Gestire il successo degli altri

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Gestire il successo degli altri
GESTIRE PER IL SUCCESSO DEGLI ALTRI
La recensione del prof. Baglioni del mio libro (Il successo degli altri, Baldini & Castoldi,
1997) nel primo numero di questi Quaderni mi attribuisce alcuni meriti e alcune
dimenticanze, in particolare per quanto riguarda la partecipazione di tutti i dipendenti al
successo dell’impresa. Un libro, che non vuole essere un’enciclopedia, non può trattare di
tutto, e io non ho esaminato il tema di come si possa migliorare il risultato dell’impresa
attraverso i meccanismi di partecipazione: negli anni ’80 si è ampiamente trattato
l’argomento, particolarmente in riferimento a industrie come l’automobile o la siderurgia che
purtroppo non hanno riservato particolari soddisfazioni agli azionisti.
La tesi di fondo del mio libro è che, in mercati turbolenti, segmentati, e dinamici non sia
possibile per un’impresa organizzata in modo tradizionale, cioè monolitico, integrato e
piramidale, cogliere tutte le opportunità: occorre un approccio rovesciato, che non sia cioè
basato sulla centralità dell’impresa, sulla gerarchia e su concetti vetero-capitalistici quali il
lavoro dipendente, la capacità di un vertice aziendale di dirigere e la capacità dei capi di
motivare i dipendenti. Occorre invece adottare un approccio basato sulla capacità
dell’imprenditore di collegarsi a tanti altri imprenditori (attuali o potenziali), di aiutarli a
crescere, di accettare i loro obiettivi personali: dato che non è possibile, per un’impresa,
riconoscere le infinite opportunità che derivano da mercati e tecnologie diverse da quelle
tradizionali, da approcci finanziari invece che industriali, e dalle capacità imprenditoriali di
personaggi diversi da quelli dominati internamente dall’impresa stessa; occorre adottare un
approccio quasi da investment bank che, scommettendo su un gran numero di iniziative,
alla fine riesce a ottenere risultati finanziari molto attrattivi dal valore generati di alcune
iniziative che hanno avuto un successo straordinario.
Anche i manager interni all’impresa possono contribuire molto di più al successo
dell’impresa stessa se invece di sentirsi "dipendenti" e "controllati" si sentono "imprenditori"
e "aiutati".
La differenza non è di poco conto: nel primo caso c’è inevitabilmente un conflitto di
interessi fra il responsabile dell’impresa, che si focalizza sul proprio successo e sui profitti,
e ciascun manager che invece vorrebbe avere forti incentivi al proprio sviluppo,
guadagnare di più, aumentare la propria immagine, ecc. Questi conflitti portano spesso i
manager più bravi a lasciare l’azienda per trovare una propria strada, impoverendo così
l’azienda stessa.
L’alternativa vincente è di ribaltare il modo di funzionare dell’impresa: se l’impresa si dedica
"al servizio" di ciascun collaboratore, invece che al suo sfruttamento, le singole persone
saranno più motivate a prendere iniziative, a valutarle con giusta preoccupazione dei rischi
e a superare le difficoltà, perché ciascuna persona (si presuppone che sia capace) lavora
per il proprio successo e, di conseguenza, "tirerà la volata" anche al successo dell’azienda.
Questa filosofia di gestione deve però essere interiorizzata profondamente e non può
essere applicata con il cinismo di molti manager delle multinazionali che, da una parte,
proclamano l’importanza fondamentale delle risorse umane e, dall’altra, sono prontissimi a
licenziare chi non si conforda al loro volere. Gestire le aziende con un sincero interesse per
il successo degli altri è l’equivalente organizzativo dell’informatica distribuita, ed è la
filosofia indispensabile per gestire con successo le "aziende-rete".
Gestire "per il successo degli altri" è il modo migliore per assicurare anche il successo della
propria impresa, almeno quando le condizioni al contorno sono mercati turbolenti, struttura
concorrenziale in evoluzione e notevoli opportunità di diversificazione.
Cinque concetti
Senza dover sempre risalire a Taylor, ma semplicemente osservando le imprese grandi o
piccole che oggi operano con un qualche successo, si constata che cinque concetti
gestionali sono talmente diffusi e accettati da non essere più nemmeno messi in
discussione. Tali concetti sono: gerarchia, burocrazia, distinzione fra azionista e
management, decisionismo centralizzato, ipocrisia. Si tratta delle pietre angolari su cui
poggia il modo di funzionare dell’azienda moderna, e a ciascuna di queste possono essere
collegate anche le più recenti innovazioni quali l’empowerment, il delayering (riduzione dei
livelli gerarchici) e l’organizzazione per processi trasversali. Questi concetti sono
profondamente radicati e hanno caratteristiche binarie, nel senso che non ammettono
variazioni fra 1 e O: una persona è capo di qualcuno o non lo è, ha delle azioni 0 non le ha,
ecc.
1. Gerarchia
Gli organigrammi aziendali sono sempre disegnati con il concetto di piramide: ogni
dipendente deve avere un capo e l’azienda deve avere un solo Amministratore Delegato
(l’utilizzo di due AD, peraltro raro, è più un meccanismo di limitazione del potere che di
rafforzamento del team di vertice). Per gestire la complessità si sono create organizzazioni
divisionali, holding, a matrice e team di progetto, ma si ritiene sempre importantissimo che,
alla fine, ogni manager sia in grado di identificare il proprio capo "che conta": ne consegue
che la preoccupazione fondamentale di ognuno è soddisfare i desideri del capo,
indipendentemente dal fatto che possano coincidere con le proprie aspirazioni o il bene
dell’impresa. Dal concetto di gerarchia derivano i concetti di carriera, che consiste
sostanzialmente nell’essere il capo di un numero crescente di persone, e di line e staff, che
consiste nel suddividere i manager fra quelli capaci di essere capi a tutto tondo e gli altri.
2. Burocrazia
L’azienda organizzata secondo il criterio gerarchico sviluppa nel tempo una gestione
burocratica, fatta cioè di regole generali, di suddivisione di compiti fra chi lavora e chi
decide, di spezzettamento dei processi aziendali, ecc... Inevitabilmente ogni persona
sviluppa l’incentivo a comandare sempre più persone (da cui perenni richieste di aumento
degli organici), si concentra sui propri compiti (nessuno ha la visione d’insieme tranne il
capo supremo), privilegia il rispetto delle procedure alla sostanza degli interventi (per
esempio imparando a "fare il budget" che peraltro ci si era assicurati di costruire in modo
da avere grandi riserve), ecc. La burocrazia è così pervasiva che si estende persino alla
pianificazione aziendale, che dovrebbe invece essere il momento di massima creatività
collettiva. La burocrazia viene considerata un "male necessario" delle imprese; è vero che
tutti ne riconoscono i difetti ma tutti pensano che senza regole comuni ci sarebbe solo il
caos. I rimedi sono talvolta peggiori del male (ulteriori procedure per flessibilizzare le
procedure burocratiche) o vengono considerati come eccezioni in modo da non minare alla
base il principio burocratico (come quando si introducono task force temporanee).
3. Distinzione Azionista/Management
I proprietari dell’impresa sono gli azionisti; qualche volta si dice che lo sono anche gli
stakeholder, e cioè i dipendenti, i fornitori, i distributori e la società in genere, ma lo si dice
più per darsi l’immagine di impresa avanzata che per fatti di sostanza. Quando c’è da
decidere le azioni contano e tutto il resto no; lo stakeholder dipendente può essere
licenziato, lo stabilimento chiuso, il fornitore cambiato. In particolare il manager, anche
quando è nominato Amministratore Delegato è semplicemente un dipendente degli
azionisti. Qualche volta le azioni vengono parsimoniosamente distribuite ai dipendenti,
meglio se sotto la forma di stock option, in modo da qualificarsi come benefit tassabile con
moderazione; un manager con un pacchettino di azioni non è meno "dipendente" di prima e
anche le migliaia di dipendenti ai quali è stato concesso di comprare azioni a prezzi
scontati nel corso di alcune recenti privatizzazioni (per es., ENI) non si sentono certamente
"co-padroni" dell’azienda. Nelle imprese familiari, invece, il ruolo è invertito: uno è manager
in quanto "padrone", indipendentemente dai meriti oggettivi. Dipendenti bravi sono
sottoposti al dominio di persone meno brave, soprattutto quando all’imprenditore di prima
generazione si sostituiscono figli o nipoti; tutto ciò è così diffuso da finire per sembrarci
persino normale.
4. Decisionismo centralizzato
Il capo è "quello che decide", per cui chi è "più capo" decide di più, in quantità o in qualità.
La parola "decisione" ha caratteristiche di virilità, libertà e potenza, per cui un capo che
"non decide" verrebbe inevitabilmente considerato un debole o un inetto. La letteratura
manageriale amplifica questa tipicizzazione del capo = decisore: da Welch a Romiti, da
Gerstner a Tatò si illustrano le doti di un manager esemplificando la sua abilità nel
prendere decisioni giuste, dure, rapide. Poiché i risultati ottenuti da tali manager,
prevalentemente in grandi aziende, sono buoni, se ne deduce che tale stile decisionale sia
appropriato in tutte le occasioni. Se decidere è così importante, binario (si deve decidere sì
o no), e pieno di simboli di potere, il delegare le decisioni deve, per forza, essere l’ultima
ratio di un vero capo. Per la verità spesso vengono delegate le decisioni che uno non è
capace di prendere, in modo da poter dare la colpa agli altri qualora i risultati non fossero
positivi; in genere però, la delega è limitata allo stretto necessario, ed è comunque
sottoposta al coordinamento e al controllo del capo. Al decisionismo centralizzato
corrispondono comportamenti dei "sottoposti" che presentano al capo le informazioni in
modo da preparare decisioni facili e gradite; a un capo "tagliatore di teste" si presenteranno
i benchmark che dimostrano l’inefficienza dell’ azienda, a un capo pavido si nasconderanno
i problemi concorrenziali e così via. In genere, il decisionismo centralizzato porta a
decisioni di tipo "standard"; investire se il ROI è superiore al 15%, ridurre le teste, sfruttare
sinergie trasversali. Al limite, è meglio correre il rischio di decisioni che poi si rivelano
sbagliate, ma che sono state prese secondo le logiche condivise dal proprio settore
industriale, che prendere centralmente decisioni che vanno controcorrente e che, se poi si
rivelano essere sbagliate, espongono il capo al ludibrio dei superiori. D’altra parte, a livello
di vertice non si hanno mai informazioni di prima mano, e prendere decisioni atipiche e
contrarie alla logica che è stata accuratamente predisposta dai sottoposti è veramente
difficile.
5. Ipocrisia
L’ipocrisia è l’olio necessario a far funzionare le grandi organizzazioni; bisogna far finta che
si è d’accordo sulle politiche aziendali, che si stimano i propri superiori, che si crede nella
favoletta dell’azienda interessata veramente al benessere e allo sviluppo delle persone,
ecc. Dichiarare il proprio disaccordo, o dire veramente quello che uno pensa (invece che
dire solo quello che fa aumentare la stima del capo per la persona) espone a rischio di
isolamento e di non fare carriera. L’ipocrisia è talmente diffusa che quando si effettua una
diagnosi organizzativa non ci si può assolutamente basare su quello che le persone dicono
o sulle procedure che descrivono il modo ufficiale di funzionare dell’azienda; bisogna
invece cercare di scoprire come le persone si comportano veramente, quali sono le
aspirazioni e i giudizi nascosti, quali le effettive molle che potrebbero cambiare gli
atteggiamenti: l’analisi organizzativa diventa così una specie di lavoro da detective, fra
persone che mentono e che considerano l’ipocrisia una virtù necessaria.
Questi cinque concetti non dominano solo nelle grandi aziende, ma anche nelle medie
aziende padronali; poiché molte aziende vanno bene, nel senso che realizzano buoni
profitti o quote di mercato elevate, si è venuta a creare la convinzione che ci sia una
correlazione fra risultati e modo di funzionare gerarchico, burocratico, ecc. In altre parole, si
pensa che sia sufficiente introdurre in azienda un pò di antidoti all’eccesso di gerarchia,
burocrazia, ecc., e si è "a posto". Nessuno si chiede invece se la correlazione sia solo
casuale, se i buoni risultati derivino da qualche decisione fortunata presa in un lontano
passato da un bravo imprenditore, se non si siano nel frattempo perse migliaia di
opportunità di far meglio, e se, nel contesto competitivo in cui si dovrà operare in futuro, ci
sia qualche altro modo di organizzarsi, magari meno tradizionale, ma più adatto a
migliorare o difendere i risultati ottenuti in passato.
L’ambiente competitivo
Gli anni ’50-’80 hanno visto una continua espansione dei mercati in tutti i paesi avanzati; in
tale periodo si sono consolidati quei concetti di gestione aziendale che oggi consideriamo
scontati ma che non riconosciamo come funzionali unicamente alla gestione di mercati in
crescita e di grandi aziende in sviluppo. Attua1mente invece l’ambiente competitivo
presenta caratteristiche molto differenti dal passato, e i concetti di base per la gestione
delle aziende dovrebbero essere profondamente differenti.
La stagnazione è la regola nella maggior parte dei mercati e settori industriali, che vedono
tassi di crescita reali inferiori persino alla crescita del PNL; in tali condizioni non è più
importante che l’organizzazione sia razionale e ordinata. È importante che il costo
organizzativo del funzionamento aziendale sia minimo; si può quindi fare a meno dei
sofisticati, ma costosi, controllo di gestione, processo di pianificazione, coordinamento
funzionale, sviluppo organizzativo, ecc., sempreché ci siano altri meccanismi (leggeri) di
governo quali, per esempio, l’autocontrollo delle singole unità di business o produttive.
Inoltre, nei mercati stagnanti conta soprattutto riuscire a dominare il mercato, il che si può
fare solo integrandosi o alleandosi con i concorrenti; è più importante saper fare e gestire
bene le alleanze o l’integrazione con i concorrenti che "comandare" sui propri sottoposti.
La grande varietà di fornitori e distributori oggi esistente permette di riprogettare il
funzionamento dell’impresa integrando in un "sistema di business" persone e aziende che
sono esterne al1’impresa, e che hanno il vantaggio di costare di meno ed essere più
dinamiche. Al limite l’impresa può consistere solo dell’idea di business, acquistando
dall’esterno produzione, servizi, logistica, distribuzione, ecc. È evidente che la gestione di
una costellazione di alleati è profondamente diversa dalla gestione di dipendenti o di
fornitori sottomessi all’impresa.
L’ipersegmentazione dei mercati e la focalizzazione delle imprese su un unico prodotto (o
servizio, o tecnologia o fase produttiva) porta a una grande complicazione del quadro
competitivo, in quanto diventano migliaia gli operatori che, in un modo o nell’altro, possono
avere un impatto sul valore aggiunto dell’impresa. Sempre di più, le strategie di business
non possono essere formulate centra1mente, semplicemente perché a livello centrale
manca la conoscenza di tutti i dettagli necessari per decidere; per contro, delegare le
decisioni strategiche alla periferia dell’impresa è rischioso se in tali luoghi non ci sono
capacità imprenditoriali provate o motivazioni collegate al successo dell’impresa stessa.
Le opportunità di business sono oggi maggiori di quanto non lo siano state negli ultimi 30
anni; di fronte ad aziende che si terziarizzano, che vendono i business marginali per
concentrarsi sul core business, che non sono capaci di vedere i piccoli concorrenti, e, con
un mercato dei capitali affamato di nuove iniziative, esistono moltissime opportunità di
rivitalizzare aziende in perdita e di iniziare nuovi business. Nel mio libro alla tavola 3 ho
illustrato i capitali che sono stati investiti nei private equity funds negli USA (attualmente la
media è di circa 20 miliardi di dollari all’anno) con risultati nettamente migliori di quelli
ottenuti dalle grandi corporation; le opportunità di investimento ci sono state, ma non sono
state colte dalle aziende "normali".
È abbastanza evidente che in un ambiente competitivo, turbolento e pieno di microopportunità i concetti organizzativi tradizionali non sono adatti ad avere successo.
La gerarchia viene vista come un ostacolo allo sviluppo personale dei manager più bravi,
che sono tentati di mettersi in proprio o andare in aziende che permettono di aumentare il
valore del proprio curriculum vitae. Mentre negli ultimi trent’anni erano le grandi aziende ad
attirare e trattenere i migliori, oggi questi vanno verso le piccole aziende in crescita, le
nuove iniziative nel campo del software, le società di consulenza e di merchant banking; i
private equity funds e soprattutto verso le aziende che remunerano con azioni i propri
dirigenti. Tutte le indagini sulle aziende più attraenti e sulla destinazione dei migliori laureati
delle business school dimostrano come l’impresa tradizionale abbia perso l’ appeal che
aveva una volta; inoltre, la maggior parte dei "casi di successo" esaltati dalla letteratura
manageriale illustra personaggi che si sono "messi in proprio" (peraltro dimenticando tutti
quelli che sono così facendo sono falliti). Di conseguenza, la quota di intelligenza e
capacità imprenditoriali disponibile in un dato paese va diminuendo (peraltro lentamente)
nelle aziende tradizionali, organizzate gerarchicamente, a vantaggio delle piccole/medie
aziende e di nuove iniziative imprenditoriali
La burocrazia è diventata un freno intollerabile in un ambiente che cambia con rapidità, che
presenta ogni giorno un nuovo concorrente piccolo e snello e che offre al consumatore
servizi tagliati su misura. La crescente potenza delle soluzioni informatiche mina alla base i
vecchi concetti burocratici perché clienti e fornitori possono ora dialogare direttamente con
l’azienda e fra di loro attraverso reti telematiche; l’impiegato ottuso ma necessario, che era
l’elemento centrale dell’organizzazione burocratica, viene bypas sato e reso inutile.
La distinzione tradizionale azionista/management viene rifiutata dai manager migliori, che
vogliono "sentirsi padroni", almeno in parte, dell’impresa alla quale dedicano la propria vita
professionale; non è soltanto un problema di metodo di remunerazione (stock option invece
che stipendio) perché c’è anche una notevole componente emotiva nel "sentirsi padroni"
Il decisionismo centralizzato diventa impossibile in aziende che operano in decine di aree
geografiche differenti, che servono molti segmenti di mercato attraverso differenti canali e
che forniscono prodotti o servizi complessi. Il vertice aziendale ha l’impressione di prendere
le decisioni più importanti (per esempio, approvare un grande investimento), ma in realtà la
decisione è già presa dai manager di periferia che conoscono bene la situazione e sanno
quale documentazione sarà necessaria per "far passare" la decisione. In queste condizioni
l’unica cosa veramente importante è avere, in periferia, un management migliore di quello
centrale e opportunamente motivato; purtroppo, il concetto di gerarchia comporta spesso
una scelta di collaboratori che non possono "fare concorrenza" al capo, per cui la qualità
manageriale scade verso il basso o verso la periferia, e di conseguenza le decisioni
vengono di fatto prese da persone incompetenti.
L’ipocrisia aziendale, che serve a tenere insieme le imprese lente e burocratiche, viene
rifiutata dai manager migliori, che hanno l’opportunità di andare a lavorare in ambienti
dinamici e nei quali conta "cosa è giusto fare" (e non "chi ha ragione", dato che questi
normalmente è la persona con lo stipendio più alto).
Se nel nuovo contesto competitivo i vecchi concetti dell’organizzazione aziendale sono
superati, perché le aziende non li cambiano?
La ragione è che oggi ogni azienda è costruita in coerenza con tali concetti: i vertici hanno
fatto carriera secondo i principi dell’organizzazione gerarchica, l’ipocrisia è entrata nel
sangue di tutti, non si sopporta l’idea di perdere il potere di decidere (inteso in senso
tradizionale), la burocrazia è rassicurante, e, spesso, perfino l’azionista non desidera il
cambiamento, soprattutto quando è più interessato al controllo che all’aumento del valore
del proprio investimento. La risposta tipica delle imprese alle sfide del nuovo contesto
competitivo è cercare di migliorare il funzionamento e non di riprogettare l’impresa;
fioriscono i progetti di reengineering, di downsizing, di empowerment, di terziarizzazione,
ecc. ma non si affronta seriamente il problema di come rendere coerenti con i fini
dell’impresa le aspirazioni dei migliori manager e dei potenziali alleati dell’impresa.
Il successo degli altri
In un mondo pieno di opportunità, collegate a un modo di pensare non tradizionale,
bisogna riprogettare l’impresa facendo in modo che manager bravi e capaci di pensare in
modo non tradizionale abbiano molto più spazio e siano molto più emotivamente coinvolti
nel successo dell’impresa. In altre parole, bisogna costruire l’impresa intorno ai manager
bravi invece che attirarli in un’impresa già costruita sulla base dei concetti tradizionali.
Questa filosofia di base si declina in modo differente per i diversi tipi di impresa: la grande
impresa, la piccola impresa, l’impresa di servizi, ecc. L’idea di fondo è sempre la stessa:
identificare chi è bravo veramente, allenarlo e selezionarlo in base alle capacità
imprenditoriali, comprenderne a fondo le esigenze, collegarsi anche finanziariamente
fornendo un costante supporto e, infine, gestire un sistema complesso e ambiguo in cui il
successo viene condiviso anche in modo non equo. Costruire un’impresa in base al
"successo degli altri" richiede un approccio mentale sostanzialmente altruista, nel senso
che bisogna essere convinti dell’utilità di dare spazio, onori e soddisfazioni materiali a chi è
bravo, preoccupandosi molto poco di quanto se ne può ricavare direttamente. I concetti di
base di questo approccio sono quattro:
1. Identificare i bravi.
Ogni persona è "brava" relativamente a qualcosa; avendo come oggetto un’impresa che
deve operare in mercati stagnanti, in turbolenza e con opportunità di business non
tradizionali, la definizione di "bravo" si applica necessariamente a manager che pensano in
modo non tradizionale, che hanno una notevole abilità di "sfangare" le situazioni difficili,
che sono capaci di perseverare ma anche di riconoscere i vicoli ciechi, e che hanno una
"carica" interna molto forte (attivismo, volontà di emergere, capacità di sacrificio,
leadership). Naturalmente, per identificarli occorre avere un atteggiamento
pregiudizialmente favorevole per i "diversi", altrimenti si finisce per giudicare brave solo le
persone che hanno avuto successo all’interno delle imprese tradizionali, e che non sono
necessariamente adatte a fare gli imprenditori
2. Selezionare/addestrare i futuri imprenditori.
È sempre rischioso, per un’impresa, puntare tutto su un solo mercato e, analogamente, è
rischioso puntare tutto su un solo manager; l’impresa (industriale, di servizi, finanziaria,
ecc.) deve quindi avere un portafoglio di imprenditori potenziali sui quali puntare,
selezionando nel tempo quelli più promettenti. Tali imprenditori possono essere dei fornitori
particolarmente bravi e capaci di sviluppare nuovi componenti o tecnologie, dei distributori
capaci di aprire nuovi mercati, degli operatori finanziari capaci di presentare nuove
opportunità di investimento, o manager, interni o esterni, capaci di realizzare le mosse
competitive adatte a trasformare l’azienda. La selezione può avvenire soltanto con
un’attenzione prolungata nel tempo in quanto non basta parlare bene o essere brillanti: un
imprenditore è una persona che sa prendere dei rischi calcolati, ma poiche tali decisioni
non si presentano ogni giorno, bisogna osservare la per sona da vicino e per un notevole
periodo di tempo per poter prevedere come si comporterà quando ci saranno decisioni
difficili o quando si presenteranno delle opportunità di business; bravo è chi, nel tempo,
riesce a prendere una maggioranza di decisioni imprenditoriali giuste e che aumentano il
valore dell’impresa più di normali investimenti alternativi.
3. Collegarsi operativamente.
La mentalità tipica con la quale siamo cresciuti negli ultimi trenta anni è che il rapporto fra
l’impresa e gli "altri" (manager, fornitori, ecc.) è un rapporto contrattuale, che si esaurisce
con il pagamento del compenso dovuto; tutt’al più vengono dati degli incentivi per allineare
gli obiettivi personali a quelli dell’impresa (incentivi per la qualità dei prodotti forniti, per i
risultati conseguiti, ecc.), ma persone intelligenti troveranno sempre il modo di "battere" un
sistema di incentivi (per esempio, assicurandosi che i budget siano facili). Si può anzi
affermare che un amministratore delegato che non sia capace di barare a proprio
vantaggio con il sistema di incentivi non merita la propria posizione!
Si pensa normalmente che le esigenze di partecipazione individuale al successo
dell’impresa siano soddisfatte da lodi, da esortazioni a sentirsi tutti una "grande famiglia",
da convention aziendali e da altre simili ipocrisie. In realtà i manager o gli imprenditori
esterni più bravi diffidano dell’impresa, conoscono i meccanismi per arricchirsi a scapito
dell’impresa stessa, e pensano comunque sempre di valere molto di più di quanto venga
loro riconosciuto.
L’unico modo è far credere a una persona che l’impresa abbia davvero cuore le sue sorti e
che ciò sia effettivamente vero; bisogna quindi che l’impresa si metta nello stato d’animo di
aiutare ciascuna delle controparti (manager, fornitori, clienti) ad avere successo nei termini
in cui essi lo definiscono, e cioè più ricchezza, più capitalizzazione del proprio valore, più
immagine, più flessibilità, ecc. La scommessa è che, rinunciando in parte al potere di
comandare, di licenziare, di farsi ossequiare, l’impresa riesca ad "agganciarsi" a operatori
che, in media, risulteranno vincenti, e che trascineranno l’impresa nel loro successo. Le
forme in cui il collegamento può avere luogo sono le più varie: partecipazione del partner
nell’azienda, aiuto al manager nel mettersi in proprio, forte incentivazione con stock option,
reale collegialità decisionale, ecc.; l’essenziale è che l’operatore potenzia1mente vincente
abbia la certezza che l’impresa sia rea1mente interessata al suo successo e che lo
"scambio" (imprenditorialità condivisa contro aiuto) sia sostanzialmente equo, naturalmente
da un punto di vista soggettivo.
4. Gestire il rapporto.
Che un’impresa consideri come partner un proprio manager, o che gli azionisti si mettano
"allo stesso livello" dell’amministratore delegato (entrambi investono nel business, anche
se in modi diversi), o che il fornitore venga considerato come un socio di fatto, può
sembrare talmente strano e improbabile al soggetto direttamente interessato da richiedere
alcuni test prima di crederci veramente. A seconda dei casi i test possono essere la
richiesta di stock option, la presentazione di un budget "facile", la richiesta di un aumento di
prezzo per giustificare un investimento, ecc. È essenziale che l’impresa si comporti
effettivamente da socio, riconoscendo anche esplicitamente di non essere in grado di
sovrapporsi al giudizio dell’altro partner e quindi che si fidi del suo fiuto (naturalmente
collegato al suo self-interest). Il risultato da perseguire è l’effettiva convinzione del partner
di avere l’impresa al proprio servizio, non la percezione da parte dell’impresa che sia così;
dopotutto, le persone brave, manager o imprenditori che siano, sono soprattutto delle
primedonne, e, o si accetta il loro giudizio soggettivo o si rimane esterni a essi. Comunque,
il test avviene sempre in una situazione complicata e di tensione ed è in tale frangente che
il partner giudicherà dell’effettivo altruismo dell’impresa.
È molto difficile, per un impresa o per un investitore, sviluppare un approccio focalizzato sul
"successo degli altri" perché siamo tutti condizionati dal fatto che gestire il potere è stato in
passato la chiave di volta del successo delle imprese o degli investitori. Oggi però il potere
è passato nelle mani di quelle persone brave che sanno rischiare ragionevolmente, sanno
impegnarsi su idee nuove, sanno avere leadership su altre persone brave, e quindi il
"potere" di chi "ha i soldi" deve venire a patti con chi "ha le idee" e può realizzarle.
L’approccio che propongo richiede anche un atteggiamento mentale pregiudizialmente
favorevole alla nuove soluzioni, alla violazione di regole tradizionali, all’amplificazione di un
particolare vantaggio competitivo, e alla protezione delle persone "brave ma diverse": non
è certo con modi di pensare e manager tradizionali che imprese "Davide" batteranno i
concorrenti "Golia". Per questo motivo bisogna conoscere bene la mentalità e le regole di
funzionamento delle grandi aziende multinazionali e saper discernere quando è opportuno
seguirle e quando invece bisogna andare controcorrente.
L’approccio "il successo degli altri" implica anche una serie di comportamenti radicalmente
diversi da quelli tradizionali:
Non esiste più la gerarchia perché i "bravi" si misurano continuamente fra di loro,
ognuno è bravo nel fare quello che sa fare, nessuno riconosce nell’altro un "capo" ma un
alleato, un partner, un collega, un allenatore. L’atteggiamento di un direttore commerciale
verso il suo Amministratore Delegato, verso il direttore tecnico o verso un fornitore, è quello
di colleghi, di soci di fatto in una serie di iniziative che devono aumentare il valore
dell’impresa per tutti. Tra l’altro questo atteggiamento comporta che i responsabili
aziendali, invece di circondarsi di yes men talvolta mediocri, cercheranno di mantenere
interessate a lavorare insieme persone di altissima qualità: quanto più "gli altri" sono bravi,
tanto più successo avrà chi sta in loro compagnia!
La burocrazia viene ridotta al minimo perché ognuno è ben conscio di quanto gli
costa, perché si dà fiducia all’esperienza di ciascuno e soprattutto perché si fa a meno di
quella bardatura che è utile solo a proteggersi dalle ingerenze dei livelli superiori.
La distinzione azionista/dipendente non è così netta in quanto ognuno dei partner
considera che il proprio valore aumenta attraverso l’associazione reciproca: un manager
ottiene progressivamente più azioni dell’azienda, un fornitore si sente tranquillo sulla
stabilità a lungo termine del proprio rapporto con il cliente, ecc. Essere un stakeholder non
è più solo un modo di dire ma comporta, di fatto, dei diritti/doveri crescenti nel tempo.
Le decisioni sono prese da chi si è omologato, nel tempo, dimostrando di saperle
prendere giuste; chi "sta sopra" si comporta più come un tutore o un allenatore che come
un capo.
L’ipocrisia è bandita, in quanto l’unico obiettivo comune è di prendere le iniziative
giuste, senza preoccupazioni per la propria immagine e carriera.
L’ipocrisia è bandita, in quanto l’unico obiettivo comune è di prendere le iniziative
giuste, senza preoccupazioni per la propria immagine e carriera.
Questo approccio alla gestione delle imprese ipotizza che ciascun manager o partner
riesca a generare un valore molto superiore, per se e per l’impresa collegata, se è convinto
di lavorare per il proprio successo: egli dedicherà al lavoro molto più tempo di quanto non
farebbe se fosse solo un dipendente, avrà il corag- gio di prendere decisioni giuste ma
impopolari, ricercherà seriamente nuove opportunità sapendo che ne condividerà i benefici,
ecc. Una parte di questi risultati si ottiene anche con un buon programma di incentivazione,
ma nessuna stock option concessa dall’alto equivale al coinvolgimento emotivo di sentirsi,
almeno in parte, proprietario del proprio destino e capace di fare diventare un asset
monetizzabile la propria capacità ed esperienza.
I limiti
L’approccio descritto in questo articolo è evidentemente un pò radicale, in quanto rifiuta
tutti i concetti in base ai quali sono organizzate le aziende oggi, e propone di mettere le
persone brave (chiaramente, dopo una sufficiente dimostrazione della loro effettiva
bravura) al centro dell’organizzazione dell’impresa. Questo approccio può essere valido in
tutti quei casi in cui il responsabile dell’impresa (azionista o amministratore delegato) abbia
la sensazione che le regole del successo futuro siano molto differenti da quelle del
passato; non serve invece per gestire pedissequamente l’esistente, per migliorare
marginalmente le grandi organizzazioni, per presentare una faccia innovativa in situazioni
in cui si vuole che tutto rimanga come prima. Non serve soprattutto se si ha a che fare con
manager non bravi che si approfitterebbero indegnamente della fiducia e autonomia loro
concessa. La domanda di fondo che molti di noi dovrebbero porsi è: "perché non siamo
soci di manager o imprenditori che oggi hanno dimostrato di essere vincenti?".
Naturalmente avremmo dovuto collegarci con loro 20 anni fa, quando avevano bisogno di
aiuto, e naturalmente avremmo dovuto fare la stessa cosa con molti altri manager o
imprenditori che sembravano avere le potenzialità di successo ma che poi si sono rivelati
perdenti, per mancanza di abilità o per semplice sfortuna; nelle corse "strane" non si può
puntare tutto su un solo cavallo. Oggi, intorno a noi, ci sono tanti imprenditori e manager
che avranno dimostrato il loro potenziale fra venti anni; la nostra abilità sta nell’individuarli,
nell’aiutarli, e nel collegarci a loro in modo che il loro successo rappresenti anche per noi
(investitori, imprese, ecc.) l’opportunità di ottenere dei risultati altrimenti non perseguibili.
Poiche tutto il trucco sta nel "catturare", o meglio, collegarsi con le persone brave e farle
lavorare anche nell’interesse dell’azienda, ci sono infinite situazioni intermedie fra l’aderire
integralmente ai concetti nuovi e mantenersi invece ancorati ai concetti superati: una
grande generosità da parte dell’imprenditore nei confronti dei propri manager, un effettivo
incoraggiamento a dire quello che si pensa senza essere penalizzati, dei meccanismi che
permettono alle molle imprenditoriali di ciascun manager di testarsi, sono spesso sufficienti
per trattenere, intorno all’imprenditore, i migliori manager e per incentivarli a innovare
senza pretendere sostan zialmente nulla in termini di potere o di controllo aziendale. L
’unica raccomandazione che mi sento di fare a un imprenditore che volesse seguire questa
filosofia gestionale è di non farlo per finta; non funzionerebbe, e ci si priverebbe dei sistemi
di controllo tradizionali. Se l’imprenditore vuole assolutamente dominare personalmente la
propria impresa, e di conseguenza correre il rischio di perdere i manager migliori, può
aiutare i più bravi a mettersi in proprio prendendo una partecipazione nelle loro aziende.
Conclusioni
La filosofia di gestione "il successo degli altri" si applica preferibilmente alle situazioni in cui
l’abilità delle singole persone è fondamentale per il successo dell’impresa: mercati in
crescita turbolenta, opportunità di business non tradizionali, servizi, ecc. Nelle situazioni
stabilizzate, o che si vuol far rimanere tali, l’approccio tradizionale va bene, ma non ci si
deve poi lamentare se manca imprenditorialità e innovazione.
La chiave di volta per adottare il nuovo approccio è che l’investitore o il "capo" abbandoni
completamente degli schemi mentali collegati al concetto di potere e pensi a se stesso
come un allenatore. Un allenatore cerca in primo luogo di essere collegato ai migliori atleti;
successivamente, si domanda, in ogni situazione {preparazione di un budget, decisione di
un investimento, ecc.), cosa si può fare per aiutare le persone che sono attorno al tavolo
con nuove idee, incoraggiamenti, rassicurazioni, stimoli, ecc. L’obiettivo superiore è
evidentemente quello di ottenere, tutti insieme, risultati superiori a quelli dei concorrenti;
bisogna quindi interrogarsi continuamente, e sulla base di molte e differenti fonti di
informazioni e stimoli, su quali obiettivi potrebbero essere perseguiti, quali problemi o
opportunità sono da considerare prioritari, quali azioni sono possibili cambiando i vincoli e il
modo di pensare. In ogni circostanza tutti gli stakeholder intorno al tavolo devono sentire
che stanno guadagnando dall’associazione reciproca qualcosa di più che il compenso
previsto dal contratto; devono soprattutto sentirsi liberi di perseguire gli obiettivi di business
che ritengono desiderabili personalmente, e sentirsi aiutati nel farlo.
In questo articolo, come nel libro Il Successo degli Altri ho sottolineato, e spero anche
dimostrato, che questo modo di gestire può essere davvero la chiave di volta per aver
successo in un mondo in cambiamento. Sviluppare strategie che facilitano il successo dei
propri partner in business, organizzare le aziende in modo da creare tante persone vincenti
(persone, non dipendenti), guidare il cambiamento in modo che la maggior parte dei
collaboratori lo riconosca come desiderabile (se non all’inizio, almeno alla fine) sono tutte
modalità di pensiero e di gestione che pongono il successo degli altri come una costante.
Finora ho constatato che il successo della propria impresa ne deriva quasi
automaticamente, mentre il contrario non avviene spesso.
C’è evidentemente un po’ di idealismo in questa interpretazione del modo giusto per fare
funzionare oggi le aziende. Senza idealismo non si va da nessuna parte; con un idealismo
basato sulla conoscenza dell’evoluzione probabile dell’ambiente competitivo, sulla ricerca
di soluzioni originali, sulla fiducia nella capacità delle persone e sull’esperienza della
capacità di cambiare si può invece riuscire a trovare la strada per aiutare le imprese
italiane a vincere una sfida competitiva che è diventata globale.
Ottobre 1998
Gianfilippo Cuneo