editoriale allegato in basso in formato pdf - Limes

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editoriale allegato in basso in formato pdf - Limes
L’AMERICA IN PANNE
Apollo 13
I
L «NUOVO SECOLO AMERICANO» È MAL PARTITO. OGGI GLI STATI
Uniti sono meno potenti e molto più insicuri di quanto fossero allo scadere
del Novecento. Il disastro iracheno scuote il paese. La guerra al terrorismo
sembra invincibile. Peggio, infinibile. L’antiamericanismo serpeggia ovunque. Gli alleati si defilano. Su scala globale la «superpotenza solitaria» è sfidata da stelle vecchie (Russia) e nuove (Cina). Antagonisti regionali come
Iran e Venezuela sconvolgono gli equilibri a stelle e strisce nelle aree decisive
per l’approvvigionamento petrolifero degli Usa. La vulnerabilità energetica e
finanziaria di un paese che si illudeva indipendente dal resto del mondo
oscura l’orizzonte dell’American way of life: più di uno stile di vita, l’autentico patto sociale su cui si fonda la nazione dell’ottimismo e del progresso.
L’élite di Washington oscilla fra depressione e autoesaltazione. «Failure
is not an option» – «il fallimento non è un’opzione» – recita il mantra stile
Apollo 13 di Bush e associati. Vero: non è un’opzione. È un fatto.
L’America è stata battuta tre volte in cinque anni. L’11 settembre
2001, quando un commando suicida la colse con la guardia bassa e scosse d’un colpo le certezze di chi si sentiva intangibile in casa propria. E negli ultimi tre anni in Afghanistan e in Iraq, dove i soldati americani, dopo
il miraggio della vittoria lampo, non riescono a domare le guerriglie e i
terrorismi interni e d’importazione. Tre gravi sconfitte, da cui potrebbe
scaturire una disfatta strategica.
Non è facile ammettere di aver perso, specie quando si è abituati a
vincere. Tanto più se si tiene al verdetto della storia. E Bush, uomo di sincera fede, è troppo imbevuto di messianismo per trascurare i posteri. Nel
frattempo, deve evitare al suo partito la débâcle alle elezioni presidenziali
del novembre 2008. È quindi sullo sfondo di una campagna elettorale semipermanente che conviene leggere il confronto politico-mediatico su come recuperare la sicurezza perduta. Bush ha poco più di un anno per
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convincere il pubblico che in Iraq e negli altri fronti di guerra il peggio è
passato. Impresa non impossibile. L’America non è condannata al declino. Ma il primo passo della risalita è ammettere il fallimento attuale. Senza rimozioni (repubblicane) né catastrofismi (democratici).
2. Due scuole si affrontano oggi nel dibattito strategico americano su
Iraq e dintorni. La prima punta sul rilancio, la seconda sulla limitazione
dei danni. Al netto della retorica elettorale, i due schieramenti – trasversali alle correnti politiche e ideologiche – sono forse meno antipodali di
quanto amino apparire. Vediamo.
I fautori del rilancio, guidati da Bush, si annidano alla Casa Bianca
e nei think tanks amici, a cominciare dall’American Enterprise Institute e
dalla Heritage Foundation. Vi aderisce più o meno convintamente il grosso del Partito repubblicano. I suoi esponenti più intrepidi sono il vicepresidente Dick Cheney e il senatore John McCain, aspirante successore di Bush. Pentagono, Dipartimento di Stato e agenzie di intelligence sono come
d’abitudine percorse da furiose lotte di fazione – quasi una guerra civile
fredda, corresponsabile del caos concettuale e operativo nei teatri bellici –
ma sono tenuti a seguire l’impulso del comandante in capo, non fosse che
per lealtà e dovere d’ufficio. E l’orientamento di Bush è chiaro, almeno
nelle intenzioni: «Da voi voglio sentire come vinceremo, non come ce ne
andremo» – così il presidente ha ammonito un gruppo di generali convocati ad inventare qualcosa per salvare la campagna d’Iraq 1. La vittoria è
possibile. Anzi, doverosa.
Ma come? Donald Rumsfeld, capro espiatorio della disfatta mesopotamica, amava ripetere: «Se non riesci a risolvere un problema, allargalo».
Bush traduce: se non riusciamo a stabilizzare l’Iraq, destabilizziamo l’Iran. Proviamo a rovesciarne il regime. O almeno mettiamolo all’angolo,
per costringerlo a ridimensionare le sue ambizioni egemoniche sul Golfo e
a rinunciare all’arsenale atomico. Se poi a Teheran qualcuno decidesse di
far fuori Ahmadi-Nejad per trattare con noi, tanto meglio. Appendere lo
scalpo del presidente iraniano alla Casa Bianca – metaforicamente, s’intende – avrebbe un effetto ritemprante sul morale della nazione, riscatterebbe in parte i rovesci in Iraq e in Afghanistan e varrebbe probabilmente
qualche punto per il candidato repubblicano alla successione di Bush.
Un rilancio da scommettitore che ha perso quasi tutto e getta le ultime
fiches su un piatto impossibile? Forse. Ma paradossalmente potrebbe funzionare. Sia sul fronte interno (elettorale) che su quello mediorientale. In
casa, perché l’ostinazione di Bush è molto americana. Come ricorda lo
storico John Lewis Gaddis, quando è in pericolo l’America inclina a crede-
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1. Cfr. D.E. SANGER, M.R. GORDON, J.F. BURNS, «Chaos Overran Iraq Plan in ’06, Bush Team Says», The
New York Times, 2/1/2007.
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re che «la salvezza venga dall’allargamento piuttosto che dalla contrazione della sua sfera di responsabilità». Se di fronte alla minaccia molte altre
nazioni «si comportano come la maggior parte degli animali, trincerandosi in difesa o rendendosi quasi invisibili», gli americani invece rispondono
«passando all’offensiva, facendosi più grossi», perché «l’espansione è per
noi la via alla sicurezza» 2.
Ma per sollecitare questo riflesso occorre una grande strategia mediorientale. È quanto Bush ha cercato di definire negli ultimi mesi. Ancora
non ha trovato un’esplicita sistemazione, ma il nuovo approccio si basa
sui seguenti postulati.
A) L’Iran è il nemico principale. La Siria, Õizbullåh e Õamås i suoi alleati più pericolosi. Teheran può oggi aspirare a dominare il Golfo, minacciandovi i vitali interessi Usa. Quel regime è particolarmente perverso
in quanto animato dall’intenzione di liquidare Israele e di sovvertire i regimi arabo-sunniti più o meno vicini a Washington – dall’Egitto all’Arabia Saudita – facendo leva soprattutto sulle rispettive minoranze sciite.
Inoltre la sua influenza radicata nell’Afghanistan occidentale e nell’Iraq
centro-meridionale è una diretta minaccia ai soldati e agli interessi americani nei due teatri più caldi della guerra al terrorismo. O meglio, del
braccio di ferro Usa-Iran.
B) Tutte le mosse sullo scacchiere mediorientale (e oltre) vanno dunque calibrate allo scopo di sconfiggere l’Iran. L’obiettivo massimo è di sostituire al vigente un regime filoamericano. Quello minimo, di indurre
Teheran a rinunciare all’arma atomica. E insieme limitare le sue ambizioni di controllo sull’Iraq e sull’intera regione del Golfo, ma anche sull’Afghanistan e sul Libano. Infine, l’Iran deve disinteressarsi dei Territori
palestinesi e mettere la sordina alla retorica antisraeliana e antisemita.
Anche per rassicurare Gerusalemme, che altrimenti potrebbe essere tentata da uno strike aereo preventivo contro le installazioni nucleari iraniane. Idem per gli alleati arabi e sunniti, timorosi di essere abbandonati dal
grande protettore a stelle e strisce, garante della loro sopravvivenza.
C) In vista di questi obiettivi gli Usa promuovono il contenimento dell’Iran. Come Truman inventò la Nato (1949) e Nixon mobilitò la Cina (1972)
per chiudere la morsa attorno all’Unione Sovietica, così oggi Bush intende
stringere un anello al collo dei mullah persiani. Contro questo nemico – sperano alla Casa Bianca – si può ricorrere alla deterrenza. Tornano le care
vecchie regole della simmetria di potenza. La guerra si riconvenzionalizza.
E su questo terreno gli Usa si sentono imbattibili.
Contrariamente all’Iraq – un caos di territori contesi – l’Iran ha infatti un consolidato profilo istituzionale e una sua rete di relazioni interna2. J.L. GADDIS, Surprise, Security and the American Experience, Cambridge MA-London 2004, Harvard
University Press, p. 13.
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zionali più o meno classiche. Nel confronto con questo soggetto si può agitare il bastone sopra il tavolo ed esibire qualche carota sotto (discreti canali di comunicazione restano aperti fra Washington e Teheran). E a differenza di al-Qå‘ida – una nebulosa terroristica, per definizione non territorializzabile né terrorizzabile – l’Iran è un nemico visibile, relativamente omologo. Perché è un regime. Di più: una poliarchia. Poteri diversi,
diversamente legittimati – da Dio e dal popolo – e fra loro concorrenti. Ed
è un paese multietnico e multiculturale, in cui le minoranze arabe, curde,
baluci e turchesche – sperano alcuni strateghi Usa – possono essere sobillate contro la maggioranza persiana. Nei suoi vertici politico-religiosi convivono faticosamente misticismo apocalittico e calcolo razionale. Di norma
prevale quest’ultimo. Insomma, l’Iran è sensibile alla pressione. Può essere
indotto al compromesso, se non alla resa, dall’accerchiamento geopolitico,
economico e militare.
Sul primo fronte, la diplomazia Usa sta pazientemente allestendo un
«asse sunnita» che comprende Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Kuwait,
Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Oman. Un raggruppamento arabo
curiosamente allineato con Israele dal comune timore della Persia sciita.
Quasi una riabilitazione postuma di Saddam, che negli anni Ottanta era
l’avamposto dell’Occidente contro la repubblica di Khomeini, e che sul patibolo ancora ammoniva: «Non fidatevi dei persiani» – categoria da lui
estesa agli sciiti iracheni.
Anche il Pakistan di Musharraf dovrebbe associarsi, per minare gli interessi iraniani in Afghanistan e premere sul fronte orientale, nella zona
di instabilità a prevalenza baluci. Mentre sul versante occidentale la Turchia, paese sunnita e partner Nato, non è certo in condizione di offrire
sponde ad Ahmadi-Nejad.
Inoltre, gli Stati Uniti sono riusciti a imporre sanzioni Onu, sia pur
blande, all’Iran. È stato fissato un principio importante, che nelle intenzioni
di Bush prelude a misure più cogenti. Fino a colpire le esportazioni petrolifere iraniane, provocando il collasso economico del paese. Sempre che russi,
cinesi (e francesi) siano disponibili a partecipare allo strangolamento della
Persia. Non pare probabile. Sicché gli americani hanno stabilito unilateralmente nuove penalità finanziarie, a scoraggiare gli investimenti in Iran, soprattutto nel settore energetico. Misure che mordono (carta a colori 1).
Sul versante militare, lo schieramento delle portaerei Stennis e Eisenhower con i rispettivi gruppi navali nelle acque prospicienti l’Iran
completa il minaccioso arco terrestre disegnato dalle basi e dalle truppe
americane in Medio Oriente e in Asia centrale (carta a colori 2). Già oggi
Bush può scatenare un’offensiva aerea 24 ore su 24 per 40 giorni consecutivi contro migliaia di bersagli iraniani – nucleari, industriali, istituzionali – individuati nella pianificazione del Pentagono. Agenti speciali
operano da tempo sul territorio persiano per raccogliere informazioni,
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preparare attentati e agitare le acque del separatismo etnico, soprattutto
nel Khuzistan (Arabistan), regione energetica chiave a forte insediamento
arabo. Parallelamente, il Mossad sta tentando di liquidare alcuni scienziati nucleari di punta: prima vittima, a quanto pare, l’ingegner Ardeshir
Hassanpour, morto misteriosamente a metà gennaio. Se la Repubblica
Islamica crollasse, Washington avrà pronta la sua alternativa: alla Cia si
lavora alla mappa di un «Iran delle regioni», uno Stato federale molto lasco, impalcatura geopolitico-istituzionale del futuro regime amico.
A) Bisogna spegnere i riflettori sull’Iraq prima che la campagna presidenziale entri nel vivo. L’obiettivo proclamato – farne un paese stabile e democratico – è rinviato a un futuro indefinibile. Nel frattempo occorre dimostrare agli amici dell’asse sunnita e a Israele che l’America non getta la
spugna. Resta in Medio Oriente, resta in Iraq. Non si fida troppo dell’attuale
governo – al-Maløkø è al sicuro solo nella zona verde di Baghdad – e ancor
meno delle truppe irachene. Ma conta di riportare una parvenza di ordine
nella capitale e nella provincia di Anbår, cuore dell’insorgenza sunnita,
entro la fine dell’estate. Aree in cui Bush sta rafforzando il contingente
americano con altri 21.500 uomini, secondo un progetto pubblicamente
sponsorizzato dall’American Enterprise Institute (carte a colori 3 e 4) 3. Se il
surge avrà successo, l’offensiva americana permetterà di avviare entro un
anno il rientro di buona parte delle truppe. E di smussare l’arma propagandistica con cui i democratici contano di aprirsi la strada verso la Casa
Bianca. In ogni caso, gli Usa intendono conservare in Iraq alcune basi militari e una percepibile influenza sui destini politici ed energetici del paese,
come confermano l’espansione della mega-ambasciata Usa a Baghdad,
l’interesse per una legge sul petrolio che apra alle compagnie internazionali
e soprattutto per le enormi riserve di greggio custodite nel ventre del deserto
occidentale, stimate fino a 200 miliardi di barili.
Il nuovo approccio all’Iraq deve accentuare l’isolamento dell’Iran.
L’America non può tollerare che Teheran costruisca un suo protettorato
mesopotamico. Per questo Bush ha dato ordine di colpire i pasdaran infiltrati sul territorio iracheno – vasto programma – e di scoraggiarvi la penetrazione economica persiana, simboleggiata dalla prossima apertura di
una banca iraniana a Baghdad.
B) Nel breve-medio periodo, il contenimento o meglio ancora la resa
dell’Iran e il raffreddamento del dossier iracheno dovrebbero convincere i
protagonisti emergenti (o riemergenti) della scena globale che la crisi
americana è una parentesi. E che quindi conviene riallinearsi, piuttosto
che tentare di penetrare i vuoti di potenza aperti dai fallimenti Usa nel
Grande Medio Oriente.
3. Cfr. Choosing Victory. A Plan for Success in Iraq. Phase I Report, a cura di F.W. KAGAN, American
Enterprise Institute 2006, www.aei.org/publications/pubID.25292/pub_detail.asp
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C) Più in generale, gli Usa vogliono mantenere l’offensiva contro i terroristi, in un conflitto che Bush immagina durare almeno una generazione (carta a colori 5). Lo dimostra, fra l’altro, l’intervento in Somalia a sostegno degli etiopici, con bombardamenti non troppo mirati che avrebbero
dovuto liquidare i terroristi di al-Qå‘ida incistati nelle Corti islamiche. E
la disponibilità a rafforzare il fronte afghano, cercando di spingere gli alleati recalcitranti, Italia inclusa, ad anticipare l’offensiva di primavera
dei taliban.
Anche l’annunciato reclutamento di altri 92 mila soldati e la creazione di un Corpo della riserva civile, oltre all’ipotesi di reclutare una sorta
di Legione straniera pari al 20% delle Forze armate nazionali, ventilata al
Pentagono, si inscrivono nell’orizzonte della guerra lunga 4.
3. Il rilancio di Bush è ad alto rischio. Se non funzionasse, la primazia degli Stati Uniti in Medio Oriente e nel mondo ne soffrirebbe in modo
forse irreversibile. Per questo, i «realisti» dell’establishment militar-strategico-diplomatico (gli orfani di Powell), insieme con alcuni repubblicani,
capeggiati dal senatore Chuck Hagel, e ai democratici moderati, non si
sono limitati a criticare il surge ma hanno abbozzato una strategia differente. Non seccamente alternativa, però, come vorrebbero i liberals a tutto
tondo, gli isolazionisti d’ogni colore e gli oppositori antemarcia di qualsiasi guerra, risorti dalle ceneri del pacifismo storico, che invocano il ritiro
immediato delle truppe dal fronte iracheno – e a seguire, magari, dal resto
del mondo. Quanto ai presidenziabili democratici, Hillary Clinton in testa, evitano di esporsi troppo ma sostanzialmente condividono la ricetta
«realista». Già accennata nel rapporto del Gruppo di studio sull’Iraq 5 – firmato da due pesi massimi dell’establishment washingtoniano, l’ex segretario di Stato James A. Baker III (repubblicano) e l’ex presidente della commissione Esteri della Camera Lee H. Hamilton (democratico) – tale piattaforma si ispira alle priorità seguenti.
Lasciamo perdere la vittoria in Iraq. Anche se è difficile ammettere la
sconfitta – può sembrare antipatriottico e non aiuta a coagulare il consenso – conviene preoccuparsi di limitare i danni di una guerra radicalmente
sbagliata. Secondo il presidente del Council on Foreign Relations, Richard
Haass – transfuga della prima amministrazione Bush – «l’èra del primato
americano nel Medio Oriente è prematuramente finita». La regione è «pericolosa per se stessa, per gli Stati Uniti e per il mondo». L’Iraq è un «ibrido
non attraente: un misto di guerra civile, Stato fallito e conflitto regionale» 6
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4. M. BOOT, «How Bush Can Ensure No More Iraqs», Los Angeles Times, 31/1/2007.
5. J.A. BAKER III, L.H. HAMILTON (copresidenti), The Iraq Study Group Report. The Way Forward: A
New Approach, New York 2006, Vintage Books.
6. Cfr. la testimonianza al Senato di R.N. HAASS, 17/1/2007, www.cfr.org/publication/12435/prepared_testimony_before_the_senate_committee_on_foreign_relations.html?breadcrumb=%2Fregion%2F
397%2Fmiddle_east
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1-LA SPARTIZIONE DELL’IRAQ
Kurdistan
T U R C H I A
Aree disputate
e rivendicate dai curdi
Zahu
Grande Bassora
(Chalabi, al-Yassin, Fadhila)
Sciistan (Sciri)
Sulaymaniyya
Area disputata
S I R I A
Repubblica islamica di Iraq,
rivendicata dalla guerriglia
sunnita, o Sunnistan
confederato.
Capitale: Baghdad
Samarra
I R A N
Falluga
al-Rutba
Karbala
I
R
A
Q
Nagaf
A R A B I A
al-Kut
Amara
K H U Z I S TA N
( A R A B I S TA N )
Nasiriyya
S A U D I T A
4MBG
Abadan
Città multietnica a statuto speciale
Città sante sciite
Giacimenti transfrontalieri
Oleodotto Bassora-Abadan
K U WA I T
Output 2010
(carta 1). La ricetta non è il surge, che equivale a riamenicanizzare il conflitto: più morti e più responsabilità per noi. Al contrario: conviene irachizzare la guerra e plasmare una cornice diplomatica che coinvolga tutti i vicini e impedisca la destabilizzazione dell’intero Medio Oriente. Un segnale
potrebbe venire dall’annunciato vertice di marzo a Baghdad fra iracheni e
partner regionali, Siria e Iran inclusi. Lo scontro fra sunniti e sciiti non deve scavalcare i confini iracheni. Per gli Usa significherebbe costringere le
proprie guarnigioni a un indecoroso ritiro o a restare prigioniere nella regione come vittime e/o strumento di progetti altrui.
Conviene quindi estrarre i soldati dalle città irachene e dalle province
più pericolose (Baghdad, Anbår, Diyålà e Salåõ al-Døn), riportarne il
grosso a casa e piazzare il resto alle frontiere mesopotamiche, insieme agli
alleati e agli amici disponibili, per bloccare le infiltrazioni siriane e ira-
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niane e lasciare che l’incendio si esaurisca. Poi gli americani accorreranno a conforto del vincitore, chiunque egli sia. Qualcuno, come l’ex cremlinologo Dimitri K. Simes, sogna «l’emergere di un leader duro ma relativamente benigno che affermi legge e ordine» 7. Muqtadà al-Âadr?
Se Bush si preoccupa di contenere l’Iran minacciandolo, i suoi critici
moderati puntano a contenere l’incendio che devasta l’Iraq, armando i
pompieri locali. Se funziona, bene. Se no, la responsabilità principale può
essere addossata agli iracheni. I seguaci di Baker-Hamilton non vogliono
sfidare l’impero dei pasdaran, ma reclutarlo fra i vigili del fuoco. Non
perché si fidino dell’Iran, ma perché attaccandolo finirebbero per ricompattarlo intorno ad Ahmadi-Nejad.
In ultima analisi, gli Stati Uniti possono convivere con un Iran nucleare. Giacché costerebbe più interdire la Bomba ai pasdaran che includerli nell’equazione di deterrenza che finora impedisce a chi ne dispone
di usarla (con la notevole eccezione Usa).
B) Lasciamo stare la democratizzazione del Medio Oriente. Non è possibile. E nemmeno augurabile, se spinge al potere i peggiori nemici dell’America. Invece, coinvolgiamo tutte le potenze regionali nel compromesso
fra Israele e mondo arabo-islamico. Il principio resta terra in cambio di pace. La Siria riavrà il Golan, i palestinesi uno Stato a Gaza e in Cisgiordania con qualche scambio di territori e senza «diritto al ritorno» dei profughi, il Libano una frontiera sicura purché neutralizzi Õizbullåh. Tutti dovranno riconoscere Israele e dimostrare nei fatti di non minacciarne la sicurezza. Una forza di interposizione a base Nato veglierà sui confini più
caldi, dalla Valle del Giordano a Gaza. Nella sua versione più conseguente, tracciata da W. Patrick Lang sul National Interest, la Bibbia dei «realisti»
conservatori, le cinque grandi potenze – Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti – dovrebbero convocare un nuovo Congresso di Vienna
capace di affrontare e risolvere insieme i maggiori dossier mediorientali 8.
C) L’Iraq non è l’ombelico del mondo. L’America non può concedersi
il lusso di farne ancora una priorità. Più tempo passa nella missione impossibile di vincere a Baghdad, più ne godono i suoi concorrenti nel campionato globale della potenza, a cominciare dalla Cina. Questa guerra ha
distratto enormi risorse umane, economiche, intellettuali e morali, impedendo agli Stati Uniti di affrontare le sfide strategiche cui non possono sottrarsi. A cominciare dall’affermazione dell’Asia-Pacifico come nuovo cuore economico – e in prospettiva geopolitico – del pianeta.
4. L’Iran sente la stretta di Bush. Non passa giorno senza che voci critiche si levino contro Ahmadi-Nejad, accusato di incompetenza economica e
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7. D.K. SIMES, «No More Middle East Crusades», Los Angeles Times, 9/1/2007.
8. W.P. LANG, «A Concert of the Greater Middle East», The National Interest, 28/12/2006.
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di avventurismo geopolitico. Esponenti del clero l’accusano di ingerirsi negli affari religiosi. Non sono solo i riformisti o i conservatori pragmatici capeggiati da Rafsanjani a denunciare il dilettantismo del presidente. Centocinquanta parlamentari hanno firmato in gennaio un documento di severa censura della politica economica governativa. La stessa Guida suprema,
Ali Khamenei, si è smarcato da Ahmadi-Nejad e dai pasdaran che continuano a sostenerlo. E tiene a far sapere al mondo che resta lui il decisore
strategico, non un presidente che nella gerarchia della Repubblica Islamica
è storicamente paragonabile a un primo ministro nel sistema gollista.
Nelle stesse file dei guardiani della rivoluzione si comincia a sentire
odore di fronda. Specie dopo che il popolo ha sconfessato il presidente nelle elezioni per il Consiglio degli Esperti – sorta di collegio cardinalizio deputato a eleggere e a revocare la Guida suprema – e nel contemporaneo
voto amministrativo (15 dicembre 2006).
Malgrado le promesse e gli slanci volontaristici del presidente, la crisi
economica peggiora. Inflazione e disoccupazione crescono a ritmo sostenuto. I prezzi dei generi di prima necessità aumentano ogni giorno, colpendo proprio quei ceti svantaggiati che nel giugno 2005 avevano votato
Ahmadi-Nejad. Peggio: la rendita petrolifera sta evaporando, mentre si
impennano i sussidi energetici (30 miliardi di dollari l’anno) che pesano
sul bilancio statale per il 15% del pil. Sotto la pressione americana, alcuni investitori europei hanno rinunciato a finanziare progetti energetici
locali. E nel caso di sanzioni internazionali contro le importazioni di
prodotti petroliferi raffinati (il 40% del consumo interno), la crisi sarebbe
devastante.
Forse nelle previsioni americane di imminente collasso economico iraniano c’è una dose di wishful thinking. Ma a questo punto solo la guerra
sembra poter salvare Ahmadi-Nejad. Non stupirebbe se lui stesso la provocasse: può bastare un «incidente» che coinvolga i militari Usa in Iraq o in
Afghanistan. Così come non si può escludere che a un certo punto Bush
e/o Olmert decidano di forzare il gioco e infliggere ai persiani una lezione
destinata a riportarli indietro di qualche decennio. C’è insomma un parallelismo nelle mosse dei «falchi» e dei «pragmatici» iraniani e americani.
Fra i «realisti» di Teheran c’è sicuramente Khamenei. Il suo obiettivo,
condiviso da Rafsanjani, è di impedire la saldatura dell’asse sunnita sponsorizzato da Bush. Di qui l’ambiguo quanto improbabile tentativo di rapprochement con l’avversario saudita, espresso nell’incontro fra i rispettivi
responsabili della Sicurezza nazionale, Ali Larijani e Bandar bin Sul¿ån.
Khamenei stesso ha scritto a re ‘Abdullåh, assicurandolo di non voler soffiare sul fuoco delle frustrazioni della minoranza sciita insediata nello
heartland petrolifero della monarchia wahhabita. Con un gesto inusuale,
la Guida suprema è apparsa a reti televisive unificate mentre riceveva
esponenti della minoranza sunnita iraniana e leader religiosi provenienti
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da paesi arabi sunniti. E li ammoniva sulla priorità dell’unità musulmana, contro i sobillatori nemici che vorrebbero dividerli per linee settarie.
Recentemente, emissari di Khamenei e di Bush si sono scambiati lettere riservate per sondare le possibilità e le condizioni di un compromesso.
Se non è solo fumo, lo vedremo presto in Iraq e in Afghanistan, dove Teheran potrebbe contribuire alla pacificazione in cambio del riconoscimento
americano del suo rango di potenza regionale e della reintegrazione nel
circuito economico globale.
Ma il clima fra Usa, Israele e Iran è talmente saturo di gas bellici che
basta una scintilla per scatenare la guerra. Quando Ahmadi-Nejad proclama che il suo paese sta diventando una «superpotenza», guarda soprattutto alla prospettiva che gli Stati Uniti siano prima o poi costretti ad abbandonare il Medio Oriente, semplicemente perché l’hanno troppo destabilizzato per poterlo controllare.
A un attacco americano e/o israeliano l’Iran può opporre una quantità di contromisure: chiusura dello Stretto di Hormuz, da cui passa il
12% del fabbisogno petrolifero americano (e il 25% di quello europeo),
lancio di razzi õizbullåh e operazioni terroristiche di Õamås e della Jihåd
palestinese contro Israele, attacchi alle truppe Nato in Afghanistan, attentati alle installazioni e alle istituzioni americane e israeliane – e dei loro
eventuali alleati – ovunque possibile.
I pasdaran considerano l’Iraq come prima linea di difesa in caso di invasione da terra. Ipotesi molto improbabile, ma non si mai. I guardiani
della rivoluzione hanno segretamente facilitato l’attacco americano al loro
nemico storico, Saddam. Fra l’altro infiltrando migliaia di uomini in territorio iracheno, a cominciare dai reparti di élite della Forza Qods, che ancora oggi addestrano e armano diverse milizie sciite locali. E consolidando
i rapporti con i partiti sciiti, ma anche curdi. Una rete diffusa, pronta a
scattare come una molla contro gli americani se questi attaccassero l’Iran.
Soprattutto, Teheran conta sul fattore tempo. Per quanti giorni o settimane la democrazia americana può reggere un’offensiva contro le installazioni nucleari e industriali iraniane, con un’opinione pubblica domestica e internazionale esasperata dall’avventura irachena? E come pensa
Bush di arginare lo tsunami antiamericano che sconvolgerebbe l’intero
arco islamico, minacciando quegli stessi regimi sunniti che la diplomazia
Usa ha allineato contro l’arcinemico sciita? Non è solo propaganda né delirio di onnipotenza, insomma, a spingere i pasdaran ad esibire certezza
di vittoria, se l’America attaccherà.
5. Vista dall’Italia, la parabola della guerra americana al terrorismo,
nelle sue mutevoli configurazioni e nei suoi esiti deprimenti, accentua il
senso di rassegnazione con cui noi ne subiamo le conseguenze.
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L’AMERICA IN PANNE
Più tempo passa dall’11 settembre, più gli Stati Uniti restano impantanati nel Grande Medio Oriente, meno gli italiani e gli altri europei sono
disposti a capirli e a sostenerli. A differenza degli americani, non abbiamo mai pensato di essere davvero in guerra. Se alcuni alleati hanno seguito gli Usa fin nelle piane babilonesi, è stato per necessità più che per
convinzione – britannici inclusi. In Francia, poi, è la grande ora dei grilli
parlanti – «ve l’avevo detto io!». Ricordando come Donald Rumsfeld nell’autunno 2001 sbattè la porta in faccia ai colleghi europei disposti a offrire qualche battaglione nel Blitzkrieg contro Osama e il mullah Omar, e
osservando come il suo successore Robert Gates cerchi oggi disperatamente
di spedire al fronte quegli stessi alleati, indisponibili a morire per impedire
il ritorno dei taliban a Kabul, in alcune cancellerie veterocontinentali si
stenta a reprimere una gioia maligna.
Qualsiasi opinione si abbia dell’America, per italiani ed europei non
c’è motivo di godere delle sue disgrazie. Entro certi limiti, la perdita di potenza del turbo a stelle e strisce può rallegrare cinesi e russi in quanto
concorrenti (ma anche partner) nella competizione globale, oltre ai rogue
States variamente inquadrati nel mirino di Bush. Il nostro destino è invece legato a quello degli Stati Uniti. Peggio: quando butta male, Washington può scaricare parte dei suoi problemi sugli europei. I rapporti di forza
glielo consentono. Chiamiamola socializzazione della sconfitta: se l’America perde, perdiamo tutti. Il nostro problema, semmai, è impedire che
quando l’America vince vinca solo l’America. In quel caso ci dovrebbero
essere dividendi da distribuire, si spera anche ad «alleati e amici». Per intercettarne una quota servono due ingredienti: la lungimiranza americana e quel rispetto di noi stessi che ci permetta di stabilire ciò che possiamo
dare e ciò che intendiamo ricevere dal nostro partner strategico. Condizioni entrambe lontane, specie la seconda.
Non era così ai tempi della guerra fredda: contro il nemico sovietico
gli interessi vitali dei partner atlantici erano identici. Nel mondo reso sempre più anarchico dal fallimento della guerra americana al terrorismo,
ognuno tende a fare per sé. Noi italiani, e con noi quasi tutti gli altri europei (meno, con qualche bemolle, francesi e inglesi), abbiamo rinunciato
ad ogni ambizione egemonica dopo la guerra civile continentale (19141945) che ci ha drasticamente espulso dal girone dei Grandi, ormai tutti
americani o asiatici. L’Italia e fino al 1990 la Germania hanno persino
rinunciato a declinare il proprio interesse nazionale, che non fosse quello
primario di proteggersi all’ombra degli Stati Uniti. Con i quali abbiamo
stabilito un rapporto decisivo (per noi) quanto malsano (per entrambi).
Siamo stati e restiamo un po’ servi un po’ traditori. Non siamo né siamo
mai stati alleati paritari – in dignità, certo non in potenza.
Oggi non possiamo più concederci questo lusso. O pensiamo il nostro
rapporto con l’America – e naturalmente con il resto del mondo – a parti-
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APOLLO 13
Bruxelles
Colorado Springs
Pechino
Amman
Delhi
Brasilia
Johannesburg
SUPER-NATO (+ FED. RUSSA)
“NATO” DELL’ASIA-PACIFICO
“NATO” SUDASIATICA
“NATO” MEDIORIENTALE
“NATO” AFRICANA
“NATO” SUDAMERICANA
“NATO” NORDAMERICANA
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2-LE SETTE “NATO”
re dai nostri interessi, o contiamo nulla. E siamo quindi candidati a subire più di altri la ripartizione delle perdite americane nella crisi. Basta gettare un’occhiata alla carta del Grande Medio Oriente per renderci conto
che il caos è alle porte di casa nostra, in pieno Mediterraneo allargato: nel
breve come nel lungo periodo, destabilizzazione, miseria, guerre e terrorismo toccano noi prima dei maggiori partner europei, per tacere degli
americani. Non abbiamo un oceano dietro cui ripararci.
Se e quando decideremo di occuparci del vincolo con gli Stati Uniti
guardandolo dal nostro osservatorio, dovremo anzitutto sciogliere l’equivoco Nato. Che cos’è oggi il Patto atlantico? Dal punto di vista americano,
svolge due funzioni principali: impedire un’Europa potenza autonoma o
addirittura alternativa agli Stati Uniti (ma questo è l’incubo di qualche
analista d’Oltreoceano più che un effettivo progetto europeo); offrire alle
Forze armate Usa un magazzino di risorse militari cui attingere quando
non se ne può fare a meno (quello che noi amiamo classificare come
«multilateralismo», quasi fosse un’ideologia). Un utensile di impiego globale, in omaggio al motto «out of area or out of business». Quella che noi
chiamiamo pigramente alleanza – ma gli americani hanno voluto chiamarla «organizzazione», e chi voleva intendere intendesse – vista da Washington è una struttura al servizio della sicurezza nazionale. E oggi Bush ha più bisogno che mai di forze altrui da proiettare in teatri remoti a
fini propri o comuni. Nei pensatoi dell’Esercito americano c’è addirittura
L’AMERICA IN PANNE
chi sostiene che una sola Nato non basti, e ne vagheggia altre sei: per Nordamerica, Sudamerica, Africa, Asia-Pacifico, Asia meridionale e Medio
Oriente, con quartier generale rispettivamente a Colorado Springs, Brasilia, Johannesburg, Pechino (sic), Delhi e Amman 9 (carta 2).
Non c’è nulla di malizioso né di moralmente riprovevole nell’uso americano della Nato. È quanto farebbero gli altri alleati se fossero loro i più
forti. Ma non lo sono. Non lo siamo. Conviene quindi stabilire se e come
adattarci. Purtroppo il «dibattito» sull’allargamento della base Usa di Vicenza, con il tentativo di spacciarlo per fenomeno urbanistico, non promette bene. Continuiamo ad oscillare fra il «non si può dire no agli americani» (forse ci bombarderebbero?) e l’antiamericanismo viscerale, dagli
echi vagamente mussoliniani.
Riportato ai suoi termini freddi, concreti, il rapporto con gli Stati Uniti
si rivelerebbe probabilmente anche a molti dei suoi critici nostrani come
un moltiplicatore di sicurezza e di benessere al quale sarebbe folle rinunciare. E poi, quale alternativa? Lo splendido isolamento? Più utile allora
concentrarsi sulla qualità di tale vincolo. Per stabilire che questa Nato merita di essere rivisitata alla luce delle necessità nostre oltre che altrui. Forse
qualcuno arriverà alla conclusione che saremmo meglio protetti da un
patto bilaterale con gli Stati Uniti – se non altro chiariremmo lo status dei
loro militari in Italia. Certo sarebbe imperdonabile attendere che siano altri a stabilire quale Nato conviene a noi. O forse è proprio questo che spera
la piccola parte della nostra élite che ancora pensa il mondo e giunge alla
disperata conclusione che non ne vale pena.
9. J.R. NUÑEZ, «One NATO Is Not Enough», International Herald Tribune, 29/1/2007.
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APOLLO 13
LE BASI USA IN ITALIA
a cura di Alfonso DESIDERIO
1. La base militare di Camp Ederle a Vicenza ospita dal 1965 il comando della Southern
European Task Force (Setaf), istituita nel 1951 da un accordo tra Italia e Stati Uniti. Qui sono ospitati i paracadutisti della 173a brigata dell’Esercito americano, impiegati nell’Iraq
settentrionale nel 2003 e poi nell’Afghanistan meridionale.
La creazione di Camp Ederle 2 – sui 450 km2 dell’ex aeroporto militare Dal Molin, tra Coldogno e Vicenza, a 12 chilometri da Camp Ederle e a 5 dal centro storico di Vicenza –
consentirà di riunire la 173a brigata, oggi in parte dislocata in Germania, nell’ambito del
programma americano di trasformazione delle truppe e delle basi in Europa. Da truppe pesanti e grandi basi in Germania e lungo la cortina di ferro a basi più piccole e truppe più
leggere in Europa orientale e meridionale, retroguardie logistiche per l’impiego nelle zone
calde (Medio Oriente, Caucaso, Asia centrale e Africa). Nella doppia base di Vicenza, intitolata a Carlo Ederle, eroe della prima guerra mondiale, i militari americani passeranno
entro il 2010 dagli attuali 2.700 (più 860 dipendenti civili americani, 750 italiani e circa 8
mila familiari) a 4.500 (più circa 15 mila civili tra dipendenti e familiari), su un totale di
circa 16 mila soldati americani in Italia. Gli investimenti americani per l’ampliamento saranno di quasi 500 milioni di euro, mentre il budget di spesa annuale passerà dagli attuali
176 a 304 milioni di euro a progetto ultimato.
Il secondo caposaldo dell’Esercito americano in Italia è Camp Darby, tra Pisa e Livorno, essenzialmente un grande deposito di munizioni conservate in 125 bunker.
La base di Vicenza è collegata funzionalmente con la base di Aviano, vicino Pordenone,
principale insediamento dell’Aeronautica americana. Aviano ospita uno stormo di F-16 e
circa 4 mila soldati americani. È stata il perno degli attacchi aerei della Nato in Jugoslavia
all’epoca della guerra del Kosovo (1999). Qui (e probabilmente anche a Ghedi vicino Brescia) sono conservate alcune decine di testate nucleari americane. Nel 1998 un aereo Usa
in addestramento violò le regole e tranciò la funivia del Cermis provocando 20 morti.
Nel Sud Italia invece la protagonista è la Marina americana. Gaeta ospita il comando della
VI Flotta, responsabile per il Mediterraneo e il Vicino Oriente. Una parte delle strutture della VI Flotta è a Napoli, insieme alle truppe americane presenti nell’ambito del comando
Nato del Sud Europa, di stanza appunto nel capoluogo partenopeo.
In Sicilia la base di Sigonella – a 16 chilometri da Catania – è invece il più importante scalo dell’aviazione della Marina americana nel Mediterraneo. È la principale struttura logistica della VI Flotta, testa di ponte americana verso Africa e Medio Oriente. Nel 1985 i militari italiani a Sigonella costrinsero gli americani a lasciar partire l’aereo del palestinese
Abū ‘Abbās, considerato dagli Usa (ma non dalla magistratura italiana) responsabile del
sequestro dell’Achille Lauro e costretto ad atterrare a Sigonella dai caccia americani.
In fase di smantellamento è invece la base di appoggio per i sottomarini nucleari in Sardegna, a Santo Stefano nell’arcipelago di La Maddalena, che chiuderà il 29 febbraio
2008. Altri piccoli contingenti americani sono poi dislocati nei quartier generali e nei centri di telecomunicazione della Nato in Italia e nei centri d’ascolto e di intelligence in altre
basi italiane.
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2. La presenza di truppe americane in Italia risale alla seconda guerra mondiale e alla successiva guerra fredda. Il principale contributo dell’Italia all’Alleanza atlantica si è concretizzato attraverso la disponibilità all’uso di basi sul nostro territorio. Di fondamentale importanza fu ad esempio la decisione di schierare gli euromissili in Sicilia, a Comiso – base oggi chiusa – nonostante le titubanze degli altri paesi europei. La questione delle basi è quindi
lo specchio dell’alleanza tra Italia e Stati Uniti, che è sempre stata gestita sia sul piano multilaterale della Nato sia su quello bilaterale, mantenendo una certa ambiguità sulla distin-
L’AMERICA IN PANNE
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APOLLO 13
zione dei due piani, per motivi di politica interna e perché durante la guerra fredda i due
piani spesso coincidevano.
Gli americani in Europa hanno sempre mantenuto i rapporti su tale doppio binario. Riflesso
di questa ambiguità è il ruolo del comandante delle truppe americane in Europa che è anche il comandante supremo delle truppe alleate (Saceur) della Nato. Ad esempio, durante
la guerra della Nato contro la Jugoslavia i bombardamenti aerei erano gestiti in sede
atlantica mentre quelli missilistici solo dal comando americano (che così poteva aggirare
eventuali veti degli alleati su determinati obiettivi serbi).
L’alleanza militare tra Usa e Italia è regolata sul piano multilaterale dal Trattato del Nord
Atlantico (4 aprile 1949), dal Trattato di Londra (19 giugno 1951, più noto come Sofa, Status of Forces Agreement) e dal protocollo del 28 agosto 1952 sullo status dei quartier generali della Nato; sul piano bilaterale dall’Accordo di Washington (27 gennaio 1950) e dall’Accordo di Roma (7 gennaio 1952) rispettivamente sull’assistenza difensiva reciproca e
sulla sicurezza reciproca. I due piani si confondono e si legittimano reciprocamente. L’accordo chiave sulle basi concesse in uso alle forze Usa in Italia, il cosiddetto Bia (Accordo
bilaterale italo-statunitense sulle infrastrutture) del 20 ottobre 1954, è un accordo segreto
mai ratificato dal parlamento italiano perché considerato un documento tecnico in attuazione del ratificato Trattato del Nord Atlantico che istituiva la Nato. L’accordo del 1954 è un
accordo quadro che disciplina le infrastrutture concesse agli americani e presenta 11 allegati tecnici riferiti alle basi di allora. Questi allegati sono stati di volta in volta aggiornati
con il passare degli anni e la chiusura o il cambiamento d’uso o la creazione di nuovi basi.
Limes ha pubblicato nel 1999 il testo di due articoli del trattato segreto: l’articolo 2 obbliga
gli Usa ad avvalersi delle basi nel quadro della collaborazione atlantica e a non servirsi di
dette basi a scopi bellici se non a seguito di disposizioni Nato o accordi con il governo italiano; l’articolo 4 stabilisce che le installazioni sono poste sotto comando italiano e i comandi Usa detengono il controllo militare su equipaggiamento e operazioni (cfr. A. Desiderio, «Paghiamo con le basi la nostra sicurezza», Limes, «A che ci serve la Nato», n.
4/1999, pp. 27-41).
Diversa è la questione delle cosiddette basi Nato. Le forze della Nato sono infatti la somma
delle truppe messe a disposizione dai paesi membri, quindi si tratta semplicemente di basi
italiane assegnate a compiti Nato. Il loro numero può quindi variare, come è successo nella
guerra del Kosovo quando sono state utilizzate dagli alleati 12 basi aeree italiane per lanciare gli attacchi contro la Jugoslavia. Le uniche strutture dell’Alleanza sono i comandi e i
quartier generali, le installazioni radar e di telecomunicazione e alcune strutture di formazione o rappresentanza.
Dopo la fine della guerra fredda non si è ritenuto opportuno rivedere le caratteristiche dell’alleanza tra Italia e Stati Uniti. Nel 1995 però veniva firmato un memorandum d’intesa tra
i due paesi con cui venivano aggiornati i rapporti in materia di difesa e l’attuazione dell’accordo del 1954. Tale memorandum è stato poi reso pubblico dal governo D’Alema dopo la tragedia del Cermis, ma per gli aspetti più interessanti rinviava all’accordo del 1954
e successivi aggiornamenti, che rimanevano segreti. Il secondo comma dell’articolo 1 del
memorandum stabilisce: «La collaborazione per la difesa comune si svolgerà a livello bilaterale e nei limiti del Trattato del Nord Atlantico».
Il memorandum d’intesa non ridefinisce le caratteristiche dell’alleanza tra Italia e Stati Uniti,
rifugiandosi nella conferma del rapporto atlantico nel nuovo scenario internazionale.
In definitiva, alla luce di quanto si conosce dell’accordo del 1954, se l’uso delle basi avviene in ambito Nato, dove l’Italia partecipa alla decisione collettiva, la disponibilità della base è automatica, se invece avviene sulla base di decisioni unilaterali americane in teoria è
necessario l’accordo con il governo italiano. In pratica però il braccio di ferro di Sigonella
e la tragedia del Cermis hanno dimostrato che almeno in quei casi la prassi americana dava tale assenso per scontato.
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