la piuma del diavolo

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la piuma del diavolo
LIBRO
IN ASSAGGIO
LA PIUMA DEL
DIAVOLO
DI MINETTE WALTERS
La piuma del diavolo
DI MINETTE WALTERS
Paddy's bar
I
Non so se la vicenda avesse suscitato molto interesse in Occidente.Credo
che in Sudafrica se ne fosse parlato parecchio, ma solo perché in quel
periodo la campagna contro gli stupri gli omicidi era considerata una priorità.
Fui trasferita in sia poco tempo dopo e quindi non venni a sapere come finì il
processo. Davo per scontato che i tre ragazzi fossero stati conndannati
perché, come tutto, anche la giustizia in Sierra Leone doveva fare i conti con
gravi ristrettezze economiche. Ammesso e non concesso che ai tre imputati
fosse stato assegnato un difensore d’ufficio, le confessioni circostanziate da
loro rese sarebbero comunque bastate a giustificare una condanna
sommaria.
Sapevo che Alan Collins aveva dei dubbi sulla loro colpevolezza, ma visto
che la richiesta di far intervenire un patologo dalla Gran Bretagna era stata
negata, gli restava ben poco da fare. Era in una posizione difficile —
osservatore più che consulente — ed era a due sole settimane dal congedo.
Tuttavia, Collins rimaneva scettico.
« Non erano in condizione di essere interrogati », mi riferì. « I genitori della
ragazza sequestrata li avevano massacrati di botte: avrebbero detto qualsiasi
cosa, pur di avere un attimo
di tregua.»
Anche le scene del crimine lo lasciavano perplesso. « Ne ho viste due e né in
un caso né nell’altro mi è sembrato uno stupro collettivo », mi disse. « Le
vittime erano rannicchiate
in un angolo, con la testa e le spalle maciullate e numerose ferite da taglio
sulle braccia, da cui si capiva che avevano disperatamente cercato di
difendersi. Era abbastanza evidente che l’aggressore era uno. Le ferite erano
tutte sulla parte anteriore del corpo. Se fossero stati tre, le vittime avrebbero
avuto ferite anche sulla schiena e sui fianchi.»
« Che cosa puoi fare tu?»
«Poco o niente. La vicenda non interessa più a nessuno, i ragazzi hanno
confessato. Ho segnalato una serie di anomalie, ma a Freetown i medici sono
pochi e gli anatomopatologi ancora meno.» Fece un sorriso cupo. «L’opinione
generale è che quei tre meritassero comunque una condanna, visto che sui
fatto che stessero cercando di rapire Amie Jonah non ci sono dubbi.»
«Be’, se hai ragione tu, l’assassino potrebbe colpire ancora. A quel punto, i tre
ragazzi verrebbero prosciolti.»
«Dipende. Se l’assassino è uno di qui, forse. Ma se appartiene al contingente
straniero...» Si strinse nelle spalle. «Potrebbe andare a sfogarsi altrove.»
Se già avevo dei sospetti a proposito di John Harwood, quel colloquio me li
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fece aumentare. Quando me lo indicarono al Paddy’s Bar, l’equivalente di
Stringfellows a Freetown, mi resi conto che l’avevo già visto. Forse a
Kinshasa, nel 1998, quando facevo l’inviata in Congo durante la guerra civile?
Me lo ricordavo in divisa, e questo voleva dire che era un mercenario, visto
che l’esercito britannico non era coinvolto in quel conflitto. Non mi pareva che
si facesse chiamare John Harwood, però.
Nella primavera del 2002 in Sierra Leone girava in borghese e aveva una
brutta fama. Personalmente, lo vidi coinvolto in tre risse, ma sembrava che
avesse partecipato a molte altre senza mai pagarne le conseguenze. Di
statura media, asciutto, muscoloso, con braccia e gambe possenti e un collo
taurino, ricordava un po’ un terrier. E di quella razza aveva anche la ferocia.
Gli stranieri lo evitavano, specie quando beveva.
Al tempo ce ne erano parecchi, a Freetown: militari e funzionari delle Nazioni
Unite impegnati a cercare di rimettere piedi il Paese, giornalisti, membri di
organizzazioni non
governative e filantropiche e missionari. Alcuni, come .Harwood, erano lì
privatamente. Harwood lavorava come autista e guardia del corpo per un
imprenditore libanese che si vociferava avesse interessi in una miniera di
diamanti. Ogni tanto i due Sparivano con delle valigie blindate, per cui
probabilmente era vero.
Anch’io cercavo di evitare Harwood. La vita è troppo breve per fare amicizia
con lupi solitari incattiviti con il mondo intero. Una volta, tuttavia, nei sei mesi
che trascorsi in Sierra Leone lo avvicinai per chiedergli di riferire al suo boss
che desideravo intervistarlo. I diamanti erano un tema scottante. Nella Sierra
Leone da decenni la proprietà delle miniere era contesa da più parti e la
popolazione era esclusa da quella fonte di ricchezza: il risentimento per la
miseria in cui era costretta a vivere era la scintilla che aveva fatto scoppiare la
guerra civile.
Come prevedibile, l’intervista non mi fu concessa. Però ebbi un breve
scambio con Harwood. Non essendo riuscito a trovare una domestica che
andasse a fargli le pulizie in casa
e a cucinare, spesso la sera cenava da solo al Paddy’s Bar. Fu lì che lo
avvicinai. Gli dissi che ci eravamo già visti e lui fece un cenno di assenso.
«Non la ricordavo così graziosa, signorina Burns mi disse. Aveva un forte
accento di Glasgow. «L'ultima volta che l’ho vista, era uno scriccioletto...»
Mi sorprese che sapesse come mi chiamavo, e ancor più che, sia pur con
ironia, cercasse di mostrarsi galante. Una cosa era certa: detestava le donne.
Dimostrava tutta la sua misoginia soprattutto dopo un certo numero di boccali
di birra Star. I pettegoli dicevano che fosse al terzo stadio della sifilide,
contratta da una prostituta, ma io non ci credevo: grazie alla penicillina, ormai
nessun occidentale andava mai oltre il primo stadio.
Spiegai a Harwood che cosa volevo e gli diedi un elenco di domande e una
lettera di accompagnamento in cui spiegavo il contesto delI’intervista. «
Potrebbe darli al suo capo e dirmi che cosa ne pensa, per favore? » Era
difficile contattare chiunque, senza un intermediario. I ribelli avevano distrutto
la rete delle comunicazioni, si viveva in edifici protetti ed era impossibile
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superare gli sbarramenti, senza un appuntamento.
Harwood mi restituì i fogli. « La risposta è no, a entrambe le domande.»
« Perché?»
« Il mio capo non parla con i giornalisti.»
« Lo dice lui o lo dice lei?»
« No comment.»
Sorrisi. « Allora mi dica come fare per contattarlo, per favore. »
«No. Non lo può contattare e basta.» Incrociò le braccia e mi guardò in tralice.
«L’avverto, signorina Burns, non faccia sciocchezze. La risposta è no.»
Capii che era una risposta definitiva e, benché ci fossero parecchi stranieri in
giro cui avrei potuto chiedere di darmi una mano, evitai di insistere: non
volevo fare una brutta fine.
Il Paddy’s Bar era il locale preferito della comunità internazionale. Era l’unico
a essere rimasto aperto per tutti gli undici anni del conflitto, era grande,
faceva sia da bar sia da ristorante, aveva un bel dehors e attirava un gran
numero di prostitute locali in cerca di valuta straniera. Si diceva che queste
ultime girassero alla larga da Harwood, che una volta ne aveva mandato una
all’ospedale. Harwood parlava pidgin English, la lingua franca della Sierra
Leone, ma insultava pesantemente le ragazze nel loro idioma. Le chiamava
«piume del diavolo» e se provavano ad abbordarlo alzava le mani.
Con le europee stava un po’ più attento. C’erano molte donne nelle
organizzazioni benefiche e nelle missioni, ma con le bianche Harwood si
tratteneva. Forse era intimidito, dato che erano tutte più in gamba di lui, con
una sfilza di titoli davanti al cognome, o forse si rendeva semplicemente conto
che con loro non l’avrebbe fatta franca. Preferiva prendersela con le nere, che
erano meno istruite. Oltre che misogino, era pure razzista.
Nessuno sapeva quanti anni avesse. Aveva la testa completamente rasata,
con un tatuaggio raffigurante una scimitarra alata sulla nuca, e la pelle
coriacea di chi ha preso troppo sole nella vita. Da ubriaco, si vantava di aver
fatto parte della squadra dello Special Air Service che aveva fatto irruzione
nell’ambasciata iraniana a Londra nel 1980 e sosteneva di essersi fatto
tatuare la scimitarra in ricordo di quell’operazione. Se fosse stato vero,
avrebbe dovuto avere una cinquantina d’anni, mentre la forza con cui sferrava
pugni era quella di un uomo più giovane. Nonostante il marcato accento
scozzese, sosteneva di essere di Londra. Nessuno ci credeva, però, così
come nessuno credeva che si chiamasse veramente John Harwood.
Tuttavia, se Alan Collins non avesse fatto quel commento a proposito del
contingente straniero, non mi sarebbe venuto in mente che potesse essere
stato Harwood a uccidere quelle donne. In ogni caso, non potevo fare nulla:
Alan ormai era tornato a Manchester e delle cinque donne assassina- te
nessuno parlava più.
Comunicai i miei sospetti ad alcuni colleghi, che però rimasero scettici. Non
c’erano stati altri omicidi dopo la cattura dei tre ragazzi, mi fecero notare, e
Harwood era uno che usava i pugni, non i coltelli. Ma, soprattutto, non
avrebbe violentato quelle poverette. « Non riuscirebbe a toccare una nera
neppure con un palo del telegrafo », disse un cameraman australiano.
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«Figurati scoparsela..»
Mi arresi, perché l’unica prova che potevo citare contro Harwood era
un’aggressione ai danni di una giovane prostituta al Paddy’s Bar. Vi avevamo
assistito in un centinaio, ma la ragazza aveva preferito una somma di denaro
al processo e ufficialmente dell’episodio non esisteva traccia. In ogni caso,
stavo per andarmene dalla Sierra Leone e non volevo cominciare qualcosa
che poi mi ritardasse la partenza. Mi convinsi che la faccenda non mi
riguardava e soffocai il mio senso di giustizia.
Avevo passato quasi tutta la vita in Africa: ero nata e cresciuta nello
Zimbabwe, dove mio padre aveva alcune terre, avevo lavorato come
giornalista in Kenya e Sudafrica e infine ero diventata corrispondente per la
Reuters. La conoscevo bene e l’amavo, ma nel 2002 ne avevo abbastanza:
ero stufa di scrivere articoli su storie di corruzione e conflitti ignorati da tutti.
Volevo passare un paio di mesi a Londra, dove i miei genitori si erano
trasferiti nel 2001, e poi partire per Singapore, sempre alle dipendenze della
Reuters.
L’ultima sera prima della partenza da Freetown, Harwood mi venne a trovare.
Stavo facendo i bagagli. Manu, una delle guardie del compound, lo
accompagnò fino alla mia porta e mi chiese se volevo che si trattenesse
durante il colloquio. Gli dissi di no, ma decisi di dare udienza a Harwood in
terrazza, dove tutti potevano vederci.
Harwood studiò la mia faccia inespressiva. « Non le sono molto simpatico,
signorina Burns, vero?»
«No, direi proprio di no.»
Parve divertito dalla mia risposta. «Solo perché non le ho lasciato intervistare
il mio capo?»
«No.»
Apparentemente colto di sorpresa dalla mia reazione disse: «Non creda a
quello che dicono di me».
«L’ho vista all’opera personalmente.»
Si rabbuiò. «Allora sa che è meglio non farmi arrabbiare.»
«Certamente. Mi dica: che cosa vuole da me?»
Mi porse una busta, chiedendomi di imbucargliela a Londra. Era una richiesta
consueta, visto che le poste della Sierra Leone erano piuttosto inaffidabili. In
genere si lasciava la busta aperta, in maniera che il latore potesse mostrare
alla Dogana che non conteneva niente di illegale. Harwood invece l’aveva
chiusa. Quando mi rifiutai di prenderla, a meno che non mi facesse vedere
che cosa c’era dentro, lui se la infilò di nuovo in tasca.
<(Un giorno avrà bisogno di me », disse.
«Ne dubito.»
«Se mai succederà, signorina Burns, sappia che non potrà contare sul mio
aiuto. Ho buona memoria.»
«Non credo che succederà. Lei e io non ci rivedremo mai più.»
Harwood si voltò. « Non ne sia tanto sicura », disse an dandosene «Per la
gente come noi il mondo è davvero pic colo.» Lo osservai mentre si
allontanava. Il nome che avevo letto
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sulla busta, Mary MacKenzie, seguito da un indirizzo di Glasgow, mi aveva
fatto venire in mente una cosa. Sì, era proprio a Kinshasa che avevo visto
Harwood per la prima
volta. Ai tempi faceva parte di un gruppo di mercenari al soldo di Laurent
Kabila e si faceva chiamare Keith MacKenzie.
Mi chiesi perché avesse cambiato nome e come avesse fatto a procurarsi un
passaporto intestato a John Harwood, ma la mia curiosità non durò a lungo.
Quando avevo detto che non ci saremmo rivisti mai più, ne ero veramente
convinta.
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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