siano molto più emotivamente coinvolti nel successo
dell’impresa. In altre parole, bisogna costruire l’impresa intorno ai manager bravi invece
che attirarli in un’impresa già costruita sulla base dei concetti tradizionali. Questa filosofia di
base si declina in modo differente per i diversi tipi di impresa: la grande impresa, la piccola
impresa, lo start up, l’impresa di servizi eccetera. L’idea di fondo è sempre la stessa:
identificare chi è bravo veramente, allenarlo e selezionarlo in base alle capacità
imprenditoriali, comprenderne a fondo le esigenze, collegarsi anche finanziariamente
fornendo un costante supporto e, infine, gestire un sistema complesso e ambiguo in cui il
successo viene condiviso anche in modo non equo.
Costruire un’impresa in base al “successo degli altri” richiede un approccio mentale
sostanzialmente altruista, nel senso che bisogna essere convinti dell’utilità di dare spazio,
onori e soddisfazioni materiali a chi è bravo, preoccupandosi molto poco di quanto se ne
può ricavare direttamente. I concetti di base di questo approccio sono quattro.
1. Identificare i “bravi”. Ogni persona è “brava” relativamente a qualcosa. Avendo come
oggetto un’impresa che deve operare in mercati stagnanti, in turbolenza e con opportunità
di business non tradizionali, la definizione di “bravo” si applica necessariamente a manager
che pensano in modo non tradizionale, che hanno una notevole abilità nello “sfangare” le
situazioni difficili, che sono capaci di perseverare ma anche di riconoscere i vicoli ciechi, e
che hanno una “carica” interna molto forte (attivismo, volontà di emergere, capacità di
sacrificio, leadership). Naturalmente, per identificarli occorre avere un atteggiamento
pregiudizialmente favorevole ai “diversi”, altrimenti si finisce per giudicare brave solo le
persone che hanno avuto successo all’interno delle imprese tradizionali, e queste non sono
necessariamente adatte a fare gli imprenditori.
2. Selezionare e addestrare i futuri imprenditori. È sempre rischioso per un’impresa puntare
tutto su di un solo mercato e, analogamente, è rischioso puntare tutto su di un solo
manager. L’impresa (industriale, di servizi, finanziaria, o altro) deve quindi avere un
portafoglio di imprenditori potenziali sui quali puntare, selezionando nel tempo quelli più
promettenti. Tali imprenditori possono essere dei fornitori particolarmente bravi e capaci di
sviluppare nuovi componenti o tecnologie innovative, dei distributori capaci di aprire nuovi
mercati, degli operatori finanziari capaci di presentare nuove opportunità di investimento,
oppure dei manager, interni o esterni, capaci di realizzare le mosse competitive adatte a
trasformare l’azienda. La selezione può avvenire soltanto con un’attenzione prolungata nel
tempo, in quanto non basta parlare bene o essere brillanti: un imprenditore è una persona
che sa prendere dei rischi calcolati, ma poiché tali decisioni non si presentano ogni giorno,
bisogna osservare la persona da vicino e per un notevole periodo se si vuol riuscire a
prevedere come si comporterà quando ci saranno decisioni difficili o quando si
presenteranno delle opportunità di business. Bravo è chi, nel tempo, riesce a prendere una
maggioranza di decisioni imprenditoriali giuste, tali da aumentare il valore dell’impresa più
di normali investimenti alternativi.
3. Collegarsi operativamente. La mentalità tipica con la quale siamo cresciuti negli ultimi
trent’anni è che il rapporto fra l’impresa e gli “altri” (manager, fornitori, collaboratori) è un
rapporto contrattuale, che si esaurisce con il pagamento del compenso dovuto; tutt’al più
vengono dati degli incentivi per allineare gli obiettivi personali a quelli dell’impresa (incentivi
per la qualità dei prodotti forniti o per i risultati conseguiti), ma le persone intelligenti
troveranno sempre il modo di “battere” un sistema di incentivi (ad esempio, assicurandosi
che i budget siano facili). Si potrebbe anzi affermare che un amministratore delegato che
non sia capace di barare a proprio vantaggio con il sistema di incentivi non merita la
propria posizione! Si pensa normalmente che le esigenze di partecipazione individuale al
successo dell’impresa siano soddisfatte da lodi, da esortazioni a sentirsi tutti una “grande
famiglia”, da convention aziendali e da altre simili ipocrisie. In realtà i manager o gli
imprenditori esterni più bravi diffidano dell’impresa, conoscono i meccanismi per arricchirsi
a scapito dell’impresa stessa e pensano sempre di valere molto di più di quanto venga loro
riconosciuto. L’unico modo di creare un vero collegamento è dunque far credere a una
persona che l’impresa abbia realmente a cuore le sue sorti, e che ciò corrisponda a verità.
Bisogna pertanto che l’impresa si metta nello stato d’animo di aiutare ciascuna delle
controparti (manager, fornitori, clienti) ad avere successo nei termini in cui essi lo
definiscono e cioè più ricchezza, più capitalizzazione del proprio valore, più immagine, più
flessibilità e quant’altro. La scommessa è che, rinunciando in parte al potere di comandare,
di licenziare, di farsi ossequiare, l’impresa riesca ad “agganciarsi” ad operatori che, in
media, risulteranno vincenti, e che trascineranno l’impresa nel loro successo. Le forme in
cui il collegamento può aver luogo sono le più varie: partecipazione del partner
nell’azienda, aiuto al manager nel mettersi in proprio, forte incentivazione con stock option,
reale collegialità decisionale e così via. L’essenziale è che l’operatore potenzialmente
vincente abbia la certezza che l’impresa sia realmente interessata al suo successo, e che
lo “scambio” (imprenditorialità condivisa contro aiuto) sia sostanzialmente equo,
naturalmente da un punto di vista soggettivo.
4. Gestire il rapporto. Che un’impresa consideri come partner un proprio manager, che gli
azionisti si mettano “allo stesso livello” dell’amministratore delegato (entrambi investono nel
business, anche se in modi diversi), oppure che il fornitore venga considerato come un
socio di fatto può sembrare talmente strano e improbabile al soggetto direttamente
interessato da richiedere alcuni test prima di crederci veramente. A seconda dei casi, i test
possono essere la richiesta di stock option, la presentazione di un budget “facile” o la
richiesta di un aumento di prezzo per giustificare un investimento. È essenziale che
l’impresa si comporti effettivamente da socio, riconoscendo anche esplicitamente di non
essere in grado di sovrapporsi al giudizio dell’altro partner e quindi che si fidi del suo fiuto
(naturalmente collegato al suo “self-interest”). Il risultato da perseguire è l’effettiva
convinzione del partner di avere l’impresa al proprio servizio, non la percezione da parte
dell’impresa che sia così. Le persone brave, manager o imprenditori che siano, dopotutto
sono eminentemente delle primedonne, quindi o si accetta il loro giudizio soggettivo o si
rimane esterni ad essi. Comunque, il test avviene sempre in una situazione tesa e
complicata, ed è in tale frangente che il partner giudicherà dell’effettivo altruismo
dell’impresa.
È molto difficile per un’impresa, così come per un investitore, sviluppare un approccio
focalizzato sul “successo degli altri”, perché siamo tutti condizionati dal fatto che gestire il
potere è stato in passato la chiave di volta del successo sia delle imprese sia degli
investitori. Oggi però il potere è passato nelle mani di quelle persone “brave” che sanno
rischiare ragionevolmente, sanno impegnarsi su idee nuove, sanno avere leadership su
altre persone brave, quindi il “potere” di chi “ha i soldi” deve venire a patti con chi “ha le
idee” e può realizzarle.
L’approccio che propongo richiede anche un atteggiamento mentale pregiudizialmente
favorevole alla nuove soluzioni, alla violazione di regole tradizionali, all’amplificazione di un
particolare vantaggio competitivo, e alla protezione delle persone “brave ma diverse”: non è
certo con modi di pensare e con manager tradizionali che imprese “Davide” batteranno i
concorrenti “Golia”. Per questo motivo bisogna conoscere bene la mentalità e le regole di
funzionamento delle grandi aziende multinazionali, così da saper discernere quando è
opportuno seguirle e quando invece bisogna andare controcorrente.
L’approccio definibile “Il successo degli altri” implica anche una serie di comportamenti
radicalmente diversi da quelli tradizionali:
non esiste più la gerarchia, perché i “bravi” si misurano continuamente fra di loro, ognuno è
bravo nel fare quello che sa fare, nessuno riconosce nell’altro un “capo” ma un alleato, un
partner, un collega, un allenatore; l’atteggiamento di un direttore commerciale verso il suo
amministratore delegato, verso il direttore tecnico o verso un fornitore è quello da collega,
da socio di fatto in una serie di iniziative che devono aumentare il valore dell’impresa a
vantaggio di tutti; tra l’altro, questo atteggiamento comporta che i responsabili aziendali,
invece di circondarsi di “yes men” talvolta mediocri, cerchino di mantenere interessate a
lavorare insieme persone di altissima qualità: quanto più “gli altri” sono bravi, tanto più
successo avrà chi sta in loro compagnia;
la burocrazia viene ridotta al minimo, perché ognuno è ben conscio di quanto “gli costa”,
perché si dà fiducia all’esperienza di ciascuno e soprattutto perché si fa a meno di quella
bardatura che è utile solo a proteggersi dalle ingerenze dei livelli superiori;
la distinzione tra azionista e dipendente non è così netta, in quanto ognuno dei partner
considera che il proprio valore aumenta attraverso l’associazione reciproca: un manager
ottiene progressivamente più azioni dell’azienda, un fornitore si sente tranquillo sulla
stabilità a lungo termine del proprio rapporto con il cliente, e così via; essere un
stakeholder non è più solo un modo di dire, ma comporta, di fatto, dei diritti/doveri crescenti
nel tempo;
le decisioni sono prese da chi si è omologato, nel tempo, dimostrando di saperle prendere
giuste, e chi “sta sopra” si comporta più come un tutore o un allenatore che come un capo;
l’ipocrisia è bandita, in quanto l’unico obiettivo comune è di prendere le iniziative giuste,
senza preoccupazioni per la propria immagine e la propria carriera.
Questo approccio alla gestione delle imprese ipotizza che ciascun manager o partner
riesca a generare un valore molto superiore, per sé e per l’impresa collegata, se è convinto
di lavorare per il proprio successo. Solo in questo caso egli dedicherà al lavoro molto più
tempo di quanto non farebbe se fosse solo un dipendente, avrà il coraggio di prendere
decisioni giuste ma impopolari e ricercherà seriamente nuove opportunità sapendo che ne
condividerà i benefici. Una parte di questi risultati si ottiene anche con un buon programma
di incentivazione, ma nessuna stock option concessa dall’alto equivale al coinvolgimento
emotivo di sentirsi, almeno in parte, proprietario del proprio destino e capace di far
diventare un asset monetizzabile il proprio quid di capacità ed esperienza.
I limiti
L’approccio descritto in questa postfazione è evidentemente un po’ radicale, in quanto
rifiuta tutti i concetti in base ai quali sono organizzate le aziende oggi, e propone di mettere
le persone brave (chiaramente dopo una sufficiente dimostrazione della loro effettiva
“bravura”) al centro dell’organizzazione dell’impresa. Un tale approccio può essere valido in
tutti quei casi in cui il responsabile dell’impresa (azionista o amministratore delegato) abbia
la sensazione che le regole del successo futuro siano molto differenti da quelle del
passato; non serve invece per gestire pedissequamente l’esistente, per migliorare
marginalmente le grandi organizzazioni, per presentare una faccia innovativa in situazioni
in cui si vuole che tutto rimanga come prima. Non serve, soprattutto, se si ha a che fare
con manager non bravi, che approfitterebbero indegnamente della fiducia e dell’autonomia
loro concesse.
A questo punto, la domanda di fondo che molti di noi dovrebbero porsi è: “Perché non
siamo soci di manager o imprenditori che oggi hanno dimostrato di essere vincenti?”.
Naturalmente avremmo dovuto collegarci con loro vent’anni fa, quando avevano bisogno di
aiuto, però avremmo dovuto fare la stessa cosa anche con molti altri manager o
imprenditori che sembravano avere le potenzialità di successo, ma che poi si sono rivelati
perdenti per mancanza di abilità o per semplice sfortuna: nelle corse “strane” non si può
infatti puntare tutto su un solo cavallo. Oggi, intorno a noi, ci sono tanti imprenditori e
manager che avranno dimostrato il loro potenziale fra venti anni. La nostra abilità sta
nell’individuarli, nell’aiutarli e nel collegarci a loro in modo che il loro successo rappresenti
anche per noi (investitori o imprese) l’opportunità di ottenere dei risultati altrimenti non
perseguibili.
Poiché tutto il trucco sta nel “catturare” o, meglio, nel collegarsi con le persone brave e
farle lavorare anche nell’interesse dell’azienda, ci sono infinite situazioni intermedie fra
l’aderire integralmente ai concetti nuovi e mantenersi invece ancorati ai concetti superati:
una grande generosità da parte dell’imprenditore nei confronti dei propri manager, un
effettivo incoraggiamento a dire quello che si pensa senza essere penalizzati e
l’introduzione di meccanismi che permettano alle molle imprenditoriali di ciascun manager
di testarsi sono spesso sufficienti a trattenere intorno all’imprenditore i migliori manager e
ad incentivarli a innovare, senza per questo pretendere sostanzialmente nulla in termini di
potere o di controllo aziendale.
L’unica raccomandazione che mi sento di fare a un imprenditore che volesse seguire
questa filosofia gestionale è di non farlo per finta: non funzionerebbe, e ci si priverebbe dei
sistemi di controllo tradizionali. Se infatti l’imprenditore vuole assolutamente dominare
personalmente la propria impresa, e di conseguenza correre il rischio di perdere i manager
migliori, può soltanto aiutare i più bravi a mettersi in proprio e prendere una partecipazione
nelle loro aziende.
Conclusioni
La filosofia di gestione sintetizzata nel decidere "con chi stare" e poi gestire per "il
successo degli altri" si applica preferibilmente alle situazioni in cui l’abilità delle singole
persone è fondamentale per il successo dell’impresa: mercati in crescita turbolenta,
opportunità di business non tradizionali, "new economy", servizi, e simili. Nelle situazioni
stabilizzate, o che si vuol far rimanere tali, l’approccio tradizionale va bene, ma non ci si
deve lamentare poi se mancano imprenditorialità e innovazione.
La chiave di volta per adottare il nuovo approccio è che l’investitore o il “capo” abbandoni
completamente gli schemi mentali collegati al concetto di potere e pensi a se stesso come
ad un “allenatore”. Un allenatore cerca in primo luogo di essere collegato ai migliori atleti e
successivamente si domanda in ogni situazione (preparazione di un budget, decisione di
un investimento, ecc.) che cosa si può fare per aiutare le persone che sono attorno al
tavolo, usando come strumenti nuove idee, incoraggiamenti, rassicurazioni, stimoli o altro.
L’obiettivo superiore è evidentemente quello di ottenere, tutti insieme, risultati superiori a
quelli dei concorrenti. Bisogna quindi interrogarsi continuamente, sulla base di molte e
differenti fonti di informazioni e di stimoli, su quali obiettivi tali risultati potrebbero essere
perseguiti, quali problemi o opportunità sono da considerare prioritari, quali azioni sono
possibili cambiando i vincoli e il modo di pensare. In ogni circostanza, tutti gli stakeholder
intorno al tavolo devono sentire che stanno guadagnando dall’associazione reciproca
qualcosa di più che non il semplice compenso previsto dal contratto, devono soprattutto
sentirsi liberi di perseguire gli obiettivi di business che ritengono desiderabili
personalmente, e sentirsi aiutati nel farlo.
In questa postfazione, come nel libro “Il Successo degli Altri” (Baldini e Castoldi, 1997), ho
sottolineato e, spero, anche dimostrato, che questo modo di gestire può essere davvero la
chiave per aver successo in un mondo in cambiamento. Sviluppare strategie che facilitano
il successo dei propri partner nel business, organizzare le aziende in modo da creare tante
persone vincenti (persone, non dipendenti!) e guidare il cambiamento in modo che la
maggior parte dei collaboratori lo riconosca come desiderabile (se non all’inizio, almeno
alla fine), sono tutte modalità di pensiero e di gestione che pongono il successo degli altri
come una costante. Finora ho constatato che, così facendo, ne deriva quasi
automaticamente il successo della propria impresa, mentre di rado avviene il contrario.
C’è evidentemente un po’ di idealismo in questa interpretazione del modo giusto per far
funzionare oggi le aziende, ma senza idealismo non si va da nessuna parte. Con un
idealismo basato sulla conoscenza dell’evoluzione probabile dell’ambiente competitivo,
sulla ricerca di soluzioni originali, sulla fiducia nella capacità delle persone e sull’esperienza
della possibilità di cambiare si può invece riuscire a trovare la strada per aiutare le imprese
italiane a vincere una sfida competitiva che è diventata globale.
2000
Gianfilippo Cuneo